Ombre strette
nel raso verde
I'm falling
In all the good
times I find myself
Longing for
change
And in the bad
times I fear myself
(Shallow, A star
is born OST)
I
L’abito
color smeraldo
Londra,
primavera 1857
Il
pendolo batté le sei di pomeriggio e fu quello il preciso
istante in cui Loki alzò
lo sguardo dal tavolo ingombro di fiale e boccette, posò la
penna nel calamaio
e si ritrovò a stirare le labbra in un sorriso sbieco e
laterale, compiaciuto.
Controllò l’orologio da taschino per sincerarsi
che quello alla parete non gli
avesse mentito e poi, semplicemente, fece quanto doveva: chiuse gli
appunti che
teneva sempre con sé, s’infilò il
soprabito, prese il cappello e uscì senza
voltarsi indietro. Lei,
probabilmente, a quell’ora stava ammirando la sua immagine
riflessa nello
specchio in cerca del dettaglio stonato, dell’imperfezione.
Loki Odinson si
concesse un ghigno breve a quel pensiero.
La
delicata e bionda Sigyn non avrebbe trovato niente che non andasse,
scrutando
il suo doppio imprigionato oltre la superficie riflettente. La sua
pelle chiara
avrebbe spiccato irrimediabilmente sul magnifico abito color verde
smeraldo che
le fasciava il busto con assoluta precisione, accarezzando le sue forme
femminili,
soffermandosi sulla curva dolce dei seni, sulla vita stretta dove una
volta
aveva osato posare le dita – lei aveva sussultato sorpresa,
ma non si era
ritratta – per poi dipanarsi nelle volute
dell’ampia e fluttuante gonna.
Avrebbe
raccolto la sua chioma bionda in un’acconciatura sofisticata
in grado di
lasciarle scoperti ed esposti il collo elegante e la nuca? Oppure
alcune
ciocche si sarebbero arrotolate fin sulla scollatura ampia e generosa?
Che
incantevole capolavoro aveva
creato.
Salì
in carrozza con un movimento fluido e scandì
l’indirizzo con voce ferma, per
farsi udire dal cocchiere infradiciato e, mentre le ruote correvano
veloci
sull’acciottolato di una Londra lucida e buia già
ghermita dalla notte, si
concesse di stringere tra le mani il pomello intarsiato del bastone, di
poggiare le spalle larghe, ma tese, sullo schienale. Era pazzo.
C’è
un prezzo da pagare per ogni cosa, anche per la vendetta e
l’amore e la morte.
Gli
tornò in mente la vecchia nenia
che una strega di New Orleans gli recitava nel quartiere francese,
mentre
invocava i fantasmi di una terra perduta e lontana – come la
sua – indecisa,
fino all’ultimo, se svelargli gli intrugli creoli, le formule
magiche e i
misteri che rendevano più oscuro il Nuovo Mondo. Stregonerie
che Loki avrebbe
sommato a quelle, altrettanto antiche e insidiose, apprese in India e
in
Oriente, in mezzo ai fumi dell’oppio. Chiuse gli occhi
mormorando a mezza voce
una formula perduta in una lingua dimenticata e morta, ma
l’invocazione,
anziché calmarlo, gli regalò una consapevolezza
nuova e terribile. Per quanto
il corrispettivo che aveva deciso di pagare fosse ignobilmente alto,
lui era
disposto a versarlo con l’acuta freddezza con cui aveva fatto
ogni cosa, svolto
qualsiasi compito, ingannato anche il destino avverso. Il suo spirito
affamato
era incapace di farsi bastare quello che aveva e mirava sempre in alto,
all’irraggiungibile conoscenza perduta negata agli uomini da
un cielo impietoso.
Non era capace di accontentarsi del destino che taluni definivano
benigno che,
pure, gli era toccato in sorte, non lo era affatto. Piegò le
labbra sottili in
una smorfia, quando finalmente la carrozza si fermò di
fronte al sontuoso
portone d’ingresso della bella dimora londinese di Lady
Vanheim.
Loki
attraversò l’atrio con
l’elegante sicurezza che gli era propria, sostenendo
fieramente gli sguardi
incuriositi e sospettosi degli altri invitati. La sua comparsa
incrinò il
sorriso divertito di Lady Freya, congelò per un momento le
battute e le risate
dei gentiluomini e delle gentildonne presenti. Fu Thor il primo e il
solo ad
avvicinarsi.
“Non
dovresti essere qui. La tua presenza suona come sgradita, inopportuna e
persino
offensiva.”
Gli
puntò addosso i suoi occhi quasi trasparenti.
“È un piacere vederti anche per
me, fratello.” Lo disse ghignando, senza mascherare affatto
la punta di scherno
racchiusa nella sua bella voce vibrante, crudele. Spostò lo
sguardo sulla sala
affollata in cerca della ragione che giustificava la sua presenza. Si
leccò le
labbra, trovandola.
Se
solo le sue intenzioni fossero state meno spietate.
Lei
era bella da far male ed era esattamente come l’aveva
immaginata. L’abito, di un
verde acceso, accarezzava davvero ognuna delle sue forme sinuose, tanto
da far
quasi risplendere la sua carnagione sana e rosata; le ciocche bionde,
diligentemente arricciate, scendevano con delicata grazia sulle spalle
appena
scoperte, lasciando nudo il collo. L’unico dettaglio non
considerato era il
nastro di raso nero da cui pendeva un ciondolo d’agata verde
– un gioiello
perfetto, antichissimo: un regalo che aveva osato farle pensando che
sarebbe
rimasto dentro uno scrigno smaltato di bianco, nella sua stanza di
ragazza. Invece,
era stata tanto sfrontata da indossarlo, quasi sapesse che non avrebbe
avuto
nessun’altra occasione per posarlo sulla propria pelle.
Proveniva dal corredo
funebre di una strega veggente, una profetessa danese morta mille
anni prima,
protagonista di una storia oscura di cui era rimasta una sola traccia
in un’antica
saga giunta incompleta.
Lei
era bella da mozzare il respiro e trattenne il suo, quando
incrociò i suoi
occhi verdi e lupeschi. Non gli sorrise, non poté, sarebbe
stato oltremodo
sconveniente, ma schiuse le labbra piene e perse per un momento il filo
del
discorso che stava intrattenendo. Loki riuscì a indovinare
il fremito che
l’aveva scossa nel bagliore rapido capace di illuminarle, per
un istante, lo sguardo
grigio. Ricordò il profumo dolce della sua pelle,
intuì la morbidezza della sua
bocca – no, bugia, quella già l’aveva
assaggiata nel silenzio della notte,
mentre lei affondava le dita nella massa nera e scomposta dei suoi
capelli e
gli sussurrava sulle labbra che aveva paura di loro, di quello che
c’era ed era
nato senza che lo volessero. Tremava e aveva le mani gelate e Loki si
era tolto
il soprabito per posarglielo sulle spalle sottili. Anche quella notte
le sue
dita sarebbero state fredde, ma lui non avrebbe potuto fare nulla per
scaldarle.
Nel
Regno dei Morti c’è un girone
fatto apposta per chi inganna e mente come te, Lingua
d’Argento. Uno dove la
tua anima brucerà fino alla fine dei tempi e anche oltre, in
eterno.
Bevve,
cacciando via la voce del fantasma di suo padre – Lord
Odinson, immobilizzato
dalla gotta e mezzo cieco, che lo malediceva prima che partisse per le
Indie,
che gli scriveva mentre si ubriacava d’assenzio a Baltimora,
che gli mandava
oscuri messaggi mai aperti abbandonati presso una casella di posta di
New
Orleans. Al suo ritorno in Gran Bretagna, Thor lo aveva condotto nella
cripta
di famiglia per fargli vedere la lapide. Si era messo a fissarlo
cercando sul
suo volto i segni della commozione, anzi, di un pentimento tardivo o,
meglio
ancora, di una rappacificazione con lo spirito volitivo e crudele del
defunto.
Si era fermato di fronte al suo sguardo liquido, alla mascella che
tremava, all’ira
che aveva scosso il suo corpo asciutto, arrendendosi momentaneamente
all’idea
di averlo smarrito in qualche tempio indiano, in una sala
d’oppio a White
Chapel, nelle paludi della Louisiana o dietro qualsiasi altro segreto
oscuro;
Loki glielo aveva lasciato credere. La realtà, in fondo, non
è che un mero
punto di vista.
Si
avvicinò a Sigyn, nonostante tutto. Si liberò
della presa del fratello che
ancora gli stringeva la spalla e, ignorando gli sguardi degli ospiti
che si
posavano su di lui, straniero in patria, le si accostò. La
vide arrossire
lievemente, scorse il seno stretto sotto il corsetto color smeraldo
alzarsi e
abbassarsi ansioso. Desiderò posare le labbra sulla pelle
morbida e invitante
della scollatura, spogliarla di quell’incanto d’un
verde brillante fatto
apposta per lei, tinto di quella particolare sfumatura solo per la
serata che
stavano vivendo. L’avrebbe ricordata così per
sempre, pensò. Con quella
maschera di determinata disperazione addosso che solo lo sguardo
liquido e
grigio tradiva.
Oh
Sigyn, era l’unico modo.
Thor
avrebbe detto che non era vero. Non si sarebbe fatto scrupolo alcuno
nell’accusarlo di essere un pazzo egoista, che
l’Asia e i Tropici avevano
irrimediabilmente corrotto, come sempre succedeva ai cadetti inglesi,
costretti
dalle Compagnie a vivere presso oceani troppo caldi e in terre assolate
eppure
misteriose. Il vecchio Odino diceva, senza mezzi termini o filtri, che
la sua
follia non era da imputarsi ai lunghi viaggi che lo avevano tenuto
lontano
dalla Gran Bretagna per quasi dieci anni, ma aveva il suo seme altrove,
nel
sangue. Sì, Lord Odinson soleva spesso sedersi
accanto al camino acceso,
con i suoi due segugi accucciati ai piedi e un bicchiere di porto in
mano, a
raccontare di come il sangue magiaro per parte di madre che scorreva
nelle vene
di Loki lo avesse[1],
alla fine, infettato, regalandogli uno spirito inquieto e ribelle,
incapace di
accontentarsi dei privilegi legati al suo nome. Era stato per evitare i
continui contrasti e punirlo per le sue sregolatezze che lo aveva
mandato in India
e poi in America, a cercare le stoffe più pregiate, il
cotone migliore, a
scoprire le ricette antiche che permettevano di ottenere tinte
brillanti e
vivaci.
“Il
vostro ultimo cavalier servente già vi lascia
sola?” Loki si permise di
squadrarla in maniera sfacciata e lei alzò leggermente il
mento, sostenendo
quello sguardo intenso, lupesco.
Sigyn
piegò la testa di lato. “È nella
biblioteca, con mio padre e mio fratello.
Potete raggiungerlo, se lo desiderate,” lo
stuzzicò.
Una
risata breve. “Temo non sarebbe un incontro piacevole per
nessuno. È di tuo
gradimento?” aggiunse, riferendosi all’abito.
La
ragazza fu colta da una lieve esitazione e la sua sicurezza venne meno.
“Il
raso più bello, il colore più acceso.”
Loki
dondolò distrattamente il bicchiere. “Ha un
prezzo.”
Le
labbra di lei fremettero. “Come ogni cosa,
suppongo.”
“No,”
scosse la testa l’uomo, “tu non sai.”
Sigyn
lo guardò intensamente, ma non rispose nulla.
Sfiorò con le dita il ciondolo, come
se il gioiello potesse darle la forza di pronunciare un’altra
battuta
ammiccante e faceta. Il brusio di sottofondo apparentemente innocuo che
li
circondava – avvolgeva – era creato da uomini e
donne in cerca di un nuovo
pettegolezzo che li riguardasse. Lei era l’eterea erede
d’un conte, lui lo
scapestrato figlio d’un duca morto maledicendolo –
o implorando che tornasse.
Se solo il sorriso laterale di Loki non fosse stato così
carico d’una oscura
bellezza, forse Lord Vanir gli avrebbe concesso la mano della sua unica
figlia
femmina, nata quando la giovinezza era ormai un ricordo lontano; si
sarebbe
sforzato di considerarlo meno pericoloso di quanto gli era sembrato,
arrivando
a permettergli di corteggiare la molto amata e spesso insofferente
Sigyn. Ma
questo non era successo e lei, curiosa di sapere com’era il
mondo, impaziente
di vivere, si era avvicinata a quell’inglese quasi straniero
sventolando graziosamente
un ventaglio, domandandogli come fossero le Indie e le Americhe. Loki
l’aveva
soppesata con quei suoi occhi verdi e penetranti, per poi affascinarla
con un
discorso divertente e brillante, che nascondeva, al suo interno,
qualcosa di
cupo, il riflesso di chissà che considerazione affilata.
Sigyn, scorgendo una
simile ombra, aveva agitato con più vigore il ventaglio per
nascondere
l’agitazione oscura e annichilente che le saliva dalle gambe
fino ad arrivare
al petto e al cuore. Era rimasta affascinata dal fratello di Lord
Odinson anche
se sapeva che non doveva farlo.
La
conoscenza s’era infittita nel corso di tutte le occasioni
mondane che aveva
offerto la fredda Londra quell’inverno. A teatro, durante i
canonici intervalli
tra un atto e l’altro, nell’anticamera ben arredata
di qualche salotto alla
moda, nei giardini rarefatti delle case di campagna che circondavano la
città. Luoghi
in cui si erano create, involontariamente
e non, tutta una serie di
circostanze
che avevano portato i loro sguardi a incrociarsi, a cercarsi. Loki
Odinson
aveva sempre la battuta pronta e le sue risposte erano ogni volta
tremendamente
argute, pungenti, e Sigyn non riusciva a fare a meno di ascoltarle, per
poi
rispondere e domandare ancora.
La ragazza
non sorrideva più. Si sentiva oppressa da un peso che le
stringeva il cuore,
annodandolo con mille lacci neri. “Non mi chiedete di
ballare, stavolta?”
mormorò a bassa voce.
Loki
scosse la testa. “Abbiamo troppi occhi su di noi.”
“Potrebbe
essere la vostra ultima occasione.
Mia cugina mi attende nel Lincolnshire per l’inizio del
prossimo mese,”
aggiunse lei vaga, come se l’informazione non avesse poi
tutta questa
importanza. Non era mai stata brava a mentire e quello era uno dei
motivi per
cui le cose erano precipitate in modo così drammatico e
rapido. Aveva rifiutato
due pretendenti in nome di cosa, per chi?
Lui
finse di non sapere del viaggio imminente. “Credevo fosse una
festa di
compleanno, non una d’addio.”
“Appropriato,
non credete?” La ragazza inclinò il capo di lato.
“Più
di quanto immaginiate,” commentò Loki. Si accorse
della figura frettolosa di
Theoric che si avvicinava rapidamente alla sorella con la chiara e
manifesta
intenzione di allontanarla da lui. Gli rivolse un sorriso sghembo e
insolente e
poi alzò il calice di cristallo nella sua direzione, come a
voler brindare
idealmente con lui. Il giovane s’accigliò e,
raggiunta Sigyn, la prese per un
braccio.
“Dovresti
circondarti di compagnie migliori, Sig cara,” le
bisbigliò severo all’orecchio.
La
giovane donna s’irrigidì. “Come i tuoi
amici, per esempio?”
“Sono
gentiluomini, loro,” fu la secca
risposta, data fissando Loki negli
occhi e calcando sull’ultima parola. Cercava di mettere
idealmente un segno tra
sé e ciò che l’altro non avrebbe mai
potuto essere veramente, ma l’avventuriero
poteva avvertire come, dietro la pesante coltre di disprezzo sfoggiata
dal figlio
di Lord Vanir, ci fosse un pozzo senza fondo di terrore. Con amarezza
pensò che
se Theoric fosse stato più determinato, coraggioso e
consapevole, Sigyn non
sarebbe morta.
La
ragazza si morse le labbra, per trattenersi e non ribattere ancora in
maniera
piccata, ma, mentre il fratello l’allontanava, non resistette
all’impulso di
osservare un’ultima volta la figura alta e slanciata di Loki.
Lui si era già voltato in direzione di qualche vacuo conoscente in comune.
“Abbi
almeno la decenza di non far vedere a tutti che lo fissi,” la
rimbrottò l’altro,
guidandola verso le altre stanze affollate.
Sigyn
si bloccò sotto l’arco di una porta, incapace di
rimanere in silenzio. “La
reputazione di una ragazza adesso si compromette con uno
sguardo?”
Qualche
testa si voltò nella loro direzione, spinta dalla pigra
curiosità di osservare
perché i figli di Lord Vanir battibeccassero. Theoric se ne
accorse e le sue
guance divennero rosse.
“Quante
altre volte dovremo farti questo discorso?”
“Possiede
rendite ingenti, più delle nostre,” gli
ricordò lei severa. “È colto, la sua
famiglia antica. È tornato,” aggiunse,
aggrappandosi a parole che, lo sapeva,
non avrebbero mutato l’idea del fratello sull’uomo
che amava.
“Sai
quello che si dice su di lui.”
“Come
su tutti quelli che trascorrono qualche anno di troppo
dall’altra parte del mondo.
Che diventano selvaggi, che hanno per amanti le donne del posto, che
fumavano
oppio. Cose che hai fatto anche tu e i tuoi amici, mi pare.”
Theoric
fu scosso da un brivido. “Non capisci. Lui è
diverso.”
Sigyn
si voltò di scatto, liberandosi dalla presa
dell’altro. “Se mi chiedesse di sposarlo
la mia risposta sarebbe sì. È
sì.”
♥
In un
angolo della sala affollata, una pianista dall’aspetto magro
e nervoso suonava
con incerto talento un brano di Mozart; Thor Odinson le rivolse
un’occhiata veloce,
per poi tornare a concentrarsi sul volto affilato e severo del
fratello, ritto
davanti a lui. Lo vide inumidirsi le labbra col ricercato champagne
rimasto
nella coppa[2],
mentre insultava tra i denti e senza troppi scrupoli Lord Njord Vanir.
La
disapprovazione per la senz’altro inopportuna incursione
fatta da Loki era
stata velocemente soppiantata dal viscerale senso di protezione che
provava nei
suoi confronti in qualità di attuale capofamiglia. Thor
reputava la presenza dell’altro
lì come una sfida, ma non riusciva a tollerare che suo fratello venisse considerato alla
stregua di un ospite
sgradito. Il richiamo del sangue e il fiero orgoglio glielo imponevano,
perché
gli Odinson avevano combattuto con Riccardo Cuor Di Leone durante la
Terza
Crociata e seguito Enrico V sul campo di battaglia di Azincourt[3],
distinguendosi in ogni conflitto per il valore e la ferocia.
Appartenevano
a un casato potente e antico d’origine normanna[4],
che spesso s’era legato alla dinastia regnante. Un rifiuto
secco come quello
che era stato inflitto a Loki colpiva non solo lui, ma generazioni e
generazioni di Odinson. Eppure, la notizia che Lord Vanir disapprovava
il
corteggiamento dell’altro tanto da voler spedire la figlia
lontano lo aveva
lasciato, allo stesso tempo, irritato e sgomento, ma sorpreso no,
affatto. La
spiacevole decisione in fin dei conti era comprensibile, viste le voci
che
giravano sul conto di Loki.
“Che
stai tramando? Qualunque cosa tu abbia in mente, ripensaci,”
l’avvertì.
Non fu
in grado di usare lo stesso tono severo del loro defunto padre, ma si
chiese
cosa avrebbe pensato di loro vedendoli, e come avrebbe preso
l’infelice, ma
saggia, presa di posizione di Lord Vanir. Forse si sarebbe deciso a
fargli
recapitare un invito per partecipare a una battuta di caccia nella loro
tenuta di
campagna; lì, davanti a un sorso di buon liquore, gli
avrebbe parlato, con tono
solo all’apparenza svagato, delle rendite e degli
investimenti della loro
famiglia, allettandolo poi con la promessa di condividere con lui
opportunità e
guadagni. Sì, il buon vecchio Odino sarebbe riuscito a
manipolare e convincere
Njord tanto da fargli vedere l’unione tra Loki e Sigyn come
il punto di
partenza per un futuro sfavillante. In questo, nella bieca
capacità di piegare
il destino al proprio volere con crudele precisione, suo fratello
assomigliava
fin troppo al loro padre, pensò Thor.
Loki
increspò le labbra in una smorfia carica di dispetto.
Nonostante la sconfitta
palese e visibile, scrutava la sala altero come il principe che quasi era, puntando lo sguardo verde e
sprezzante sugli astanti curiosi.
“È
troppo tardi,” sibilò incrociando i suoi occhi.
“Per
cosa?”
L’altro
s’accigliò e scosse la testa, vuotando con un solo
gesto la coppa. Non gli
avrebbe risposto, lo sapeva. Si erano messi in moto troppi eventi e lui
non poteva
più tirarsi indietro. Era troppo tardi.
La vendetta che l’aspettava in
caso di un fallimento sarebbe stata atroce –
immaginò di essere seppellito,
vivo, di svegliarsi dentro una tomba, incapace di muoversi e di
scappare, urlando
nel buio finché non avrebbe perso il respiro.
Thor
lo riscosse dai suoi pensieri. Lo teneva per una spalla e stringeva.
“Per
cosa?” gli ripeté a denti stretti.
“Comportati in maniera degna!”
Loki
gli puntò addosso quel suo sguardo chiarissimo e rapace.
“Altrimenti?” lo sfidò.
“Il
nostro nome non ti proteggerà per sempre,”
l’avvertì il giovane lord. Avrebbe dovuto
fermarlo. Lo sentiva nelle ossa e nella carne – suo fratello
stava per
commettere qualcosa di irreparabile: Ahmed Dall[5],
il suo fidato maggiordomo, gli aveva raccontato di come Loki
s’intrattenesse in
compagnia di personaggi malfidati e oscuri, più corrotti di
quanto non fosse
lui stesso.
“Non
parli come nostro padre,” notò il cadetto con uno
scintillio divertito negli occhi,
per poi spostare la sua attenzione sulla porta del salone principale.
La figura
di Sigyn, avvolta nello splendido abito di raso verde, lo
catturò, di nuovo. Loki
increspò le labbra in una smorfia feroce e lupesca.
Avvicinarsi a lei era stato
un compito dolce, un inganno piacevole da mettere in atto, ma il
pensiero che
quella notte la ragazza sarebbe morta, che, presto, quel magnifico
vestito l’avrebbe
soffocata strappandola alla vita, lo rendeva inquieto. Per un momento,
un solo
istante, si chiese se la verità non si fosse confusa con la
menzogna, se la recita
non avesse preso i colori della realtà. Alzò la
coppa ormai vuota in direzione
di lei, stupenda nel suo vestito color smeraldo, ignorando la fitta di
rancore
e di desiderio che gli infiammava il petto.
L’angolo
di Shilyss
Care
Girls,
Questa
storia ha una genesi strana e particolare, tanto che preferirei
parlarvi di
come e quando è nata alla fine. Per ora vi basti sapere che
tempo fa la mia
cara Ciop mi mandò un articolo di moda e
costume che mi ispirò moltissimo.
Iniziai a scriverla più di un anno fa, ma sopraggiunte
problematiche e altre
storie presero il sopravvento oscurando questa. La quarantena, molte
chiacchierate e un momento problematico per me, mi hanno convinta che
oggi
fosse il momento giusto per postarla. Dovevo – devo
– evadere.
Penso
che sarà una minilong – voglio disperatamente che
sia una minilong. L’ambientazione
squisitamente vittoriana mi ronzava in mente da diverso tempo e quindi
ecco
qua. Tutto quello che trovate sul passato dello scapestrato Loki
Odinson, su
Sigyn e su Thor è plausibile con il contesto scelto, ovvero
la metà del XIX
secolo, l’Ottocento. Questo racconto, che spero sia di vostro
gradimento, non
sarebbe possibile senza l’appoggio della sopracitata E. e
delle cosette mie, _Lightning_
e Miryel, che hanno aspettato e minacciato per
questa storia che, ve lo
anticipo già… no, meglio di no!
La
dedico a chi mi ha sostenuto fin qua e chi continuerà a
farlo o inizierà a
farlo. Grazie di cuore, voi non sapete quanto un commento anche
semplice possa
fare per chi scrive. Se vi è piaciuta, fatemelo sapere
listando (in alto a
destra ♥) o recensendo.
Vostra,
Claudia
Shilyss
[1]
Magiaro: col termine magiaro si indicano alcuni gruppi specifici, di
guerrieri
nomadi, antenati degli odierni ungheresi. I miei ringraziamenti alla
cosetta _Lightning_.
[2]
Oggi lo champagne si serve nelle flûte, ma fino al 1970 (e
ovviamente
nell’Ottocento) era servito nelle coppe.
[3]
È un omaggio a Tom Hiddleston, interprete
dell’Enrico V.
[4]
Quindi al seguito di Guglielmo il Conquistatore; il riferimento
è alla storica
battaglia di Hastings.
[5]
Chiaramente è Heimdall. Per verosimiglianza storica il nome
del dio guardiano
del Bifrost e la sua posizione sono relegati a un ruolo di
subalternità
rispetto a Lord Odinson. Prendetelo come un dato storico necessario.