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Autore: _Woodhouse_    10/05/2020    2 recensioni
❝Lo osservò dormire, sfiorando di tanto in tanto le linee insidiose delle sue costole, incastrata negli occhi di un altro, nel ricordo del suo respiro, affogata, vittima masochista del piacere che le procurava il ricordo della tensione che si librava fra i loro corpi e della complicità che aveva avvertito, mentendo insieme a lui, due volte e senza ragioni.❞
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 25.
 


You keep dreaming and dark scheming
Yeah, you do
You're a poison and I know that is the truth
All my friends think you're vicious
And they say you're suspicious
You keep dreaming and dark scheming
Yeah, you do
I feel like I'm drowning
I'm drowning
You're holding me down and
Holding me down
You're killing me slow
So slow, oh-no
I feel like I'm drowning
I'm drownin
g.

(I feel Like I'm drowning, Two Feet)



Sarebbe cominciata immediatamente, la caccia.
Si sentiva egoista per questo?
Sì.
Si sentiva malvagio e senza anima, per questo?
Sì.
Sentiva che fosse sbagliato?
No.
O, almeno, non per lui. Gli sembrava assolutamente sbagliato, se la guardava dal punto di vista dell’etica, della morale, della lealtà; ma la sensazione che gli procurava nello stomaco, quella specie di ebrezza che lo assaliva al pensiero, come poteva non suggerirgli che fosse semplicemente giusto?
James amava Robb in modo spiccato e per qualche strana ragione sentiva verso di lui le responsabilità e i doveri di un padre; sebbene gli anni di differenza tra loro fossero pochi, aveva sempre sentito per il fratello una sorta di senso di protezione – lui che, in fondo, bambino non lo era stato mai. A James dicevano d’esser nato vecchio. E questo per via di quella serietà imperturbabile che gli incupiva lo sguardo, quella specie di fierezza d’altri tempi che gli irrigidiva la postura, gli sollevava il mento. Non era mai stato un bambino vivace, ma amava leggere, accudire i piccoli animali che trovava in giardino d’estate, osservare i nomi delle città sul mappamondo e immaginare avventure per mare, viaggi magnifici in terre lontane. A differenza di quanto ci sarebbe potuto aspettare da un bambino tanto curioso, James faceva domande molto di rado e preferiva aspettare che le risposte gli si svelassero in maniera del tutto casuale, alla stregua di una magia. Quando Robb era nato, gli dissero, James passava le ore a fissarlo e a toccargli le guance, pungolandole con le dita come se fossero plastilina. Gli era parso da subito qualcosa di estremamente fragile, di più fragile e mai, mai aveva sentito per lui – o per le attenzioni che gli venivano rivolte – gelosie di alcun tipo. Era nato vecchio, lo avevano detto. Rideva poco e aveva pochi amici, forse nessuno. Da adolescente passava i pomeriggi d’inverno suonando il pianoforte – strumento impostogli dalla madre – o trascrivendo spartiti e gli piaceva da morire, d’estate, leggere sulla spiaggia, sotto l’ombrellone, mentre Robb faceva capriole in mare e gli chiedeva di raggiungerlo e dimostrargli di saper fare meglio, se ci riusciva. In quei momenti era in pace e gli sembrava che la vita avrebbe avuto per sempre quel sapore salmastro. Robb – James ne aveva una viva consapevolezza – era sempre stato una gemma tra le alghe, un guizzo nell’acqua cheta. Rispetto a lui – taciturno e amaro – Robb splendeva naturalmente e aveva il dono particolare di farlo sorridere per davvero. Per questa speciale ragione, James non aveva mai davvero sopportato di vederlo accanto a Josephine. Lei così torva, trasparente e notturna. Come poteva lei così infinitamente opposta – sbagliata – averlo incastrato e domato in quel modo? Lei non era fatta per suo fratello. Josephine era fatta di un’altra materia, una materia bruna e calda, così simile – così angosciosamente simile a quella di cui era fatto lui stesso.
Erano fatti d’ombra, lui e Josephine. Lo sentiva profondamente, come si sente la sete o la fame. Non erano abbastanza, non per Robb, per cui adesso, per la prima volta da quando gli aveva visto aprire i piccoli occhi ambrati, provava una gelosia feroce. Quella fu per James una rivelazione traumatizzante. In un certo senso, prima di quella notte sotto la finestra di Jo, James non aveva mai davvero preso in considerazione il fatto che lei e Robb andassero davvero a letto insieme. Non aveva mai pensato a loro in quei termini, non aveva mai considerato quanto concreto fosse il fatto che al buio, lontano da lui, quei due si toccassero e gemessero l’uno nella bocca dell’altra. Ci pensò per la prima volta quando vide Robb sparire dietro il portone da cui lui era uscito con l’amaro in gola. Era stato quello il momento – quello l’istante in cui si era sentito diventare un altro uomo, un uomo deviato, storto, senz’anima. Gli era scoppiato nel petto un incendio dalla fiamme voraci e dai fumi angosciosi: voleva qualcosa che non gli apparteneva, e lo voleva in tutti i sensi. Non voleva più soltanto dominare la sua mente, non gli bastava più soltanto quello sfiancante duello cerebrale: la voleva per intero – fosse anche solo per vederla cedere. E si detestava per questo – avrebbe voluto annegare ogni volta che questa consapevolezza lo colpiva alla stregua di un nervo.

Ma non aveva davvero niente di lei, né la sua mente né tanto meno… il resto.
Il nodo era: come poteva anche solo riuscire a sfiorarla, senza tradire Robb e senza tradire quel vecchio bambino che si era promesso – con l’orgoglio di un cavaliere della tavola rotonda – di proteggerlo per sempre?
Un modo, capì, non c’era. C’era, invece, all’improvviso, una strega proveniente dalle nebbie dense di brughiera, che aveva prosciugato i mari, spento le estati, e ucciso il vecchio bambino.

 

 

***




Le si era incastrata la matita tra i capelli e il libro di storia moderna a cui si dedicava da ore pareva rilasciare fumi soporiferi. Si perdeva, infatti, più che tra le pagine, ad osservare il gioco delle nuvole attraverso la grande finestra della biblioteca. Il piano superiore della struttura, per quanto non la entusiasmasse, era dotato di trionfali finestre a volta che in quel periodo tetro dell’anno, le offrivano la possibilità di godere della seppur fiacca luce del sole. Era un pomeriggio di fine novembre e il grande tavolo di noce – circondato da un numero esiguo di persone – era bagnato da una malinconica luce azzurra, estraniante e confortevole al tempo stesso. Le ricordava i pomeriggi d’autunno in campagna dai suoi nonni, quell’atmosfera zefferilliana e perduta della vecchia dimora tra gli alberi a cui ormai pensava con nostalgia, perché i suoi nonni non c’erano più e perché apparteneva ad un’epoca in cui lei era ancora intatta. Josephine sospirò e, liberata la ciocca di capelli dalla matita, riprese a disegnare ghirigori sui bordi della pagina. Polly se n’era andata da poco, permettendole di tornare a respirare. Non era più a suo agio con lei: non ci riusciva. Ogni volta che la guardava o che quella provava a parlarle, Josephine sentiva montarsi dentro una specie d’ansia ruvida, che le raschiava lo stomaco. Temeva ogni instante che lei pronunciasse il suo nome, che si sentisse finalmente libera, dopo che James si era palesato a casa loro, di raccontarle, di chiederle persino consigli o intercessioni. Non voleva che si arrivasse a tanto, non riusciva neanche a pensarci.
Polly – era evidente – fremeva dalla voglia di parlarle di James e questo lo dedusse quella sera di giorni prima, dopo che lui aveva lasciato l’appartamento.
Che ne pensi? , le aveva chiesto con aria goffa, poggiata alla porta del bagno, mentre lei si lavava i denti. Josephine era rimasta di sasso e l’aveva guardata attraverso lo specchio con gli occhi vacui, continuando a muovere lo spazzolino. Aveva poi sollevato le spalle e sputato il dentifricio.
Lo so che non ci vai d’accordo, aveva proseguito, fraintendendo quei gesti, Ma io sono diversa, con me è diverso, no?
Jo pensò che sì, erano diverse e che sì, con lei era diverso. Ma quella constatazione pronunciata ad alta voce, da lei che non conosceva e non avrebbe mai potuto penetrare quella loro gabbia insana e affascinante, le fece ribollire il sangue. Uscendo dal bagno le aveva dato una pacca sul braccio e le aveva detto soltanto: Certo che è diverso, sta’ tranquilla.
Che non voleva dire niente – lo sapeva, non rispondeva a nessuna domanda con precisione e probabilmente era stata proprio questa vaghezza a farla desistere dal parlarle di lui. Eppure Jo sapeva che non c’era niente di approssimativo in quella frase minuscola, all’apparenza priva di senso; era atta unicamente a rimarcare il solo concetto che le interessava e che era quello che riguardava loro due soltanto – lei e James.
Si sentiva sporca quando certi pensieri la sfioravano e, per quanto cercasse di ricordare l’odore di Robb per aggrapparsi a lui in qualche modo, era un altro l’odore che l’ossessionava – sempre, in ogni luogo, anche con Robb accanto, anche in quel momento.
Fu come se lo avesse percepito, come se la sua energia fosse ormai a tal punto canalizzante, prepotente; si voltò di scatto e lo vide, la sedia che si scostava, la sua mano nervosa che sfiorava il legno di noce. Le si era seduto accanto e la guardava con un’espressione di puro dileggio sul viso. Josephine strinse convulsamente la matita tra le mani per sincerarsi di essere sveglia, di essere viva; poi smise di fissarlo, colpita dal pensiero che lo smarrimento nei suoi occhi fosse il motivo del godimento perverso di James. Lui, dal canto suo, finse che lei non gli fosse accanto e prese a sfogliare distrattamente un tomo rimasto incustodito. Che cosa stava facendo?
– Che cosa stai facendo? – La domanda le venne fuori con l’inevitabilità di un singhiozzo.
Lui si voltò leggermente e, a quella distanza ridotta, accarezzato da quella luce cobalto, il viso di James le parve dolorosamente brutale; perché era perfetto in un modo tragico. C’era qualcosa in lui, nel suo volto, che non aveva niente a che fare con la mera armonia della bellezza, ma che apparteneva, piuttosto, a quel fascino inafferrabile di un angelo caduto, di un lucifero tormentato, decadente, disarmonico.

– Guarda che Polly se n’è andata, – gli disse, soffocando certe elucubrazioni.
Lui prese a tamburellare le dita sulle pagine del tomo aperto e poi puntò lo sguardo fuori dalla finestra, confondendola.
– Lo so, – fece, semplicemente.
Josephine prese a tormentarsi la ciocca sfuggita alla treccia tanto che rischiò di staccarsela. Il silenzio devastante della biblioteca in quel momento sembrava impossibile da sopportare e lei si ritrovò a guardare strenuamente i pochi ragazzi rimasti seduti al tavolo, pensando che – forse – rimanendo avvinghiata a loro con lo sguardo avrebbe impedito che la abbandonassero.

– Lei mi dice tutto, non lo sai? – aggiunse. Una ciocca di capelli scuri gli ricadeva sulla tempia e Jo sentì un violento bisogno di scostarla, così, solo per il gusto di farlo.
– E’ una cosa positiva, suppongo, – fece lei, mentre le dita torturavano l’angolo di una pagina.

– Molto, – confermò James e non aggiunse, non poteva, che non era soltanto positiva, ma che era soprattutto utile. – Grazie a lei ti ho trovata facilmente, infatti.
Jo si sentì trattenere il fiato: non aveva idea di cosa stesse succedendo, specie perché lui continuava a guardarla, un braccio poggiato sullo schienale della sedia, gli occhi sfacciatamente puntati su di lei.
– E perché mi cercavi? – chiese, la voce leggermente incrinata.
– Per più di una ragione, – disse, infine, la voce inconfondibilmente insinuante, a quel modo che era tipico di lui.
Passarono alcuni secondi e lui cercò negli occhi di lei la scintilla che aveva sperato di veder guizzare, ma lei lo sfidava, come sempre, e rimaneva algida, lo sguardo intellegibile, in attesa. Tuttavia, se solo James avesse potuto decifrare il segreto dei suoi occhi, avrebbe scoperto dentro di lei un tumulto ingovernabile.
– La ragione principale è Polly, – proseguì. Jo spezzò l’angolo di carta e lo nascose subito tra le dita. - Capisci che sono un uomo impegnato e che messaggiare non è e non sarà mai tra le mie priorità.
– Vuoi che ti insegni a farlo? – gli disse, puntuta.
Lui sogghignò leggermente e con uno scatto avanzò con la sedia verso di lei. E fu una mossa avventata ed ingenua, perché entrambi si sentirono investiti da una folata di profumo che aveva dell’ ipnotico. Lo sguardo di James fu catturato dalla linea della mandibola di lei e pensò che gli sarebbe bastato niente per toccarla con le labbra e constatare se quell’odore, in quel punto, non avrebbe finito con l’ucciderlo.
– Voglio che mi consigli: sei o no mia cognata?
Josephine gli scoccò un’occhiata cinica ed ignorò lo stridore che aveva avvertito al suono di quella parola.
– Vuoi consigli da me su… Polly?
– Non esattamente. Voglio chiederle un appuntamento, uno vero, – fece una pausa per concedersi di studiare la sua reazione, – ma non ho idea di cosa le piaccia fare…
Jo si sentì vibrare e non sapeva perché quelle parole l’avvelenassero tanto – non voleva neanche pensarci.
– Non puoi semplicemente portarla a cena? – Fu secca.
– Io non faccio niente… semplicemente.
Dalle labbra di Jo venne fuori uno sbuffo beffardo.
– Perché mai dovrei darti dei consigli? Ricordavo non fossimo amici.
– L’ho sempre detto che sei rancorosa, – ribatté, gli occhi corrugati, un sorriso malandrino.
Josephine si sentiva completamente stordita, incapace di convincersi che quella conversazione stesse accadendo sul serio, che lui le stesse chiedendo davvero dei consigli su…. Polly. Cosa c’entrava Polly, con loro? Cosa significava quell’atteggiamento, l’ennesimo? Avrebbe voluto disintegrare la sua posa granitica e smascherarlo, vedere la sua vera faccia, le sue intenzioni reali;
i suoi comportamenti erano mutevoli e incongrui, si confondevano e contraddicevano, ma tutti, ognuno dei suoi gesti incomprensibili le si attaccava ai pensieri con ottusa tenacia. Si domandò, sfiorando con lo sguardo la curva della sua gola, se James fosse consapevole del potere che aveva su di lei, se avesse reale contezza della quantità di modi in cui la tormentava.


– Senti, d’accordo, che vuoi sapere? – fece d’un tratto, sbattendo le palpebre, – Cosa le piace fare? Cosa le piace mangiare? Vuoi che ti faccia un elenco?
C’era dell’impeto spropositato in quella raffica di domande e James se ne accorse con una punta di soddisfazione e si domandò se ad animarla non fosse per caso la gelosia. Era un pensiero folle, lo sapeva, ma non più folle di molti altri.
– Tu cosa vorresti fare? – le domandò, – Dove ti piacerebbe andare?
– Io e lei siamo diverse, non credo possa esserti utile sapere cosa farei io.
– Tu dimmelo lo stesso. – Lo disse con serietà mortale, aggrappato com’era all’idea di volerle sfilacciare la treccia, scioglierle i capelli e rivederli sotto forma di rampicanti e magari, magari, lasciare che lo solleticassero.
Lei lo guardò di sottecchi, come se li avvertisse, quei pensieri.
– Credimi, non avrebbe senso.
– Lascialo stabilire a me, – replicò lui.
Jo si lasciò andare contro lo schienale e lo guardò apertamente, voltandosi quasi completamente verso di lui e James, dal canto suo, ebbe il violento impulso di attirarsela addosso. Trattenne un sospiro.
– Io detesto le cene, se servono a conoscersi.
– Dimentica le cene. Cos’altro? – riprese lui, nel petto un’avidità sconsiderata.
– Mi piacerebbe essere invitata a teatro: quello vero, quello per cui dovrei rinunciare ad una settimana di mensa. O all’opera.

James le vide negli occhi una luce tenue, sfuggita alla cupezza delle pupille; una luce che gli ricordò di quella sera d’estate in cui lei, parlandogli d’amore e poesia, gli aveva svelato una porzione di sé, quella piccola porzione commovente e vibrante che aveva finito con l’infestargli i sogni.
– Insomma, per nulla pretenziosa, – fece sarcastico.
– Mi hai chiesto di non essere semplice, – ribatté lei, svelta, un po’ risentita.
– E come potresti?
Quelle parole gli sfuggirono di gola ed inspirò bruscamente quando si rese conto di come rischiavano di suonare. Josephine lo guardò con occhi immensi, persi, indecifrabili, ma le labbra le si schiusero, tradendola. Si sentiva ubriaco, come se d’improvviso gli fossero piombate addosso tutte le colpe e gli errori e i desideri.
– Robb non ti ci porta? – chiese all’improvviso, come per schiacciare ciò che era stato detto.
– Non credo gli sia mai saltato in mente, – rispose Jo, nella voce una vibrazione appena udibile.
– Dovresti suggerirglielo.
– Non voglio si senta in obbligo, – replicò in fretta, poi deglutì e aggiunse: – Dovresti portarla a cena, comunque: a lei piace andare a cena. E magari regalarle dei fiori.
– Non lo fanno tutti? – fece lui.
– A lei piace così, che importa?
Si guardarono con forza, senza capire perché. C’era qualcosa che volevano dirsi, ma non avevano le parole adatte per farlo, non le conoscevano e tutta la letteratura del mondo non avrebbe potuto soccorrerli, non in quel momento.
– Che fiori? - chiese James.
– Non lo so.
– Dammi spunto.
Josephine scuoté la testa e gli venne da sorridere.
– Ortensie, rose, viole, ce ne sono tanti. Prendile delle rose; a chi non piacciono?
James sbuffò.
– E’ letteralmente la fiera della banalità.
– Siamo tutti un po’ banali, – disse Jo, serafica.
E lui a stento riuscì a non dirle: Non tu.

Ma le disse solo: – Già.
Poi si sollevò lentamente, come fosse sovrappensiero e lei si accorse che c’erano ancora le grandi scaffalature e i tavoli e la gente intorno a loro: dov’erano stati?
Vedi che sei fai l’educata riusciamo a comunicare?
– Lascia perdere, – fece ruvida, ritornando a guardare il libro. Quando sentì che lui se ne stava oandando, quando capì che era davvero sul punto di sparire, di sfuggirle come sempre, una domanda le premette sulle labbra, schiudendole:
– Qual era l’altra ragione, James?
James sollevò un sopracciglio, scrutandola dall’alto, in piedi accanto a lei.
– Mi hai detto che eri qui per più di una ragione. Qual è l’altra? – domandò, sollevando il viso verso di lui.
– Ah, quello.
James la guardò con l’aria fosca da angelo caduto che tanto la spaventava e ammaliava e Jo, con orrore, lo vide afferrarle lentamente la treccia, stringerne la punta tra le dita. Si sentì gelare.
– Non è chiaro, Josephine? – domandò, la voce bassa, rauca.
Lei lo fissò con aria spaesata e mormorò:
– Lo è?
– Secondo me sì, – ribatté secco, le dita che sfioravano i capelli intrecciati come se fosse naturale, come se ne avesse il diritto.
– Non ti seguo, mi dispiace, – replicò, lo sguardo che rifuggiva quello di James.
– Non ti smentisci mai, – disse lui con un sogghigno un po’ amaro e le lasciò andare i capelli e lei se li sentì ricadere sulle spalle con un peso centuplicato.


Non si salutarono nemmeno, non ne avevano bisogno; Josephine non lo guardò sparire per le scale; non lo guardò affatto perché realizzò soltanto in quel momento, con lo sguardo rivolto al tramonto spento di novembre, che gli aveva consentito di toccarle la treccia a quel modo, come se fosse normale, senza chiedergli neanche perché, senza urlargli contro. Quello di cui lei si accorse con ritardo e con il cuore in gola, lui lo aveva sentito immediatamente, poiché si era aspettato una reazione violenta e lei non ne aveva avuta nemmeno una, non mentre lui le accarezzava i capelli. Lei glieli lasciava toccare sempre, come se in un certo senso non le appartenessero; perché era troppo sperare, troppo credere che lei, in fondo, lo volesse e che sentisse quel tocco suoi capelli al pari di un carezza sul viso.
 

 


Nei giorni successivi James non invitò Polly a nessun appuntamento, mentre Josephine passava i giorni con il fiato sospeso, in attesa che lui lo facesse. Fu anche per questa specie di ansia che evitò Robb – lo evitò soprattutto nelle lenzuola. Quando lui, di notte, le si stringeva contro, Jo avvertiva una morsa crudele arpionargli il fianco, il petto, la gola e le veniva da piangere ogni volta che lui la baciava, perché dentro di lei, in reazione a quel tocco, non si muoveva niente. Avvertita piuttosto un a mordace nostalgia, quella nostalgia di non si sa cosa che l’aveva sempre accompagnata. Una nostalgia che si placava quando James le parlava, la feriva, la toccava. Ma questo non riusciva a dirselo, non con le parole giuste. Era arrivata a quel punto senza rendersene conto davvero e probabilmente, la situazione non sarebbe degenerata così catastroficamente se Jo non fosse stata tanto suscettibile alla poesia e alla parola scritta, se non fosse stata così persa nei labirinti del non detto, dell’intricato ed intrigante gioco della parole e dei significati reconditi. Lo stesso lo si sarebbe potuto dire di James che, dal canto suo, però, non riusciva a subire l’energia nebulosa e inafferrabile di lei senza provare l’impulso di osare, ogni volta un filo di più, convinto che avrebbe riconosciuto il momento in cui si fosse rivelato opportuno fermarsi. James credeva che quel momento fosse lontano e fu per questo che gli sembrò giusto osare ancora – aveva soltanto iniziato, no? – regalando al fratello due biglietti per uno spettacolo teatrale che si sarebbe tenuto da lì a dieci giorni: Tristan et Iseut.

   
 
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