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Autore: Melanto    18/05/2020    5 recensioni
[Sequel di 'Malerba']
Un figlio morto, uno che lo odia e una moglie che lo sopporta. Questo è ciò che possiede Akio Morisaki, oltre al suo lavoro, e pensa di non meritare nient'altro.
Ma quando la solidità che gli è sempre valsa il nomignolo di 'sequoia' inizia a vacillare, gli toccherà fare anche quello che non avrebbe mai pensato pur di tenere strette le proprie radici alla terra e capire, perduto nel tempo che aveva creduto di controllare, quanto profonde siano quelle della sua famiglia.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Roots - Prologo

Note Iniziali: ‘Roots’ è ambientata in due tempi: questo Prologo si colloca OTTO anni prima degli eventi che partiranno dal Capitolo 1 (quindi in pratica sono trascorsi nove anni dall’inizio di ‘Malerba’). Shuzo ha iniziato il secondo dei due anni di prigione che gli sono rimasti (dopo esser stato arrestato alla fine di ‘Malerba’ e aver avuto una riduzione di pena da 5 a 2 anni).

Ricordate la prima shot della raccolta ‘Jikan’? Ecco, quella è ambientata lo stesso giorno di questo Prologo! Lì si parlava di Akio che era tornato dalla prigione, mentre qui… qui c’è appena arrivato :3

 

Let’s start the show!

Buona lettura ♥

 

 

 

 

 

 

Roots

- Le radici di famiglia -

 

 

 

 

- Prologo: Dietro il vetro di otto anni prima -

 

 

 

«Hai visite, 77592.»

Shuzo alzò la testa dal libro di matematica e inarcò un sopracciglio. L’espressione di Ishie, che comparve sulla soglia della cella, non gli stava mentendo. Storse un sorriso.

«È in anticipo.»

Mamoru continuava a presentarsi nei giorni più disparati, senza seguire logiche né schemi.

 

“Così non te l’aspetti e non puoi rifiutarti di vedermi.”

 

Chissà se si rendeva conto di quanto quei salti da un giorno all’altro gli facessero passare in fretta la settimana. Acceleravano il tempo e la sua relatività, gli facevano divorare i giorni tanto da svegliarsi al mattino e trovare che un’altra sera fosse già arrivata e pronta a schiarire nell’alba. Il tempo non era più suo nemico né alleato, ma solo qualcosa che esisteva nel suo stesso mondo e che poteva accettare o rifiutare, stava a lui. Shuzo l’aveva accettato, vivendone il passaggio.

Sorridendo richiuse il libro con gli esercizi, si fece mettere le manette e seguì la guardia senza alcuna protesta.

Era diventato un detenuto modello, gli aveva detto un giorno il direttore Kotatsu.

Nemmeno quello gli importava, lui faceva solo ciò che doveva e voleva: sistemava le sue cose sospese, una alla volta; scontava il debito, recuperava ciò che si era perso per strada. Che alla fine tutto quello lo facesse sembrare Gesù Bambino era irrilevante: contavano il fine e la fine. Contava che, una volta uscito da Fuchu, lui non avesse lasciato nulla alle proprie spalle.

Venne introdotto nella sala visite, che ormai conosceva a memoria: ci finiva due volte a settimana di fisso, tra le visite di sua madre e di Mamoru. La mamma era sempre puntuale: ogni giovedì, nel primo pomeriggio – e quindi sapeva per certo non fosse lei, perché era martedì e l’ora di pranzo non era ancora arrivata. Mamoru, invece, era una meteora che volteggiava nell’arco della settimana: tutti i giorni erano suoi, tranne, appunto, il giovedì. Un po’ lo faceva ammattire, con quell’andirivieni senza logica, e un po’ gli faceva desiderare il momento in cui l’avrebbero condotto nella stanza per trovarlo dall’altra parte del vetro infrangibile che sorrideva soddisfatto di averlo sorpreso ancora. Sorprenderlo sempre. Se solo avesse saputo avrebbe gongolato mesi interi, quindi no, non gliel’avrebbe detto.

Per questo quando entrò nella sala, si guardò subito attorno nella speranza di adocchiare i suoi bei capelli neri che gli mancavano di continuo, e dire che l’aveva visto solo due giorni prima.

«Box-3», disse Ishie, poi chiuse la porta; tanto nella sala c’era un’altra guardia ferma a vigilare, e le telecamere erano ovunque: seguivano tutto dall’alto.

Shuzo si volse a sinistra e con piccoli passi, per le catene che aveva alle caviglie, si avvicinò al gabbiottino; sorriso smagliante e mani abbandonate in grembo.

Ma il sorriso sparì, perché non era Mamoru che lo aveva sorpreso questa volta.

 

Akio aveva le mani intrecciate sul piccolo ripiano. Gli sudavano i palmi, ma non sciolse l’intreccio delle dita, muovendole le une sulle altre; fissandole.

Non sapeva se fosse stata o meno una buona idea presentarsi di persona, sapeva solo che aveva voluto farlo, a discapito di ogni conseguenza; Shuzo non avrebbe potuto infrangere il vetro per poterlo picchiare un’altra volta.

Sarebbe sempre voluto andare a trovarlo, anche prima e più spesso, ma ci si era tenuto alla larga: non è un buon momento, diceva ogni volta. Stare in prigione era già pesante, non c’era bisogno di irritarlo di più.

Esalò l’ennesimo sospiro e alzò la testa. In quel momento, i suoi occhi incrociarono quelli di Shuzo. Aveva avuto un bel sorriso sulle labbra che sparì nell’attimo in cui si guardarono. Era evidente che non stesse aspettando lui.

Akio drizzò la schiena, le dita smisero di rimestarsi e si aggrapparono strette, le une alle altre.

Poco più di un anno era passato da quando era stato preso a pugni fuori del Kokoro, dagli alberi cadevano le prime foglie di settembre e si insinuavano i primi freschi serali. Era la prima volta che si rivedevano dopo quel momento in cui aveva scelto la via dell’odio, pagandone le conseguenze più pesanti. Di quel pugno, Akio non conservava alcun segno visibile ma il ricordo era impossibile da cancellare. Si domandò se anche Shuzo lo ricordasse o se per lui fosse stato niente più che l’ennesimo atto di sfogo e ribellione.

Ad ogni modo, Akio si sentiva strano. Preda d’una smania che avrebbe voluto togliere quella parete divisoria per poter guardare meglio suo figlio da vicino, parlargli senza un telefono a fare da tramite, accertarsi che stesse bene.

Lo sezionò con gli occhi, iniziando dal cappello che copriva la testa rasata fino ad arrivare a quelle specie di ciabatte che portava ai piedi. Non erano troppo leggere ora che l’autunno stava arrivando? Lo pensò anche della tuta grigia con il numero stampato sul petto.

77592

L’identificativo di suo figlio.

Quante cose aveva affrontato la sua famiglia. No, non i ‘Morisaki’, ma la sua famiglia. Lui, Yumeko, Yuzo e Shuzo. Avrebbe potuto incolonnarli come si faceva con le liste della spesa: un tentato omicidio, il riformatorio, un cambio di cognome, le gang, il carcere, la morte, i silenzi, l’odio, la violenza, le liti, le distanze e poi di nuovo il carcere. Sembrava non potesse avere mai fine; alcuni nomi si rincorrevano come in un eterno girotondo, ma nonostante tutto continuavano ad andare avanti. La sua famiglia avrebbe potuto superare tutto, aveva capito una sera seduto nel giardino di casa sotto il gazebo fantasma. Avrebbero superato anche quello. E poi, fissando il fondo del bicchiere di liquore con cui si era fatto compagnia durante quella solitaria riflessione, si era domandato quante cose avessero visto i suoi occhi. Più di quelle che a un uomo normale veniva chiesto di affrontare.

Vedere il figlio ammanettato ai polsi e alle caviglie, con quella tuta grigia era l’ennesima prova cui i suoi occhi venivano sottoposti.

Se reggi anche questo, puoi reggere tutto.

Dopotutto, aveva retto alla vista del cadavere di Yuzo all’obitorio; non c’era più nulla che potesse davvero scalfirlo.

Quindi resse il disprezzo sul viso di Shuzo, sulle labbra incurvate verso il basso e nel modo in cui assottigliava lo sguardo. Resse fino a che Shuzo non gli volse le spalle, pronto ad andarsene senza neppure ascoltarlo.

Akio batté un pugno sul vetro, che attirò anche l’occhiataccia della guardia, tanto da farla muovere verso di loro. Nella stanza delle visite c’era solo un altro detenuto, seduto all’altro capo della fila di gabbiotti: parlava fitto con una donna vestita in maniera appariscente.

Shuzo si girò, lui aveva ancora il pugno chiuso contro il vetro. Lo aprì, sorpreso dalla propria urgenza, e gli indicò la sedia.

Gli occhi di suo figlio si spostarono un paio di volte dal viso alla seduta. Valutavano. Alla fine sbuffò. Con espressione seccata, e che non faceva nulla per dissimulare, si accomodò alla sedia e poggiò entrambi i polsi sul piccolo ripiano d’acciaio, prese il telefono e lo portò all’orecchio.

Per la prima volta dopo un anno, Akio sentiva suo figlio respirare.

Un rifiato nervoso, a volte pesante, altre volte silenzioso quasi da sparire e a quel fruscio poteva associare uno sguardo, quello che Shuzo gli teneva puntato negli occhi, carico di disprezzo e senza alcuna intenzione di distoglierlo, quasi fosse in atto una sfida.

Testa alta, come un vero Morisaki.

Akio si perse alcuni istanti a osservare il colore delle iridi, le linee del viso, le espressioni, la forma delle labbra e del naso. L’ultima volta che aveva potuto vederlo da così vicino era finita male, ma ora Shuzo non avrebbe colpito un vetro infrangile e quindi poté concedersi quei brevi momenti per rivedere, nel suo, anche il viso di Yuzo.

Erano uguali, i suoi figli, tanto che lui per molto tempo aveva faticato a distinguerli; soprattutto da bambini. Adesso quell’uguaglianza gli sembrò miracolosa, perché per un attimo glieli restituì entrambi.

«Sei venuto per fissarmi o per parlare?»

L’asprezza di Shuzo sciolse la cornetta con la sua acidità.

Akio cercò di non mostrare apertamente il proprio turbamento e tossicchiò prima di salutare con quell’incerto: «C-ciao.»

Ottenne un sogghigno di commiserazione.

«Sì, e poi?»

«Come… come stai?»

Un nuovo sogghigno, più aspro del precedente. «E poi

Shuzo non gli stava lasciando alcuno spazio per avere un dialogo, o quantomeno tentare anche solo di gettare nei loro silenzi degli innocui convenevoli.

Akio avrebbe voluto sapere come stava, aveva l’impressione che fosse dimagrito – l’aveva solo immaginato? –, che gli occhi avessero segni scuri di stanchezza.

Avrebbe voluto scambiare due parole di quelle inutili, che non dicono niente, ma sanno di normalità. Quella che, tra loro, non avevano mai conosciuto.

Akio tese di più le spalle e aggrottò le sopracciglia scegliendo l’atteggiamento che Shuzo conosceva di più e che, paradossalmente, lo avrebbe messo a suo agio: la severità.

«Avrebbe dovuto dirtelo Mamoru, ma gli ho chiesto di lasciarlo fare a me.»

Shuzo si irrigidì: l’espressione interessata, il sorrisetto sparito.

«Questa mattina è stata emessa la sentenza contro Daidouji.»

«Questa mat-… ma l’udienza era la settimana prossima! Di che stai-?!»

«È stata anticipata. La decisione era già stata presa.»

Shuzo sgranò gli occhi, tirò indietro la testa e le spalle. «Io non lo sapevo! Nessuno me l’ha detto.» Si avvicinò minaccioso al vetro, mostrando i denti in uno sguardo feroce che gli ricordò il loro scontro; in particolare, l’attimo prima che il pugno lo colpisse. C’era quello stesso lampo di odio nelle iridi nocciola che, ogni volta, sapevano stupirlo per quanto assomigliassero a quelle di Yuzo. Avrebbe dovuto essere abituato, ma la natura che li vedeva gemelli sapeva ferire quando non se l’aspettava. Come in quel momento, ad esempio, quando immaginava che a guardarlo con tale rancore fosse anche il figlio che gli avevano ucciso.

«È stata una tua idea?! Hai detto tu agli altri di-»

«È stato Mamoru a proporlo. A noi è sembrata la cosa giusta e abbiamo accettato. Diceva che saresti rimasto nervoso e teso fino a che non avessi saputo l’esito. Era uno stress inutile.»

Anche Akio l’aveva reputata la scelta migliore: che Shuzo rimanesse irascibile e sulle spine fino al verdetto non avrebbe avuto senso, tanto non avrebbe potuto fare nulla né tantomeno protestare. Inoltre, non gli avrebbero permesso di essere presente alla seduta, quindi, stare in tensione non sarebbe servito a nessuno. Lo stress e le pressioni affrontate durante parte del processo contro Daidouji erano stati sufficienti, lui l’aveva visto: Shuzo era stato chiamato a testimoniare dall’accusa per i fatti occorsi a Obuchi. Non era stato facile, anche se in aula si era comportato bene e aveva risposto in maniera impeccabile e calma. Yumeko gliene aveva parlato in separata sede, raccontandogli le proprie impressioni di quando l’incontrava in carcere e quelle che le condivideva Mamoru: Shuzo sentiva il peso dell’essere vicino a chiudere la faccenda e temeva che le proprie azioni avrebbero potuto compromettere il risultato di quell’attesa tanto lunga, renderla vana.

Almeno il carico della sospensione finale avevano voluto evitarglielo.

A quel punto, Shuzo distolse lo sguardo, dopo essere rimasto a fissarlo dritto negli occhi. Teneva stretta la cornetta, ma l’allontanò dall’orecchio per qualche momento. Akio pensò volesse riagganciare e andarsene, ma era certo che suo figlio non se ne sarebbe andato senza prima aver saputo che fine avrebbe fatto Daidouji.

Lo vide annuire, storcere le labbra e rosicchiarne l’interno. Doveva avere la testa piena di ragionamenti tutti suoi.

Portò di nuovo la cornetta all’orecchio, ma aveva ancora lo sguardo distolto verso un punto indefinito. Shuzo rigò il labbro inferiore con gli incisivi, pareva quasi non averlo ascoltato, ma alla fine tornò a guardarlo dritto negli occhi. E lo sguardo, anche se aveva lo stesso colore di quello di Yuzo, aveva il ferro che Akio fissava nello specchio ogni mattina.

«Dimmi il verdetto.»

Akio prese un profondo respiro, accennò un sorriso che camuffò nell’umettarsi le labbra.

«Gli hanno dato la pena capitale a fronte del duplice omicidio e tutte le imputazioni più gravi.» Guardò l’espressione di suo figlio mutare in maniera impercettibile, gli occhi farsi grandi. Dentro di essi poteva leggere la stessa emozione che aveva provato in prima persona poche ore prima: soddisfazione, senso di giustizia, gioia. Nessuno dei due si sentiva orribile nell’esultare sulla pelle di qualcun altro, perché entrambi pensavano che se lo meritasse e che, anzi, stesse pagando già troppo tardi. Nessuna pietà nei loro occhi. Nessuna pietà nei loro cuori. Nessuna pietà. «Daidouji morirà al Tokyo Kochinsho.»

Shuzo serrò le labbra; tremarono nelle smorfie che cercava di trattenere e il tremore si trasmise al viso, alle spalle, all’intero corpo. Si morse l’interno della guancia, abbassò lo sguardo sul ripiano che aveva davanti e tolse la cornetta dall’orecchio. La strinse così forte, che Akio pensò volesse spezzarla o lanciarla contro il vetro o sbatterla da qualche parte, ma si limitò a battere più volte il pugno nel palmo vuoto. Storse un sorriso così folle che per un momento stentò a riconoscerlo, ma passò in fretta e la bocca si piegò verso il basso sotto tutt’altre emozioni. Chinò la testa, la eclissò dietro le mani e la cornetta, che svettava tra di esse, strette l’una all’altra come in preghiera. Si nascose lì, in quello spazio microscopico e tutto ciò che Akio vide di suo figlio furono le spalle che sussultavano, le dita che afferravano la testa rasata di fresco da sotto al berretto e stringevano. Attraverso la cornetta percepì un singhiozzo, il fiato che veniva filtrato tra i denti, il naso che tirava su.

Una volta di più, avrebbe voluto che non ci fosse alcun vetro tra loro così da poterlo toccare. La testa magari o la spalla. Di sicuro non si sarebbe fatto abbracciare, ma almeno quello, almeno… fargli capire che condivideva il senso di liberazione, che poteva sfogarsi se voleva, che la fine, dopotutto, era davvero arrivata. L’avevano attesa per così tanto quella vendetta chiamata giustizia, potevano dare pace ai sensi di colpa che non erano mai riusciti a silenziare, agli ‘avrei potuto’, agli ‘avrei dovuto’, ai ‘mi manca’.

Tutto ciò che Akio poté fare, fu di poggiare la mano contro il vetro, mentre Shuzo piangeva e si dondolava sulla seggiolina, nascondendosi in ogni modo.

È quasi finita, ragazzo mio. Ormai è quasi finita.

Un pensiero che rimase affidato a quella mano sul vetro che subito ritirò quando Shuzo si ricompose in fretta e furia, perché c’era lui dall’altra parte e non qualcuno di cui si fidasse, come Mamoru o sua madre. C’era solo lui, il peggior nemico dopo Daidouji… oh, e quindi adesso era salito al primo posto?

Shuzo tossicchiò, passò i palmi sugli occhi e infine calcò il cappello sulla testa, celando lo sguardo con la piccola visiera. Non sollevò più il viso, avrebbe finito col mostrargli una vulnerabilità che affondava radici in un passato troppo lontano in cui era stato un ragazzino e non di certo un uomo.

Attraverso la cornetta, però, non riuscì a camuffare l’incertezza che aveva nella voce, anche se si schiariva la gola. Di quella fragilità, Akio fu felice in fondo al cuore: significava che suo figlio non si era inaridito del tutto.

«Hanno detto una data?»

«No. La comunicheranno quando sarà il momento.»

Shuzo annuì, più volte. Picchiettava con l’indice sul ripiano, manifestando una certa impazienza.

«Allora, se questo è tutto, ti saluto.»

«A-aspetta!»

«Devi dirmi altro?»

Tante, tante cose avrebbe voluto dirgli e chiedergli. Così tante che la mezz’ora che avevano a disposizione non sarebbe mai potuta bastare, e così tante che non avrebbe saputo neppure da dove cominciare. Per questo l’istinto fu di tirarsi indietro, all’improvviso, perché quando si arrivava al dunque ogni proposito spariva.

«No, io…»

«Allora non serve a niente stare qui a perdere tempo. Hai fatto quello che dovevi.»

«Non quello che ‘dovevo’ ma quello che ‘volevo’

«E cosa cambia?»

«Che sono qui.» Sono qui, ora. Posso esserci in futuro. «E ci sei anche tu.»

Shuzo si passò di nuovo il dorso della mano sulla guancia e la bocca. Qualcosa gocciolò sul ripiano, ma subito la ripulì col braccio. Akio lo sentì schiarirsi la voce un’ultima volta per poi restare in silenzio. E non sapeva se fosse ancora toccato a lui interromperlo o se adesso spettasse a suo figlio fare una mossa, che fosse quella di mandarlo al diavolo o schernirlo, insultarlo. Ma Shuzo ripose la cornetta sul supporto e si alzò, solo allora sollevò la testa. Akio poté guardare gli occhi arrossati e la durezza che portavano con sé.

Non tornare, mimarono le labbra, accompagnate dal moto della testa che negava la sua presenza e imponeva che a quella visita non ne sarebbero dovute seguire altre. Gesto cui si fece trovare ritto e preparato, con la stessa durezza riflessa nelle iridi scure, perché era solo così che sapevano comunicare. Poi, non gli rimase che vederlo andare via, la porta della stanza aprirsi e Shuzo venire inghiottito dal resto della prigione.

Solo allora, ormai solo nel box e nell’intera stanza, Akio sospirò, appoggiando la cornetta sul supporto. Rifiutato, ancora, in quella Guerra Fredda giocata su tempi lunghi come ere geologiche. Magari avrebbero dovuto aspettare di diventare fossili per poter arrivare a una tregua. Magari gli sarebbe davvero toccato morire per riuscire a sotterrare i rispettivi rancori.

Akio si passò una mano nei capelli dove il colore scuro aveva da tempo perso la battaglia dell’età. Si alzò e lasciò la sala, pensando che non ci fosse due senza tre; avrebbe dovuto prepararsi al prossimo rifiuto.

 

«Ehi, che faccia che hai, 77592. Pessime notizie?» Ishie, che era rimasto fuori della sala per riprenderlo, gli scoccò un’occhiata perplessa dopo avergli tolto catene e manette.

Per quanto Shuzo tentasse di nasconderli, o di ostentarli come non significassero nulla, i suoi occhi rossi non passavano inosservati. Lo sguardo stravolto sull’espressione aggressiva lo faceva sembrare molto più umano che pericoloso.

«Tutt’altro.»

«Se fossero state lacrime di felicità, avresti dovuto avere un sorriso a trentadue denti, e invece sembra che vorresti mangiarti anche me con tutte le scarpe.» Ishie la buttò in scherzo, Shuzo non rispose.

Dentro aveva tutto sottosopra.

Verso Mamoru provava emozioni contrastanti. C’era una parte di lui, quella che lo amava sopra ogni ragionevole dubbio, che aveva compreso il suo gesto e l’aveva trovato protettivo, tipico di lui. Avrebbe addirittura sorriso e la prossima volta che si sarebbero visti gli avrebbe detto che si ostinava ancora a trattarlo come una principessa del cazzo. Ma un’altra parte, quella del cannibale che lo amava allo stesso modo, stava smaniando per potergli gridare contro che non avrebbe dovuto tacergli la verità. Avrebbe dovuto dirglielo e se sarebbe stato in ansia, nervoso o solo gli dèi sapevano cosa, sarebbero stati solo cazzi suoi. Lo conosceva così poco da prenderlo per una fighetta? Cazzo!

Per fortuna il tempo avrebbe fatto decantare i contrasti che sentiva agitarsi nel petto e nello stomaco; tutto si sarebbe depositato nella testa, come la posa di un vino. In superficie sarebbe rimasto, in equilibrio, solo il buono: l’avrebbe ringraziato, l’avrebbe rimproverato e insieme avrebbero gioito di quella minuscola vittoria. Yuzo avrebbe avuto giustizia, ma la gioia sarebbe stata come una nuvola passeggera in mezzo al deserto: sollievo di un attimo che non avrebbe cancellato i dolori degli anni passati.

E poi…

E poi c’era Akio.

Quando l’aveva visto, aveva stentato a credere che fosse lì. In carcere aveva trascorso anni interi ancor prima di quello e lui non si era mai fatto vedere. Come non fosse mai esistito.

Non gli aveva urlato ‘non sei più mio figlio’, dopotutto?

Per un attimo aveva creduto che fosse successo qualcosa a sua madre, poi la repulsione che nutriva nei suoi confronti aveva vinto su ogni catastrofismo.

Se solo ripensava che era andato per dirglielo di persona gli ingranaggi continuavano a saltare. C’era qualcosa nei loro meccanismi abituali che si inceppava: non avevano mai funzionato così.

Mentre camminava seguendo il ritmo di una marcetta immaginaria, il dubbio si insinuò e gli fece pensare che forse le sue, per una volta, non fossero state solo chiacchiere. Ma bastò girare l’angolo che dal corridoio dove si trovava la sala visite conduceva all’ala delle celle, che l’ottusità costruita dalle esperienze passate glielo fece cancellare in fretta.

Akio era campione di chiacchiere, e quelle lo erano più delle altre che aveva mai sentito, perché erano fasulle. Aveva ancora la pretesa che lo accogliesse a braccia aperte? Cadeva male, perché lui le braccia le teneva serrate al petto, più strette possibile. Non sarebbe finito in un tranello tanto stupido, per chi l’aveva preso?

Ma non sapeva spiegarsi come avesse potuto piangere davanti a lui, come fosse stato un bambino. Si era lasciato sorprendere dalla notizia, sopraffare dalle emozioni. Aveva ceduto a una debolezza improvvisa come un idiota che dalla vita non aveva imparato nulla. Un tempo non sarebbe stato così disattento e non avrebbe mostrato nulla, trattenendo ogni cosa fino a che non si fosse rintanato nel proprio appartamento.

Ma era anche vero che un tempo sarebbe stato solo, senza nessuno di cui fidarsi ciecamente come con Mamoru. Un tempo non sarebbe stato che una malerba e basta, ma quell’immagine indistruttibile di sé dietro cui si era nascosto per anni era ormai venuta giù e il ‘Chi sei?’ non aveva più paura di piangere. Anche quella era una dimostrazione di forza, a suo modo. Solo che farlo davanti ad Akio faceva quasi credere che avesse bisogno del suo appoggio.

Hai fatto quello che dovevi.

Non quello che ‘dovevo’, ma quello che ‘volevo’.

Quella frase echeggiò più forte tra tutta la confusione che gli smaniava dentro.

«E chi è venuto a darti la lieta novella? La mammina, l’avvocato scemo o l’amichetto?»

Ishie gli aprì la porta della cella e lo fece rientrare, lui non sollevò il capo, neppure per lanciargli un’occhiata sarcastica e una risposta ironica che l’avrebbero fatto finire in punizione.

«Nessuno di loro», disse, sfilandogli davanti per entrare in cella. La porta venne chiusa alle sue spalle e il rumore della chiave che girava nella toppa a doppia mandata gli disse che, a fronte di tutto quello che avrebbe potuto essere o meno reale, Akio era andato a trovarlo dopo quasi tre anni di riformatorio e otto di prigione.

Era andato a trovarlo.

E lui gli aveva detto di non tornare.

«…era mio padre.»

 

“Giuro che è vero:

il passato non è morto,

è vivo e sta accadendo

dietro la mia testa.”

 

It’s happening again – Agnes Obel

 

 


 

 

Note Finali: …here we go again. :3

Come spiegato nelle note iniziali, questo prologo si colloca otto anni prima degli eventi di ‘Roots’.

Malerba è tornato e qui era, come dire, ancora molto sulle sue con Akio.

Grazie alla raccolta ‘Jikan’ però sappiamo che, insomma, qualcosa è accaduto. Akio e Shuzo hanno imparato a stare nella stessa stanza senza far succedere putiferi e hanno anche sopportato cene intere a casa degli Izawa – dove Akio ha detto a suo figlio di non aver problemi con la sua omosessualità.

Le cose pareva dovessero prendere l’impennata… Ma poi c’è stata la fine della storia ‘Malerba’, con l’esecuzione di Daidouji, e pare che tutto sia finito in un nulla di fatto: Akio e Shuzo restano sempre su un livello di equilibrio, ma senza grandi differenze.

 

E qui comincia ‘Roots’.

Esattamente l’anno successivo all’epilogo di ‘Malerba’.

Vediamo un po’ cos’è rimasto di queste radici. :3

 

Inizio col ringraziare chiunque vorrà farmi compagnia anche durante questa pubblicazione, gli aficionados del Tamarro e chiunque leggerà.

‘Roots’ è composta da DIECI capitoli totali (Prologo + 9cap.), è già tutta scritta e pronta per essere pubblicata. :*

See you nei miei soliti #LunedìFyccina <3

 

 

   
 
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