Singing
is the answer
17 – Lee Min Soo
«Corri!»
«Ehi, Aya, aspetta… aspetta!» Josh strattonò la
ragazza attirandone l’attenzione ma lei sembrava non ascoltarlo neppure.
«Adesso ti fermi e mi spieghi, perché io non correrò un solo metro di più.»
La resistenza fisica non era propriamente il suo forte; a lui non interessava,
non era un fan sfegatato del fitness e di tutte quelle cose che l’amico Åsli era solito praticare nel tempo libero. Semi manubri,
addominali, macchinari, palestre non facevano per lui.
Tanto meno il jogging.
«Zitto e seguimi.»
Lei non avrebbe accettato un no, lo stava trascinando verso la fermata
dell’autobus nella speranza di accorciare il tragitto il più possibile. Non
ascoltò l’altro neppure quando le propose di tornare indietro e recuperare la
macchina. Non ne voleva sapere, si stava dando della stupida ad intervalli
regolari, controllando l’orologio più e più volte e battendo a terra la punta
della scarpa con tale impazienza da sbuffare rumorosamente. Josh la prese per
le spalle incastonando gli occhi nei suoi: «Guardami, stai calma. Adesso
respiri e mi spieghi cosa è successo.»
Aya indicò spazientita lo smartphone con un dito,
parlando spedita, mangiandosi qualche sillaba nel mentre: aveva letto in
ritardo i messaggi dell’amica, disse, e lei s’era fatta male ed aveva bisogno
estremo di aiuto. Il suo aiuto. Spiegò che ci teneva a lei, erano legatissime,
avrebbero dovuto vedersi per studiare per un esame ma non s’era presentata. Si
massaggiò la testa strizzando gli occhi.
«Lo sapevo, sapevo che non avrei dovuto farlo.»
«Farlo cosa?»
«Uscire con te.»
Un’accusa pesante, considerando che il giovane non era coinvolto in nessuna
maniera nella faccenda.
«Aya, adesso non esagerare per favore. Anche se tu
non fossi stata con me, lei si sarebbe fatta male lo stesso, giusto? Ora ti
calmi e poi ce ne andiamo a fare un giro, così ti rilassi.»
Lei lo guardava allibita: calmarsi e andarsene senza fare nulla non era certo
il suo stile, avrebbe dovuto trovare il modo di raggiungerla, ma come? Spostò
le iridi lucide da lui al cellulare per poi parlare rivolta all’assistente
vocale: chiese informazioni riguardo al locale segnato nella memoria della
posizione del dispositivo. La voce artificiale le rispose cordiale d’aver
trovato i dati che le servivano.
Han aveva risposto al telefono del bar con la solita accortezza, pensando di
avere a che fare con una semplice richiesta di asporto da parte di uno dei
clienti abituali; non era certo la prima, né la decima volta che accadeva.
Quando riconobbe la voce di Aya leggermente distorta
dal ricevitore si stupì chiedendosi il motivo di un gesto tanto inusuale. Non
comprese fino a che la ragazza non lo pregò di starla ad ascoltare.
Ed erano bastate poche parole per convincerlo.
Incurante della presenza dei clienti al bancone chiamò da parte il collega di
lavoro, occupato nella preparazione degli stuzzichini per l’aperitivo,
pregandolo di coprire la fine del suo turno in cambio di un grosso favore.
Solitamente non avrebbe osato tanto, ma la notizia ricevuta l’aveva portato ad
agire d’impulso, come poche volte in vita sua. Un assenso veloce, il grembiule
blu notte lanciato in un angolo del magazzino e poi subito fuori. Tentò nel
mentre di chiamare Raon ma non rispose al telefono.
Imprecò.
Aya gli aveva appena riferito che la sorella s’era
fatta male. Non c’era nessuno in casa a darle una mano. Certo, lui era al
lavoro, il padre pure e la madre… scacciò il pensiero scuotendo il capo; non
sarebbe stata una buona idea coinvolgerla, ma non aveva capito esattamente
cos’era successo e s’impensierì. Decise di mandarle un messaggio veloce nella
speranza che potesse riceverlo e leggerne il contenuto: qualsiasi cosa stesse
facendo, avrebbe trovato un attimo di tempo per la figlia. Non attese neppure
la conferma dell’invio, accese il motore dell’utilitaria di un grigio anonimo
sbiadito dagli anni e partì. Il traffico non perdonava a quell’ora e sembrava
non lasciargli alcuno spazio di manovra. Sbuffava picchiando il volante con il
pugno, ogni singolo minuto passato in coda gli stava costando un’immane fatica.
Impostò spazientito il navigatore satellitare sul cellulare ancorato al
cruscotto cercando qualche via laterale, di difficile lettura per colpa dei
sensi unici che serpeggiavano nella zona, intersecandosi in semafori
sovraffollati e rotonde – troppe rotonde – poste in tratti insensati. La voce
gracchiante e meccanica lo apostrofò designando percorsi secondari
chilometrici, svolte improbabili, lavori in corso insormontabili; avrebbe volentieri
mandato a quel paese il suono preregistrato ma non poteva permettersi un nuovo
cellulare.
Sospirò ancora mentre un nuvolone scuro, veloce, troppo veloce si muoveva in
direzione della città, nella sua direzione: il ticchettio sulla carrozzeria e sul
parabrezza non tardò ad arrivare.
«Allora dillo che mi odi.» Rivolto ad un’identità imprecisata si lagnò della
sfortuna che stava lavorando giusto per rovinargli l’intera giornata: aveva una
fretta indicibile, era stato contattato proprio dall’ultima persona che
immaginava di incontrare in quel periodo e ci si metteva pure la grandine. No,
non era possibile, si trattava di un qualche scherzo del Karma forse, e
sfogandosi contro il clacson maledicendo gli altri autisti ripercorreva la
propria vita nel tentativo di trovare qualche falla, un buco che potesse
spiegare tutto quell’accanimento immotivato. Forse c’era, ma giustificare i
primi chicchi ghiacciati sul tetto della macchina, quello no. Si guardava le
mani tremanti, la rabbia era tanta e tale da legargli l’esofago e sigillare la
bocca dello stomaco. Sarebbe esploso a breve di sicuro.
Miracolo, la macchina si mosse di qualche metro.
Urlò un sì trionfante, sbeffeggiando le entità avverse.
Di nuovo fermo.
E allora quelle stesse entità le mandò a fare in culo nel posto più lontano
possibile e immaginabile. Scorse con la coda nell’occhio la gente correre nel
tentativo di scappare dall’improvviso maltempo, e tra loro notò una figura
familiare che correva verso il centro città.
«Aya?»
Nel momento in cui cercò di richiamarla abbassando il finestrino il traffico
riprese a scorrere.
«Ma che c… Ehi, ehi Aya, di qua!» Fermo in mezzo alla
carreggiata la chiamò ancora mentre un paio di auto dietro mostravano il loro
disappunto ruggendo infastidite. «Di qua, Aya, Aya!»
Al terzo tentativo si voltò, inchiodando i grandi occhi sui suoi.
L’aveva sentito. Ormai fradicia la ragazza si sedette in auto, ringraziandolo
d’averla trovata e lo pregò di accompagnarla da Raon.
Erano entrambi preoccupati, ma Han riuscì a ridere lo stesso constatando quanto
la pioggia avesse lavorato sull’aspetto di lei: i capelli chiari disordinati le
ricadevano sul volto adagiandosi sugli abiti fradici mentre tremava per il
freddo del diluvio improvviso. Non riusciva a parlarle, non aveva ancora metabolizzato
la presenza di lei accanto dopo anni di separazione forzata; avrebbe voluto
porle qualche domanda di rito, ma fu solo capace di stringere le dita al
volante consunto.
Lasciati i lavori in corso alle spalle, causa del rallentamento e della riduzione
di una delle corsie, la strada si mosse rapida sotto agli pneumatici
impazienti. Come sarebbe stata Raon, da sola sotto
alla tettoia del garage, dolorante e infreddolita? Quello il pensiero di Aya e Han, che tentavano in tutti i modi di sfuggire all’imbarazzo
di quella coesistenza praticamente impossibile in un universo normale dove la
loro storia s’era conclusa in uno dei modi peggiori. L’unico suono ad
accompagnare i loro silenzi era dato dalle gocce numerose e violente,
insistenti. Caotiche.
Esattamente come i neuroni nella testa di lei.
Più volte aveva aperto bocca, sembrava le mancasse l’aria; non stava pensando
neppure a Josh e al fatto che l’aveva lasciato solo per poter raggiungere
l’amica, in quel momento non poteva importargliene in alcun modo. Contava le
perle gelide che ticchettavano.
Uno.
Due.
Ventotto.
Cinquantasette.
Il rapido procedere dell’inutile passatempo venne interrotto dall’altro.
«Aspetta un momento, non c’è. Dove diavolo è finita?»
Erano arrivati a destinazione, ma della ragazza infortunata nessuna traccia.
Il campanello suonò ancora una volta.
«Tu sta qui.» Åsli fissava torvo Tae senza neppure
chiudere le palpebre. «Sta qui e non toccare nulla. Non permetterti.»
«Agli ordini capo. Immagino se chiami Raon…»
«Non andare. Ci vado io.»
Dal corridoio aveva sentito chiaramente un rumore di passi trascinati, segno
che la ragazza si stava arrangiando da sola. “Testarda. Che cazzo ti costava
fermarti?” Avrebbe dato fiato a un pensiero simile?
Certo che sì.
«Vi avrò chiamati venti volte, ma che problemi avete? Siete sordi o
deficienti?» Raon s’era appoggiata al muro
dell’ingresso sospirando affaticata. Imprecò tenendo la caviglia sollevata,
accarezzandola con le dita stanche. Espirò rumorosamente, faceva tremendamente
male e ormai era più che gonfia. «Stai aspettando qualcuno? Non vai ad aprire?»
Il padrone di casa avrebbe dovuto farlo, certo: ormai aveva perso il conto di
quante volte quel dannato suono aveva forato il timpano sinistro. Ringhiò un
contrariato “arrivo” lanciando un’ultima occhiata alla ragazza. Aprì la porta
inveendo contro Josh, l’unico che avrebbe potuto raggiungerlo in quel momento,
quando il sorriso cordiale ma teso di una donna di mezz’età lo colpì: minuta,
mora, magrolina.
Era lei, quella della foto. Ne era certo al cento per cento. Era lei perché
aveva avuto modo di rigirarsi l’immagine tra le mani più di quel che avrebbe
dovuto.
«Signora Lee?»
«Sono io, e ho l’onore di parlare con… con…»
Åsli s’era bloccato: davanti a sé la madre di Raon, non sapeva esattamente come comportarsi, cosa dire.
Si presentò rapido, rammentando la propria presenza in casa come nuovo
inquilino. Porse la mano in un gesto di cortesia e rispetto, stringendola con
risolutezza. C’era qualcosa di rassicurante in quegli occhietti scuri che lo
scrutavano curiosi.
Dal corridoio Raon si gelò letteralmente sul posto,
dimenticando per un attimo il dolore, i trascorsi, l’essere in casa del ragazzo
che non ricordava nemmeno d’averla baciata in un momento di debolezza,
accostato ad uno sconosciuto che in qualche modo l’aveva fatta stare bene fin
dal primo momento. Forse il secondo momento, visto che l’impatto le aveva
creato danni. Era confusa, tanto da cominciare a respirare dalla bocca in modo
accelerato.
«C’è mia figlia per caso?»
Il no mugolato sottovoce era giunto alle orecchie del ragazzo troppo tardi.
Certo, fu la risposta, e ormai la donna s’era diretta in sala senza nemmeno
notare la presenza di lei; quest’ultima s’era nascosta mimando all’altro di
fare silenzio, come non fosse mai esistita.
Un cenno d’assenso e Åsli fece accomodare la signora
Lee sul divano.
«Se posso esserle utile, mi dica pure.»
Tae aveva osservato la scena dall’angolo opposto della sala ridendo per nulla
velatamente: si stava godendo ciò che stava accadendo, molto più di quello che
avrebbe potuto immaginare. Salutò da lontano l’ospite con un vivace gesto della
mano, sedendosi su una delle sedie accostate al tavolo.
«Potrei avere un tè per cortesia? Mi sono spostata in fretta appena ricevuta la
notizia, e non avendo trovato la mia piccola Raon a
casa, ho pensato all’unico altro posto dove avrebbe potuto trovarsi. Sai, non
ha un ragazzo, quindi pensavo avrebbe raggiunto casa di sua nonna. Solo quando
hai aperto la porta mi sono ricordata che mia madre aveva affittato.» Riprese
fiato un attimo poggiandosi il palmo aperto sul petto in un gesto teatrale
volto a sottolineare una preoccupazione forse eccessiva. «Allora, dove si trova
il mio tesoro?»
«Tesoro un cazzo.»
L’entrata in scena della ragazza non era stata delle migliori: aggrappata allo
stipite della porta, il fiatone evidente – per la rabbia, più che per il dolore
– il piede gonfio sollevato da terra. Gli occhi ridotti a due fessure
osservavano con disprezzo la figura seduta sul sofà che di rimando la guardava
stupita, punta sul vivo. La donna annaspò prima di scuotere il capo con dissenso,
fingendo mancato interesse per una risposta che difficilmente poteva tollerare.
«Eccoti, sono corsa qui appena tuo fratello mi ha contattata e…»
«Posso arrangiarmi da sola. Sono stata accompagnata qui e mi hanno aiutata loro.
Non c’era certo bisogno della tua presenza qui.»
La signora Lee si morse il labbro sbiancandone la superficie a cui mancava ormai
parte di un rossetto che aveva esaurito le ore di posa; si massaggiava ripetutamente
la tempia con dita esili e rovinate, segno di un lavoro di fatica portato
avanti per anni senza dovute protezioni a preservarne l’epidermide ormai lesa.
Tae stava notando tutto quanto con occhio indagatore, come contava
malinconicamente le lacrime trattenute a fatica da Raon
in quel insolito colloquio con quella che presumibilmente era la madre, ma che
di fatto sembrava essere un’intrusa indisponente.
«Ritengo la situazione sia sotto controllo ormai.» La voce di Åsli si alzò nella stanza pregna di nervosismo palese,
mentre lo stesso Tae lo guardava cercando di capire in che direzione volesse
poi muoversi. Voleva inquadrarli tutti e tre, certe cose le aveva intuite a
pelle ma quel ragazzo davvero era un continuo mutamento di reazioni.
«Ora penso sua figlia debba riposare, per poi andare a farsi visitare da un
medico domani.»
La cordialità della donna passò in secondo piano all’udire le parole dell’affittuario.
«Immagino tu sia un dottore, perdonami se non l’ho capito subito. Scusami, ma
adesso prendo Raon con me e la porto a casa, credo di
sapere di cosa abbia bisogno.» Le si avvicinò prendendola per il braccio,
stringendo la morsa delle dita più del dovuto. «Adesso vieni con me, andiamo via
dal signor “So tutto” e dallo spione qui a fianco.»
Raon strattonò l’avambraccio con forza,
sbilanciandosi ed imprecando ad alta voce nell’appoggiare il piede a terra
cercando di divincolarsi dalla presa della madre. «Io resto qui, non me ne vado
a casa se ci sei tu.»
«Cosa scusami? Puoi ripetere?»
«Che cazzo credi di fare, venire qui chissà per quale idiota di motivo per poi
avanzare pretese su quello che devo o voglio fare? Ma se non te n’è mai fregato
un emerit-»
La parola si estinse in gola: Lee Min Soo stava piangendo.
Lei non era triste.
Non lo era affatto.
Non era offesa, no.
Sua figlia le aveva mancato di rispetto davanti ad altre persone, e questo non
l’avrebbe tollerato. Si passò rapida la manica del maglione sugli occhi lucidi,
soffiando esasperata. «Raon, torniamo a casa.»
«No. Non ci vivi nemmeno lì.»
«Raon, ascoltami, andiamo.»
Tae si mosse verso di loro ma venne fermato da Åsli
stesso, l’indice sulle labbra a mimare un silenzio necessario; aveva scosso il
capo in un no secco, come se non fosse stato per loro il momento di
intervenire. La ragazza li guardò entrambi, prima di chinare il capo sconfitta.
Digrignò i denti ed inspirò dal naso nel calmarsi, masticando parole non
pronunciate e ricacciate a fatica dentro alle corde vocali.
Aveva perso su tutti i fronti.
Aveva cercato sostegno nei due, e la risposta fu un solo, lungo silenzio.
Note dell’autrice (ce l’ho
fatta? Sì? Davvero? Beh, mai ci avrei creduto in questi giorni):
Buonaseeeera! Chissà come l’avrà presa qualcuno di voi? Aya che fanculizza Josh
per Raon e si ritrova in macchina con il suo ex, senza sapere cosa dire e
preoccupata da far schifo. La madre di Raon si palesa così, a cazzo di can,
avanzando pretese che non le competono nemmeno. E quest’ultima che fa? Cerca
sostegno, parole, attenzione, cerca un segno da parte di Tae e Åsli che se ne
stanno lì senza dire nulla.
La donna si chiama Min Soo, è nome coreano
neutro ma dalle mie ricerche risulta prettamente maschile, ho deciso di darle
questo perché di femminile avrà ben poco e più avanti capirete perché.
Bene, mi sa che questo capitolo è davvero frutto del periodo difficile che sto
passando.
Beh, ecco la prima pubblicazione da 31enne ragazzi, visto che ieri era il mio
compleanno. Da vecchietta con un anno in più sulle spalle, un abbraccio.
Alla prossima,
-Stefy-