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Autore: Lumos and Nox    11/05/2020    1 recensioni
I semidei muoiono spesso, si sa.
I loro genitori divini lo possono percepire, ma... cosa succede con quelli mortali?
/ambientato nella prima serie/
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Threnodia:
In memoria dei semidei

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Ethan, figlio di Nemesi
Mr. Nakamura



“Ethan indietreggiò, reggendosi lo stomaco. Una scheggia della sua stessa spada era rimbalzata e gli aveva trafitto l’armatura.
Crono si alzò faticosamente in piedi, ergendosi minaccioso di fronte al suo servitore. «Tradimento» ringhiò. La musica di Grover continuava a suonare e l’erba crebbe attorno al corpo di Ethan. Lui mi guardò, il volto contratto dal dolore.
«Meritano di più» boccheggiò. «Se solo… avessero dei troni».
Crono batté il piede a terra e il pavimento si squarciò. Il figlio di Nemesi cadde in un baratro che arrivava fin nel cuore della montagna, e di qui dritto nel vuoto.”


Quel giorno era iniziato come tanti altri.
Al brusco risveglio, era stato accolto da quelle solite quattro mura grigiastre, dello stesso colore della sbobba ammuffita che osavano definire colazione. Trecentoventiquattro- stando ai documenti, Azuma Nakamura- l'aveva rifiutata con un cenno sdegnoso del capo, preferendo ancora una volta a cibarsi della semplice aria, condita con vendetta. Era da poco cominciato il suo decimo anno al penitenziario e la sua pazienza stava lentamente scemando.
Giusto il giorno prima aveva violentemente spaccato la faccia a una matricola che aveva osato tagliargli la strada.
Un qualcuno che probabilmente era nulla di più che un mezzo spacciatore si era permesso di tagliare la strada a lui, a Azuma Nakamura, il mercenario criminale per eccellenza del Michigan. Il suo onore ne era stato ferito. Era il minimo che quel pezzente, ottocentoventinove, lo avesse ripagato con il proprio sangue.
Ora era solo da comprendere se la convocazione che aveva ricevuto nella sala colloqui avesse a che fare con quella questione. Per lui, il risolvere un problema d'onore era fondamentale, una tradizione che gli avevano trasmesso i suoi avi attraverso suo padre, ma per il resto della società americana era una qualcosa di difficile comprensione. Faticavano ad anche solo comprendere l’importanza dei gesti di rispetto. Si erano permessi di inquinare il Giappone con le loro presenze e con i veleni della loro cultura, senza il minimo valore, senza la minima idea di ciò che stavano calpestando sotto i loro stivali stellati. Era stato a causa loro se la sua famiglia era stata costretta a trasferirsi lì, nella fogna assoluta degli States, dove regnava la totale ignoranza dell’onore. Azuma si era sempre scagliato contro chi non lo comprendeva o lo feriva e sempre sarebbe rimasto in piedi davanti a quei luridi uomini bianchi. Potevano convocarlo quanto volevano e cercare di convertirlo alla loro assenza di valori giorno dopo giorno. Non facevano che aumentare il desiderio di porre loro fine e il suo disprezzo.
Sputò a terra, mancando di poco la scarpa del patetico agente che lo stava scortando. Quell'essere che a malapena poteva essere definito umano rivolse verso di lui i suoi occhi nascosti dietro delle lenti a specchio: lo sguardo che forse avrebbe dovuto essere una minaccia finì per essere soltanto il riflesso del viso dello stesso Azuma.
Quasi si fosse fatta coinvolgere dalle tonalità del carcere, la sua carnagione era diventata simile per tonalità al grigio, ma i suoi tratti mantenevano la sua consueta fierezza. Il suo corpo si era mantenuto massiccio nonostante le varie privazioni volontarie di quel cibo che lì servivano, ma a dare il contributo maggiore erano gli occhi che più che castani tendevano verso un colorito ocra, quasi giallo. Risaltavano ancor di più grazie alle guance ora incavate. Azuma rivolse a se stesso e a quel patetico essere un sorriso affilato, un gesto di sfida che lui stesso avrebbe punito, ma, com'era prevedibile, non ottenne nulla. Cercavano di convertirlo a parole, senza nemmeno il coraggio di provare fisicamente a toccarlo.
Erano arrivati alla sala colloqui. La guardia lo spinse a entrare e poco dopo Azuma si ritrovò seduto ad aspettare in una stanza quasi totalmente vuota. Gli avevano bloccato anche quella volta le braccia sulla sedia, come se quello potesse bastare a salvarli dalla sua forza.
A separarlo da una porta dall’altro lato della stanza, c'era uno spesso vetro, a cui era collegato un dispositivo telefonico. Non c’era nient’altro, nessuna altra sedia, nessun altro detenuto. Non era la solita sala, a cui tutti andavano per gli incontri con i parenti o con stupidi funzionari.
Azuma strinse i pugni, ma non si mosse di un centimetro, esaminando con cura i muri ipnoticamente bianchi della sala. C'erano sicuramente telecamere lì intorno, tese a scrutare ogni suo singolo spostamento: tipica viltà americana, neanche la minima ombra di coraggio o onore necessari a conferire con lui faccia a faccia.
Stava per sputare nuovamente il suo disprezzo, quando la porta dall'altra parte si aprì.
Fece il suo ingresso una persona che mai si sarebbe aspettato.
Azuma assottigliò gli occhi, mentre questa faceva due passi in avanti, la luce anonima delle lampade che la inondava, e per un attimo la consapevolezza di sé vacillò, portandolo a pensare di essere stato in qualche modo drogato.
Eppure, lei era lì.
Non la vedeva da anni, da quando si era presentata con quel neonato alla sua porta, precisamente. Ma il tempo pareva non essere trascorso per lei, in un modo tanto letterale che per un attimo gli parve di essere ritornato a quel vicolo dove si erano conosciuti. I capelli neri, onde ricciolute indomabili, erano costretti nello stesso chignon, lo sguardo era fatto di puro onore ed equilibrio, e la stessa giacca di pelle rossa che lui anni prima le aveva sfilato via nella foga della passione ora era drappeggiata sulle sue spalle e ricordava quasi una corazza. Le labbra rimanevano impassibili, senza azzardare un ghigno o un qualsiasi altro movimento, e forse era anche quella sua impassibilità a creare quell'aura di puro potere attorno a lei.
Era così che ricordava l'unica americana per cui avesse provato rispetto ed era così che ora lei gli si presentava.
Non avendo la possibilità di inchinarsi come di dovere, si limitò a un Mokurei: chinò rispettosamente il capo- mantenendo però lo sguardo fisso su di lei. «Youkoso, Nemesi-chama».
Doveva averlo sentito anche attraverso il vetro: l'utilizzo del suffisso di pari dignità- qualcosa che lui aveva concesso solo a un’altra persona nel corso della sua vita- accese un luccichio quasi divertito (lo stesso che compariva in lei ogni volta che lui la chiamava in quel modo) negli occhi di Nemesi, che rispose al suo saluto in un giapponese tanto perfetto da dargli i brividi. Prese posto nell'altra sedia, senza staccargli gli occhi di dosso.
Azuma si inumidì le labbra prima di parlare. «Cosa ti ha condotto nell'umile luogo che ora sono costretto a chiamare casa, mia signora?»
La donna lo fissò con una tale intensità che lui si sentì scrutato nell'anima, arrivando perfino al poco onorevole pensiero di desiderare ancora Nemesi-chama nella sua vita e soprattutto nel suo letto. «Ti porto una notizia spiacevole, Azuma-chama. Ma sai quanto sia fondamentale l'equilibrio: per questo, riceverai anche il dono della verità».
Azuma sbatté le palpebre, in un unico segnale della sua perplessità, ma riassunse immediatamente il controllo. Annuì una singola volta, per poi tentare un Shiken-rei, l'inchino necessario a dimostrare l'attenzione per un determinato discorso.
La voce di Nemesi-chama non ebbe un unico sussulto mentre le sue parole tracciavano morte nell'aria. «Ethan è rimasto coinvolto in una guerra. È morto».
Azuma non si mosse di un centimetro.
Aveva trascorso poco tempo con Kokashita- il nome che solitamente attribuiva a Ethan. Aveva visto i cinque anni di suo figlio, prima che di essere incarcerato, e in seguito Kokashita era di tanto in tanto venuto a fargli visita insieme a Jun, l'altro figlio che Azuma aveva avuto da una cameriera. Poi, dopo sei anni di carcere, le visite di Kokashita si erano affievolite fino a scomparire: veniva solo Jun, per rispondere ai giusti doveri di figlio. Kokashita (o Ethan) non aveva avuto onore nello scomparire senza fornire una spiegazione e di conseguenza nei pensieri di Azuma era stato relegato in un angolo lontano e irritato. Eppure... eppure sentiva ugualmente un senso di vago vuoto ora, proprio in quell'angolo.
«Non ho più avuto rapporti con lui, Nemesi-chama. È scomparso dalla casa di Rin verso gli undici anni».
«Si è recato in quello che avrebbe dovuto essere un luogo adatto ai suoi simili».
Azuma sollevò lentamente lo sguardo. «Mia signora, intendi per i nippo-americani o per quelli che in America definiscono giovani problematici?»
«Niente di tutto questo. Ethan è stato identificato nella sua vera natura, quella di semidio».
La parola risuonò nella sala come il tintinnio di una moneta lanciata in aria, seminando attorno a sé la tensione dell’attimo prima che il metallo ritorni a toccare terra.
Sotto il suo sguardo, quella che credeva essere Nemesi-chama, la sua Nemesi, si fece scivolare in mano dal nulla una piccola bilancia in ottone. «Io non solo sono Nemesi-chama. Sono Nemesis, dea dell'equilibrio e della distribuzione del Fato».
Qualsiasi compagno di prigione di Azuma avrebbe gridato, insultato e imprecato, cercando di liberarsi per aggredire quella donna e quelle che avrebbero ritenuto essere stupide menzogne, ma non lui. Ora finalmente comprendeva quell'aura di potere attorno a Nemesi-chama, o meglio, Nemesi-sensei, comprendeva qualcosa di più sulla natura di quella donna tanto perfetta.
E avrebbe reagito con onore. Facendo leva sulla sedia, si fece cadere direttamente a terra. L’impatto col pavimento freddo e il peso della sedia sulla schiena gli mozzarono il fiato, ma Azuma non ci fece caso. Strinse i denti e si prostrò in un Dogenza, per quanto fosse possibile con le mani ancora legate.
Nemesi-sensei attraversò lo specchio di vetro come se fosse stato di nebbia e sfiorò con le dita i capelli che Azuma teneva raccolti in una coda. La sua voce manteneva un tono normale, ma nella sala vuota rimbombò con la forza di una delle antiche preghiere degli antenati. «Nostro figlio ha combattuto onorevolmente per la mia causa, l'essere riconosciuta tra gli altri dei. La tua perdita sarà ricompensata, Azuma-chama».
Quando le sue calde dita arrivarono a toccargli la fronte, Azuma spalancò gli occhi, trattenendo a stento un mezzo grido, mentre tutta la verità su Kokashita e gli dei scivolava dentro di lui come un ruscello in piena.
***
La vita nel carcere, nelle settimane e poi nei mesi seguenti, trascorse senza particolari avvenimenti. Risse e complotti erano all'ordine del giorno, come in qualsiasi altro penitenziario.
Ma nella cella numero trecentoventiquattro, Azuma Nakamura, nonostante non parlasse l'inglese molto più del semplice necessario, aveva richiesto molti volumi di quella che sembrava mitologia greca.
In un angolo della stanza, vicino a una delle due finestrelle, due candele bruciavano costantemente ai lati della foto di un ragazzino scarno, dai tratti mediorientali.



 
 
 
 

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Note dell’autrice

Buonsalve!
Eccomi qui, con una parte stavolta dedicata a Ethan Nakamura. The best boi.
Tanto per cambiare, anche la sua storia mi piace molto e, tanto per cambiare 2.0, avrei voluto venisse approfondito di più. Comunque sia, in questa shot ho deciso di approfondire le origini asiatiche di Ethan: il suo cognome, ho scoperto, è direttamente tratto da un serial killer giapponese, Seisaku Nakamura. Di conseguenza, ho deciso un po’ per questo, un po’ per la storia di abbandono che Ethan sembrava racchiudere, di ambientare la shot in un contesto carcerario. Mi sono anche basata sul fatto che il tasso di criminalità di giovani nippo-americani, stando ad alcuni dati da me letti tempo fa, fosse particolarmente elevato, proprio a causa del distacco e dell’abbandono che sentono rispetto al resto della società.
Azuma significa, inoltre, “est” in certi dialetti giapponesi- in riferimento al fatto che, rispetto al Giappone, lui e la sua famiglia si siano trasferiti ad est. Kokashita, il nome che Azuma usa per riferirsi ad Ethan, fa riferimento a un particolare stato di debolezza o fragilità (almeno da quanto ricordo… purtroppo ho perso la fonte).
Anche i vari inchini e i suffissi di rispetto utilizzati da Azuma sono esistenti: li trovate qui e qui. Per sintetizzare, il Mokurei consiste in un chinare semplicemente il capo ed è spesso usato quando si intravede una persona che si conosce da parecchio tempo; lo Shiken-rei, come ho scritto, dimostra invece la propria attenzione al discorso trattato, mentre il Dogenza, che prevede il prostrarsi completamente a terra, assume il significato di un pentimento per un’azione particolarmente grave che si è compiuta- nella testa di Azuma, quest’azione è stata il non mostrare da subito il dovuto rispetto a Nemesis. Per quanto riguarda i suffissi, il “chama” è utilizzato tra persone che si considerano pari all’interno di una discussione (credo che Nemesis lo faccia in modo un po’ ironico, ad essere sincera). Per il “sensei”, non credo ci sia bisogno di approfondite spiegazioni ahah
La citazione iniziale è tratta da “Devastiamo la città sacra”, 19° capitolo del “Lo Scontro Finale”.
Credo sia tutto. Un po’ mi dispiace non aver approfondito tanto questa shot come le altre, ma in parte è una scelta stilistica: Azuma è un uomo di decisamente poche parole e non gli andava di raccontare più di tanto. Fun fact, mi pare che il suo sia anche il primo capitolo che ho scritto per questa raccolta.
Detto questo vi saluto, ringraziando Manonloso per avere inserito la storia tra le preferite (nickname divertente, by the way!) e anche Lady White Witch per avere recensito entrambi i capitoli della storia.
Fatemi sapere che ne pensate, se vi va!
Baci,
                   - Nox
  
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