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Autore: blackjessamine    14/05/2020    4 recensioni
Ispirato all'inarrivabile raccolta di racconti "Eleven Kind of Loneliness" di Richard Yates, questo vuole essere il ricamo di undici vite, undici esistenze raccontate nei loro momenti più vulnerabili.
Personaggi diversi che si muovono in momenti diversi, tutti accompagnati dalla stessa solitudine.
Di Richard Yates, Alfred Kazin dice che lui "riassume la nostra epoca con più spietatezza di ogni altro, ma anche con più pietà". La stessa pietà con cui spero di sfiorare le solitudini dei miei personaggi.
1. Capitolo Indice
2. Petunia Evans [Storia partecipante al contest "Sincero (non mi odi più) indetto da Giunia Palma/Lady Palma sul forum di EFP]
3. Mirtilla Malcontenta
4. Severus Piton
5. Priscilla Corvonero
6. Barty Crouch Jr. [Storia partecipante al contest "Citazioni in cerca d'autore (Oscar Edition)! - II Edizione", indetto da Rosmary sul forum di EFP]
7. Helena Corvonero [Storia partecipante al contest "Una biblioteca in disordine", indetto da Marika Ciarrocchi/Angel Cruelty sul forum di EFP]
8. Andromeda Tonks
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mirtilla Malcontenta, Petunia Dursley, Severus Piton
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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Personaggi: Helena Corvonero, Mirtilla Malcontenta
Genere/i: Introspettivo, Malinconico
Avvertimento/i: nessuno
Nota/e: nessuna
Contesto/i: Dai Fondatori alla I Guerra Magica
Rating: giallo
Lunghezza: one-shot
Introduzione:  “C’è una ragazzina che strilla ogni notte: dicono che si senta in colpa . 
Io dico che la colpa ha contorni sfumati: non può mai ricadere su una sola persona, ma nessuno ne è immune. 
N.d.A.: La storia partecipa al contest “Una biblioteca in disordine”, indetto da Marika Ciarrocchi/Angel Cruelty sul Forum di EFP: scopo del contest era scrivere una storia che avesse per titolo uno di quelli proposti (in questo caso, ovviamente, “Viaggio degli spiriti”, sintesi de “Viaggio al centro della terra” e “La casa degli spiriti”).



 
 
 
 
Viaggio degli spiriti


 
 
 
 
Piove.
Piove, ed è un po’ come se questa pioggia ci scavasse dentro: l’intero castello si è fermato, in questi giorni, si è fermato e ha imparato a guardarsi dentro.
È l’effetto della morte: costringe la vita a guardarsi allo specchio e a fare i conti con la propria immagine riflessa. 
 
Piove, ed è come se il castello volesse chiudersi al mondo, costruirsi mura di nebbia e vapore per tenere lontano tutto ciò che non è cordoglio e sgomento.
I colpevoli sono stati catturati, la sicurezza è stata ristabilita, ma gli studenti hanno pagato un prezzo troppo alto: poco importa che nessuno fosse amico della ragazza dagli occhiali spessi. Forse dimenticheranno presto il suo nome e il suono della sua voce, ma non dimenticheranno mai cosa si prova ad essere atterriti, a guardare negli occhi la propria fallibile umanità e a sentire ogni certezza vacillare prima del tempo. 
 
Piove, e quando piove mi sembra di ricordare le carezze di mia madre, le sue dita distratte che mi asciugavano le lacrime quando ero una bambina.
Piove, e penso alla madre che ora starà piangendo sulla terra smossa di un cimitero di provincia. 
Penso a lei e penso a mia madre, ma non posso farmi distrarre: ho un compito, oggi. Un compito ingrato, ma che so pesare solo sulle mie spalle sottili.
 
Sono stata più schiva del solito, in queste settimane: abito l’aria di questo castello da così tanto tempo che i volti degli studenti li conosco come fossero il mio cuore: quando la morte li sfiora, scoprono di avere tante domande. Sono domande che pretendono risposte, domande che sanno riempire anche i cuori più timidi di un ardore tutto nuovo.  
Altri, nella mia condizione, ritengono un dovere morale offrire delle risposte.
Io alla mia morale ho rinunciato quando l’amore mi ha soffocato la gola con una manciata di sangue.
 
C’è una ragazzina che strilla ogni notte: dicono che si senta in colpa . 
Io dico che la colpa ha contorni sfumati: non può mai ricadere su una sola persona, ma nessuno ne è immune.
Questa ragazzina ha l’orrore negli occhi, e il mio cuore sanguinerebbe per la pietà davanti al suo sguardo distrutto, se solo la pietà non mi fosse stata strappata da un sorriso d’acciaio. 
Io me le ricordo, le sue parole affilate: se le spargeva attorno in manciate di sale, costringendo la ragazza con gli occhiali spessi a frugare a piene mani nella sua solitudine, per emergerne ogni giorno un po’ più spenta. Le sue notti cullate da carezze di gelo se le è meritate.  
 
Sono stata la prima a vedere la ragazza con gli occhiali spessi: si era nascosta, piccola ombra invisibile nella tempesta che aveva suscitato. Si era nascosta, e io ho rispettato il suo silenzio: l'ho riconosciuto, assorbito, rivissuto, e forse avrei pianto, se mi fossero rimaste lacrime. 
Lei mi ha visto, quando hanno portato via il suo corpo, ma anche lei ha rispettato il mio silenzio.
Per settimane la sua è stata un'esistenza fatta di ombre e recessi nascosti: avrei potuto cercarla, forse avrei anche potuto trovarla, ma non l'ho fatto. Serve tempo, serve tempo anche per chi vive l’infinito. 
 
S'è mostrata per la prima volta di notte, andando a stendersi accanto alla ragazzina con le parole affilate: l'ha risvegliata dai suoi sogni con carezze fatte di sussurri gelidi, e di nuovo è tornata a nascondersi.
 
Piove, e questa mattina la ragazzina con gli occhiali spessi ha attraversato il parco, fluttuando mesta fra una goccia di pioggia e l’altra: era l'alba, e il grigio dell’atmosfera sembrava fatto apposta per camuffare il suo lieve avanzare, ma io ho comunque avuto l’impressione che lei volesse essere vista. 
Tutti noi vogliamo essere visti, a un certo punto: forse non lo ammetteremo mai, ma se decidiamo di compiere un viaggio al contrario è proprio perché speriamo di essere visti.
 
L'avrei dovuta raggiungere sotto la pioggia, forse, ma la pioggia, anche se non è più capace di sfiorarmi, per me continua ad avere il sapore di quella notte in cui mi hanno strappato l’amore dal petto.
Ho lasciato che la ragazzina con gli occhiali spessi si trovasse un nuovo nascondiglio prima di decidermi a cercarla.
 
Non mi piace cercare la gente: mi ricorda troppo il mio vano fuggire – da mia madre e da me stessa, da una vita che non volevo e dalla morte. Ma la ragazzina dagli occhiali spessi va trovata: non posso più farle del male, ora, non quando ogni possibilità è ormai scivolata fra le dita. Posso dirle parole amare, posso costringerla a guardarsi dentro, ma il dolore più grande ce l'ha già cucito addosso.
Non la morte.
Il rimpianto per il suo eterno presente, per quel passo che ha deciso di non compiere, quel sentiero che è a portata di mano di chiunque, ma che noi abbiamo scelto di rifiutare.
 
Per tutto il giorno attraverso muri e corridoi, osservando i volti ancora turbati degli studenti. Sembrano bambini, anche quelli che presto verranno considerati uomini: bambini che cercano invano una guida che sappia cancellare la loro confusione.
Torneranno i giorni di sole, torneranno le risate e i sotterfugi e i bisticci, perché la vita impara sempre ad andare avanti, anche quando avanti noi non ci possiamo più andare. Torneranno ad essere soltanto studenti, ma non dimenticheranno mai che cosa significa essere sfiorati dalla carezza gelida della morte.
 
Per tutto il giorno cerco di dare tempo alla ragazzina con gli occhiali spessi così che creda di avere una possibilità di continuare a nascondersi, ma quando cala la sera e gli studenti sono solo una massa vociante – ma non abbastanza – col capo chino sui piatti in Sala Grande, vado nell'unico posto in cui so di poterla trovare. 
Il bagno al primo piano del castello, un bagno a cui ormai hanno tolto ogni sigillo, ma che nessuno ha avuto il coraggio di avvicinare.
La ragazzina dagli occhiali spessi è lì, spalle chine e visetto cupo rivolto alla finestra. 
Io mi annuncio con un piccolo colpo di tosse, e lei arretra, le spalle al muro.
Glielo leggo in quegli occhi tristi, che si sente messa all'angolo: non ha ancora abbastanza confidenza col questo nuovo piano dell'esistenza per cercare di sottrarsi lasciandosi solamente scivolare attraverso il muro.
Mi si stringerebbe il cuore, se solo me ne fosse rimasto abbastanza.
 
Mi guarda, la ragazzina con gli occhiali spessi, e i suoi occhi sembrano annegare in quel mare di lacrime che a stento trattiene.
Mi guarda e non parla.
Forse mi teme.
Non sono il Frate Grasso, io: i giovani Corvonero sono gli studenti di mia madre, non i miei. La Sala Comune nascosta dietro l’aquila di bronzo è per me casa e prigione, ma non certo fonte di condivisione con i giovani che palpitano sotto il tocco caldo della vita .
 
O forse la ragazzina con gli occhiali spessi non teme me, non teme ciò che rappresento o che sono stata: teme ciò che sono ora, ciò che siamo, e tutto ciò che potrei costringerla a dire.
 
“Non devi più avere paura".
Non parlo spesso, e la mia voce mi appare ogni volta un sussurro troppo tenue. Un sussurro che non può farsi sentire, non abbastanza.
Mai abbastanza. 
La ragazzina mi guarda, si raddrizza gli occhiali spessi sul naso, e le sue dita trasparenti corrono a tormentare un brufolo infiammato nella piega fra le labbra e il mento.
“Non so perché mi sono nascosta".
Non è un sussurro: è più uno scagliare lontano da sé quelle parole che pesano come macigni anche per chi dovrebbe avere soltanto leggerezza.
“Lo facciamo quasi tutti, all'inizio". 
 
Ripenso alla mia notte d’argento, dopo che chi si riempiva la bocca d’amore mi ha strappato dal petto la mia libertà. Ripenso a quel vagare incerto e tormentato, a una foresta che si era trasformata all’improvviso in un labirinto: avevo ancora negli occhi quella curva della strada , quel sentiero di luce a cui avevo voltato le spalle, quel viaggio spezzato dal mio timore e dalla sorpresa che mi aveva colto. 
Non ero pronta a morire.
Nessuno lo è, mai, ma io stavo fuggendo, e mi sono ritrovata per sempre intrappolata in un’esistenza senza dinamismo. Ombra fra le ombre, incapace di raccogliere un pensiero, ho attraversato Paesi interi: non mi importava di essere vista, non mi importavano le grida in lingue sconosciute suscitate dal mio volto che lasciava intravedere tutto il mondo, non mi importava niente.
Era solo un istinto – lo stesso che mi aveva fatto voltare le spalle davanti alla curva della strada – a guidarmi: non appartenevo più a niente, e non sarei mai più stata abbastanza per appartenere di nuovo a qualcosa – o a qualcuno – ma ciò che mi aveva trattenuto su questa terra mi spingeva anche a tornare a casa.
In prigione.
 
La ragazzina con gli occhiali spessi non mi guarda più: vede solo i suoi piedi, che calzeranno per sempre le sue scarpette dalla suola di cuoio che ormai non sanno più risuonare contro le fredde pietre di questo castello.
Dovrei dirle qualche altra cosa, dovrei tenderle una metaforica mano – non sono fatta per aiutare o essere aiutata, io.
“Loro dimenticheranno. Dimenticano tutti, prima o poi, e allora non avrai più bisogno di nasconderti”.
Cerco di mascherare le mie tristi verità con un velo di consolazione, ma non mi stupisco quando la ragazzina dagli occhiali spessi mi regala come risposta uno sguardo che è tutto un affronto.
“Certo che mi dimenticheranno! Chi mai potrebbe ricordarsi di una persona noiosa come me?”
 Mi allontano, almeno un po’: non mi piace quando le persone alzano troppo la voce, né mi piace avvicinarmi troppo alle passioni esasperate degli adolescenti.
 
Piove, ma a nessuno importa più.
Piove mentre la ragazzina dagli occhiali spessi piange e si dispera per delle prese in giro che non dovrebbero più toccarla, non ora  che ha l’eternità legata ai polsi come fosse un’ombra scura .
Piove, e all’improvviso la ragazzina smette di parlare, mi cuce addosso un paio di occhi sembrano avere almeno cento anni, e la sua voce smette ogni lamento.
“La mia mamma è venuta a riportarmi… sì, a riportare il mio corpo a casa . Ho sentito la sua voce, ma non mi sono fatta vedere da lei”.
La ragazzina dagli occhiali spessi non sembra cercare conforto o perdono: c’è quasi una luce di sfida nei suoi occhi. Non lo può sapere, lei, che dopo essermi fatta strappare la vita da chi prometteva di amarmi io ero tornata nella mia prigione – la mia casa.
Non lo può sapere, lei, di come per giorni e giorni io abbia vagato fra i giovani alberi di quella che ora chiamano Foresta Proibita, incapace di affrontare ciò che mi aveva convinto a tornare.
Non lo può sapere, questa ragazzina ancora sporca di vita, che ho atteso per giorni di vedere il feretro di mia madre varcare i portoni della sua scuola, scortato da tutte le persone che l’avevano amata, ma non dall’unica che lei avesse amato – non abbastanza.
Solo allora, solo quando il castello era tornato ad essere una prigione come tutte le altre, privo di sguardi pieni di dolore da affrontare, mi concessi il lusso di scivolare fra la pietra di quelle mura.
 
“Potrai farlo quando vorrai. Noi non siamo legati al luogo della nostra morte: puoi lasciare il castello e tornare da lei, se lo vorrai. Se credi che potrà trarne una qualche consolazione”.
La ragazzina dagli occhiali spessi è poco più che una bambina: è lei, solo lei quella ad avere bisogno di trarre conforto dalla vista di sua madre, ma non lo dico: non voglio affrontare altre lacrime, ma se ho imparato qualcosa in tutti questi secoli vissuti accanto a degli adolescenti, è che ricordare loro quanto poco siano lontani dall’infanzia è il modo migliore per farli agire come bambini arrabbiati. 
“La mia mamma non ci crede nei fantasmi”, spiega la ragazzina, incapace di reprimere l’orrore davanti alla crudezza di quella nuova parola, “la farei solo morire di paura  e di dolore”.
 
Il silenzio si allunga tra di noi: io non dico niente, ma le parole della ragazzina continuano a graffiarmi l’anima: la farei solo morire di dolore. È la stessa scusa che mi sono raccontata quando non osavo varcare la soglia del castello dove mia madre moriva ogni giorno di più, mormorando sempre più debolmente il mio nome. Me la sono ripetuta spesso, perché quando si sceglie di avere l’eternità come destino, i sensi di colpa sono una compagnia che nessuno può sopportare.
Me lo sono ripetuta spesso, ma mai con la stessa ferma convinzione della ragazzina con gli occhiali spessi. 
 
Non mi importa più del compito che credo di avere: quella ragazzina imparerà da sola a fare i conti con la propria condizione. Io voglio solo scivolare nel nulla e restare sola con la mia esistenza di silenzi e parole dimenticate.
 
“Credo che resterò, almeno fino al diploma” afferma la ragazzina, e per un attimo temo che non abbia capito nulla: non voglio essere io a spiegarle che esami e diplomi sono per chi ha un futuro, e non c’è posto per  i morti fra i banchi di scuola.
“Resterò fino al diploma, e intanto le darò il tempo di dimenticarmi. E poi la seguirò, e la troverò, e le sussurrerò ogni notte le parole che mi hanno uccisa ”.
 
È follia quella che ora illumina gli occhi della ragazzina con gli occhiali spessi.
È follia, e forse io dovrei intervenire, dovrei cercare di fermarla o di farla ragionare, salvarla dal gesto irrazionale di chi non sa più cosa sia la ragione.
Resto in silenzio.
In pochi sono disposti ad ammetterlo, ma non può esistere salvezza per chi decide di voltare le spalle alla curva della strada. 
 


 
 
 

Note:
Questa storia, per me, è “tutta sbagliata”: quando ho visto i titoli disponibili nel contest di Marika, “Il viaggio degli spiriti” mi ha subito colpita tantissimo, perché un titolo simile mi avrebbe permesso di approcciarmi a una storia che mi ronza in testa da diverso tempo. È da quasi un anno, infatti, che vorrei provare a scrivere di Mirtilla e del suo “viaggio” per tormentare Olive Hornby: questa mi sembrava l’occasione perfetta, e invece… e invece, la storia che avevo in mente si è rivelata troppo lunga e complessa, quindi ho preferito ripiegare su un viaggio molto meno concreto e un po’ più metaforico: il viaggio “oltre la curva della strada”, quello che gli spiriti scelgono di negarsi, ma anche il viaggio verso la consapevolezza di questi fantasmi, il percorso compiuto da Helena per tornare al castello da cui era fuggita e il confronto sempre evitato con sua madre. Sono consapevole che buona parte di questa intenzione è rimasta nella mia mente, e che il tema si sarebbe potuto sviluppare molto meglio, ma insomma, è una storia “tutta sbagliata” a cui ho comunque finito per affezionarmi, per cui ho deciso di metterla in gioco lo stesso.
Infine (infine, giuro): Helena e Mirtilla. So che si tratta di una coppia di personaggi molto particolari, ma mi sono sempre chiesta se potesse nascere un legame, una sorta di guida fra il fantasma della figlia di Corvonero e il fantasma di una studentessa Corvonero. Ecco, anche qui si sarebbe potuto fare di meglio, ma ci ho provato (e non escludo di tornarci sopra, in futuro).
   
 
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