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Autore: DanceLikeAnHippogriff    07/05/2020    0 recensioni
Nell'esercito il cameratismo porta sempre a fare domande inopportune ai nuovi arrivati, ma raccontare la prima volta era ormai una tradizione nei ranghi della Guardia Reale di Lairë e neanche Melyn, a suo tempo, è stata risparmiata...!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il ciclo dei Quattro Regni'
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È una delle domande che ti vengono rivolte più di frequente quando fai parte dell’esercito. Soprattutto se sei una nuova recluta. O se sei una ragazza.

Io ero entrambe le cose, il che significava doppia razione.

«Com’è stata la tua prima volta?»

Te la rivolgono sempre con un sorriso sornione e una scintilla di curiosità negli occhi, il resto dei compagni che gli dà man forte con una grassa risata intervallata da lunghi sorsi di birra. Forse perché pensano che il fatto di essere donna cambi qualcosa, che ti dia una prospettiva diversa sull’intera faccenda, che si sentano delle sensazioni completamente diverse o qualcosa di simile. Io penso di no. Che tu sia una ragazza o che tu sia un uomo la tua prima volta non cambierà mai.

Tutti hanno sempre racconti spettacolari da gettare in pasto alla divisione, a quei soldati che sentono il bisogno viscerale di ridere ancora della vita perché ogni volta che bevi sai perfettamente di star brindando con la morte e che il giorno seguente cavalcherete fianco a fianco come fedeli compagni.

Lossë aggiungeva ogni volta nuovi particolari rendendo la sua storia sempre più inverosimile, ma sembrava che non importasse a nessuno. Metteva di buon umore e, quando finiva, il nostro capitano di divisione aveva sempre le lacrime agli occhi. Anche a me piaceva tanto, a volte gliela chiedo ancora per ricordare le nostre serate libere passate alla locanda di Vinya, appena fuori dalle mura della città. Da bravo buffone qual è mi accontenta sempre assumendo un tono ossequiosamente scherzoso per accentuare ancora di più tutta la strada che abbiamo fatto dai nostri giorni da reclute. Il Capitano della Guardia cittadina e il Primo Cavaliere del re. A ridere come due scemi in una locanda tra giocatori d’azzardo, ubriaconi e gente che ha ben altri problemi per la testa che ricordare la tua faccia per associarla a quella che acclamano durante le parate nei giorni di festa. È bello vedere come non sia cambiato niente da allora.

La mia me la chiesero solo una volta.

Non c’era molto da raccontare. Nessun abbellimento, nessun sentimento. Forse è per questo che non la apprezzarono molto, se mi fossi ascoltata me ne sarei andata anch’io dalla noia, in effetti. Ma non vedevo il motivo di adornare quella “cosa”, non c’era niente di bello, niente di emozionante. Agli uomini piace molto di più raccontare questo genere di avventure, loro amano vantarsi di queste imprese. Io preferisco parlare di altro.

Le sensazioni sono le stesse. Non riesci a controllarti, hai il cuore che si dimena come un uccellino impazzito, il respiro affannoso, le guance in fiamme. Alcuni stanno anche male. A volte parlano del sangue, a volte sembra che vogliano censurarlo dal loro racconto. Balle. Il sangue c’è sempre.

Io mi ricordo distintamente la paura. Se ripenso a quel giorno sento i suoi tentacoli neri che si si snodano lentamente fino a serrarmi la gola nella loro morsa letale. Mi tremavano le mani, forse anche le gambe. Chissà se me la sono fatta sotto quella volta?

Non penso di aver finito il lavoro. Posso considerarla la mia prima volta lo stesso?

All’inizio non mi piaceva guardarli negli occhi, poi ti ci abitui e diventa quasi una droga. Non puoi farne a meno, diventa un gioco con una sola regola semplice e immutabile, come quando viaggi sul carro dei tuoi genitori e ti imponi di non staccare mai la lingua dal palato fino a quando non vedi, facciamo, una mucca. Allora la devi staccare, la lingua, e poi riattaccarla subito al palato. E continui così fino a quando non arrivi a destinazione. I nostri viaggi per portare il raccolto al mercato cittadino non erano molto movimentati e mio fratello e io avevamo molta inventiva. Abbiamo inventato moltissime varianti di questo gioco. Ci divertivamo con poco; non sono mai riuscita a dimostrare che lui in realtà barava e i miei genitori non badavano alla nostra piccola contesa. Insomma, un po’ come in un gioco, tu non devi mai staccare lo sguardo dai loro occhi. Altrimenti perdi, ma tanto non c’è nessuno che viene a rinfacciartelo. È solo un modo come un altro per non perdere la sanità mentale, devi trovare un modo per rimanere te stesso.

Quella volta l’ho guardato bene negli occhi. Un ragazzo come me. Due occhi pieni del mondo, di progetti e di sogni. Neri e profondi. Mi tremavano le mani. Forse non era quello il modo in cui dovevo farlo, era tutto troppo veloce, ero confusa, forse eravamo decisamente troppo vicini perché potevo sentire il suo respiro affannoso su di me e non mi piaceva. Era umido. Forse stava piangendo o erano le mie le lacrime che sentivo calde sulle guance. Continuava a sussurrare, parlare, gridare, non lo so, non chiedermelo perché non è durato molto e poi è arrivato il mio capitano e non so come ma io ero a terra e ho sentito di nuovo il sole sulla pelle e il clamore del campo di battaglia mi ha investita come uno schiaffo. E ho sentito una macchia calda sullo stomaco che si allargava senza fine, la pesantezza improvvisa della spada che tenevo in mano, la lama che scintillava rossa verso il cielo e il gorgoglio inconfondibile di chi annega nel suo sangue solo per vedere quel ragazzo cadere e i suoi occhi che affidavano la loro ultima scintilla di vita a una lacrima che non sapeva più dove scorrere. Ho vomitato.

Non me l’hanno più chiesta la mia prima volta.

  
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