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Autore: Lisaralin    08/05/2020    2 recensioni
Ballate e poemi cantano le epiche gesta di battaglie campali, in cui il Bene e il Male si scontrano per decidere il destino del mondo. Questa storia invece racconta ciò che è accaduto nei giorni immediatamente precedenti a una di queste grandi battaglie: piccoli momenti di attesa, amicizia, paura, speranza.
[storia basata su episodi di una campagna di D&D]
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Bard's Songs'
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Questa storia è dedicata a whitemushroom ed è ispirata a un episodio di una campagna di D&D che abbiamo giocato insieme, con protagonisti i nostri rispettivi personaggi. Gli stessi personaggi erano già apparsi nella mia precedente storia All the difference in the world, ma non è necessario averla letta per poter seguire questa.
L'ambientazione, tutti i nomi di luoghi e personaggi che non siano i protagonisti, nonché le vicende e le situazioni accennate sono stati ideati dal master della campagna o dagli altri giocatori del gruppo.

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Go slowly now, sands of time


"Go slowly now, sands of time
Still have some verses to pour
Go slowly now, sands of time
Still have a memory to make"
(Tuomas Holopainen,
"The Life and Times of Scrooge")

 

Giorno 1
 
Le rune arcane ondeggiavano nel mio cervello come danzatrici del ventre. Mi fluttuavano intorno, intessevano nell’aria la loro scia di profumi esotici e poi tornavano a sparire dietro i veli colorati, affascinanti e misteriose.
Maledettamente sfuggenti.
Esausto, mi abbandonai in avanti e poggiai la fronte sul tavolo nella speranza che il contatto con la fresca superficie di pietra potesse darmi un po’ di sollievo. Malgrado ci trovassimo nel bel mezzo del deserto, durante il giorno le rovine sotterranee del perduto Regno di Or mantenevano una temperatura più che sopportabile.Tutt’altro valeva per il mio povero cervello, ormai sul punto di liquefarsi e colarmi fuori dalle orecchie.
Intorno a me giaceva un cimitero di pergamene dimenticate.
Se ne contavano a centinaia lungo gli scaffali del piccolo studio, accuratamente arrotolate e catalogate per ordine alfabetico. Altre erano sparse di fronte a me sul tavolo, ammucchiate come corpi riversi sul campo di battaglia. Ognuna di esse conteneva le istruzioni per eseguire un diverso incantesimo. La magia che le pervadeva doveva averle protette dall’azione distruttrice del tempo, che invece aveva ridotto in polvere qualsiasi pezzo di mobilio o suppellettile nella stanza ad eccezione del robusto tavolo di pietra. Per avere un posto dove sedermi ero stato costretto a chiedere a Bill e Joe di spostare nello studio un capitello crollato da uno dei corridoi adiacenti.
La sacerdotessa-bambina ci aveva invitati a rivolgerci ai suoi seguaci non morti per qualsiasi necessità, ma io continuavo a sentirmi in colpa a sfruttare le loro qualità di lavoratori indefessi, impermeabili a fame, stanchezza e fatica. Dubitavo fortemente che avessero la facoltà di rifiutare una nostra richiesta. In ogni caso, mi facevo un punto d’onore nel domandare loro qualsiasi favore nel modo più cortese possibile.
“Guardami, Bill” sospirai, sollevando appena la testa. “Sono l’incarnazione del fallimento.”
Non ero sicurissimo che il non morto che mi aveva appena portato il vassoio con il pranzo fosse lo stesso che in precedenza avevo ribattezzato Bill (erano tutti così dannatamente simili, del resto), ma mi sembrava di riconoscerlo dai resti di capelli mummificati che gli scendevano in ciocche cespugliose fino alle spalle e dalla gamba destra, dove la carne marcia si era decomposta lasciando visibili le ossa dal ginocchio in giù.
Bill inclinò lievemente la testa in risposta alle mie parole, fissandomi con il suo solito sguardo vacuo. I suoi bulbi oculari apparivano ancora più pronunciati per il fatto che la pelle del viso si era ritirata fino all’osso, secca e ruvida come le pergamene sotto le mie dita.
“Ho davanti tutta la conoscenza perduta degli antichi maghi di Or, ma non sono in grado di usarla. Questi incantesimi sono molto più complessi di qualsiasi magia io abbia maneggiato finora. Non ce la farò mai ad impararli in tempo per la battaglia.”
“Adesso ti lamenti persino con i non morti?”
La voce che mi aveva risposto non apparteneva a Bill. I non morti non erano in grado di parlare; la loro capacità espressiva si limitava a pochi versi cavernosi e incoerenti di tanto in tanto. Quando li aveva risvegliati, evidentemente, la sacerdotessa non aveva ritenuto necessario fare loro dono del linguaggio.
Il nuovo arrivato era decisamente vivo, e scrutava il guazzabuglio di pergamene sul tavolo con occhio a dir poco critico.
“Ciao Querquen” lo salutai in tono stanco. Cercai di scollare la faccia dalla superficie del tavolo, posando una guancia sul palmo della mano. Mi sarei volentieri abbandonato contro lo schienale se solo il mio sedile improvvisato ne avesse avuto uno.
“Sei venuto anche tu a contemplare la profondità della mia desolazione?”
Il sacerdote alzò gli occhi al cielo ed emise un profondo sospiro.
“Freki mi ha detto che potresti aver bisogno di una mano. Vedo che non stava esagerando.”
In effetti la mia amica era passata un paio d’ore prima per fare due chiacchiere. Purtroppo non aveva idea di come aiutarmi con le pergamene. La sua lingua preferita era il canto delle lame, non i sussurri segreti delle rune arcane.
“Ma neanche tu sai leggere questi incantesimi” obiettai.
Mai come in quel momento mi ritrovavo ad invidiare i chierici e la loro magia divina. Loro non avevano bisogno di studiare nulla: bastava una preghiera veloce alla divinità ed ecco che gli incantesimi fluivano fulgidi e leggeri dalle loro mani. Anche se mi ero sempre domandato come mai la dea di Querquen continuasse ad accordargli i suoi favori, viste le bestemmie con cui il mio compagno sacerdote la buttava giù da qualsiasi Piano fosse la dimora degli dèi con cadenza almeno giornaliera.
“No. Ma posso aiutarti a memorizzare i gesti e le parole. Guidarti nell’esecuzione. Ho la vaga impressione che non siano le capacità a mancarti… “
Passò una mano sul mucchio di pergamene in disordine, soffermandosi ad appiattire i lembi spiegazzati di quelle contro cui avevo combattuto più duramente.
“... ma il metodo.”
“Dici, eh?”
Fece un ampio gesto con la mano, indicando gli scaffali pieni. “Nemmeno il Maestro della Torre riuscirebbe a padroneggiare tutti questi incantesimi in una sola settimana. Dobbiamo fare una selezione. Scegliere quelli che riteniamo più utili e concentrarci unicamente su di essi. Quando saremo sul campo di battaglia non ti servirà a niente avere in testa mille nozioni confuse. Ne basteranno pochi, quelli giusti. Ma dovrai saperli a perfezione.”
Se prima provavo sconforto, dopo questo discorso avevo direttamente voglia di gettarmi sul fondo di un pozzo e non rivedere mai più la luce del sole. Ma Querquen mi teneva inchiodato con il suo sguardo che non ammetteva repliche né vacillamenti, e io non potei fare altro che schiarirmi la gola un paio di volte e annuire con l’espressione di un condannato che si accinge a salire sul patibolo. Avrei voluto possedere almeno un ventesimo della sua risolutezza.
“Il fatto è che mi sembrano tutti utili. Ho paura… ho paura di trovarmi di nuovo davanti a uno di quei draghi e rimpiangere di non aver fatto lo sforzo di imparare quell’incantesimo in più.”
“Lo so.” Scosse lentamente la testa, quasi con tristezza. Con mio stupore, il suo tono di voce si era ammorbidito. “Lo capisco. Ma in questo modo non ne imparerai nessuno, e sarà molto peggio.”
Fece scivolare verso di me il vassoio con il cibo. “Adesso mangia qualcosa. Poi ci metteremo al lavoro.”
Solo in quel momento mi accorsi che Bill era ancora lì impalato, con le spalle curve e le braccia abbandonate lungo il corpo in decomposizione, in attesa di un nuovo comando o di essere congedato.
“Scusa Bill” sospirai. “Temo di doverti chiedere di portare un altro sgabello.”
 
 
Giorno 2
 
“Allora… congiungere il pollice e il medio… poi scandire le parole… “
Un sospiro stanco. “L’anulare.”
“Giusto, l’anulare. Così. La mano all’altezza del petto. Le parole… le parole erano… “
Vuoto siderale. Un abisso spalancato nella mia mente. Guardai nell’abisso. L’abisso guardò dentro di me.
Mi passai una mano sulla fronte. “Forse sarebbe il caso di fare una pausa.”
Un sospiro più profondo. “L’abbiamo fatta dieci minuti fa.”
“Sul serio? A me sembrano ore che… “
Le tazzine tintinnarono minacciosamente quando Querquen colpì il tavolo con un pugno di pura frustrazione. Sobbalzai.
“Vuoi concentrarti, maledizione?”
“La fai facile tu! Tutta questa sequenza di gesti assurdi non ha il minimo… “
“Spiegami una cosa” mi interruppe lui, la voce affilata come una lama. “Passi tutto il giorno a strimpellare il tuo stupido liuto. Quelli non sono gesti complicati? Sequenze da memorizzare? Leggi gli spartiti, non puoi leggere le rune? Cosa c’è di tanto diverso?”
“TUTTO è diverso!” Disgustato, afferrai la pergamena contro cui stavamo sbattendo la testa da ore e la appallottolai tra le dita, stringendo fino a conficcarmi le unghie nel palmo. “Suonare mi viene naturale. Non devo neanche leggerle, le note! Mi basta ascoltare una musica una volta per saperla riprodurre a orecchio, lo faccio da quando ero un bambino! Quello che invece NON sono è un mago, e non lo diventerò certo in una settimana!”
Aprii la mano e la pallina di carta rimbalzò sul pavimento. Con la punta dello stivale la mandai a rotolare sul fondo di un angolo polveroso. Che bruciassero pure tutte quante. Possibilmente insieme all’intero Regno di Or.
Per nulla impressionato, Querquen si alzò lentamente in piedi. Nella sua voce, quando parlò, c’era soltanto il gelo.
“Non eri un bambino. Lo sei ancora.”
Senza aggiungere altro mi voltò le spalle e si allontanò a grandi passi dallo studio.
Sospirai, lasciandomi cadere sul mio sedile improvvisato. Una seccatura in meno, pensai. Ne avevo abbastanza di restare confinato in quella stanzetta priva di finestre a sputare sangue sui deliri di onnipotenza di maghi morti e sepolti da secoli. Chi volevo prendere in giro? Conoscevo tre o quattro trucchetti magici, certo, buoni per affrontare criminali comuni e mostri di poco conto, o per creare effetti scenici durante uno spettacolo teatrale. Ma non sarei mai stato un grande incantatore come un Morsham delle Cripte o un Cortis Vidala.
Non ero l’eroe che la sacerdotessa-bambina pensava di aver visto in me.
Ero scampato alla morte per un soffio fronteggiando uno solo di quei draghi di cristallo. A difendere Valamar ce ne sarebbero stati a decine, insieme a chissà quali altre aberrazioni la mente dell’Imperatore fosse in grado di concepire.
Mi presi la fronte tra le mani, massaggiando le tempie martellanti. Sentii un nodo formarsi all’altezza della gola e mi morsi l’interno del palato per soffocare l’istinto di piangere.
Pensai di alzarmi e fare una passeggiata per i corridoi desolati dell’ala ovest. Avevo bisogno di sgranchirmi le gambe e schiarire la mente. Per qualche motivo, però, il mio corpo rimaneva ancorato a quel capitello capovolto, rifiutando di muoversi. Le ultime parole di Querquen bruciavano ancora, mi tenevano inchiodato sul posto come il proverbiale paletto di frassino conficcato nel cuore di un vampiro.
Sentii dei passi avvicinarsi. Qualche non morto smarrito, probabilmente. Spesso nei loro vagabondaggi si avvicinavano a noi senza alcuna ragione apparente, forse attratti dalla scintilla della vita che ancora pulsava nelle nostre vene, come una falena è attratta dalla fiamma.
Fu l’odore a farmi capire di essermi sbagliato. Non il solito tanfo di carne putrefatta, ma una fragranza gentile di erbe profumate che ormai avevo imparato a riconoscere. Sollevai gli occhi proprio mentre una tazza fumante veniva posata sul tavolo accanto a me.
Querquen era di nuovo lì. Si sedette al suo posto dall’altro lato del tavolo come se niente fosse, vuotando in un sorso la sua tazzina di caffè. Poi la poggiò accanto a quelle già finite nel corso della mattinata. Le contai: cinque in tutto.
Mi decisi a prendere l’infuso, assaporandolo a piccoli sorsi. Sapeva di cannella e di qualcos’altro che non riuscivo a identificare. Calde volute di fumo si sprigionavano dalla tazza, srotolandosi pigramente nel silenzio che si protraeva ormai da diversi minuti.
Sono certo che lui sapesse già che sarei stato io a spezzarlo per primo.
“Ti ringrazio” mormorai. “E ti chiedo scusa.”
Il mio sguardo seguiva le sottili spire di fumo, evitando accuratamente di incrociare il suo.
“Hai ragione tu, sono un bambino. Non sono all’altezza di questa cosa. E tu non devi sentirti obbligato a trascorrere quelli che potrebbero essere i nostri ultimi giorni di vita perdendo tempo dietro a un bardo piagnucoloso.”
“Non riesco a immaginare un modo migliore, invece.”
Lo fissai stupefatto. “Perché?”
Non sembrava arrabbiato. Né sarcastico. Ma era sempre tremendamente difficile cogliere le sfumature nel suo sguardo. Quando lo avevo conosciuto credevo che la sua espressione fosse stata scolpita nella pietra da un artista intenzionato a raffigurare il concetto di disgusto verso il mondo. Ma non ne ero più davvero sicuro.
“Perché ogni incantesimo che riesci a padroneggiare rappresenta una possibilità in più per il bardo piagnucoloso e la sua amica guerriera di uscire vivi dal confronto che ci aspetta. E se posso contribuire anche solo in minima parte… sarà tutto tempo ben speso.”
Abbassai di nuovo lo sguardo, giocherellando con la tazza ormai semivuota. Il calore si conservava ancora lungo la superficie di terracotta. La strinsi tra le dita, assaporando la sensazione gradevole.
L’infuso mi aveva fatto bene. Il pulsare alle tempie si era attenuato, e mi sembrava che il liquido caldo avesse sciolto a poco a poco anche parte del blocco di marmo che mi opprimeva al centro del petto.
“Il sacerdote non è compreso nella lista di persone da mantenere vive a tutti i costi?” domandai.
“Non è così rilevante. Io ho già vissuto a lungo. Ma voi giovani avete il diritto di vedere il mondo che verrà dopo… tutto questo.”
Notai che aveva aperto una pergamena spiegazzata sul tavolo, e vi passava sopra le dita per eliminare le grinze. Riconobbi quella che avevo calciato via nel mio stupido moto di stizza. Quando ebbe finito la lasciò così, senza dire nulla. Senza mettermi fretta. Malgrado il tempo remasse in ogni istante contro di noi.
“Tutti ne abbiamo il diritto” mormorai.
Lentamente, sfiorai la pergamena e la feci scivolare lungo il tavolo verso me. Inspirai profondamente, imponendomi di vincere il disgusto che già mi risaliva dalle viscere.
“D’accordo. Ricominciamo.”
 
 
Giorno 3
 
Ogni sera, non appena il sole tramontava dietro le dune sabbiose, la temperatura all’interno delle rovine sotterranee calava disperatamente. Le torce, poste a intervalli regolari lungo le pareti, illuminavano tutti gli ambienti di una luce magica perenne, ma le loro fiamme erano prive di calore, inutili per scaldarci nelle lunghe, gelide notti del deserto.
Quella sera in particolare il freddo mordeva con la tenacia di un predatore affamato. Infagottato in tre strati consecutivi di mantelli, canticchiai delle semplici parole magiche per evocare una fiammella sospesa tra i palmi delle mani, sospirando di piacere non appena il calore mi lambì le dita e le guance.
La avvicinai anche a Querquen, seduto al mio fianco. “Vuoi favorire?”
Il sacerdote annuì con gratitudine. Aveva un’aria piuttosto buffa avvolto fino al naso nel mio mantello indaco. Il solo fatto che avesse accettato uno dei miei mantelli in prestito bastava a testimoniare quanto il freddo fosse insopportabile quella sera. Querquen storceva sempre il naso davanti al mio modo di vestire. Lo definiva “chiassoso”.
Con la schiena premuta contro una parete che conservava ancora qualche traccia del calore del giorno, osservavamo Freki menare fendenti e stoccate in rapida successione, mulinando le spade in una danza ipnotica e letale. La mia amica aveva recuperato dei manichini da allenamento miracolosamente in buono stato tra i resti di un’armeria semisepolta dalla sabbia, nei recessi dell’ala nord. Adesso, mentre noi restavamo tumulati nello studio a consumarci gli occhi sulle pergamene, lei trascorreva gran parte delle giornate ad affinare le proprie tecniche di combattimento in quel piccolo salone adibito a palestra. Sicuramente la sua battaglia contro il freddo aveva molto più successo della nostra.
“Non mi hai ancora detto cosa ne pensi del mio sonetto.”
Mi ero spostato in modo da tenere la piccola fiamma magica sospesa in mezzo a noi, e Querquen vi riscaldava le dita intrizzite con evidente sollievo. Avrei tanto voluto utilizzare la magia per accendere un falò, ma in quei sotterranei privi di prese d’aria avremmo soltanto rischiato di finire asfissiati come topi in trappola.
“Non saprei che dire” rispose lui dopo un po’. Un affondo ben riuscito di Freki aveva appena mandato uno dei manichini a rotolare contro la parete.
Alzai gli occhi al cielo. “Non dirmi che non lo hai neanche letto. Sono solo quattordici versi.”
“L’ho letto” rispose, stranamente sulla difensiva. “Ma non capisco molto di poesia. Non ho termini di paragone.”
Sospirai. Questa era un’esperienza nuova. Mi era sempre venuto naturale ricorrere ai miei versi e alla mia musica per confortare amici e persone care nei momenti di difficoltà. Quando ci era giunta la notizia della morte improvvisa della Gran Sacerdotessa Shael avevo riflettuto a lungo se fosse o meno il caso di compiere un gesto simile per Querquen. Non ero affatto sicuro che avrebbe apprezzato. Del resto, ogni volta che provavo a cantare o strimpellare due accordi sul liuto, faceva una faccia come se lo avessero costretto a forza a trangugiare litri di acido.
Alla fine mi ero fatto coraggio e avevo scelto la forma poetica più breve che conoscessi. Niente musica, solo pochi versi composti con cura e trascritti su un pezzettino di pergamena che lui aveva accettato con un’alzata di sopracciglio piuttosto diffidente. Non credo che fosse molto abituato a ricevere regali.
“Non si tratta di capire” tentai di spiegare, trasferendo la fiammella da una mano all’altra e seppellendo ancora di più il collo tra i mantelli. “Ma di sorridere, commuoversi, provare sentimenti. L’arte dovrebbe fare proprio questo. Trasmettere emozioni.”
Mi lasciai sfuggire una risatina rassegnata. “Dico ‘dovrebbe’ perché è chiaro che non ci sono riuscito. Almeno per questa volta.”
Un grido e un tonfo sordo risuonarono nella sala. Dandosi la spinta con una giravolta, Freki aveva troncato di netto il manico della lancia di uno dei manichini e ora incrociava le lame sotto la sua gola con espressione bellicosa. Cercai di imprimermi in testa l’immagine per utilizzarla in qualche canzone futura.
“La Gran Sacerdotessa amava le canzoni” disse all’improvviso Querquen, quando ormai credevo che il discorso fosse chiuso. “Ci teneva molto che ci fosse musica in ogni celebrazione, anche nei piccoli riti settimanali. A me sembrava solo un modo per allungare le messe a dismisura e sottrarre tempo a cose più importanti, ma lei non voleva sentire ragioni. E in qualche modo riusciva sempre a dedicare tempo a tutto. E a tutti.”
Il suo sguardo era fisso sulla fiamma tra le mie dita, catturato dai ricordi riaffiorati a tradimento davanti agli occhi della mente. Nella sua voce, ogni angolo e ogni asperità si smussavano quando parlava della Gran Sacerdotessa Shael. Credo che fosse una delle poche persone che stimasse veramente.
“Penso che avrebbe davvero apprezzato quello che hai scritto. Per la speranza che sopravvive malgrado tutto. Come il fiore nell’ultimo verso.”
Non riuscii a trattenere un sorriso. “Allora lo hai letto davvero.”
“Te l’ho detto.”
“Certo” feci danzare la fiammella tra le dita, divertendomi ad osservare gli affondi di Freki attraverso le piccole lingue di fuoco. “E ne sono davvero felice. Però vedi, io lo avevo scritto nella speranza che piacesse a te.”
“Ma è dedicato a lei. Non a me.”
Non finivo mai di meravigliarmi dell’infinita lista di concetti ovvi che ogni volta ero costretto a spiegargli. Di tanto in tanto avevo l’impressione che provenisse da un altro Piano in cui le dinamiche sociali funzionavano in modo totalmente diverso dalle nostre.
“È come per i funerali o le commemorazioni. Non si fanno tanto per i morti, quanto per coloro che restano indietro. Sono un conforto per…” Il suo sguardo dubbioso mi fece capire che mi stavo imbarcando in una battaglia persa. Desistetti. “Lascia perdere” ridacchiai, facendo un gesto noncurante con la mano libera.
“Ti ringrazio, comunque. È stato un pensiero gentile.”
Per qualche secondo trattenni il respiro, convinto che da un momento all’altro sarebbe arrivato un terremoto a spazzare via per sempre le rovine del Regno di Or. Non potevo aver sentito bene.
Se Querquen iniziava a farmi complimenti, forse persino vincere la battaglia per Valamar non sarebbe stato impossibile.
“Ho un’idea” dissi all’improvviso. “Se riesco a imparare in tempo tutti gli incantesimi che ci siamo proposti…” gli puntai scherzosamente un dito contro “... tu ascolterai una mia canzone.”
“Adesso non esageriamo.”
“Dall’inizio alla fine, senza lamentele. E senza le solite facce da martire che sale sul patibolo” rincarai.
Sbuffò, incrociando le braccia. Mi lanciò uno sguardo oltraggiato. Poi emise un lungo sospiro.
“Una di numero” sibilò, con il tono di chi sta compiendo un sacrificio immane. “Breve. La più breve che conosci.”
“Andata.”
 
 
Giorno 4
 
Un mistero che non riuscivo assolutamente a spiegarmi era perché i non morti fossero in grado di comprendere certi tipi di richieste e non altre. Portavano cibo, spostavano oggetti, sollevavano pesi che sarebbero stati impossibili da reggere per un umano normale.
Ma non avevano familiarità con il concetto di lavarsi.
“Acqua calda. Tinozza. Sapone.” Mimai disperatamente il gesto di passarsi una spugna lungo le braccia. Joe continuava a fissarmi dondolando il collo verso sinistra, come una pendola inceppata. Poiché non aveva più labbra, la sua bocca sembrava paralizzata in un perenne sorriso grottesco.
Dopo mezz’ora di tentativi vani fui costretto a desistere.
“Non fa niente, Joe. Vai pure. Scusa il disturbo.”
Raggiunsi i miei compagni al tavolo dove avevamo preso l’abitudine di consumare insieme i pasti. Guardai nella scodella: zuppa di patate. Non so da dove provenissero il cibo e le bevande che i non morti ci servivano ogni giorno, ma la totale mancanza di odori e i sapori estremamente attutiti suggerivano un’origine magica. Tuttavia, bastavano a nutrirci e tenerci in forma.
“La zuppa sì e il sapone no. Che mondo crudele.”
“Guarda il lato positivo” tentò di consolarmi Freki. “Il contrario sarebbe stato un grosso problema.”
Dei tre, lei era quella che sopportava la situazione con maggiore stoicismo. Persino Querquen ammetteva che avrebbe ucciso per la possibilità di fare un bagno. Del resto, la mia amica aveva trascorso l’adolescenza per le strade di Valamar, e malgrado i numerosi anni di servizio nella guardia imperiale non aveva mai dimenticato la durezza degli inizi.
Quanto a me, cresciuto nei confortevoli saloni di un castello, la notte spalancavo gli occhi con la certezza che i granelli di sabbia infilati in ogni piega della mia pelle stessero prendendo vita per divorarmi.
“Se può consolarti, ieri ho provato a chiedere loro una birra. Indovinate come mi hanno risposto.”
Contorsi le braccia in una posa da marionetta e storsi il collo, esibendomi in un’imitazione dello sguardo vacuo dei non morti. Freki ridacchiò in segno di approvazione.
“È incredibile” commentai dopo aver assaggiato qualche cucchiaiata di zuppa, pensieroso. “Fuori sta crollando tutto a pezzi, non sappiamo neanche se tra una settimana saremo ancora vivi… eppure la nostra mente è ancora attaccata alle piccole cose di ogni giorno. Alle preoccupazioni sciocche.”
“Suppongo… che ci aiuti a non impazzire” rispose Freki, pragmatica come sempre.
Annuii. Improvvisamente mi era passata la fame. “Pensi che stiamo prendendo la situazione con troppa leggerezza?” domandai al sacerdote. Ultimamente ricorrevo spesso al suo consiglio, e non solo perché intorno non c’erano molte altre persone a cui chiedere.
Malgrado i modi bruschi, nelle sue risposte c’era sempre un punto fermo, una certezza limpida che aveva il potere di dissipare i miei dubbi e farmi vedere le cose dalla giusta distanza, con serenità. Per qualche strana associazione di idee mi ritrovai a pensare al lord dispotico alla cui corte avevo trascorso gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza. I suoi capricci e la sua mancanza di sensibilità rendevano un inferno la vita di chiunque avesse la sfortuna di capitare al suo servizio. Ecco, io ritenevo invece che Querquen avesse le doti per essere un buon capo. Una guida. Rigoroso, ma con un innegabile senso della giustizia. E la giusta dose di compassione e spirito di sacrificio. Chissà, se fossimo riusciti a vincere la guerra forse sarebbe potuto diventare il nuovo Grande Sacerdote.
Avrebbe soltanto dovuto lavorare sulle sue doti di diplomazia e comunicazione. Ma a tutto c’è rimedio.
Il sacerdote scosse la testa. “No, non lo credo. Tutti abbiamo nostalgia di… prima. E quindi anche delle piccole cose che ne facevano parte. Quelle che ci darebbero una parvenza di normalità. È giusto combattere anche per questo.”
Dietro il suo silenzio si celava tanto altro. La nostra vita di un tempo: una carriera tra le fila della guardia imperiale, o nei ranghi del Tempio di Tanah. Le persone care. Quelle scomparse. E quelle che forse non avremmo rivisto mai più.
Scostai la ciotola ancora semipiena, inghiottendo un improvviso nodo alla gola. Percepivo il pensiero di Isabel strisciare fuori dall’angolo in cui ero stato costretto a relegarlo affinché non mi annegasse la mente in una palude di reminiscenze e sensi di colpa. Mi affrettai a cambiare argomento.
“Tu di quali piccole cose hai nostalgia?”
“Mi accontenterei di poter tornare al mio lavoro.”
Chissà perché la risposta non mi sorprendeva.
“Avrai pur avuto qualche svago” insistei. “Io… ecco, io adesso passerei volentieri un bel pomeriggio alle terme di Valamar.” Socchiusi gli occhi, immaginando la sensazione paradisiaca dell’acqua calda sulla pelle e delle morbide volute di vapore che si sollevavano dalle vasche.
“Io in una taverna” rincarò Freki. “Una qualsiasi. Con cibo vero. E magari della buona musica, come quella del bardo qui presente.”
Le regalai il mio sorriso migliore. “Adulatrice.”
Il sacerdote ci pensò su. “Mi piacerebbe tornare a prendermi cura delle mie piante” disse infine. “E magari completare il mio libro.”
“Stai scrivendo un libro?”
“Un compendio di botanica. Illustrato.” Agitò una mano, come a segnalare che la cosa non aveva poi troppa importanza. “Niente di elaborato. O... artistico.”
“È bellissimo invece.”
Trascorremmo una mezz’ora così. Seduti a chiacchierare come un pomeriggio qualsiasi, senza badare al tempo che scorre. A combattere la paura dell’incertezza e il dolore per le persone scomparse con la magia semplice delle piccole cose.
 
 
 
Giorno 5
 
Ad occhi chiusi, presi un respiro profondo come Querquen mi aveva consigliato.
“Visualizza il luogo con la mente. Cerca di far affiorare più dettagli possibile. Come se volessi descriverlo in una canzone.”
Espirai. Lentamente, un tratto dopo l’altro, usai l’immaginazione come un pennello per dipingere il buio dietro le mie palpebre chiuse.
“Non avere fretta.”
Vidi l’altare al centro della sala quadrata. La pietra sbozzata in modo crudo, il solco circolare in cui avevamo collocato l’artefatto per risvegliare la sacerdotessa-bambina dal suo sonno millenario. L’arancione delle pareti, ancora vivido malgrado lo scorrere del tempo, simbolo della grandezza passata del Regno di Or.
Sottovoce, pronunciai le parole magiche.
La sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco era normale, almeno così assicuravano le istruzioni sulla pergamena. Lo spostamento d’aria anche.
Mi sentii mancare il terreno da sotto i piedi, e trattenni l’istinto di allargare goffamente le braccia per recuperare l’equilibrio. Quell’errore, l’ultima volta, mi aveva fatto rimaterializzare a gambe all’aria contro uno scaffale, che si era inclinato e mi aveva riversato addosso una pioggia di pergamene e ragnatele. Sono certo che, da qualche parte nelle loro tombe polverose, gli antichi maghi di Or si fossero sbellicati dalle risate.
Un rombo maestoso sorse e mi scrosciò nelle orecchie, come se mi trovassi sospeso sulla cresta di un’onda colossale un istante prima di infrangersi sulla scogliera.
“Bene cos… “
L’esclamazione di Querquen fu troncata a metà. Nello stesso istante, il vento si placò.
Non mi ritrovai a testa in giù. L’onda non si era infranta, ma mi aveva deposto con delicatezza sulla riva. I miei piedi poggiavano saldi sul suolo.
Quando finalmente ebbi il coraggio di riaprire gli occhi, la punta della Spada della Torre del Nord era puntata a un centimetro dalla mia gola.
“Che ci fai qui?!” esclamammo io e Freki all’unisono (indovinate chi dei due non riuscì a trattenere un sobbalzo).
Lei si affrettò a rinfoderare l’arma, ed entrambi indietreggiammo di un paio di passi. Alle spalle della mia amica, inconfondibile, si stagliava l’altare di pietra che solo qualche attimo prima avevo raffigurato con gli occhi della mente.
“Meno male che mi sono fermata in tempo. Cos’è successo? Sei apparso praticamente dal nulla!“
“Credo che il termine tecnico sia ‘teletrasportato’”
Freki sgranò gli occhi, e sulle labbra le balenò un grosso sorriso da bambina. “Arjen, ma è fantastico! Quanto lontano puoi arrivare?”
“Quanto voglio. Ma devo conoscere bene il luogo di arrivo.”
“Grandioso. Adesso il Maestro della Torre può solo baciarti il…”
“No grazie!” esclamai, agitando le mani per scacciare l’immagine raccapricciante. Scoppiammo entrambi in una risata incontenibile.
Per un brevissimo, meraviglioso istante fu come essere di nuovo a Valamar prima che il mondo iniziasse a frantumarsi intorno a noi. Seduti nella nostra taverna preferita, a bere e scambiare racconti con gli altri amici e compagni della guardia imperiale. Chiusi gli occhi, aggrappandomi al tepore di quell’immagine spensierata.
Se solo fosse stato possibile teletrasportarsi nel tempo, oltre che nello spazio.
“Teletrasporto. È geniale” commentò ancora una volta Freki quando riuscimmo a riguadagnare un po’ di compostezza. “Molto più utile di una banale palla di fuoco.”
Improvvisamente in imbarazzo, mi passai una mano tra i capelli. “Non tocchiamo quel tasto. Temo di aver incenerito per errore la tracolla con le erbe medicinali di Querquen. Ti prego, non dirglielo per nessun motivo.”
“Cos’è che non dovrei venire a sapere?”
Trasalimmo come due bambini colti sul fatto a ingozzarsi di dolcetti. Il sacerdote era entrato dall’ingresso alle nostre spalle giusto in tempo per ascoltare la confessione delle mie malefatte.
Abbozzai un sorrisetto colpevole: “Avevo intenzione di dirtelo… prima o poi.”
“Stendiamo un velo pietoso.” Querquen scosse la testa con aria di desolata rassegnazione. Poi, nello spazio di un battito di ciglia, ebbi la folle impressione che un angolo della bocca si fosse piegato nell’ombra appena accennata di un sorriso.
“Bel lavoro con quell’incantesimo.”
Mi ero sbagliato. Il sorriso, se mai era esistito veramente, era scomparso come polvere spazzata via da una folata di vento.
“Ma non pensare neanche per un secondo che per oggi abbiamo finito.”
 
 
 
Giorno 6
 
Una linea incandescente delimitava l’orizzonte oltre le dune a ovest. Mi avvolsi nel mantello, consapevole che presto l’aria avrebbe iniziato a pizzicare. Per il momento, tuttavia, mi godevo quel che restava del calore del giorno, ammirando gli ultimi sprazzi di luce disegnare arabeschi nel cielo violetto.
Non mi sono mai ritenuto una persona religiosa, ma la prima volta che avevo visto il tramonto nel deserto mi ero sentito tremare le ginocchia dalla reverenza, ed era stato difficile resistere all’istinto di lasciarmi cadere sulla sabbia e contemplare con stupore la sinfonia di colori sopra di me. Erano così vividi da sanguinare. In nessun luogo del mondo avevo mai ammirato un cielo così vasto e maestoso.
In quel momento, però, alla meraviglia per la bellezza si accompagnava un peso nel petto che mi soffocava il respiro e diventava sempre più insostenibile man mano che gli ultimi bagliori del sole venivano inghiottiti dall’oscurità.
Il sesto giorno moriva inesorabilmente davanti ai miei occhi.
Domani saremmo partiti. Avremmo lasciato le rovine di Or insieme a una sacerdotessa-bambina e al suo strampalato esercito di non morti, per incontrare gli alleati che avevano risposto alla nostra chiamata sotto le mura della capitale. E avremmo combattuto per riprenderci la città e il nostro mondo.
In testa mi vorticavano le centinaia di ballate in cui cantori disperati pregavano affinché il tempo si fermasse, o addirittura iniziasse a scorrere al contrario. Ma non osavo cantarle. Un nodo troppo stretto mi serrava la gola.
Eppure, quando ci eravamo rifugiati nelle rovine sotterranee quasi una settimana prima, mi ero sentito stringere il cuore al pensiero di dover attendere. Avrei voluto che gli alleati potessero essere evocati subito per magia sotto le mura di Valamar, che la battaglia divampasse immediatamente, senza tempo per pensare. O peggio, per esitare.
“Invece adesso vorrei rimanere seppellito qui per sempre.”
“Ma non lo farai” osservò Querquen. Sembrava rassegnato.
La proposta di una pausa dallo studio ovviamente era partita da me. Quel pezzo di architrave crollato in mezzo alla sabbia era l’ideale per sedersi a guardare il cielo nell’unico momento della giornata in cui il deserto non si trasformava in una trappola di fuoco o di gelo.
Il tramonto è un luogo sospeso. Come lo eravamo noi.
“So cosa vuoi dire. Fosse per te ne andresti in battaglia da solo. Così rischieresti la vita solo tu. Non so se ammirarti per questo oppure...” Scossi la testa.
Mi voltai a osservare il suo profilo che si stagliava nella luce morente. Diceva sempre di essere vecchio, ma tra i capelli castani e nella barba curata quasi non si scorgevano tracce di bianco. Conoscevo decine di giovani che non possedevano un decimo della sua energia. Che non sarebbero riusciti a portare un decimo del peso che lui si ostinava a caricarsi sulle spalle. Il sottoscritto era uno di quelli.
“A te non piace combattere. Lo dici sempre.”
“È così” confermai, con una punta di tristezza. “Lo detesto. Ma non c’è scelta. Non stavolta. Se voltassi le spalle ora, i sensi di colpa finirebbero comunque per portarmi alla tomba.”
“Lo so.”
Il cielo iniziava a diventare nero. L’orizzonte e i profili mutevoli delle dune rimanevano sospesi in un indefinito colore grigio sotto la luce fredda delle stelle. Era una sera di luna nuova.
“Perché sei una persona buona” aggiunse poi, all’improvviso.
Sorpreso, riportai lo sguardo su di lui, ma il buio aveva già celato la sua espressione. La sua voce sembrava persa in un ricordo.
“Ci ho messo un po’ per rendermene conto. Quando ci siamo incontrati la prima volta, e il Gran Cavaliere mi disse che voi due avreste dovuto farmi da scorta… diciamo che non ho fatto i salti di gioia.”
“Sì, potrei aver percepito uno sguardo di velata ostilità” osservai con una risatina.
“Hai fatto il tuo ingresso con la divisa smagliante, la spilla in bella mostra e il liuto dietro le spalle. Pensavo che fossi il classico ragazzino bravo a vantarsi a parole e poco altro. Convinto che il suo bell’aspetto basti a fargli ottenere tutto ciò che desidera.”
“Vedo che hai capito tutto con una singola occhiata.”
“Ammetto… di aver giudicato troppo in fretta.”
Il vento freddo iniziava ad aggredire. Provai l’istinto di correre a trovare riparo nei sotterranei, ma sapevo che se mi fossi alzato in quel momento la conversazione sarebbe morta irrimediabilmente lì. Non avrei mai immaginato che l’ultima conversazione interessante della mia vita sarebbe stata con un sacerdote decisamente poco ortodosso in un deserto sperduto ai confini del mondo.
“Su alcuni aspetti, almeno” si corresse, e nonostante il buio fui quasi certo di vederlo sollevare un sopracciglio. “Sono ancora convinto che tu sia decisamente troppo frivolo.”
Non potei trattenere una risata. “Touché. Non l’ho mai negato.”
“Ma sei anche, come dire… una persona luminosa. Se riusciremo a sconfiggere l’Imperatore, dopo ci sarà bisogno del calore e della gentilezza di quelli come te.”
“Luminosa.” Assaporai l’insolito complimento con un sorriso sulle labbra.
Al vento del deserto però non importava che quello potesse essere l’ultimo momento tranquillo della nostra vita. Iniziò a sferzarci il viso e le guance con foga, e infine ci costrinse ad alzarci. Affondai i piedi nella sabbia, strofinando le braccia contro il corpo al di sotto del mantello. Prima di imboccare nuovamente il tunnel per il sottosuolo, mi voltai a lanciare un’ultima occhiata al cielo ammantato di stelle.
“Grazie. Per quello che hai detto. Per… tutto.”
Il peso in mezzo al petto non si era sciolto, e probabilmente sarebbe rimasto lì fino al momento decisivo. Ma in qualche modo mi sembrava più leggero. Sull’orlo del precipizio, a un passo dalla fine di ogni cosa, non ero solo. Faceva tutta la differenza del mondo.
 


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Al mio chierico caffeinomane preferito <3
  
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