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Autore: Ireth Anarion    06/05/2020    1 recensioni
Sfinito, distrutto e ferito, in una notte che pare non avere fine, Dabi realizza che c'è un'ultima cosa che deve fare per poter davvero smettere di temere la morte e, anzi, abbracciarla come unico destino della vita che ha scelto: andare a trovare sua madre.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dabi, Nuovo personaggio, Rei Todoroki, Sorpresa
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Questa doveva essere una flashfic angst incentrata sui pensieri di Dabi, nata da una fanart a più pagine che ho trovato ieri sera su instagram. Poi mi sono resa conto che sarebbe stata alquanto “sterile” se priva di contesto, noiosa da scrivere e sicuramente da leggere. Ho deciso di arricchirla e alla fine è venuta fuori più lunga di quanto avessi progettato all’inizio. Sono soddisfatta, anche se non al 100% È volutamente “incompleta”, nel senso che ci sono moltissime cose lasciate in sospeso. Temporalmente è collocata prima dell’Arc di Stain, quindi prima che Dabi entri a far parte della LOV. Ho provato a immaginare la sua vita prima di quella svolta, ed eccomi qui. Nella mia testa è una pre-slash (indovinate la coppia) e chissà, magari prima o poi penserò a un seguito. Ma non prometto niente.
    Ho scelto questo rating perché in alcuni punti descrivo roba sanguinolenta. Si tratta di un avvertimento per chi è più “sensibile”, ma non credo di aver esagerato.
    Spero possa piacervi! In fondo troverete alcune note aggiuntive.
    Buona lettura.
 
   





 
 
L’ultimo addio




 
 
 
«Forza… forza, cazzo».
    In quel vicolo non c’era nessun altro. Nell’intero quartiere sembrava non esserci nessun altro. Erano solo loro due, i loro respiri spezzati e il rumore insistente del gocciolare proveniente da una grondaia incrostata.
    Era notte fonda, forse l’una passata. Dabi respirava come un cane stremato mentre si accasciò sull’asfalto umido e si premette una mano sul fianco sinistro. Sentiva ancora il sangue scivolare caldo tra le dita, lento, il che era un bene: fosse stato veloce dovrebbe dovuto allarmarsi. Probabilmente.
    «Che cazzo, alzati», sussurrò ancora la voce, stanca e tesa. Apparteneva a una persona che si faceva chiamare Souki1 e che, da qualche settimana, aveva deciso di incollarsi a Dabi e diventare il suo “braccio destro”; come se lui avesse avuto bisogno di qualcuno tra i piedi, soprattutto se minorenne, a giudicare dalla voce e dai modi di fare inconfondibilmente infantili.
    Souki provò ancora a strattonarlo per un braccio. «Siamo ancora troppo vicini, Dabi», pregò, i lunghissimi capelli che dondolavano davanti al suo viso affilato e gli occhi supplicanti. «Ti pare il caso di morire qui?».
    «Non sto morendo», biascicò lui, ma non stava neanche tanto bene: poche volte aveva provato un dolore così lancinante, e lui, al dolore, era abbastanza abituato.
    Nel fianco sinistro aveva un buco grosso quanto metà del suo pugno e un altro più piccolo sulla spalla, mentre i punti metallici sotto l’occhio destro si stavano staccando, lacerandogli la pelle, facendo scorrere altro sangue sulla sua guancia e giù, fino all’angolo delle labbra.
    No, non stava morendo, ma non era neanche in grado di camminare come si deve. Non per il momento, se non altro. Cazzo.
    Era successo tutto in fretta, aveva ancora la mente annebbiata. Ricordava solo che lui e Souki stavano attraversando Jaakuna2 – e lui sapeva, sapeva che avrebbe dovuto tenersi alla larga da quel maledetto posto – quando all’improvviso si erano ritrovati a scontrarsi contro un essere mostruoso, informe e molle come gelatina: aveva la pelle rosea e lucida, quasi bagnata come quella di un verme, occhi folli e roteanti sulla fronte e grosse spine che spuntavano e rientravano irregolarmente dal suo corpo, rendendolo un ammasso di carne sanguinolenta e terrificante. Era parso senza controllo del proprio Quirk, incapace di parlare e di pensare, quasi fosse sotto l’effetto di qualche droga. Si era rivelato anche sorprendentemente agile ma, alla fine, Dabi era riuscito a ucciderlo; la puzza nauseante di quell’essere che bruciava e strillava contorcendosi tra le fiamme l’aveva riempito di un tale disgusto che era stato sul punto di vomitare. Poi, Souki l’aveva preso e aiutato a scappare, fino ad arrivare in quel vicolo squallido, stanchi per la corsa a perdifiato.
    Souki si accovacciò davanti a lui, guardandolo con preoccupazione. Dabi aveva imparato a sue spese che quando qualcuno si comporta con troppa amicizia è il momento di mettersi in guardia, ma in quel momento non riuscì a pensare a una possibile mossa di difesa: aveva visto la morte in faccia, di nuovo, per l’ennesima volta, e sapeva cosa doveva fare prima che fosse ricapitato un’altra volta.
    «Merda!», sibilò Souki, coprendosi bocca e naso con le dita lunghe e sottili. «Sei ridotto proprio male. Quel mostro-».
    «Chiudi la bocca, idiota», scattò Dabi, rabbioso, facendo una smorfia per lo sforzo. «Ha avuto ciò che meritava».
    «Devo portarti lontano da qui», disse Souki, levandosi il cappello dalla testa – a larghe tese, pacchiano, di un orribile color melanzana che ben si abbinava alla redingote che indossava in quel momento. «Mentre fuggivamo ho sentito che qualcuno urlava che stavano arrivando gli Heroes. Se ci hanno seguiti non abbiamo molto tempo». Così dicendo, infilò la punta delle dita nel rivestimento interno del cappello, ravanando qualche istante prima di estrarre una bustina piena di pillole che alla luce del lampione aranciato avevano un colore indistinguibile. «Tieni», gli disse, versandosele tutte sul palmo. «Manda giù».
    Dabi guardò le pillole, poi il suo volto pallido, poi di nuovo le pillole. «Tieni quella roba lontana da me», avvertì. Sentì il calore delle fiamme scaldargli i polpastrelli, i muscoli tendersi nonostante la stanchezza.
    «Le ho fregate a mia madre», spiegò Souki, non accennando a voler allontanare la mano. «Sono antidolorifici speciali. Il suo Quirk le fa spuntare ossa in più per tutto il corpo, non può sopportare una cosa simile. Prendine almeno metà».
    Dabi guardò quegli occhi gialli e felini, cercando di trovare il più piccolo barlume di bugia. Fino a quel momento, doveva ammetterlo, Souki non aveva mai commesso un passo falso; non avrebbe avuto senso tradirlo così, adesso, dopo che entrambi si erano macchiati di un crimine grande come l’omicidio. Perciò, a fatica, prese le pillole e le ingoiò tutte d’un fiato; senza neanche aspettare per verificare che facessero effetto oppure no, si tirò su in piedi, barcollante, stringendo i denti tanto forte da sentire le tempie dolergli.
    «Dobbiamo andare», mormorò, inspirando una grande boccata d’aria.
    «Lo so», sospirò Souki. «Penso che dovremmo tagliare per Chikamichi3 se vogliamo tornare al rifugio senza attirare troppo l’attenzione-».
    «Prima devo fermarmi in un posto», dichiarò Dabi, avanzando piano verso l’imbocco del vicolo, lasciandosi Souki ancora in ginocchio alle proprie spalle. Doveva farlo, fosse stata anche l’ultima cosa che avrebbe fatto nella sua miserabile vita. Doveva rivederla. Solo un’ultima volta.
    «Dove?», chiese con cautela Souki.
    Dabi si voltò per incontrare i suoi occhi: erano spaventati e dubbiosi, così apparentemente innocenti che, in quel momento, gli parve quasi un sacrilegio che appartenessero a una persona in grado di uccidere.    
    «Devo vedere una persona», disse solo. Poi, senza controllare che Souki lo stesse seguendo, si incamminò nel buio delle strade deserte.
 
 



Il profilo dell’ospedale si stagliava austero nel cielo stellato. Lo stomaco di Dabi si strinse in una morsa dolorosa mentre provava a ricordare quale fosse la sua finestra. Percepì Souki affiancarlo e, con la coda dell’occhio, provare a seguire la traiettoria del suo sguardo, invano.
    Avevano trovato rifugio all’ombra di un palazzo, ma era rischioso e ne erano entrambi coscienti.
    «Perché diavolo siamo qui?», emise un sibilo Souki, a metà tra la rabbia e la supplica.
    Dabi non rispose. Si sentiva sopraffatto dal senso di colpa e di vergogna che gli attanagliava la gola alla vista di quell’enorme edificio. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era andato a trovarla?
    L’unico dolore che sentiva, in quel momento, era all’altezza del petto: le pillole di Souki avevano fatto effetto quasi subito.
    «Usa il tuo Quirk», ordinò, continuando a guardare in alto. Se non l’avevano spostata di stanza, la sua finestra avrebbe dovuto essere quella al penultimo piano, quarta a partire da sinistra. «Fammi salire sul tetto. Poi vattene, torna al rifugio. Ci ritroveremo lì. È inutile che resti ad aspettarmi».
    Souki si voltò di scatto, gli occhi sgranati e le lunghe onde color caramello che frustarono l’aria. «Cosa?!».
    «Muoviti, prima che ti riduca in cenere».
    «Ma non sei-! Non puoi-!».
    Dabi assottigliò gli occhi, facendo baluginare qualche fiamma azzurra tra le dita. «Muoviti».
    A quel punto, da spalancata la bocca di Souki si chiuse pian piano. Abbassò il capo, gli occhi adombrati dal cappello, i pugni stretti lungo i fianchi. «Ti farà male», lo avvertì. Non aveva mai parlato con voce tanto seria. «Sarà il dolore più fottutamente grande della tua vita».
    Dabi avrebbe voluto ridere, ma non lo fece. Dolore… cosa ne poteva sapere del dolore? Non aveva idea di chi avesse di fronte. «Non sentirò niente», si limitò a dire. «Mi hai dato quelle pillole».
    «Non basteranno per sopportare il mio Quirk», insistette ancora Souki. Ma alla mancata risposta dell’altro, le sue spalle si afflosciarono e il suo petto sussultò in un sospiro.
    Dabi aspettò, cercando di non mostrarsi impaziente.
    Lentamente, Souki gli si avvicinò. Aveva il capo ancora chino quando si ritrovò a meno di un metro da lui; sollevò una mano e la portò sulla sua guancia striata di sangue, cogliendone qualche goccia fresca con il pollice prima di portarselo alle labbra. Poi, sollevò la testa di scatto e i suoi occhi felini, improvvisamente rossi e luminosi, inchiodarono Dabi lì dove si trovava.
    «Scomposizione».
    Avvertì solo la prima parte di quella parola. All’istante, sentì le orecchie sbriciolarsi, così come tutto il corpo, e fu la sensazione più terribile che potesse esserci. Sentì ogni pezzo staccarsi, polverizzarsi e cadere per terra, istante dopo istante, fino a che non rimase altro che il pensiero sospeso nel vuoto. Non riusciva a respirare. Non riusciva a vedere. Non riusciva a sentire. Percepiva solo di essere ridotto in milioni di piccoli pezzi, perso in una scatola nera senza rumori né odori né confini. Avrebbe voluto urlare; forse lo fece. Forse ci provò. Immaginò di prendersi la testa tra le mani e strattonarsi i capelli e urlare forte, tanto da far staccare ogni singolo punto metallico che aveva sulle le guance, fino a che le sue orecchie non avrebbero sanguinato per le sue stesse urla. Ma era immaginazione, solo immaginazione.
    E poi, così com’era cominciato, finì.
    Si ritrovò steso sulla schiena con gli occhi spalancati, terrorizzati, a guardare il cielo stellato sopra di sé, ansimando come se fosse riemerso da una piscina profondissima. La bocca era aperta in cerca di quanta più aria possibile, le dita rigide come se avessero potuto artigliarsi al suolo. Il cuore era un tamburo che gli fece sussultare la maglietta.
    Impiegò diverso tempo per riprendersi da quello shock. Cominciò dalle piccole cose: il rumore delle auto sottostanti, il tepore della brezza estiva sulla pelle, i suoni di una città che, nonostante l’ora tarda, continuava a vivere incessante.
    A fatica, si alzò. Nell’istante in cui le sue gambe lo sorressero, sentì ogni più piccola parte del corpo tremare dal dolore, come se l’effetto delle pillole fosse stato spazzato via. Gettò il collo all’indietro, respirando a pieni polmoni, emettendo un gemito dolorante, la mano stretta sulla ferita al fianco. Era stremato. Ma non poteva e non voleva fermarsi.
    Con estrema cautela, cercando di non perdere l’equilibrio a causa del tremore, si avvicinò al bordo del tetto con un piede sulla grondaia. Guardò in basso, verso i piccoli davanzali delle finestre, finché non individuò quello che gli interessava, a poco meno di una decina di metri sotto il punto in cui si trovava lui.
    Sapeva che avrebbe dovuto aspettare qualche altro minuto, giusto per stabilizzare meglio i muscoli e rischiare di meno, ma non ci riuscì: l’impazienza gli scalpitava sottopelle rendendolo smanioso, più incosciente del solito.
    Piano, attento a non passare davanti alle altre finestre lungo il suo percorso, Dabi cominciò la sua discesa. Gli richiese uno sforzo notevole, date le condizioni in cui riversa: fosse stato in uno stato di salute migliore, sarebbe stato di gran lunga più facile.
    Quando finalmente si trovò di fronte alla sua destinazione, si sentì incredibilmente sollevato di scoprire che il vetro era socchiuso per lasciar entrare un po’ d’aria: sarebbe stato uno spreco ulteriore di tempo dover scassinare la serratura.
    Con passo felpato, si insinuò all’interno della stanza buia, facendo attenzione a non far cadere il vaso di fiori presene sul davanzale interno. Lasciò vagare brevemente lo sguardo sulla scarsa mobilia presente, prima che il suo sguardo si soffermasse sul bozzolo di lenzuola raggomitolato su un fianco.
    Il cuore fu attraversato da una fitta lancinante che per poco non lo fece crollare con le ginocchia per terra.
    Sua madre dormiva profondamente. Sembrava così tranquilla, così in pace, che per un istante si chiese se non avesse sbagliato stanza e fosse finito in quella di una ragazzina. Il volto di Rei Todoroki era candido alla luce della luna, liscio, privo di tutte quelle rughe che Dabi ricordava le si formavano ogni volta che corrugava la fronte per la paura o la preoccupazione. Le sue mani, bianche e sottili, erano delicatamente intrecciate sul cuscino, i suoi capelli di neve sparsi armoniosamente alle sue spalle.
    Dabi rimase a guardarla come incantato, mentre il petto gli pulsava dolorosamente. Era così bello poterla rivedere che non riusciva a crederci. Non poteva farlo.
    Solo pochi minuti prima, nello scontro con quel mostro, si era convinto che sarebbe morto, il che andava bene, davvero: non aveva paura della morte ormai da molto tempo. Solo che… in quegli istanti, il suo unico pensiero era stato sua madre. “Devo salutarla un’ultima volta”, aveva pensato, quasi delirante. “Sarà preoccupata. Devo andare a salutarla”.
    Avrebbe tanto voluto poterle dare una carezza, poterle dire che era lì con lei, che non avrebbe più dovuto piangere perché- perché-
    Perché ora era tutto finito.
    Avrebbe tanto voluto farlo davvero, ma sapeva che se lo avesse fatto l’avrebbe sporcata con il suo sangue, il suo maledetto sangue marcio, e non avrebbe mai potuto permetterselo.
    Per cui, strinse le mani a pugno, infilandole in tasca, forzandosi di stare lì immobile per non sfiorarla neanche con un dito.
    «Ciao, mamma», mosse le labbra, quasi senza emettere alcun suono per la paura che potesse sentirlo davvero. Indugiò per qualche istante, prima di aggiungere: «Sono vivo».
    Non seppe perché disse quelle parole. Sapeva solo che avrebbe tanto voluto che lo sapesse, lei più di chiunque altro. Lei che era l’unica che avrebbe meritato di saperlo.
    Rei continuò a dormire, indisturbata. Per un breve, orribile secondo, Dabi si chiese se non fosse morta nel sonno, salvo poi vedere che le sue spalle si alzavano e abbassavano regolarmente.
    Fu come tornare indietro nel tempo, ripiombare in una vita che sembrava lontana di secoli, quasi fosse esistita solo nei suoi sogni. Si rivive da bambino, con le braccia fasciate e i cerotti sulle guance, sulla soglia della stanza dei suoi genitori, quando lui era fuori per il suo maledetto lavoro e la mamma avrebbe potuto abbracciarlo tranquillamente per scacciare via tutti gli incubi e le urla che gli rimbombavano nelle orecchie. La contentezza che provava in quegli istanti, quando poteva sgusciare nel lettone e acciambellarsi tra le sue braccia, fu come se fosse tornata tutta d’un colpo e per un istante lo schiacciò con forza tale da levargli il respiro.
    Dabi sapeva, lo sapeva che se avesse potuto piangere lo avrebbe fatto. Aveva la gola chiusa da un nodo, le labbra dischiuse e i denti stretti, mentre cercava di resistere all’impulso di farsi avanti e svegliare sua madre e prendersi quell’abbraccio che desidera da anni.
    E se lo avesse fatto davvero? Ci pensò su, tentato, il sangue che scorreva sulla sua guancia come le lacrime che non avrebbe mai più potuto versare. Se lo avesse fatto davvero, cosa sarebbe accaduto? Sua madre avrebbe urlato? O lo avrebbe riconosciuto e se lo sarebbe stretto al petto perché era vivo? Perché lei- sarebbe stata contenta di vederlo vivo, no? Oppure-
    No. Non poteva farlo, si disse, riscuotendosi, e la felicità selvaggia e ruggente che per poco lo aveva avvolto svanì per ritirarsi negli angoli bui della sua anima.
    “Cosa sarebbe peggio?”, rifletté, aumentando la stretta dei pugni insanguinati e trattenendo inconsciamente il respiro. “Credere di avere un figlio morto o scoprire di avere un figlio assassino?”.
    Quella domanda inespressa rimase sospesa tra loro due. Dabi chiuse gli occhi, provò va deglutire il nodo che gli bloccava la gola, e quando sollevò le palpebre scoprì che sul comodino della mamma, accanto a una bottiglia d’acqua mezza vuota e alcune lettere, c’è una fotografia. Con lentezza, si avvicinò e allungò un dito, attento a spostare la cornice senza macchiarla di sangue. Il soggetto era un bambino di dieci anni al massimo, dal volto serio e malinconico; aveva gli occhi inespressivi, persi nel vuoto, freddi come quelli dell’adulto che era diventato.
    Tornò a guardare sua madre e la risposta alla sua domanda fu finalmente chiara. La immaginò piangere e stringere quella foto al petto e poi accarezzarla e baciarla nelle notti più tristi e buie, quando magari avrebbe voluto soltanto che il suo bambino fosse ancora con lei.
    Ma che consolazione avrebbe potuto darle il sapere che sì, suo figlio era ancora vivo, ma era diventato un mostro sia dentro che fuori?
    “Meglio credere di avere un figlio morto”, gli sibilò crudelmente una voce all’orecchio.
    Barcollò sulle gambe, indietreggiando, come un bambino che si trova di fronte a un precipizio spaventoso.
    «Mamma, ho ucciso un uomo», sussurrò. Non seppe perché lo disse. Soprattutto, non seppe se l’uomo di cui stava parlando fosse quello che aveva assassinato solo qualche minuto prima oppure soltanto se stesso.
    Non sapeva più niente.
    Nella mente, rievocò il ricordo della sensazione delle sue stesse fiamme e la vista del tizio che bruciava vivo e si contorceva sotto i suoi occhi freddi, inanimati come quelli che aveva nella fotografia. Aveva provato piacere nell’uccidere. Poteva quasi sentire ancora l’odore nauseante della carne che si squagliava, che si riduceva a niente più di un ammasso informe, perché quel maledetto aveva osato intralciare il suo cammino e ferirlo e nessuno, nessuno avrebbe potuto permettersi di farlo.
    Se sua madre avesse saputo chi era ora, cos’era diventato, l’avrebbe uccisa in maniera molto, molto peggiore. Meglio lasciarla con il ricordo di quando era solo un bambino indifeso la cui unica speranza era che quella notte avrebbe potuto dormire cullato da lei.
    Aveva il cuore ridotto in pezzi, ma sapeva che fosse la cosa migliore. Avrebbe potuto appiccare incendi e mettere a fuoco e fiamme tutta la città, distruggere tutto ciò che incontrava, inarrestabile, solo per il piacere di farlo, ma non lei. Non lei.
    «Sarai sempre mia madre». Avrebbe tanto voluto poterglielo dire. Desiderò così tanto poter piangere un’ultima volta tra quelle braccia gentili. Ma il suo tempo era scaduto e sapeva che avrebbe dovuto andarsene.
    Così, forzandosi con tutto se stesso, tornò alla finestra. Il dolore provocato dal Quirk di Souki era svanito da un pezzo, ma neanche ci fece caso. Salì sul davanzale, attento a non far cadere il vaso contenente un bel fiore blu dall’aspetto fresco, e si voltò un’ultima volta verso sua madre.
    Le disse addio in questo modo, senza emettere alcun suono, solo riempiendosi gli occhi della sua vista. Poi, decise di conservare quell’immagine nel cuore, uscendo nella notte.
 



 
Souki strisciava furtivamente nell’ombra, mangiandosi le unghie con nervosismo. Il suo modo di fuggire non andava affatto bene, lo sapeva perfettamente, ma non avrebbe saputo come altro muoversi senza dare troppo nell’occhio. Avrebbe dovuto mostrare disinvoltura, camminare a testa alta, ma temeva che qualcuno potesse scorgere le macchie di sangue sui suoi vestiti. Così, continuò a sgusciare da un angolo buio all’altro, il cuore a mille, pregando che tutto andasse bene.
    L’idea di fuggire da casa dei suoi genitori, all’improvviso non era più così allettante come aveva creduto appena due mesi prima. L’aveva fatto per provare ad avere la libertà di essere chi desiderava, provare il brivido di fare ciò che più bramava, ma ora la paura e la solitudine attanagliavano il suo petto come bile.
    E come se non bastasse, aveva l’orribile sensazione che qualcuno fosse sulle sue tracce. Per cui, se possibile, aumentò la cautela, mangiandosi le unghie di una mano che teneva ossessivamente premuta sulle labbra, sputacchiando qua e là sull’asfalto qualche pezzo di pellicina.
    “Ah, che tu possa essere dannato”, pensò, con l’immagine di Dabi stampata nel cervello, “lasciarmi così, senza un piano nel caso le cose dovessero andare male. Dannato, dannato, dannato stupido!”.
    Emise uno strillo breve e acuto quando sentì qualcosa sfiorare il suo giovane viso, lieve come le zampe di un insetto. Si tappò la bocca con entrambe le mani e guardò in basso, osservando una piccola piuma rossa come sangue dondolare placida fino a posarsi sull’asfalto.
    Tirò un sospiro di sollievo.
    “Oh, menomale. L’avrà persa qualche strano uccello migratorio. Di questo periodo ne è pieno il Pae-”.
    Quando alzò la testa, si ritrovò a specchiarsi in un paio di iridi dorate, appartenenti a un ragazzo che se ne sta a testa in giù. A quella vista inaspettata, Souki urlò un’altra volta, prima di ritrovarsi due piume lunghe e affilate puntate ai lati della gola. A quel punto, si zittì all’istante.
    «Guarda un po’ chi ho trovato», gongolò l’Hero, due enormi ali rosse che si muovevano ipnotiche alle sue spalle. Ruotò a mezz’aria per potersi raddrizzare e poggiare i piedi sull’asfalto. Sembrava giovanissimo. «Tu non hai collaborato a uccidere un Villain giù al distretto di Jaakuna?».
    Souki provò a parlare, ma un dito guantato si posò sulle sue labbra bloccando ogni suo tentativo. «Taci, non parlare. Ti porto a fare un giro alla centrale di polizia, magari ci dirai dove si nasconde il tuo complice». Poi, l’Hero assottigliò gli occhi dorati, il dubbio che gli riempì i lineamenti del bel viso. «Di’ un po’, ma tu li hai diciotto anni?».
 
 



La scala antincendio dell’ospedale era semiavvolta nell’oscurità. Dava su uno spiazzo abbastanza largo da creare un punto di raccolta, illuminato da alcuni lampioni di luce fredda che facevano sembrare la luna piena una tenue lampadina. Il tempo che Dabi impiegò per scendere sembrò durare un’eternità, quasi più di quello che gli ci volle per risalire dalla finestra di sua madre fino al tetto, rischiando di essere visto da chi, giù in strada, ancora non voleva andare al diavolo a dormire.
    Quando finalmente poggiò i piedi per terra, cercò subito un punto d’ombra e lo trovò sotto alcuni alberi che delimitano il parcheggio dell’ospedale. Vi si nascose per non più di cinque minuti, studiando l’aria circostante, valutando se tornare subito al rifugio o no.
    Le ferite avevano smesso di sanguinare. Ora gli facevano appena un po’ male, come fosse reduce da una semplice scazzottata, ma nulla di insopportabile. Avrebbe dovuto ricordare di chiedere a Souki il nome di quelle pillole, appena si fossero rivisti.
    Con dita gelide, andò a toccarsi i punti staccati sotto l’occhio: a giudicare dal tatto, doveva avere un aspetto terribile.
    Incassando la testa tra le spalle e infilando le mani in tasca, decise di cominciare a tornare nel posto in cui abitava da quasi un anno. Non era propriamente vicino al quartiere in cui si trovava – affatto – e, quando finalmente si infilò nello spaccato tra le due palazzine di mattoni grezzi e scorse la finestrella del suo alloggio, tirò un sospiro di sollievo. Aveva bisogno di cure e di una bella dormita. Magari Souki aveva anche avuto il buonsenso di preparare qualcosa di commestibile, chi lo sapeva.
    Peccato che, quando entrò nel minuscolo appartamento spoglio, di Souki non vi era neanche l’ombra.
    Confuso, con una strana sensazione che gli attanaglia le viscere, Dabi si guardò intorno, come per cercare una qualsiasi traccia della persona che in tutte quelle settimane gli era stata fedelmente accanto. Era tutto come l’aveva lasciato prima di uscire: il suo materasso sfatto in un angolo, quello di Souki ordinato in un altro angolo.
    Possibile che dovesse ancora arrivare? Non ci poteva credere, non era possibile. Che avesse incontrato un Villain o – peggio ancora – un Hero?
    «Che diavolo-?», mormorò, rivolto al nulla, avvicinandosi alla finestra per guardare la notte oltre il vetro. Non era mai successo che sparisse così prima d’ora. L’aveva sempre seguito, aspettato, aveva obbedito a ogni sua richiesta… e adesso?
    “E adesso niente”, pensò poi, stancamente. Non erano affari suoi, dopotutto.
    Si spostò dalla finestra e si appoggiò con la fronte contro la parete accanto, sibilando tra i denti mentre infilava le dita nella voragine al fianco: la sensazione della propria carne calda e viscida di sangue lo fece rabbrividire. Ora come ora, avrebbe dovuto solo pensare a curarsi. Ripulire per bene le ferite per togliere tutti i frammenti di spine e cucirsi alla bell’e meglio. Non aveva tempo di pensare a Souki: che marcisse pure in prigione o in qualunque anfratto della città fosse stato trascinato il suo corpo esanime.
    Tanto lo sapeva, lo sapevano tutti coloro che, come lui, avevano deciso di mandare a puttane la propria vita e diventare dei Villain: erano solamente dei morti che camminavano e prima o poi, chissà come e chissà quanto, avrebbero smesso di fare anche quello.  
 
 
 






 
1Souki: personaggio mio, originale. È non-binary, infatti ho cercato in tutti i modi di non utilizzare generi nel parlare di l*i. Spero di essere riuscita nel mio intento. Ha sedici anni compiuti da poco.
2Jaakuna (邪悪な): Letteralmente “male, malvagio”. Strada malfamata che ho inventato sul momento. Talmente malfamata che perfino Dabi non doveva bazzicarci, hehehe.
3Chikamichi (近道): dovrebbe essere letteralmente “scorciatoia”. Sì, oggi mi sento simpatica.
 
Il Quirk di Souki è una specie di smaterializzazione: può letteralmente ridurre in briciole i corpi delle sue vittime e spedirli ovunque desideri, a patto che prima (come funziona per Toga e per Stain) assaggi il loro sangue. Penso che si sia capito abbastanza nella os, ma se così non dovesse essere stato, mi scuso.









 
   
 
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