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Autore: Lady Stark    15/05/2020    0 recensioni
Il Cary bambino non c’era più, esattamente come la versione sorridente di suo padre. Tutto ciò che rimaneva era qualche foto sbiadita e incollata negli album di famiglia. Una fitta di tristezza gli attanagliò lo stomaco, diffondendogli sulla lingua il sapore della bile. Mai come in quel momento Cary desiderò perdersi in un bicchiere di gin tonic.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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«Un gin tonic, grazie»

Lockhart & Gardner si stava progressivamente addormentando. Le luci, perlopiù spente, indicavano che il cuore pulsante dell’ufficio era assente, dissoltosi per tornare alla normalità della vita quotidiana. Nel weekend, persino gli avvocati più stacanovisti fuggivano senza esitazione dall’edificio per ricongiungersi con amici o famiglie.
Seduto alla sua scrivania con un fascicolo tra le mani, Cary Agos osservò l’ennesimo avvocato disertare il lavoro con il cellulare incollato all’orecchio e un sorriso stampato sul viso rasato. Il suo passo sembrava riacquisire vigore mano a mano che si avvicinava alle porte dell’ascensore, l’unica barriera rimasta a separarlo dalla libertà.

«Da Fred alla solita ora? Ci sarò».
Cary increspò le labbra in un sorriso scontento passando alla pagina successiva del reperto che stava analizzando. Il caso a cui stava lavorando era così delicato che l’avrebbe costretto alla scrivania per tutto il fine settimana con solo una bottiglia di vino rosso a fargli compagnia. Da un lato, malgrado all’inizio il fastidio gli avesse inacidito lo stomaco, Cary aveva maturato una certa gratitudine nei confronti di quel compito ingrato. Tenere impegnato il cervello gli avrebbe impedito di pensare troppo a lungo alla sua desolante condizione di single.  

L’ennesima luce si spense con un suono sommesso e, nell’osservare la silhouette di Will Gardner attraversare il corridoio in direzione dell’ascensore, anche Cary decise che era tempo di andarsene. Nel giro di pochi istanti tutte le carte di cui aveva bisogno furono inghiottite dalla ventiquattrore e il ticchettio dei suoi mocassini riecheggiò nell’ufficio, ricordandogli la solerzia con cui ogni giorno s’impegnava per fatturare ore utili alla promozione. Quantomeno, se avesse raggiunto un buon risultato lavorativo, suo padre non avrebbe avuto argomenti per criticarlo o per rinfacciargli la sua inettitudine.

Nell’ascensore c’era una combinazione di profumi, tracce lasciate dagli ultimi ospiti che avevano visitato lo studio poche ore prima. Cary credette di riconoscere alcune delle essenze lì intrappolate, ma con ogni probabilità era solo la stanchezza a farglielo credere. Un martello pneumatico gli stava crivellando le tempie, era come se i suoi pensieri volessero fuoriuscire e disperdersi sul pavimento dell’ascensore.

Quando Cary attraversò le porte del grattacielo, un pugno d’aria fredda lo colpì in pieno viso aprendogli le falde del giacchetto. Il gelo gli penetrò nelle ossa, arrossandogli il naso fino a trasformarlo in un goffo babbo natale. Se solo avesse avuto uno di quegli abiti di pile rossi si sarebbe potuto mettere a vendere ciambelle fuori uno di quei locali così spesso frequentati dalle famiglie. Chissà che la carriera di venditore ambulante non fosse più adeguata a quella che aveva scelto d’intraprendere; senza dubbio avrebbe risparmiato molti soldi in vestiario. Proprio in quel momento, mentre il suo cervello era impegnato in quelle riflessioni, un babbo natale gli porse un volantino stampato a colori vivaci: rosso, verde e giallo declamavano la possibilità di consumare un buono sconto presso il negozio di ciambelle all’angolo.

Cary osservò il foglietto con un mezzo sorriso, erano passati secoli dall’ultima volta che aveva visitato uno di quei locali e, se non ricordava male, era stato proprio in compagnia di suo padre. Erano stati tempi felici, spensierati... ma ormai lontani. Il Cary bambino non c’era più, esattamente come la versione sorridente di suo padre. Tutto ciò che rimaneva era qualche foto sbiadita e incollata negli album di famiglia. Una fitta di tristezza gli attanagliò lo stomaco, diffondendogli sulla lingua il sapore della bile.
Mai come in quel momento Cary desiderò perdersi in un bicchiere di gin tonic. Senza quasi rendersene conto, l’avvocato si ritrovò di fronte alla porta massiccia del suo pub di fiducia, così affollato da far spavento.

Facendosi largo tra le spalle dei ragazzi pressati sull’uscio, Cary Agos raggiunse il bancone e tentò di farsi notare dal barman che, poco lontano, stava roteando lo shaker per affascinare due ragazze dai capelli rossi. Se si osservava con attenzione la marea umana che sciabordava tra i tavoli disseminati nell’ambiente sarebbe stato possibile notare almeno un centinaio di personaggi diversi. Storie, esperienze e aspettative si mescolavano tra le quattro pareti del bar stuzzicando l’interesse dell’avvocato che, scrutando di sottecchi una coppia poco distante, cercava d’immaginarne la conversazione. L’uomo indossava una camicia di cotone rosso, la donna un vestito dalla scollatura marcata e, malgrado lei fosse visibilmente annoiata dal discorso, non si lasciò sfuggire l’opportunità di bere gratis un terzo drink.
Infine, la voce del barman picchiettò sulla spalla di Cary per richiamarne l’attenzione. Il ragazzo doveva avere circa ventiquattro anni, era calvo e così muscoloso che il tessuto della maglietta era teso sulla circonferenza dei bicipiti.

«Ciao, che cosa posso offrirti?».
«Un gin tonic, grazie».

Senza neanche dargli il tempo di pronunciare l’ultima sillaba della bevanda, il barista gli diede le spalle e raggiunse le bottiglie, lanciandole in aria. Per un lunghissimo istante, Cary temette per la sua salute e per quella del suo gin tonic ma, per fortuna, il ragazzo fu abbastanza svelto nel recuperarle. Il liquido riempì il ventre di un bicchiere Stone, pericoloso e infido nella sua trasparenza. A contatto con l’alcolico, il ghiaccio scricchiolò.

«Vedo che ti dai all’alcool, avvocato».
Cary si voltò di scatto, rischiando di rovesciare il drink appena servitogli. Non si aspettava di certo d’incontrare Kalinda a quell’ora, in quel luogo e, soprattutto, di venerdì sera. La giacca scura e la gonna di pelle la rendevano sinuosa come una pantera pronta a balzare sulla preda. Il suo sorriso squisitamente malizioso non poté che riscaldare il cuore di Cary, intrappolato nella morsa dei ricordi.

«Qual buon vento ti porta qui, Kalinda? Stai lavorando?».
«No, in realtà no».

Cary sperava di udire quella risposta e, con un sorriso animato, guardò lo sgabello vuoto accanto a sé. Malgrado la domanda stesse aleggiando nell’aria, Kalinda non si mosse di un solo centimetro.
«Se non hai niente di meglio da fare, che ne diresti di bere qualcosa insieme a me?».
«Solo se sei tu a offrire, avvocato».
Detto questo, Kalinda prese posto con un movimento aggraziato e sensuale, riuscendo a richiamare con un solo cenno l’attenzione del barista. L’avvocato alzò gli occhi al cielo, infastidito da quella dimostrazione indiscutibile di potere.

«Che c’è, Cary? Sei invidioso del fascino femminile?».
«Sì, soprattutto quando ho voglia di un drink».
«Puoi sempre provare a metterti una parrucca»

Kalinda appoggiò il mento alla mano e lo esaminò con attenzione, quasi stesse cercando di figurarselo con una fluente chioma di capelli biondi. Cary rabbrividì, un po’ per il disgusto dell’immagine profilatasi nella sua mente, un po’ per la pressione dello sguardo di Kalinda. Sin dal loro primo incontro, avvenuto il giorno della sua assunzione a Lockhart & Gardner, l’avvocato era rimasto stregato dai suoi occhi.

Si era spesso ritrovato a interrogarsi su quel sentimento, domandandosi se fosse amore. Cary non lo credeva e c’erano varie ragioni che l’avevano spinto verso quella considerazione. Prima di tutto, aveva da tempo abbandonato la convinzione che esistesse il colpo di fulmine; solo i protagonisti di qualche commediola romantica s’innamoravano a prima vista, magari dopo essersi sfiorati accidentalmente nel bel mezzo di una strada piena di gente. In secondo luogo, erano state le esperienze sul campo a insegnargli quanto fosse labile ed effimero quel sentimento che poeti e scrittori chiamavano “amore”.

«Brindiamo, caro collega?» Kalinda aveva sollevato il proprio bicchiere, tenendolo fisso di fronte a sé. L’avvocato recuperò il proprio drink e lo mantenne sospeso a qualche centimetro da quello della donna. Dato che non aveva alcun motivo specifico per fare un brindisi, Cary esortò Kalinda a proporre un argomento «A cosa brindiamo?».
La ragazza sembrò ragionarci un momento e, poco dopo, fece tintinnare il bicchiere.

«Perché non agli incontri fortuiti?». Cary scoppiò a ridere e, annuendo, trangugiò un lungo sorso del proprio drink. L’alcool gli baciò le labbra con la stessa dolcezza di un’amante, bruciandogli la gola e alleviando la morsa che gli attanagliava le tempie. Poco a poco tutta la tensione, l’apprensione per il lavoro e l’amarezza prodotta dai ricordi passati si sciolsero, esattamente come i cubetti di ghiaccio che galleggiavano nel suo bicchiere.
Il primo drink svanì senza che l’avvocato se ne rendesse conto, il secondo gli sfiorò le dita, il contenuto del terzo scomparve in modo inspiegabile. Con i gomiti appoggiati al bancone e le gote accese di rosso, Cary si guardò attorno ciondolando.

«Dov’è il mio bicchiere? Voglio il mio drink!».
Erano passati anni dall’ultima volta in cui l’avvocato si era preso una sbronza tanto potente. Il mondo si era trasformato in un oceano confuso di suoni, colori e movimenti che il cervello di Cary non era in grado di distinguere. Aveva come l’impressione che la sua scatola cranica fosse imbottita d’ovatta. Sorridendo con una certa dolcezza, Kalinda spostò il bicchiere vuoto prima che il ragazzo potesse urtarlo e buttarlo a terra.

«Credo che per oggi sia sufficiente, Cary. Andiamo».
«Rimaniamo ancora un po’. Non ho voglia di andare a casa».

Kalinda lo prese sottobraccio, recuperò la sua giacca e l’aiutò a indossarla. L’avvocato non riuscì neanche a opporre resistenza tanto era imbevuto d’alcool e, proprio per questo, seguì con docilità il tocco dell’investigatrice. Non appena i suoi mocassini attraversarono la soglia del locale, l’aria gelida della notte schiarì i pensieri annebbiati del legale. Il calore di Kalinda era piacevole, un balsamo per tutte le delusioni e i fastidi che nelle ultime ore avevano abbattuto il suo animo.

«Pensi di ricordarti la via di casa, avvocato?».
Prima che Cary avesse modo di rispondere, Kalinda lo stava già trascinando lungo il marciapiede incrostato di ghiaccio. Un gatto stava rovistando in un sacchetto della spazzatura abbandonato all’ingresso di un condominio, la sua pelliccia rossa era ispida e diradata. Quando Kalinda e Cary passarono a pochi metri da lui, l’animale li squadrò con rancore stringendo tra le zampe ciò che rimaneva di un osso di pollo. Forse supponendo che i ragazzi volessero rubargli la preda, il gatto emise un miagolio basso e gorgogliante. Nel silenzio, quel suono sembrò deflagrare con la stessa intensità di un colpo di pistola.

Cary ispezionò il paesaggio metropolitano senza credere alle proprie orecchie, non avrebbe mai pensato che la città potesse essere così silenziosa e vuota. Poter scegliere dove dirigere i propri passi era quasi un miracolo, un’occasione esclusiva concessa solo a pochi eletti.

«Cary, dove sono le chiavi del tuo portone?» la voce di Kalinda si fece largo nella nebbia dei suoi pensieri, trascinandolo nel mondo reale. Era davvero possibile che fossero già giunti a destinazione? L’avvocato strizzò gli occhi, si sporse in avanti per controllare che sul quarto campanello ci fosse scritto il suo cognome e, nel farlo, perse l’equilibrio rischiando di spaccarsi in naso contro il muro. Per fortuna c’era l’investigatrice a sorreggerlo.

«Le chiavi...» Cary biascicò con difficoltà quelle parole cercando di sforzare la mente a pensare razionalmente. I neuroni gemettero nel mettersi in moto e Kalinda, divertita dalla situazione, frugò nelle tasche del giacchetto dell’avvocato. Due secondi più tardi, un paio di chiavi affusolate, eleganti come il palazzo a cui permettevano d’accedere emersero dal tessuto.

«Ce la fai ad arrivare al tuo appartamento o devo salire a rimboccarti le coperte?».
L’avvocato si raddrizzò, recuperò le chiavi rigirandosele tra le dita per qualche istante, indeciso sul da farsi. Non mosse neanche un muscolo, i suoi occhi erano inchiodati a quelli di Kalinda. Il profumo della donna accendeva ogni particella del suo corpo. Prima ancora che potesse rendersene conto, Cary le accarezzò la guancia e la sfiorò le labbra con un bacio.

Fu breve e impacciato ma, nel suo piccolo, stupendo.
Cary si allontanò da lei, imboccò la porta come se niente fosse successo e, con un sorriso ameno, diede la buonanotte alla sua collega. Kalinda era immobile, una statua inviolabile che non avrebbe concesso alcun dato al suo interlocutore. Era infastidita? Felice? Indifferente? Impossibile dirlo.

«Buonanotte, Kalinda».
L’investigatrice non rispose, rimase lì a fissarlo mentre Cary veniva fagocitato dalle porte metalliche dell’ascensore.

 
   
 
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