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Autore: i_b_    09/05/2020    1 recensioni
Ho scritto questo completamente di getto, senza neanche riguardarlo troppo. Tratto da una storia vera.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il paese dove viveva mia nonna sorgeva intorno a una dolina.
Non so con precisione quando avevo sentito per la prima volta quella parola, ero davvero piccola. Ma ricordo benissimo che era stato mio padre a pronunciarla, per spiegarmi quella curiosa conformazione del territorio. 
Probabilmente molti di voi non l’avranno mai incontrata fino ad oggi, e non appena la leggerete andrete subito su Google a cercarne il significato e a vedere che aspetto abbia una dolina, dato che al giorno d’oggi la tecnologia ci offre questa possibilità.
Io, al di fuori di quel contesto, non credo di averla mai usata. Per rimarrà sempre e solo quel grande buco, simile al cratere di un vulcano spento, un po’ come quello dove sorgono numerosi laghi. Dove dentro però non c’è mai stato un lago o dell’acqua, bensì erba e alberi. E il paese la circondava perfettamente, con le case costruite a strapiombo su di essa.
Ho messo da sempre il paese a confronto con la città dove vivo tuttora.
In città abitavo in un condominio insieme a molte famiglie, e vedevo solamente cemento, traffico, smog.
In paese tutto questo spariva del tutto.
Di automobili praticamente non ne circolavano, e quelle poche che c’erano, erano Fiat Panda o comunque simili a quelle che aveva posseduto mia nonna. Le ho visto guidare prima una Fiat Uno bianca, che precedentemente era appartenuta a mia madre in quanto le era stata regalata per la laurea, e poi una Fiat Punto verde, dal momento che la Uno aveva preso miseramente fuoco. In città non avevo praticamente mai visto quel tipo di auto.
Le strade erano sempre vuote, a qualsiasi ora del giorno. Anche quando ero molto piccola, potevo camminarvi tranquillamente senza dover stare attenta a qualcuno che mi avrebbe potuto investire, o senza dover aspettare il verde del semaforo per attraversare, perché lì non ne esistevano. Esistevano due tipi di strade: quelle asfaltate e quelle dei vicoli, che costituivano il centro del paese, e dove le macchine neanche riuscivano ad entrare.
Il condominio diventava una palazzina di tre piani con sei appartamenti: uno apparteneva a mia nonna, uno alla famiglia di suo figlio, composta oltre a lui, da sua moglie e sua figlia (mia cugina), che risiedevano lì, uno era della mia famiglia e gli altri tre erano affittati.
Alla palazzina si poteva accedere da due ingressi: da un grande cancello dal quale si poteva entrare con la macchina o da un cancelletto, che poi conduceva al portone e alle scale.
L’accesso al cancello per le macchine era consentito solo ai padroni di casa: lei, mio zio, mia zia, e noi.
Nessuno lì si era mai posto nella maniera più assoluta il problema dei ladri, che invece talvolta erano riusciti a entrare nella mia casa di città. Capitava spesso che il cancello delle auto rimanesse aperto, eppure nessuno è mai venuto a rubare nulla in quella casa.
La casa si trovava in cima ad un colle, in una posizione leggermente isolata. Per raggiungerla, bisognava percorrere un lungo tratto di salita abbastanza ripido, dal quale si poteva ammirare benissimo il paese e le montagne che lo circondavano. Proseguendo lungo di essa, si giungeva in una specie di luogo ai confini del mondo: un punto panoramico con uno strapiombo, dove sorgeva una chiesa che dava il nome al colle.
In paese, c’erano due elementi che in città avevo sempre immaginato: un giardino davanti casa e gli insetti.
La fauna entomologica era talmente vasta da fare invidia a una collezione. Api, mosche, vespe, zanzare, ragni, coccinelle, grilli, enormi quantità di formiche. Quando mai in città sarei mai riuscita a trovare tutti quegli insetti così diversi, tutti insieme nello stesso posto?
In città non avevo mai avuto un grande spazio dove poter giocare. In paese invece, c’era il cortile della casa. Vi si accedeva solamente tramite il cancello delle auto, dopo aver percorso un breve tratto in salita. Era largo ma non eccessivamente lungo. La prima metà del suolo era lastricata. In quel punto si trovava un altalena di ferro verniciata di verde, dove avrò passato un'infinità di ore, desiderando di spiccare il volo verso il cielo. L’altra metà era invece divisa in due zone: una erbosa e una rivestita di cemento, con del brecciolino sul quale probabilmente mi sono anche sbucciata qualche ginocchio.
Dalla zona erbosa si poteva accedere all'orto, alla vigna e al pollaio di mia nonna.
Lei aveva sempre posseduto molti terreni, sparsi un po’ ovunque intorno al paese, che andava a coltivare saltuariamente, ma l’orto e la vigna davanti alla casa erano quelli dove andava praticamente tutti i giorni.
Nell'orto, a cui probabilmente l’accesso mi veniva impedito per paura che calpestassi le sue piantine, venivano coltivati pomodori, zucchine e insalata, mentre i grappoli d’uva della vigna sarebbero diventati vino. Successivamente, avrei ritrovato tutto ciò sulla tavola, durante i pasti. E nonostante mio padre non abbia mai apprezzato del tutto quel vino, alla fine un sorso se lo beveva sempre.
Si accedeva al pollaio tramite un sentierino sul lato sinistro del cortile, che correva parallelamente alla recinzione che separava la casa da quella accanto. Scendendo, lo si trovava sulla destra. Era un edificio di pietra, con il soffitto non troppo alto. Non appena si apriva la porta, un forte odore di animale penetrava nelle narici, e ci si ritrovava subito circondati da piccioni, galline, polli e conigli. Non sono entrata molte volte in quel pollaio, e quasi sempre quando ero piccola. Crescendo, non mi ci sono più avvicinata. Ma non perché avessi paura, semplicemente una volta scoperto cosa c’era dentro, non ho più avuto la curiosità di tornarlo a vedere.
Guardando la casa, l’appartamento di mia nonna era al piano terra, sul lato sinistro.
Vi si poteva entrare da due lati: dal cortile e dalle scale. Io entravo sempre dal cortile. La prima stanza che si incontrava era una cucina, o forse una cucina che allo stesso tempo era un salotto e una sala da pranzo.
Sul lato destro, c’erano numerosi scaffali di legno, dove venivano conservati pasta e biscotti, un piano cottura e un lavello.
Esattamente in mezzo alla sala c’era un tavolo da pranzo rettangolare, e sul lato sinistro c’erano invece un frigorifero, un camino (che non è mai stato usato, non ho mai capito per quale motivo), uno scomodissimo divano verde e un televisore, e nelle stagioni fredde, una stufa di ghisa che riscaldava la stanza in maniera davvero efficace.
Sulla parete opposta all'ingresso, c’era la credenza mistica delle nonne: quella piena di caramelle, dove lei conservava lettere, santini, ricette del dottore, piatti e tovaglie.
Per me il pranzo di nonna si è sempre svolto lì. Diciamo che ho sempre avuto una sorta di amore-odio per quello che cucinava. Alcune cose mi piacevano tantissimo: la pasta col pomodoro, le lasagne, le polpette ripassate al sugo, le frittate fatte con le uova delle sue galline. Ma quando mia nonna portava in tavola il secondo, per me iniziava la tragedia. Per lei il secondo era solo carne, non credo di aver mai visto pesce su quella tavola. Ma non era una carne qualsiasi: si trattava quasi sempre di quella dei suoi polli o dei suoi conigli. Solo a vederla e a sentire l’odore mi passava l'appetito, l'avrò assaggiata una sola volta e da quel momento mai più. Mentre non ho mai avuto problemi con bistecche, fettine, carne rossa in generale, quella non la volevo vicino a me nella maniera più assoluta. Tra l’altro, per svariati anni nella mia vita, ho avuto seri problemi con la carne di pollo, penso di averla ricominciata a mangiare tranquillamente da pochi anni (e quando è possibile, cerco di coprire il suo sapore con la salsa piccante): qualche trauma infantile che ho faticato un po’ a rimuovere?
Dal salotto/cucina/sala da pranzo si accedeva ad un breve corridoio che conduceva ad una grande sala, interamente rivestita di legno, dove c’era un mobile pieno di scaffali con tutti i libri del liceo di mia madre e di mio zio e un grande tavolo, che veniva allestito solamente per i pranzi di Natale o di Pasqua. Lungo le pareti di questa sala, c’erano le porte che conducevano alle altre stanze: due camere da letto e un bagno.
In quella casa c’era sempre un qualche odore particolare, ma associabile fondamentalmente a due categorie: di cucinato, proveniente da una delle pentole che puntualmente bolliva sul fornello, o di legno.
In corridoio c’era anche la porta di accesso alle scale del palazzo. Dopo averla varcata, scendendo di un piano si trovava la cantina di mia nonna. Un luogo oscuro e umido, dove aleggiava un forte odore di chiuso.
Era a tutti gli effetti il suo laboratorio creativo: al centro si trovava un gigantesco tavolo di freddo marmo, dove venivano impastate uova e farina. Il risultato veniva successivamente messo nella macchina, e ruotando la manovella, si sarebbe trasformato in sfoglie, usate per preparare lasagne, o in tagliatelle.
Sulle pareti della cantina, vi era un grande quantitativo di oggetti. Sicuramente una macchina che spremeva i pomodori, e la salsa ricavata veniva usata come condimento per la pasta o le polpette.
Poi, pile di barattoli di vetro vuoti, cianfrusaglie da giardino, accatastate tutte senza un senso. E per finire, un grande quantitativo di enormi damigiane di vino.
Il nostro appartamento si trovava alla destra di quello di mia nonna. Essendo costruito esattamente uguale ad esso, prevedeva sempre un accesso alle scale e uno sul cortile. Ed era completamente diverso da quello dove vivevo in città.
Per prima cosa, si incontrava la cucina/salotto/sala da pranzo. Poi, grazie ad un corridoio, che nel caso nostro era verniciato interamente con un color rosa pesca, si accedeva alle altre stanze: una che chiamavo “la stanza di là”, caratterizzata da un’enorme tavolo di legno scuro al centro di essa, che veniva usata principalmente per riporre oggetti e che era perennemente gelida in tutte le stagioni dell’anno, un solo bagno e due camere da letto, una per i miei genitori e l’altra per me e mia sorella.
Nel mio appartamento di città c’è sempre stato il caos più totale e pile di roba ammucchiata ovunque. Al contrario, l’appartamento che era nel paese era sempre stato eccessivamente vuoto e spartano, si poteva addirittura sentire l’eco della propria voce in quelle stanze vuote.
Un’altra cosa che nel paese non c’era era la tecnologia: sembrava quasi che gran parte della civiltà lì non fosse arrivata del tutto.
Per dire, per anni non c’è mai stato un posto dove prendesse davvero bene il telefono. I ripetitori sono stati installati quando avevo 16 anni, e solo da quel momento in poi ho iniziato a poter chiamare tranquillamente usando il cellulare.
Neanche il computer: non ce n’è mai stato uno, al contrario della nostra casa in città, dove ne avevamo uno fisso e almeno uno portatile.
Non so esattamente quando sia stata la prima volta in cui sono andata in quel paese.
Esiste nella mia vita da sempre, da che ne ho memoria lui c’era.
Bisogna però considerare due fasi: il “prima”, fino ai miei 13 anni e il “dopo”, dopo i miei 13 anni.
Nella fase “prima”, andavamo al paese nelle seguenti occasioni: nei weekend, per le vacanze di Natale, per quelle di Pasqua e durante l’estate.
Andavamo a trovare mia nonna praticamente tutti i weekend. Non sto scherzando. In ogni stagione, che ci fosse il sole, la pioggia o il vento. Partivamo il sabato mattina, e dopo circa 150 km e quasi due ore di macchina, eravamo arrivati.
Non ricordo esattamente cosa accadesse in quei momenti, ma so solo che le domeniche a un certo punto mi addormentavo profondamente sui sedili della macchina, e quando mi svegliavo, era sera ed eravamo ritornati in città.
Fino ai miei 17 anni, ho passato tutti i miei Natali e tutti i miei Capodanni lì.
Rimanevamo dalla chiusura delle scuole per le vacanze alla Befana.
D’inverno, in quel paese, faceva veramente freddo, talvolta è anche capitato che nevicasse. Il freddo della città non era minimamente paragonabile a quello. Tra l’altro, mentre la nostra casa di città era mantenuta ad una temperatura normale dai termosifoni, in paese l’unica fonte di riscaldamento era un camino che si trovava nel salone.
Al nostro arrivo in casa, che era gelata, seguiva immediatamente la sua accensione, che impiegava qualche giorno per riscaldarla completamente. Purtroppo però, la cameretta dove dormivo, dall’altra parte della casa, non riusciva a riscaldarsi abbastanza, infatti a un certo punto è stato necessario installare un termosifone elettrico. Per combattere il freddo dormivo con i pigiami di pail (mai usati in città), sotto un coltrone immenso, raggomitolandomi per cercare di scaldarmi.
Durante quei periodi invernali, per molti anni sono andata a sciare. Mio padre da giovane aveva praticato sci di fondo, ma purtroppo, da quando aveva messo su famiglia, aveva perso quest’abitudine. Cercava così di rifarsi in quei momenti, sperando di riuscire a trasmettere qualcosa alle sue figlie: aveva comprato un paio di sci per me e uno per mia sorella, e quando vedevamo che le montagne si imbiancavano, prendevamo la macchina e ci dirigevamo sulle piste.
Non era esattamente la “settimana bianca” sulle Dolomiti che probabilmente faceva la maggior parte dei miei compagni di scuola: il nostro profilo come sempre rimaneva basso, ma io mi accontentavo. Mi divertivo un mondo a toccare la neve, a muovermi con un paio di sci ai piedi o salire su uno slittino e scivolare.
Le vacanze estive però erano i momenti più belli in assoluto, quelli di cui ancora oggi conservo chiaramente quasi tutti i ricordi.
Non appena a giugno si chiudeva la scuola, lasciavamo la città per due mesi e ci stabilivamo lì, senza mai tornare, fino ai primi di settembre, interrompendo il nostro soggiorno solo per una settimana esatta, durante la quale andavamo al mare.
La giornata si svolgeva sempre nella stessa maniera: sveglia, uscita in paese, giornaletto comprato da mia nonna (ho riempito un intero vano di un mobile con i giornaletti che si sono accumulati nel corso degli anni), pranzo, pomeriggio, serata in paese.
Quasi ogni sera, c’era una sorta di intrattenimento musicale per la gente che ripopolava il paese durante la stagione estiva. Esse potevano svolgersi in due posti: la piazza principale o un’altra piazza, dove c’era un giardino pubblico con altalene e scivoli. Passavo la maggior parte di quelle serate in compagnia dei miei genitori, che mi accompagnavano lì a piedi. Non ho mai conosciuto i ragazzini della mia età che giocavano lì in quelle occasioni: non mi è mai interessato.
Il resto della giornata lo passavo con mia cugina L., di un anno più piccola di me.
L. abitava nella casa a destra rispetto alla nostra. Si trattava della figlia di una cugina di mia madre: per anni l’ho definita cugina di secondo grado, ma non so se effettivamente fosse quello il corretto grado di parentela.
Lei, per anni, è stata la mia sola e unica compagna di giochi durante quelle lunghe e calde estati. Passavamo interi pomeriggi insieme. A giocare a pallavolo, e puntualmente capitava che la palla finisse in mezzo all’erba alta, e io e lei dovevamo fare a turno su chi dovesse andarla a prendere, oppure a parlare di quella grande passione che ci accomunava: i cartoni animati.
Era la prima metà degli anni ‘2000, i tempi in cui gli eroi Giorgio Vanni e Cristina D’Avena erano giovani e belli.
Anche in città guardavo molti cartoni animati, ma durante quelle estati ne avrò guardato a decine: non mi perdevo mai una puntata e conoscevo tutte le sigle a memoria.
Cominciavo la mattina (ricordo principalmente “Kiss me Licia”), continuavo a ora di pranzo, sullo scomodissimo divano verde di mia nonna, sintonizzata su Italia 1 con “Dragon Ball” e “Detective Conan” e terminavo il pomeriggio a casa mia, spaziando anche su Rai 2.
E subito dopo, correvo da L. Eravamo divise da una semplice ringhiera e da una rete di plastica verde, che nel corso degli anni si era afflosciata: mi bastava la mia agilità di bambina per scavalcarle entrambe e ritrovarmi nel giardino di casa sua.
Sono sempre stata una scassa cazzi. Ero sempre io che andavo da lei e che invadevo la sua proprietà, non ricordo di una volta che lei sia venuta a casa mia.
Il nostro cartone preferito era “Mew Mew amiche vincenti”, e ci piaceva lo stesso personaggio. Ma nonostante questo, tra di noi non si erano mai create lotte o conflitti. Quante ore abbiamo passato a raccontare storie, a fantasticare su quei personaggi, che prendevano vita prima sullo schermo del televisore e poi nei nostri mondi immaginari. Decisamente troppe.
Le mie compagne di classe delle elementari si sentivano già grandi. Guardavano telefilm con attori veri (su Disney Channel. Io, non avendo mai avuto Sky, non ho mai potuto guardare roba tipo “Raven” o “Zack e Cody al Grand Hotel”… forse anni dopo, quando erano stati replicati su Italia 1), mi hanno preso in giro per molto tempo perché guardavo i cartoni animati, piangevo quasi ogni giorno e quindi andavo a giocare a pallone con i maschi, che mi accoglievano sempre in squadra anche se ero una vera schiappa.
Con L. invece era diverso: ci capivamo alla perfezione, ed eravamo davvero sulla stessa lunghezza d’onda. Mi godevo appieno quei due mesi dell’anno passati con lei: solo in quei momenti, riuscivo ad avere un’amica che mi capisse davvero e con cui trascorrevo dei bellissimi momenti.
Non mi rendevo conto però del tempo che passava crudele, e che troppo presto ha dovuto mettere una fine a tutto ciò.
Quando ho compiuto 13 anni, è iniziata la fase “dopo”.
Per via di mia sorella, sono stata iscritta agli scout, e abbiamo iniziato ad andare al paese sempre meno. I weekend li passavo in città, impegnata con le riunioni o le uscite, i periodi in cui andavamo al paese rimanevano le vacanze di Natale, di Pasqua e l’estate, ma solo il mese di agosto.
Sia io che L. eravamo cresciute, e in un attimo, ci siamo trovate al liceo.
Ha iniziato a coltivare i suoi interessi, a vivere la sua vita e, giustamente, a passare molto tempo insieme ai suoi amici, e credo anche ai suoi primi fidanzati. A un certo punto, è praticamente uscita dalla mia vita.
E io ho iniziato a sentirmi una sorta di corpo estraneo in quel paese.
Mentre i miei coetanei passavano delle bellissime vacanze e facevano viaggi in posti fantastici, per me i lunghi e caldi pomeriggi estivi iniziavano lentamente a pesarmi come dei macigni.
Erano finiti i tempi dei giochi, e alla tv trasmettevano molti meno cartoni animati. Mi sentivo come un leone in gabbia, costretta a stare in quella casa perché i miei genitori, per motivi economici, per via della loro monotonia o della loro poca voglia di adeguarsi alla società, non avevano mai proposto di andare a vedere qualche nuovo posto in Italia (non parliamo proprio dell’estero: penso che mia madre abbia preso un aereo una sola volta in tutta la sua vita).
Le mie estati si erano tramutate in degli incubi senza fine.
Quante volte ho pensato che restare in città, dove avevo un computer e una connessione internet, sarebbe stato di gran lunga migliore.
In quei periodi, ho iniziato a conoscere meglio la figlia di mio zio, mia cugina A., che però era coetanea di mia sorella. Non che tra me e A. ci fossero così tanti anni di differenza, ma loro due si trovavano decisamente di più.
Alla fase “dopo”, si può dire che sia susseguita un’ulteriore fase: quella dell’abbandono.
Intorno ai miei 16 anni, mia nonna aveva iniziato a stare poco bene di salute. Aveva vissuto da sola per molti anni, dato che mio nonno era mancato quando ero piccola, ma a un certo punto ha iniziato a non farcela più. Durante il mio ultimo anno di liceo, si alternavano periodi in cui lei veniva in città, per sottoporsi a delle cure e si appoggiava momentaneamente a casa nostra, ad altri in cui era mia madre che partiva e badava a lei per intere settimane. Mi ricordo benissimo di quei periodi: a casa da sola con mio padre (a cui ho sempre voluto un bene dell’anima, e che per fortuna mi ha dato una grande mano, dal momento che era lui a portare i soldi a casa), con mia madre lontana e mia sorella che purtroppo, o per fortuna, si godeva la sua adolescenza. Mi sentivo addosso tutta la responsabilità della famiglia, ero io che cucinavo e pulivo, e in contemporanea studiavo per l’esame della maturità.
Poi, qualche mese dopo, la mattina del 30 dicembre, ricevetti un messaggio da parte di mia cugina A..
Ricordo benissimo il momento: stavo guardando “Inside Out”, e il giorno dopo sarei dovuta partire per passare il Capodanno con degli amici.
“Nonna non c’è più”. Un tumore che, giorno dopo giorno, si era impossessato completamente di lei, e che alla fine se l’è portata via.
Da quel messaggio, la mia vita è cambiata completamente.
Tutto il mondo legato a lei, al paese, si è sbriciolato completamente.
Ho visto mia madre invecchiare di colpo, ho iniziato a stare male con me stessa, e a sentire la mia famiglia stretta.
Nel giro di pochi anni, la mia vita è letteralmente cambiata, più di quanto non fosse cambiata fino a quel momento.
Io non sono più tornata lì.
Sono iniziate a sorgere una serie di problematiche legate alla successione, e bisognava capire cosa fare di tutti gli oggetti che erano rimasti a casa di mia nonna.
Che dopo qualche tempo, è stata affittata a dei perfetti sconosciuti, che, a detta di mia madre, hanno deturpato completamente quel luogo, che era stato così importante durante la mia infanzia.
Il nostro appartamento si è trasformato una sorta di magazzino inagibile.
La mia famiglia ha sempre avuto una grande difetto: non siamo mai stati capaci di buttare nulla.
Se nella casa dove vivo tuttora c’è sempre stato il caos più totale, è stata sempre e solo colpa nostra. Non siamo in grado di separarci dai nostri oggetti, anche da quelli più inutili.
Dopo anni di roba accumulata, praticamente senza rendercene conto, eravamo però arrivati a un punto in cui il nostro difetto più incurabile ci aveva fatto impazzire. I miei genitori hanno deciso così di portare al paese gran parte di quegli oggetti, e di riporli momentaneamente dentro la nostra casa, insieme a tutto quello che prima era dentro l’appartamento di mia nonna.
L’ultima volta che sono andata lì è stato circa sei mesi fa.
Ho colto dei grappoli d’uva dai tralci in giardino, ho visto immense pile di roba vecchia che occupavano quelle stesse stanze della nostra casa che un tempo erano vuote, riempiendole completamente, ho dormito in quella che una volta era la mia cameretta, e che adesso è occupata da ciarpami che rendevano difficile persino salire e scendere dal letto.
Ho voluto dedicare qualche pagina di Word anche a quel paese, che nel bene e nel male, è stato uno dei protagonisti principali della mia vita.
Con il giusto pizzico di malinconia.

 
   
 
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