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Autore: Parmandil    08/05/2020    1 recensioni
Abolita la Prima Direttiva per ragioni umanitarie, l’Unione Galattica è sprofondata nel caos. Le civiltà precurvatura abusano delle tecnologie loro donate e un terzo dei sistemi federali è pronto alla secessione, concretando il rischio di una guerra civile.
Dopo un violento attacco alieno, la Keter si reca nel Quadrante Delta, ripercorrendo la rotta della Voyager in cerca di riposte. Qui troverà vecchie conoscenze, come i Krenim e i Vidiiani, che si apprestano a colpire un nemico comune, incautamente risvegliato dalla Voyager secoli prima. I nostri eroi dovranno scegliere con chi schierarsi, in una battaglia che deciderà le sorti del Quadrante. Ma la sfida più ardua tocca a Ladya Mol, già tentata di lasciare la Flotta per riunirsi al suo popolo. Dopo una tragica rivelazione, la dottoressa dovrà lottare contro un morbo spaventoso; la sua dedizione potrebbe richiederle l’estremo sacrificio.
Nel frattempo i Voth, un’antica specie di sauri tecnologicamente evoluti, sono giunti sulla Terra per stabilire una volta per tutte se questo sia il loro mondo d’origine. Sperando d’ingraziarseli, le autorità federali li accolgono in amicizia, senza riflettere sulle conseguenze del ritorno dei “primi, veri terrestri” sul pianeta Terra.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Borg, Dottore, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Star Trek Keter Vol. VI:

Oltre la frontiera

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE KETER.

LA SUA MISSIONE È DIFENDERE

GLI ACCORDI TEMPORALI

E L’UNIONE GALATTICA,

CON OGNI MEZZO NECESSARIO.

QUANDO UNA MINACCIA ELUDE

LE CONTROMISURE TRADIZIONALI,

LA KETER ENTRA IN AZIONE.

 

 

-Prologo:
 

Data stellare 2557.207

Luogo: Caldos

 

   Il piccolo gong fu suonato tre volte, emettendo suoni argentini, mentre le candele profumate venivano accese. Un tenue chiarore si diffuse nella stanza, illuminando di tonalità calde le pareti e il pavimento. Dalle fiammelle salirono volute di fumo che ne diffusero l’aroma esotico. In quell’atmosfera suggestiva i familiari si riunirono, sedendo sulle stuoie. Non c’erano solo gli occupanti della casa, ma anche i parenti, invitati da tutta la colonia: nonni, zii, cugini. In totale erano una quindicina di persone, riunite per celebrare l’anniversario. Seduta in prima fila, la giovane Ladya Mol trattenne il fiato, emozionata. Aveva da poco compiuto dieci anni ed era la prima volta che veniva ammessa alla Cerimonia del Ricordo. I suoi cugini, che le sedevano accanto, avevano qualche anno più di lei e quindi vi avevano già assistito. Ma per lei era tutto nuovo e misterioso.

   Da una porta laterale entrarono i genitori di Ladya. Al posto degli abiti di tutti i giorni indossavano le vesti tradizionali del popolo Vidiiano, lunghe fino ai piedi. La bambina li osservò incuriosita. Suo padre Dhanvat sedette su un cuscino, impugnò dei martelletti e prese a suonare un antico strumento musicale, costituito da cilindretti metallici di varia lunghezza, appesi a una stanga tramite dei fili. Non era un concerto vero e proprio, ma solo un accompagnamento. Fu la madre di Ladya, Amrita, a porsi al centro della stanza. C’era un’insolita solennità in lei, forse persino un velo di tristezza. Batté forte le mani, per reclamare l’attenzione dei presenti. Subito il chiacchiericcio dei familiari si spense e tutti le rivolsero la dovuta attenzione.

   «Benvenuti a tutti voi. Siete stati gentili ad accettare l’invito anche quest’anno» sorrise Amrita, rivolta ai parenti che vivevano altrove. «Come vedete, quest’anno abbiamo un’ospite in più. La nostra Ladya è grande abbastanza da partecipare alla cerimonia».

   I cugini di Ladya, sempre un po’ scalmanati, applaudirono e fischiarono, ma l’occhiataccia dei loro genitori li indusse nuovamente al silenzio.

   «Bene, Ladya... visto che è la tua prima cerimonia, mi rivolgerò direttamente a te» disse Amrita. «Sai cosa commemoriamo, oggi?».

   «Il nostro arrivo su questo pianeta!» annuì la bambina, felice di saper rispondere. «Cioè, l’arrivo dei nostri antenati».

   «Esatto» annuì la madre. «Ma prima di commemorare il loro arrivo, vorrei che tu comprendessi appieno perché dovettero partire» aggiunse con gravità. Fece una lunga pausa, mentre il marito colpiva i cilindretti metallici, ricavandone una nenia malinconica.

   «Me lo sono sempre chiesto» ammise Ladya, quando la musica cessò. «A scuola non ci dicono molto».

   «Lo faranno nei prossimi anni» assicurò Amrita. Osservando la figlia, sentì su di sé una grossa responsabilità. Anche se nel Giorno del Ricordo ci si asteneva dal lavoro, e pure le scuole erano chiuse, i Vidiiani rifuggivano dalle grandi cerimonie pubbliche. Era un retaggio del passato, dei tempi cupi in cui la Phagia flagellava la popolazione. All’epoca ogni assembramento era severamente proibito dalla legge, per limitare il contagio. Di conseguenza anche le feste erano celebrate in forma privata. Al massimo s’invitavano i parenti, se si aveva la certezza che fossero sani, ma non ci si mischiava mai agli estranei. Quindi non c’erano sfilate, né raduni e discorsi pubblici, e nemmeno balli. Per trasmettere il ricordo e il significato delle feste da una generazione all’altra ci si affidava alle singole famiglie. Ovviamente ciò comportava il rischio che, col passare del tempo, i rituali divergessero da una famiglia all’altra. E sebbene la Phagia non fosse che un tragico ricordo, i Vidiiani svolgevano ancora le cerimonie nell’ambito del nucleo familiare. Quindi era molto importante mantenere immutato il rituale e spiegarne il significato ai giovani.

   «Ti abbiamo già parlato della Phagia» disse Amrita con gravità. «Quell’orribile morbo ha afflitto la nostra gente per due millenni. Danneggiava il DNA, rompeva le pareti cellulari e consumava i tessuti, provocando sofferenze atroci e infine la morte. I nostri medici facevano di tutto per trovare una cura e molte volte sembrò che ci fossero riusciti. Ma ogni volta il virus si adattava e tornava a colpire, più letale di prima. La nostra società, un tempo fiorente, ne fu devastata». La Vidiiana sospirò e tacque, mentre il marito batteva qualche nota sul suo strumento. Ding... ding...

   Fattasi coraggio, Amrita riprese. «Per sopravvivere, il nostro popolo dovette adottare misure drastiche. I medici coltivavano nuovi organi in laboratorio, per trapiantarli ai pazienti che ne avevano bisogno. Ma anche gli organi trapiantati si ammalavano e cedevano in fretta. Per farli durare più a lungo, cominciammo a prendere quelli delle altre specie» rivelò.

   «Prendere?» si stupì Ladya. «In che senso?». Un orribile sospetto si fece in strada in lei, ma non voleva crederci. Vedendo che i parenti restavano silenziosi e con lo sguardo basso, sentì crescere l’ansia. Anche i suoi cugini, di solito così vivaci, erano muti e corrucciati.

   «È difficile da accettare, piccola mia» disse lentamente Amrita. «Quando avevo la tua età, e me lo dissero, non volevo crederci; ma è così. Nel disperato tentativo di prolungarsi la vita, i nostri antenati divennero predoni. Costruirono una flotta da guerra e attaccarono le specie vicine. I nostri militari, che avevano anche una formazione medica, cercavano di capire quali organi dei prigionieri potessero adattarsi a noi. Trovato ciò che gli interessava, li rimuovevano».

   «E i prigionieri...?» chiese Ladya, con un nodo alla gola.

   «Morivano» confermò tristemente Amrita. «Nessuno sa di preciso quante furono le vittime... ma devono essere state migliaia».

   «Milioni» corresse Dhanvat, ancora più cupo. «A volte i prigionieri erano uccisi anche per un solo organo, che serviva con urgenza. Se non avevano organi adatti al trapianto, o se al momento non c’era richiesta, erano ridotti in schiavitù. Ad esempio dovevano lavorare nelle miniere, visto che la Phagia c’indeboliva, impedendoci di svolgere i lavori più pesanti».

   «M-ma non è giusto! Loro non ci avevano fatto niente!» balbettò Ladya, in preda all’orrore. Cercò di alzarsi, per lasciare la stanza. Ma la nonna, che sedeva dietro di lei, la trattenne dolcemente per le spalle e la indusse a restare. «Ascolta, ti prego» disse, carezzandole i capelli. «Devi conoscere la verità sul nostro passato. Tutti i Vidiiani devono conoscerla».

   Poco alla volta Ladya si calmò, anche se restava in preda all’amarezza e alla vergogna. A volte i federali visitavano la loro piccola colonia, per commerciare, e in quelle occasioni la ragazzina aveva notato una certa freddezza da parte loro. Aveva sempre pensato che fossero degli arroganti; che si permettessero di guardarli dall’alto in basso perché erano più ricchi. Ora capiva che anche i federali conoscevano le passate abitudini dei Vidiiani, e pur avendoli accolti entro i loro confini avevano difficoltà a perdonarli del tutto.

   «Le cose cambiarono due secoli fa, quando un’astronave della Federazione finì dispersa nel Quadrante Delta» riprese Amrita.

   «La Voyager!» esclamò Ladya, che ne aveva sentito parlare a scuola.

   «Esatto, la Voyager» confermò la madre. «Nel suo viaggio di ritorno attraversò il nostro spazio. Mi duole ammettere che i nostri militari l’attaccarono più volte, senza provocazione, per razziare gli organi dell’equipaggio. Ma la Voyager riuscì sempre a sfuggire. Durante gli scontri, però, i suoi ufficiali accennarono al fatto di provenire da una pacifica Federazione che si trovava al lato opposto della Galassia. Per la nostra gente, sempre in conflitto coi vicini, era difficile credere che specie diverse potessero collaborare a tal punto da servire sulla stessa astronave. Eppure l’equipaggio misto della Voyager lo dimostrava.

   In quel periodo una nostra famosa dottoressa, Danara Pel, a sua volta malata terminale di Phagia, fu soccorsa dalla Voyager. Malgrado gli attacchi subiti, i federali cercarono di curarla. Pur non potendo sconfiggere del tutto il virus, le diedero qualche anno in più. Quando la dottoressa ripartì, il Medico Olografico di bordo le consegnò il database medico federale, che ci fu di grande aiuto per migliorare le cure. Infine, pochi anni dopo, una congrega di scienziati alieni collaborò coi nostri medici, riuscendo a sconfiggere definitivamente la Phagia».

   Un tenue sorriso si fece strada sul volto di Amrita. «Per la nostra società fu una rinascita. Eravamo sopravvissuti in quell’incubo così a lungo che avevamo dimenticato cosa significasse vivere. Di colpo potemmo dedicarci nuovamente all’arte, alla musica, a tutte le attività culturali che un tempo ci avevano resi celebri. I bambini come te poterono di nuovo uscire all’aperto e giocare assieme, senza il terrore del contagio» aggiunse, osservando affettuosamente la figlia.

   Accanto a lei, Dhanvat tornò a battere il suo strumento, stavolta con un ritmo più rapido e allegro. I colpetti erano come piccole esplosioni di gioia, che risuonavano nelle orecchie di Ladya. A un tratto, però, Amrita levò la mano e Dhanvat si arrestò.

   «Ma i guai non erano finiti» sospirò la Vidiiana. «Trascinati dall’entusiasmo e decisi a finanziare la ricostruzione, mettemmo in disarmo molte navi da guerra, senza sostituirle con nuovi modelli. Non capimmo che, dopo secoli di razzie, i nostri vicini erano assetati di vendetta. Quando videro che avevamo abbassato la guardia, ci attaccarono».

   «Chi ci attaccò?» chiese Ladya, accigliata. Anche se non poteva perdonare le razzie contro altri popoli, le pareva ingiusto che questi si vendicassero proprio quando loro erano impegnati a ricostruire.

   «I Kazon, una razza barbara e violenta, divisa in tribù sempre in lotta fra loro» rispose sua madre. «La più sanguinaria di queste tribù, i Kazon-Nistrim, riuscì ad assoggettarne altre, anche usando alcune tecnologie rubate alla Voyager. A quel punto rivolse la loro potenza combinata contro di noi. Anche l’Ordine Haakoniano, una dittatura militare, ci dichiarò guerra. Gli Haakoniani possedevano un’arma terribile, la Cascata di Metreoni, capace di devastare interi pianeti. L’avevano sperimentata contro i Talaxiani e ora ce la rivolsero contro. Le nostre colonie caddero una dopo l’altra in poche settimane. Rimettemmo frettolosamente in funzione le vecchie navi da guerra, ma i Kazon ne distrussero molte con assalti suicidi. Infine Vidiia Primo venne assediato. Lo Scudo Planetario ci proteggeva dalla Cascata di Metreoni e dalle altre armi, ma consumava molta energia; non avrebbe retto a lungo. Capimmo di doverci preparare al peggio».

   Amrita fece un’altra pausa, mentre Dhanvat suonava una musica incalzante. Davanti a loro, Ladya sedeva assorta nei pensieri. Cercava di figurarsi l’angoscia dei suoi antenati, nel vedersi assalire da questa nuova calamità. Era ingiusto che la sorte si accanisse così implacabile sulla sua gente.

   «I nostri leader decisero di evacuare parte della popolazione su grandi navi trasporto» riprese la madre. «Radunate le menti migliori su dodici astronavi, riuscirono a farle fuggire durante una sortita. Subito dopo i trasporti si divisero, per aumentare le probabilità che qualcuno si salvasse. Tre navi, però, decisero di viaggiare assieme, per difendersi meglio. Ricordando la Voyager, andarono in cerca della Federazione. Era un’impresa disperata, perché significava attraversare la Galassia da un capo all’altro. Anche alla massima velocità, sarebbe servito oltre un secolo, per cui i trasporti sarebbero divenuti navi generazionali. E non avevamo idea di quali insidie ci attendessero lungo il tragitto».

   Dhanvat tornò a far sentire la sua musica. Stavolta era un ritmo lento e malinconico. Continuò a suonarlo mentre la moglie riprendeva la narrazione.

   «Nei primi tempi fummo fortunati, perché incontrammo una specie molto progredita, i Sikariani. Avevano una cultura edonista, sempre in cerca di nuovi racconti, musiche, forme d’arte... qualunque cosa stimolasse i sensi. Barattando le specialità del nostro mondo, ottenemmo una tecnologia che permise alle nostre navi un balzo in avanti di 40.000 anni luce, più di metà del tragitto. Sfortunatamente erano dispositivi monouso e non capimmo come replicarli, per cui da lì in avanti dovemmo procedere a curvatura. Comunque ci risparmiammo decenni di viaggio, superando lo spazio Borg e parecchie altre zone pericolose.

   Il resto del viaggio non fu così fortunato. Una delle nostre navi fu distrutta da un’anomalia spaziale. Un’altra la perdemmo a causa di un’aggressiva specie del Quadrante Beta, i Fen Domar. La terza e ultima nave procedette a velocità ridotta, danneggiata dalle traversie. Ormai erano quarant’anni che viaggiavamo, senza trovare un posto tranquillo dove fermarci. Non sapevamo quant’era vicina la Federazione... alcuni di noi dubitavano persino che esistesse. I danni alla nave e le contese interne stavano per distruggerci, quando finalmente incontrammo un vascello federale, la USS Domine, che esplorava lo spazio profondo.

   Stremati e amareggiati dalle disavventure, chiedemmo aiuto ai federali. E loro ce lo diedero, sebbene in passato non fossimo stati amichevoli con la Voyager. La Domine ci aiutò a riparare i danni, ci rifornì e ci scortò fino a questo pianeta, che all’epoca si trovava alla frontiera. Siccome Caldos era in gran parte disabitato, le autorità federali ci concessero questa regione da colonizzare. Ci aiutarono persino a costruire il primo insediamento. In cambio ci chiesero solo le informazioni sui Quadranti Delta e Beta raccolte durante il viaggio. Superata la trafila burocratica, ottenemmo anche la cittadinanza, impegnandoci a rispettare le leggi federali.

   Da allora non abbiamo più avuto grossi problemi. Come avrai notato, ogni tanto le altre specie vengono da noi per commerciare, anche se nel complesso ci teniamo un po’ in disparte. Alcuni alieni provano ancora risentimento, conoscendo la nostra storia, e rifiutano di stringerci la mano. Ma per fortuna non ci sono mai state persecuzioni. Anzi, negli ultimi anni ci siamo guadagnati un certo credito presso l’Unione Galattica» disse Amrita, riferendosi al nuovo organismo politico in cui erano confluiti la Federazione, i Klingon e i Romulani.

   «Davvero? E come?» s’incuriosì Ladya.

   «Anche se la Phagia non c’è più da secoli, i nostri medici sono ancora rinomati per la loro abilità» spiegò la madre. «Come sai, negli ultimi anni l’Unione ha combattuto una dura guerra contro il Fronte Temporale. Siamo stati molto fortunati a uscirne incolumi. La nostra colonia è abbastanza piccola da essere sfuggita all’attenzione del nemico. Ma i nostri dottori sono andati sulla Terra e su altri mondi federali. Hanno contribuito a curare le vittime delle anomalie e delle armi biologiche del Fronte. Sai di cosa parlo, vero?».

   «Sì» annuì Ladya. «I Costruttori di Sfere hanno cercato di rimodellare lo spazio con le anomalie... quelle macchie rosse che vedevamo in cielo. I Vorgon e i Na’kuhl hanno creato dei virus e li hanno diffusi sui mondi federali. Ma adesso le malattie sono state curate, vero?».

   «Sì» annuì Amrita con decisione. «Anche l’Agente 47, il virus più pericoloso di tutti, è stato sconfitto; ma all’Unione servirà tempo per riprendersi. Comunque il nostro contributo è stato importante, perciò spero che d’ora in poi saremo liberi dalla cattiva fama. E con questo credo di aver finito. Ora sai cosa celebriamo nel Giorno del Ricordo. Il nostro passato è pieno di dolore, ma questo non deve offuscare la soddisfazione per ciò che abbiamo costruito qui. Né la speranza di un futuro ancora migliore, ora che la guerra è finita».

   La Vidiiana sorrise incoraggiante, mentre la musica di accompagnamento si faceva più allegra e fiduciosa. Infine il tintinnio cessò. L’aria era ormai impregnata dell’aroma speziato diffuso dalle candele.

   «Bene, figliola... hai qualche domanda?» chiese Dhanvat. Si alzò dal suo posto e venne accanto alla moglie. Tutti e due osservarono Ladya, che sedeva assorta, riflettendo su quanto aveva appreso.

   «Mi chiedo...» cominciò la ragazzina. Per un attimo tacque, incerta, ma poi riprese. «Mi chiedo che ne è stato del nostro pianeta. Avete detto che era assediato, quando i trasporti lo lasciarono. Che è successo dopo? La nostra gente si è salvata?» chiese con ansia, passando lo sguardo da un genitore all’altro.

   Amrita e Dhanvat si scambiarono uno sguardo cupo. Siccome la madre esitava a rispondere, fu il padre a farlo. «Purtroppo non lo sappiamo» ammise. «Quando i nostri avi compirono il balzo di 40.000 anni luce, persero ogni contatto con la madrepatria. In quel momento Vidiia Primo era ancora sotto assedio. Ignoriamo se il nostro popolo sia riuscito a liberarsi, o se sia caduto sotto il controllo nemico. Gli Haakoniani avevano già occupato Talax; potrebbero aver fatto lo stesso con Vidiia».

   «Se non hanno usato la loro arma!» esclamò Ladya, agitatissima. «E i Kazon? Avete detto che sono barbari! Potrebbero averci sterminati!» gridò, scattando in piedi.

   «Calma, tesoro» disse la nonna, alzandosi a sua volta. A quel punto anche gli altri parenti tornarono in piedi.

   «Non saltare alle conclusioni peggiori» la esortò il padre. «Ricorda che il nostro popolo è sempre stato abituato alle avversità. Avevamo molti nemici anche ai tempi della Phagia e siamo sopravvissuti. Perché non dovremmo cavarcela ora che siamo guariti?».

   «Ma in tutto questo tempo noi coloni non abbiamo mai contattato Vidiia?!» insisté la ragazzina, ancora sconvolta.

   «75.000 anni luce sono tanti» sospirò Amrita, rassegnata. «Fra noi e la madrepatria ci sono specie ostili e anomalie subspaziali capaci di bloccare le trasmissioni. Quindi no, non c’è stato alcun contatto. Noi siamo troppo pochi per allestire una missione che torni laggiù...».

   «E l’Unione? La Flotta Stellare?» chiese Ladya, sempre più delusa. «Loro dovrebbero esplorare! Il loro motto è “arrivare fin dove nessuno è mai giunto prima!”. Perché in duecento anni non sono più tornati nel Quadrante Delta?».

   «Sono domande difficili, quelle che fai» riconobbe Amrita. «Nessuno di noi conosce i pensieri e i progetti di chi dirige la Flotta Stellare. C’è da dire che, per molto tempo, la Flotta ha smesso di esplorare, accontentandosi di pattugliare i confini e combattere la pirateria. Quando è stata varata la nuova Enterprise, sembrava che ricominciassero le esplorazioni. Ma poi è scoppiata la guerra e tutti gli sforzi sono andati alla difesa».

   «Ora che la guerra è finita, forse la Flotta riprenderà a esplorare» disse Dhanvat, con un filo di speranza. «Tra l’altro le nuove tecnologie rendono tutto più facile. La cavitazione quantica permette di raggiungere il Quadrante Delta in pochi mesi, anziché in decenni. E avrete sentito parlare del propulsore cronografico. Dicono che possa trasportare le astronavi in tutti i Quadranti, in un batter d’occhio! Se fosse vero, non sarebbe difficile tornare al Delta».

   «Sarebbe un bene, per tutti noi» borbottò uno zio di Ladya, ancora scapolo. «Il collo di bottiglia genetico ci sta rendendo la vita impossibile».

   «Che vuol dire?» chiese la ragazzina.

   «Uhm, forse non dovevo parlarne...» mormorò lo zio, imbarazzato.

   «No, va tutto bene» lo tranquillizzò Amrita, che era sua sorella maggiore. «Vedi, Ladya, quando i nostri avi raggiunsero questo pianeta, erano rimasti solo in duemila. Da allora, in mancanza di altri Vidiiani, abbiamo dovuto sposarci sempre tra noi. Dopo molte generazioni il risultato è che siamo quasi tutti imparentati. E a scuola ti hanno spiegato cosa comporta questo...».

   «Anomalie genetiche» annuì Ladya. «Aspettativa di vita più breve. Sì, ce l’hanno detto. È per questo che nascono così pochi bambini?».

   «Le giovani coppie devono sottoporsi a uno screening per stabilire se possono procreare, o se il loro indice di similarità genetica è troppo alto» confermò la madre. «In quel caso devono separarsi. Io e tuo padre siamo stati fortunati, perché il nostro indice di similarità era basso. Ma capisci che, col passare delle generazioni, il problema diventa sempre più grave. Ecco perché sarebbe davvero importante trovare altri della nostra specie. Ci serve sangue nuovo, se non vogliamo ricadere nelle malattie».

   «Ho sentito che nell’Unione ci sono molti matrimoni misti...» mormorò Ladya, incerta. Le sembrava che questo avrebbe risolto i loro problemi.

   «Intendi le unioni interspecie? Sì, è vero» confermò il padre, accigliandosi. «Ma non credo che siamo pronti per questo. Siamo così pochi che, se c’imparentassimo con gli alieni, cesseremmo di essere Vidiiani nell’arco di poche generazioni. Certo, meglio questo dell’estinzione. Suppongo che prima o poi dovremo prendere questa decisione» sospirò.

   «C’è ancora tempo» disse Amrita, per alleviare la tensione. «Ladya, ti piacerebbe vedere qualche immagine di Vidiia Primo? Sono olografie che i nostri avi scattarono prima di partire. Così non avrebbero dimenticato la loro patria».

   «Oh, sì!» esclamò la ragazzina, con gli occhi che brillavano. Tutto quel narrare le aveva suscitato un ardente desiderio di conoscere il loro mondo natio.

   «È presto fatto» disse Dhanvat. Il Vidiiano prese il proiettore olografico, che si trovava in un angolo, e lo pose al centro della stanza, mentre i presenti si disponevano lungo le pareti. Armeggiò brevemente con i comandi, scorrendo l’archivio storico, e lo attivò.

   Le pareti sembrarono svanire attorno alla famiglia riunita. Ladya trattenne il fiato e si guardò attorno emozionata. Una lussureggiante foresta si stendeva in ogni direzione. Il suolo era acquitrinoso e i tronchi degli alberi si dividevano in radici prima d’immergersi in acqua. Insetti variopinti volteggiavano nell’aria. Affascinata, la ragazzina cercò di toccarne uno, pur sapendo che era intangibile. A quest’immagine ne seguirono altre, che mostravano diversi panorami. C’erano ambienti variegati, anche se nel complesso il clima tendeva al caldo-umido. Il cielo era solcato da magnifici anelli planetari, piuttosto rari nei mondi rocciosi.

   Ai paesaggi naturali seguirono quelli urbani, che portavano il marchio devastante della Phagia. Ogni città era nettamente divisa tra un’area per gli infetti e una per i sani. Ad essere cinte da mura erano queste ultime, dato che l’epidemia colpiva gran parte della popolazione. Le olografie però erano state scattate qualche anno dopo la fine del contagio, tanto che in molti casi le mura stavano venendo demolite. Anche così, i segni della Phagia restavano evidenti. Gli edifici pubblici più grandi erano gli ospedali. Non c’erano piazze, dato che le aggregazioni erano vietate. Le città erano costellate di monumenti funebri, alcuni antichi, dato che il morbo aveva imperversato per due millenni. Si andava dai mausolei in pietra, dalle grandi terrazze adorne di statue, fino ai memoriali moderni, costituiti da lunghi muri dalle superfici fittamente ricoperte dai nomi dei defunti.

   Le ultime olografie mostrarono Mireven, la capitale planetaria. Sotto due grandi lune, visibili in pieno giorno, s’innalzavano gli edifici governativi. Il simbolo del Sodalizio Vidiiano campeggiava sulle pareti: un disco grigio circondato da linee verticali segmentate, simili a graffi arancioni. Ladya notò che, pur in mancanza di piazze, c’erano molti monumenti. Si trattava perlopiù di statue, allineate ai lati delle strade, o anche dei soli volti scolpiti nei muri. Erano sculture imponenti che celebravano la bellezza e la salute fisica, fatte in reazione a millenni di malattia sfigurante. La ragazzina si chiese se raffiguravano personaggi mitici o se c’erano anche figure storiche. Non poté stabilirlo, perché le olografie non erano così dettagliate da poter leggere i nomi sulle targhe.

   Vedendo queste immagini, Ladya si disse che Vidiia Primo non era poi così male, specialmente ora che la Phagia era finita. Le olografie erano state scattate quasi due secoli prima: nel frattempo le cose dovevano essere migliorate. Nell’osservare le due lune, i grandi palazzi e i viali bordati di statue, la ragazzina fu assalita da una struggente nostalgia. Quanto avrebbe voluto visitare di persona il suo mondo! Che avrebbe dato per calcare quei viali, incontrare la gente! Avrebbe raccontato ciò che la sua comunità aveva affrontato nel viaggio, i rischi corsi e la fiorente colonia che infine avevano costruito. In cambio si sarebbe fatta dire tutto ciò che era successo in loro assenza. Sempre che Vidiia esistesse ancora. Sempre che i nemici non avessero distrutto ogni cosa.

   «Almeno lo saprei» si disse. «Comunque siano andate le cose, almeno lo scoprirei e mi metterei il cuore in pace».

   Mentre Ladya rimuginava, suo padre disattivò l’olo-proiettore. Pareti e soffitto riapparvero; Vidiia sparì come un sogno. La ragazzina fu acutamente consapevole della spaventosa distanza che li separava dal loro luogo d’origine e dal resto della loro specie. Una distanza che, in quasi due secoli, nessuno era riuscito a colmare. Ci sarebbero riusciti nell’arco della sua vita? O anche lei avrebbe trascorso l’esistenza struggendosi nel dubbio?

   «Stai bene, piccola mia?» chiese Amrita con apprensione, notando l’espressione assorta della figlia. «A cosa pensi?».

   «Penso... che da grande entrerò nella Flotta Stellare» rispose inaspettatamente Ladya. Un mormorio sorpreso corse fra i parenti e tutti gli sguardi si appuntarono su di lei.

   «La Flotta?!» fece la madre, colta alla sprovvista. «Saresti la prima Vidiiana a farlo. Certo, i nostri medici hanno collaborato con i loro, ma nessuno è mai entrato a farne parte».

   «Ma non è proibito... siamo cittadini federali, vero?» chiese Ladya, sulle spine.

   «Sì, abbiamo ottenuto la cittadinanza» confermò Amrita. «Ma lavorare nella Flotta è pericoloso. Si vive per anni su astronavi che affrontano un’emergenza dopo l’altra. Perché dovresti sobbarcarti quei rischi, ora che finalmente possiamo vivere in pace?».

   «Perché così se l’Unione contatterà il nostro mondo lo saprò subito... e forse un giorno lo visiterò di persona» rispose Ladya. Il suo visetto infantile era serio e concentrato; il proposito si stava radicando nella sua mente.

   «Le tue ambizioni sono molto alte, bambina mia» sospirò la madre. «Vedremo cosa porteranno gli anni».

   Poco alla volta la tensione si stemperò. I cugini di Ladya aprirono le finestre, per cambiare l’aria. Fuori il sole stava tramontando; il cielo era screziato di rosso e spirava un vento fresco. Poiché si era fatto tardi, il resto della cerimonia fu svolto rapidamente. Dhanvat consegnò delle ciotole a tutti i presenti e Amrita vi versò una bevanda tradizionale. Quando tutti ebbero le ciotole colme, le sollevarono.

   «In memoria dei nostri avi e del loro lungo viaggio» disse solennemente Dhanvat. «Onoriamo il coraggio e i sacrifici che li portarono qui».

   «A tutti noi, l’augurio di salute e longevità» aggiunse Amrita.

   «Salute e longevità!» ripeterono i presenti. Era l’augurio tradizionale dei Vidiiani. Ciò detto, bevvero fino a vuotare le ciotole. Allora Amrita le raccolse e le portò via, mentre Dhanvat spegneva le candele. La commemorazione era finita; ai coniugi non restava che salutare i parenti. Ci volle un pezzo per accomiatarsi da tutti, perché alcuni erano chiacchieroni e indugiavano a lungo sulla soglia, continuando a parlare del più e del meno.

   Quando finalmente restarono soli, i coniugi si accorsero che Ladya non era più con loro. Salendo al piano di sopra, la trovarono nella sua cameretta, che leggeva al computer. La ragazzina aveva attivato due oloschermi. Su uno scorrevano le informazioni disponibili su Vidiia, mentre sull’altro campeggiava il logo della Flotta Stellare. Seria e concentrata, Ladya stava leggendo i requisiti di accesso. A quella vista i genitori si ritirarono per confabulare.

   «Forse abbiamo sbagliato a dirle tutto in una volta sola» mormorò Amrita. «Adesso le è venuta l’ossessione di trovare Vidiia».

   «Le ossessioni delle bambine di dieci anni durano poco» ribatté Dhanvat, più ottimista. «Vedrai che tra una settimana avrà già dimenticato la faccenda».

   «Speriamo» disse Amrita, ancora in apprensione. «È una bambina cocciuta. Più cocciuta di te e di me».

   «Però dì la verità: non piacerebbe anche a te se un giorno avessimo notizie della madrepatria?» chiese il marito.

   «Non so» rispose la moglie, esitante. «Se fossero brutte notizie, ci resterei malissimo. Forse è meglio rimanere nell’incertezza».

   Intanto, nella sua cameretta, Ladya continuava a informarsi sul percorso di studi necessario a entrare nella Flotta. Non aveva le incertezze dei suoi genitori, anzi, più ci pensava e più si convinceva che fosse la cosa giusta per lei. «Un giorno camminerò per le strade di Vidiia» si disse. «Sarò la prima della colonia a farlo. Sì... un giorno tornerò a casa, e sarà bellissimo».

 

   
 
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