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Autore: Semperinfelix    07/05/2020    3 recensioni
Per far fronte alla terribile minaccia francese che è in procinto di scombussolare il suo regno, re Ferrante di Napoli raduna alleati da tutta la penisola ed oltre, promettendo in moglie la bella nipote Beatrice a colui che più fra tutti i cavalieri si distinguerà in battaglia contro l'empio inimico.
Per causa di cuochi imbranati, pasticci coi filtri d'amore e francesi perversi, la giovane fanciulla si ritroverà, dopo essere stata rapita, ad affrontare mille pericoli per conservare la propria virtù e ritrovare la strada di casa, inseguita da frotte di pretendenti malintenzionati. Il suo cuore, ovviamente, batte per uno soltanto, il prode cavalier Baiardo, il nemico, l'unico a non essere stato toccato dal filtro amoroso e per questo intenzionato a consegnarla ancora intatta al proprio re. Riuscirà fra tante avventure Beatrice a realizzare i propri desideri o il Destino avrà in serbo per lei qualcos'altro?
~~~
Nel tempo in cui pestilenzia avanza,
che è inver castigo pe' nostri peccati,
affinché non perdiate la speranza,
per vedervi voi ogn'ora segregati,
di lasciare alfin sani vostra stanza,
mentre siete l'un de l'altro privati,
per merto mio più grato svago avrete,
che 'l capo batter contro la parete.
Genere: Commedia, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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O eteree figlie di Egeria scorrente,
O voi Camene(1) dal lieto sembiante,
cessar fate ogni angustia da la mente
e smenticare il mal d'ora in avante
a tutta questa generosa gente
che m'ha prestato orecchio in quest'istante.
Ristorate adunque la mia memoria
perché prosegua la promessa istoria.

Pur vuole il mio augusto genitore
ch'io muti veste et abbandoni il canto,
meglio saria che io mi tragga il core
e il getti al vento sanza alcun rimpianto
perché quel che il chiede, o car lettore,
è di sprecar mia vita in doglia e pianto.
Villana nacqui, e sotto mala stella,
altro non ho che questa mia favella.

E se pur non me bastarà una vita,
volendo Iddio le mie giornate corte,
a far sì che sia esta istoria finita,
non di certo me fermarà una morte,
ma quando sia la prima età fornita,
riederò al mondo per altre porte.
Signore è il Tempo, ma il Destin decide
se avvolto fia il fil che Moira(2) recide.

Lasciammo adunque in gravosi affanni
nel primo canto i cavallieri erranti,
dappoi che fu smarrita con inganni
la fanciulla da certi lestofanti
che la lassarono con pochi panni.
Ora sempre vanno cercando avanti
che mai non veggon l'ora d'arrivare
nel loco ove essa si potea trovare.

Ben ricordarete che nel boschetto
è la dama fuggita como il vento
dal padiglion del duca maledetto,
e lungamente, con grave tormento,
cercato avea di ritornare al tetto,
né mai poté trovar l'accampamento.
Ormai è sorto il sol che in cielo splende
allor che in prato da caval discende.

Stanca è la bestia per la corsa folle,
sicché lasciarla riposar necesse
ché già più oltre proseguir non volle;
la dama disperata se concesse
di sedere in su l'erbetta molle,
e il pianto stilla como se piovesse,
mentr'ella mesta si lamenta e duole
fra margherite, dalie e fresche viole.

«Ahi me misera», dicea, «me tapina!
sperduta son fra li solinghi colli
per questa stella di Fortun meschina
che ria m'ha gettata in mezzo ai folli
li qual me vonno aver con la rapina!
Ahi, non è questo ciò che io volli!
Mio danno fu il nascer di bella cera,
che se brutta fossi, cossì non era!»

Un'allodoletta cantando lieta
dal ciel discende a lei proprio davanti
che parea ne avesse una gran pieta
a vederla strutta in mezzo ai pianti.
La principessa in brieve si racquieta,
e tanto è sorpresa che per lei canti
l'augelletto dal morbido piumaggio
che le ritorna in sul viso il raggio.

Allora allora in la verde radura
giunge galoppando un cavalliere
e un altro il segue con gran premura,
de l'elmi alzate hanno le visiere
sicché Beatrice, che pur ebbe paura,
come li vede non se può tenere,
ma «o fratel caro!» crida «o cugino!»
e gioiosa corre al suo Nandino.

Quel subito il destriero abbandona
e la sorella strigne ne le braccia
che quasi di letizia non ragiona.
Da le spalle il mantello se dislaccia
e a Beatrice prestamente il dona,
perché il freddo del mattin l'agghiaccia
ed ella indossa solo il camicione
che le rende ben scarsa servigione.

Poi ch'ebbe fatto, subito la invita
a montare al suo destriero in groppa
ma l'altro, che ve' persa la partita,
trattien le briglie e il passo gl'intoppa,
che non vuol già che sia cossì finita.
Bevuto han da la medesma coppa
e se l'un la vuol per geloso affetto,
l'altro ha fiamma viva che gli arde il petto.

«Furbo se' che te la meni appresso,
che come sia dal nostro avo veduto
che per primo al campo seco fai ingresso
tu avrai vinto, et ogni altro perduto,
ma già m'hai beffato fin troppo spesso!
Non t'illuder che resterommi muto,
Orsù, prendi tua spada, a duel ti sfido!
Che se a me darla non vuoi, ben t'occido».

Cossì irato ladro e ribaldo il chiama,
che la cugina vuole ad ogni costo,
e dal manco lato estrae sua lama.
Nandino risponde con l'arme tosto,
che la sorella non men di lui ama,
e a cederla non è giammai disposto.
«Ben veggio che hai il senno tuo smarrito,
avanti dunque, accetto il tuo invito».

Non vi fu supplica o priego cotanto
che l'inducesse a rinnegar la prova,
né de la donna li commosse il pianto,
o pur richiamo che talvolta giova.
Ella l'uno così ama e l'altro quanto
poter amare in vita alcuno trova,
ne può tollerar che per un affronto
l'un sia a l'altro a cavare il sangue pronto.

Poi che a i lor destrieri montarno in sella
le spade han torte con gran fracasso
ma or seguitar conviene altra novella,
perciò i cavallier a la sfida lasso
e torno a Carlo, che per la donzella,
misura la sua tenda a passo a passo.
Ha tema infatti che qualche ribaldo
sfogato vi avrebbe l'animo caldo.

Allora presto al suo cospetto chiama
il bianco cavallier nomato Baiardo,
di costei il solo che non ha brama
e non ne soffre il celestiale sguardo,
poi che del vin non ha bevuto drama;
a lui il re, falso mentitor bugiardo,
una vil menzogna piangendo inventa
acciocché Baiardo ad aiutar consenta.

Onde il dice che è sua mogliera morta
per mal non conosciuto né curato
ne la passata notte, e che sopporta
a stento il duol che gli ha causato
nel cuore un caso di cotale sorta,
e tuttavia nolente ha pur giurato
per mal minore a re Ferrante torre
in moglie la nipote come occorre.

«Se liber fussi di seguir mia vïa»,
dice allora il depravato, «pur ïo
solo me rimarrei, in l'abbazïa,
vedovello ogn'ora a pregare Iddïo,
ma or tu, onesto, dimmi: che re sarïa
se per contentare un mio sol disïo
tutto il regno lasciassi a lo sbaraglio,
con suo danno, e acerbo scorno e guaglio?

Costretto son per questa maledetta
di Fortuna, colei che mi è imposto
d'altrui maritare, non che m'alletta
già il pensiero, ma pur son disposto
onde terminare esta guerra abietta
per vostro ben sacrificarme tosto.
Pur mi fu iernotte la donna sottratta
da qualcun che vuol la nostra disfatta!

E però ti prego che un simil danno
tu mi voglia con tua virtù evitare,
e se non per me, per quel re tiranno,
che vorrà Francia tutta soggiogare,
ché se mai a la nipote male fanno
que' ribaldi, egli vorrà me accusare
e ben averà scusa manifesta
per venirne in Francia a gran tempesta».

Questo il cavaliere audisce e sente,
gl'affidaria Carlo sua intera vita,
suo tesor, sua roba e tutta sua gente,
perché il conosce di onestà inaudita
e chi a Baiardo s'affida, mai se pente.
Mostrando allora l'impresa gradita,
«maestate» il responde «ciò non temete
ben vi prometto che giustizia avrete».

Cossì detto veemente in sella monta
e ver la selva corre a briglia sciolta
già ha l'anima a l'impresa pronta
né averà pace sino a che avrà tolta
la fanciulla a quei che le fanno onta,
ma di lui ve conterò un'altra volta.
Ora torniamo invece ai due cugini
che fan la guerra sui loro equini

Già ha Nandino colpito a la testa
due volte il cugino, lì ne la tempia
rotto ha il cimiero e strappato la vesta,
e ancor prosegue con la lotta empia
non di men Ferrandino, che or lo desta,
di taglio ferisce e quasi lo scempia.
Spezzato gli ha quel con la spada il scuto
e quasi a forza di sella abbattuto.

Pien di furore solleva sua spada,
sferra il colpo e ne la spalla il coglie,
ben crede che Nandino in terra cada,
ma ciò non viene, che quel si ricoglie,
e ancor si batte, che così gli aggrada.
Beatrice pur dal chiamar non si scioglie
ma sempre insiste ed acuisce il pianto,
così s'ode sua voce in ogne canto.

In breve viene seguitando il suono
quel Mercurio, il feroce stradiotto,
che sentito ha d'arme il frastuono
e sempre è quegli di battaglie ghiotto,
ma ben il vede che di miglior dono
l'ave Fortuna col guidare edotto.
Pur gli viene appresso l'amico Lecha,
anch'egli come lui di stirpe grecha.

Or saprà chi è del mondo esperto
che dir greco o fiorentino(3) è il stesso,
tal usanze hanno, ch'io mi sconcerto,
qual io sentì dire sul loro amplesso,
onde a ognun conviene, io v'avverto,
che sia il dereto al riparo messo.
In ciò è Mercurio di ben altra razza:
le femine ama, e li homini ammazza.

Quando si vede offerta l'occasione
d'aver per sé la principessa presa,
subito al suo destriero dà di sprone,
a la donna va, che è sanza difesa,
e quella piglia et isa in su l'arcione.
I due cugin, che stanno a la contesa,
Quan le grida odono, e il scorno e il furto,
lo sguardo voltano e arrestano l'urto.

«Deh, lassa, lassa!» grida a quel Nandino,
«in altro loco riprenderem poscia,
adesso vien, non perdiamo il cammino!»
e sì ringhiando se batte la coscia.
A ciò concorda pur l'altro cugino,
che di lui pruova non meno angoscia.
Così vanno appresso a quei furfanti,
che li han rubati proprio davanti.

Giungono i greci dinnanzi a un ponte
che a l'andata certo non era suto,
onde convengon che venendo al Monte,
devono avere il cammino sperduto.
Stavvi a guardia d'esso proprio di fronte,
un gigante enorme, scuro e zannuto.
Questo a la donzella faceva orrore,
sicché le par redento il rapitore.

In una mano tiene una clava,
ne l'altra una rete che ha intrecciato,
di vimini e corda, sopra cui sbava,
e sempre il passo a chiunque ha negato,
cosicché loro il cammino intralciava,
né vi è modo di passare il fossato
se non dal ponte, cui sotto scorre
un fiume che molte miglia percorre.

Mercurio smonta quindi da la sella
e ver la fanciulla se volta e dice:
«Vogliate, o mia dolce rondinella,
mia dea, mia rosa, mia amata Beatrice,
voi per cui il mio cuor d'amor favella,
farmi una sol volta in vita felice,
prima che affronti quella bestia scura,
col darmi un bacio per buona ventura».

Pur quella se volta altrove sdegnata,
«Messere, non sì sprovveduta e sciocca
me crediate, che fui ben insegnata,
e certo non concedo la mia bocca
a un che m'ha rapita e sequestrata!»
Cotali parole crudele scocca
a quello che tutto mortificato
ancora spera d'essere baciato.

«Orsù, colombella, orsù» ritenta
«che potrei rimanere storpio o peggio,
non che il morire ancor me spaventa,
ma se per voi morire invero deggio,
acciocché giammai io me ne penta,
un solo bacetto in la guancia chieggio».
E pur di poco il duro cuore smuove,
che forse non avria trionfato un bove.

E però ancorché sé sdegnosa finga,
non mai vi è femmina che adulata
alfin resista a cortesia e lusinga
per quanto sia con alcuno adirata,
e se talvolta verecondia spinga
a rifuggire carezza o basata,
pur il pudore a la vergine doce
che ciò che è onesto all'onor non nuoce.

Adunque se china la principessa
verso il cavalier che da la faccia
tolta ha già la barba scura e spessa,
in quanto sa che a lei assai dispiaccia,
e ciò rinnegando sua usanza istessa
per il crudo amor che l'arde e ghiaccia.
Ella un bacio in su la guancia imprime,
leggiero e casto e dal sentor sublime.

Pur lo stradiota ancor non s'accontenta
ma il viso le afferra e forte stringe
e di baciarla su le labbra tenta.
La donna prontamente lo respinge
e uno schiaffo gli rifila violenta,
talché le dita in faccia gli dipinge.
«To'» dice adirata «eccote la mancia,
e ora basta cianze, impugna la lancia!»

L'accontenta il cavaliere animoso
e verso il gigante se muove armato,
quello getta un grido spaventoso
e con la rete gli tende un agguato.
Mercurio evita il tranello insidioso
e pronto di lancia si scaglia irato,
credendo con tal colpo tramortirlo,
ma pur ci prova, e non riesce a ferirlo.

Gl'afferra infatti il gigante la lanza
con una mano, e da terra il solleva.
Gli dà Mercurio un calcio ne la panza,
mentre a lui contro la clava batteva,
in terra si getta e a stento la scanza
che per poco in capo il percoteva.
La Scannaturchi sfodera allora,
così è nomata sua spada uccisora.

Con essa un fendente al gigante scaglia,
superba è l'arma, e di fattura fina,
sicché non avendo piastra né maglia
como s'addice a natura ferina,
ambedue le gambe di netto il taglia
e quello in tre pezzi nel fiume ruina.
Mercurio ride e se volta trionfante
pur gli converria guardarsi le piante.

D'avere vinto appunto se crede,
ma non s'è ancor del periglio avveduto
che avviluppata attorno a un piede
ha la rete, che il gigante abbattuto
seppur annegando ancor non cede,
onde consegue che lo sprovveduto
dal laccio è stretto del mostro immondo
che seco morente il trascina a fondo.

«Mi nago!» cridava «Agiudo! Agiudo!»
e annaspando la mamma chiamava,
Lecha de l'armore se spogliò ignudo
e prontamente in fiume se gettava,
dunque che nuotar sapesse concludo.
Così Beatrice che sciolta restava,
invito non attende, ma il destriero
ruba e soletta riprende il sentiero.

Lungo la via a un castello perviene
che tutto è sol di cristallo costrutto,
ma ora cambiar novella ne conviene
e andiamo a Lodovico, che sperdutto,
doppo aver vagato tra tante pene,
ai Campi Flegrei s'è alfin redutto.
Il genero non ha, onde se dispera,
che se lui avesse, sperduto non era.

Qui Giove combatté contro i Titani
qui ebbero i numi ai giganti ribelli
l'ossa rotte e fracassati i crani,
qui la muta terra par rinovelli
l'aspra contesa fra gli dei pagani
e la violenza inaudita de' duelli
di cui saggiata ebbe la furia estrema,
e ancor fuma e romba e paurosa trema.

Qui s'ode dal profondo ogni tanto
il rombo sordo salire e i lamenti
di quei Titani che con gran rimpianto
imprigionati sono fra i tormenti
nel Tartaro oscuro ove con schianto
precipitò Iddio l'agnoli cadenti
che a Lui si rivoltarno infidi e ingrati,
onde in demòni ei furon mutati.

Qui lungo le desolate pendici
se andava il duca dolente dolendo:
«Ahi, chi mai a questi campi infelici
condusse me che mia diva inseguendo
al costo di fatiche e sacrifici
volea sottrarre a un destino tremendo
e poscia con lei, mia sposa, regnare
e goder de le gioie che Amor può dare?

Ahi, Fortuna tiranna, meretrice!
Sempre dei mortali acerba inimica!
Perché, se talvolta fai uno felice
poi lo sommergi di doglia e fatica
e pur l'abbatti sin da la radice?
L'umano patire sol te nutrica,
e i pianti e i lamenti e gli amari läi
che tu disperando all'uomini däi.

Adunque grasse le tue bestie pasci
di amore, gioia, e gaudio e speme vana,
e senza noiarle pascolar le lasci,
e dolce appari, e generosa e piana,
ma poi, quando vuoi, ogni cosa sfasci,
e come madre che i suoi figli sbrana
così crudele contro noi ti abbatti,
e tristi rendi, e dal dolore matti.

E me dunque fra tanti, disgraziato,
che il più felice ritenevo a torto
dappoi che avevo per virtù trovato
colei che regina era e sol conforto
di chiunque sia dal suo candor toccato,
contro me hai tua iniquità ritorto,
ché dal mio angelo, da l'anima mia
separato m'hai, e confuso la via.

Non vi è al mondo strazio più acerbo e crudo
del saper colei che ami in altrui mano
e non poterle far riparo e scudo,
saperla in periglio ed esser lontano!
Ahi, me infelice, di che ancor m'illudo?
Non v'è remedio al tormento inumano!
Mai imparar volli arte di spada o lancia,
onde me lagno e me batto la guancia!»

Così gemendo Trincarotta scaglia
contro una roccia che sta nel terreno
la qual ferendo benché dura taglia,
e trema il suolo insino al Miseno,
mentre s'apre in terra una gran faglia.
Allor s'oscura a notte il ciel sereno
e dalla ferita escono a frotte
i prigioni che le catene han rotte.

Cosa mai abbia fatto e che sia successo
ei nol sa, ma vedendo i mostri tanti,
sprona il suo Ciuchino per espresso
e sempre corre rifuggendo avanti.
Tra le rovine di un tempio dismesso
che gravato è dai secoli pesanti,
si rifugia come ultimo partito
e ben stima già d'essere finito.

Allor dal cielo sfavillante scende
un baglior di foco che a lui ne viene
per modo che un colpo quasi il prende
e poco manca che di paura sviene.
Il lume innanzi a lui si ferma e splende,
e spada e armatura indosso tiene.
«O sciocco» lo chiama, smorzando il foco
«come esser può che imparasti sì poco?»

Riapre l'occhi il Moro lacrimoso
che conosciuta ha di colui la voce
che per lui fu padre caro e affettuoso
per l'altri duca e condottier feroce,
e scorge il sembiante dal lume ascoso
che è come fiamma che però non noce,
e tanto è dall'incontro instupidito
che a parlar tenta, ma ha pur fallito.

«Mi vuoi tu dire perché di vergogna
vuoi coprire quei che t'ha generato?
Io che da vivo, dovunque si pogna
sempre fui pronto a infuriare armato,
e pure da padre, come bisogna,
a combatter ho a voi figli insegnato.
E tu dunque a che pro ti chiami Sforza
se già un misero venticel ti torza?

E pur la colpa è de la tua madre
che t'ha nel troppo studio rammollito
con le sue cure tenere e leggiadre,
onde da buono mi sei instupidito
e disonori il nome di tuo padre,
essendo tu dal periglio fuggito.
Adunque vuoi dal nascondiglio alzarte
e da uomo quale sei seguire Marte?»

«Perdonate, padre, la mia mancanza»
risponde pallido e tremante il figlio,
«che star non vorrei a grattarme la panza,
bensì affrontare da uomo il periglio,
e però il volere ha poca importanza
quando non si ha né zanna né artiglio.
Non son come voi, o l'avo o i miei germani
che foste arditi e in forza disumani».

'Scolta Francesco le sciocche scusanze,
così era quello spirito nomato,
e allor per rinnovargli le speranze
«Allietati, figlio» dice «mandato
fui per ovviar a le tue mancanze
da la Vergine la qual t'ha donato
fra i rimedi del cielo il più potente
che te farrà guerriero eccellente».

Ciò dicendo da la scarsella träe
un'ampolla di liquido ripiena
che al figliolo sorridendo däe.
«Questo è il sudor che colò da la schiena
e da la fronte ricca di beltäe
che quel fior sorto in terra levantena
sparse quel dì che il dragone sconfisse
pria che martire tre fiate perisse(4).

Una pulzella lo serbò e lo colse,
la qual fu dappoi a suo tempo santa,
e allorquando morte infin l'avvolse
fu nascoso in un tempio ne l'anta
giacché così far Costantino volse
essendo la sua potenza cotanta
che chi l'adopra potrà egli solo
rivoltare una montagna al suolo.

Adunque un giorno la reliquia scovai
che giaceva ne la chiesa al chiuso,
perché non causasse e disastri e guai
finendo a qualche aduno al male aduso.
Io stesso, dappoi che la recuperai
ne feci in la battaglia grande uso.
Adesso morto sono e a te la dono
purché ne faccia anco un uso buono.

Ne la fronte spargendo una sol goccia
ti sentirai possente e pien di forza
e saldo e duro come una roccia
a cui niuno può intaccar la scorza.
Alzati adunque, il timor non ti noccia,
va e rendi onore al nome degli Sforza!»
Così finito ch'ebbe il suo sermone
sparve improvviso come incantasione

Dappoi che fu dal genitor lasciato
Lodovico il suo buon consiglio ascolta
e proprio fa come gli fu insegnato:
da l'ampolla ha una sol goccia tolta
e si è la fronte del sudor bagnato
tosto dal cuor sente la paura sciolta
e farsi il suo spirto focoso e ardente
talché battaglia chiede immantinente.

Ma già è stato il canto lungo assai
e io non ti voglio, o lettor, tediare
un'altra fiata se vieni scoprirai
come dovette la battaglia andare
e tutti gli altri cavallieri vedrai
novi cimenti insidiosi affrontare
Ma adesso va, lettor, con Dio e riposa
che la poesia è bella, ma faticosa. 

~~~

 

Note al canto:

(1) Le Camene sono le Muse latine, cui Numa Pompilio aveva consacrato il bosco presso la fonte di Egeria.
(2) Le tre Moire, Cloto, Làchesi ed Atropo, tessevano il filo della vita, ma in Omero la Moira è una sola.
(3) Con fiorentino si intende sodomita
(4) Si tratta ovviamente di San Giorgio

Ringraziamo anche qui Hoel che pur in un campo diverso dal suo ci dà sostegno e aiuto!

 

 
   
 
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