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Autore: blackjessamine    20/05/2020    16 recensioni
[Ole Nissen (OC), Homer Landmann (OC)]
Certi legami hanno lo stesso calore del sole: tracciano scie luminose che rimangono impresse negli occhi anche quando la notte sembra aver impiastricciato di nero una vita intera.
Sono i legami che sanno rinsaldarsi anche negli spazi vuoti creati dalla distanza, quei legami che un nome non lo vogliono nemmeno trovare, perché sono tenuti in piedi da sorrisi che negli anni non cambiano mai.
Un Guaritore figlio del mondo.
Uno psichiatra schiavo di un'empatia fuori controllo.
Sotto lo stesso cielo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Capitolo 4



 
 
Era sorprendente quanto ci si potesse impegnare per fare rumore senza mai coprire per davvero il silenzio. La televisione sul ripiano della cucina emetteva delle note vivaci, mentre una donna dal sorriso di bambola mostrava a tutti i corretti esercizi per un buon risveglio muscolare; il bollitore fischiava, reclamando di essere tolto dal fuoco per andare a riempire le tazze di tè che nessuno avrebbe davvero bevuto, non con quel caldo opprimente di inizio agosto; l’acqua scorreva con un tintinnio eccitato sulla padella sporca di grasso, il coltello del burro risuonava scontrandosi contro il piattino, la caraffa d’acqua batteva con fin troppa forza contro il pianale di legno, ma il silenzio – il silenzio vero, quello fatto di volti simili a specchi chini sui propri piatti nel disperato tentativo di soffocare quella mancata conversazione – era comunque assordante.
Ole diede un altro morso al suo pane tostato, gli occhi fissi su uno sbaffo di marmellata che gli ornava l’unghia del pollice, chiedendosi per l’ennesima volta quando quel silenzio fosse sceso a rendere ogni angolo della loro casa simile al capezzale di un malato grave, un posto dove nessuno osava pronunciare ad alta voce ciò che tutti pensavano.
La risposta più facile, quella che chiunque avrebbe saputo dare – la stessa a cui si aggrappava anche Ole, quando era troppo giù di morale per concedersi una riflessione più profonda – risiedeva nel fresco pomeriggio di cinque anni prima, quando una donna dal sorriso gioviale e una cravatta[1] perfettamente annodata sopra la camicetta coi volant aveva bussato alla loro porta, stringendo tra le mani una spessa busta di pergamena. Quella visita era stata in grado di appianare finalmente quel terrore costante che lo accompagnava sin da quando era bambino e si trovava inspiegabilmente al centro di episodi alquanto bizzarri, che non potevano dipendere da lui, eppure sembravano proprio farlo. Era stato felice, Ole: la sua stranezza, la sua estraneità nei confronti degli altri bambini sembrava finalmente avere un nome ben preciso. Era stato felice, ma la sua felicità era durata poco, ben presto congelata sul posto dall’espressione di suo padre: non era spaventato, Neil Nissen, non del tutto, per lo meno. Aveva opposto un po’ di resistenza davanti alla donna con la cravatta, ma lei era stata così paziente, così esaustiva nelle sue spiegazioni e così sollecita nel fornire continue prove pratiche della reale esistenza della magia che, alla fine, l’uomo era crollato, accettando ogni cosa con una forza d’animo non indifferente. Quando la donna se n’era andata, lasciandosi dietro un gran numero di depliant esplicativi e una mappa assai dettagliata con le istruzioni necessarie per raggiungere un certo pub londinese dove il barista sarebbe stato lieto di aiutare due poveri babbani a trovare la giusta strada, Neil aveva rivolto al figlio uno sguardo tanto sconsolato che Ole si era sentito svuotare di ogni felicità.
“In qualche modo supereremo anche questa, te lo prometto”, era stato il suo laconico commento. Il commento di un uomo che ormai conosceva la crudeltà del destino, e aveva imparato a rimettersi in piedi dopo disgrazie ben più gravi.
 
No, quel silenzio freddo non era cominciato con la scoperta della natura magica di Ole: quella verità lo aveva solo esasperato, aggiungendo ancora più distanza tra padre e figlio, ma il terreno per quel distanziamento era già stato fertile.
Forse il silenzio era cominciato con le stranezze che circondavano Ole, quelle che andavano ben oltre la misteriosa sparizione di un berretto di lana dal pompon particolarmente imbarazzante: quella stranezza che lo rendeva sempre capace di avvertire il vero stato d’animo dietro la facciata che Neil costruiva, rendendo inutile ogni suo tentativo di inscenare una recita che prevedesse un’allegra famiglia felice. Ole non lo faceva apposta: i suoi ricordi di bimbo erano spesso confusi, ma su ogni cosa aleggiava quel terribile sforzo per fingere che ogni cosa fosse normale. Lo sforzo di Neil per guardare suo figlio e non vedere ogni giorno anche il riflesso di quella moglie amatissima e strappata alla vita da una malattia ingiusta. Il suo sforzo per spiegare il lutto a un bambino di pochi anni, fingendo una serenità che nemmeno poteva sfiorare. Il suo sforzo di tornare a casa dopo una giornata di lavoro e sorridere, inventare giochi per quel bimbo dallo sguardo serio e fingersi felice, fingersi grato alla vita per avere almeno Ole da continuare ad amare. Che suo padre lo amasse, Ole non lo aveva mai dubitato. Ma sapeva anche – e lo aveva imparato a un’età troppo tenera, quando la vita dovrebbe essere fatta solamente di fiducia incrollabile nei confronti degli adulti – che quell’amore non era affatto sufficiente a rendere suo padre felice. E si sforzava, Ole si sforzava davvero di fingere che così non fosse, che le risate e i sorrisi di suo padre fossero sufficienti a cullarlo con un’illusione d’amore, ma era solo un bambino, e finiva sempre per costringere Neil a specchiarsi nella sua inadeguatezza di genitore. E così Neil aveva smesso di prodigarsi, lasciandosi andare ai suoi silenzi cupi, e Ole aveva smesso di provare a riempirli, quei silenzi. Era diventato un bambino solitario e poi un ragazzino insicuro, un ragazzino che sapeva di esser solamente fonte di preoccupazioni per suo padre: preoccupazioni per quella mancanza di amici, preoccupazioni per quella scuola assurda dove imparava cose che non gli avrebbero mai dato un mestiere – o, se lo avessero fatto, sarebbe stato un mestiere sbagliato, fatto di stranezze, un mestiere su cui Neil, anche volendo, non avrebbe mai potuto vegliare – preoccupazione, infine, per quella sensibilità così elevata, così esasperata, tanto poco adatta a un ragazzino nel cuore dell'adolescenza.
Durante le vacanze estive, Ole trascorreva buona parte del suo tempo nella sua camera, la finestra spalancata sui rumori della cittadina che brulicava di turisti: non amava la confusione che regnava in città, non amava mescolarsi alla calca del lungomare, e passeggiare sul molo senza avere nessuno con cui condividere i divertimenti offerti dalla cittadina lo faceva sentire a disagio.
Con i vecchi compagni di scuola non aveva mai avuto un rapporto abbastanza stretto da trascorrere anche i giorni di vacanza in loro compagnia, e di certo non avrebbe avuto senso cercarli ora, quando non avrebbe nemmeno potuto rispondere alle loro domande su quel collegio che frequentava – mentire era fuori discussione: non aveva i riflessi abbastanza pronti, ed era certo che tutti avrebbero capito subito che stava nascondendo qualcosa. E del resto, Hogwarts era solamente una scusa: Ole non avrebbe mai avuto il coraggio di telefonare a qualcuno dei suoi compagni per proporre un gelato in compagnia.
E suo padre, che pure non ne parlava mai, continuava a preoccuparsi: ogni mattina, mentre riponeva nel lavello le tazze della colazione e si preparava ad affrontare l'ennesima giornata di fatica nella fabbrica di bulloni in cui lavorava, chiedeva a Ole che programmi avesse per la giornata e se quella sera avrebbero cenato assieme, o se avrebbe fatto meglio a fermarsi a fare provviste al ristorante cinese sulla strada di casa, dal momento che Neil detestava cucinare solo per se stesso. Ogni giorno negli occhi chiari e segnati dalle preoccupazioni dell’uomo si poteva leggere la voglia di Neil di avere le preoccupazioni di qualsiasi padre: negoziare un orario per il coprifuoco, litigare perché questa casa non è un albergo, aspettare invano di sentire il passo reso incerto dalle trasgressioni di un figlio che tornava troppo tardi… ma ogni giorno Ole rispondeva che no, alla cena ci avrebbe pensato lui.
 
Fu dunque con una stretta al cuore che Ole, quella mattina, attese la fatidica domanda: perché finalmente avrebbe avuto una risposta diversa, una risposta che avrebbe suscitato domande e una timida speranza, per poi rivelare comunque l'insoddisfazione di Neil Nissen.
“Stasera ci pensi tu alla cena? C'è ancora un po' del riso avanzato da ieri, se non lo finisci a pranzo. Ricordati di tirare fuori dal congelatore gli hamburger".
Ole bevve un sorso di spremuta d'arancia più lungo del necessario, prima di rispondere:
“Non so se torno in tempo, stasera. Pensavo… volevo fare un salto in spiaggia, e magari ci fermiamo a mangiare fuori…”
Come previsto, le sopracciglia di Neil si sollevarono in un’espressione stupita, appena venata da un sorrisetto soddisfatto. E, come previsto, l'uomo non si accontentò di sorridere e annuire, o impartire qualche raccomandazione da genitore.
“Ah sì? Con chi ci vai?”
La soddisfazione si era già sporcata di sospetto, quasi Neil avesse avvertito l’esitazione nella voce del figlio.
“Con Homer”, sospirò Ole, già sapendo dove sarebbero andati a finire i pensieri di suo padre. Probabilmente Neil non avrebbe detto nulla, non ad alta voce, ma il suo silenzio sarebbe stato talmente denso che Ole ci avrebbe comunque letto tutto ciò che non voleva leggerci.
“Mi avevi detto che quest’estate non vi sareste visti perché i suoi genitori si trasferiscono in Burundi”.
“In Uganda, papà. E partono dopodomani, quindi oggi lui viene a salutarmi”.
Ole non avrebbe voluto cominciare la giornata proprio ricordando ciò che lo aspettava al termine di quella serata: il padre di Homer a decifrare le rune ritrovate su alcune tavolette d’argilla a Fort Portal, Homer che scoppiava di gioia risvegliandosi con un sassolino nella mano[2] e un settimo anno a Hogwarts all’insegna della solitudine e della mancanza.
“Partono dopodomani, e oggi viene a salutare te”.
Non lo disse, Neil, ma Ole riuscì ad avvertire nelle parole di suo padre il freddo sottinteso: l’ultimo saluto prima di partire per un continente straniero non dovrebbe andare a un amico qualsiasi.
Ole se ne rimase in silenzio, il capo ostinatamente chinato sulla propria colazione: non aveva nulla da dire, né a suo padre, né a sé stesso. Il fatto che Homer stesse per andarsene rendeva tutto così doloroso che non aveva nemmeno senso indagare sulla natura di quel dolore.
“Sarete voi due da soli? Non viene nessun altro a salutarlo?”
Ole avrebbe voluto rispondere che nessuno dei loro compagni avrebbe avuto voglia di scomodarsi per venire fino a Brighton, nella babbana cittadina di Ole, per salutare Homer: sarebbe stato molto più probabile che fosse Ole a doversi spostare per vedere i compagni e Homer. E comunque, per quanto Homer andasse d’accordo con tutti i compagni, e per quanto tutti i compagni fossero molto dispiaciuti della sua partenza, nessuno si era legato a Homer quanto Ole. E Ole, nonostante la sua perenne insicurezza, non aveva alcun dubbio sull’amicizia sincera e forte di Homer: poteva non capacitarsi di come Homer, brillante e apprezzato com’era, avesse scelto proprio lui fra tutti i compagni per instaurare un rapporto così stretto, ma ormai era successo.
“Non è una festa di addio, papà. Homer viene solo a salutarmi, non è niente di serio…”
Come potesse definire niente di serio il terribile momento della loro separazione, quello Ole non lo avrebbe proprio saputo dire. La verità era solo che quella conversazione si stava rivelando più imbarazzante e dolorosa del previsto, e Ole desiderava solo che suo padre si decidesse ad andare al lavoro, lasciandogli il tempo per calmarsi e prepararsi a ricevere Homer.
Neil, senza nemmeno provare a nascondere il suo disappunto, lanciò una lunga occhiata sospettosa al figlio, prima di lasciare andare le braccia lungo i fianchi e sospirare:
“Me lo sarei dovuto aspettare che da quella scuola di matti non mi avresti certo potuto portare a casa una brava ragazza, ma…”
Papà…”, gemette Ole, gettando al padre uno sguardo implorante: quel discorso, quel particolare discorso che a volte Neil cercava di intavolare senza successo, costringendo Ole a rintanarsi in una reticenza piena di imbarazzo e di domande a cui non sapeva rispondere nemmeno nella tranquillità della sua testa, era l’ultima cosa che il ragazzo avesse il coraggio di affrontare in una simile giornata.
“Va bene. Fai il bravo, e cerca di non tornare troppo tardi”.
La bocca di Neil, mentre pronunciava quelle parole, era una linea sottile, rigida e fredda: non avrebbe mai voluto pronunciarle, questo Ole lo sapeva. Lo sapeva, ma dopo tutte quelle settimane trascorse a cercare di convincere il figlio a uscire più spesso e a cercare di avere più contatti con persone della sua età, Ole non avrebbe mai potuto perdere la faccia a quel modo, vietando a Ole di fare esattamente quello che sino al giorno prima gli aveva chiesto di fare.
Non ci furono più altre parole: Neil Nissen non si sforzò nemmeno di resistere in casa i dieci minuti che lo separavano dall’orario in cui era solito uscire per andare a lavorare: con un cenno brusco della mano, afferrò il contenitore del suo pranzo e lo ficcò seccamente nella sua borsa del lavoro, e uscì sbattendo la porta.
Ole sospirò: se avesse dovuto fare un pronostico sulla giornata che lo attendeva in base al buongiorno appena ricevuto, avrebbe fatto meglio a prepararsi ad affrontare una delle esperienze più desolanti della sua vita.
 
*
Homer sembrava un bambino la mattina di Natale: si era materializzato nella via accanto alla casa di Ole – fresco fresco di licenza, non ne aveva voluto sapere di farsi accompagnare dai suoi genitori, nonostante i signori Landmann avrebbero volentieri salutato Ole. Aveva trovato senza difficoltà il numero 12 di Aymer Road, e quando Ole aveva proposto di spostarsi subito verso il centro turistico della cittadina, Homer aveva invece insistito per restare un po’ a casa, dato che avrebbero avuto tutto il tempo.
Era buffo, dal momento che, da quando si erano conosciuti, Ole aveva sempre trascorso almeno una settimana delle proprie vacanze estive a casa di Homer, ma quest’ultimo non si era mai avvicinato a Brighton. Non che non ci avesse mai provato: spesso lui e i suoi genitori si erano offerti di venirlo a prendere, così da non farlo viaggiare con mezzi di trasporto babbano – avevano una mentalità molto aperta, i Landmann, ma sembravano aver appreso del mondo babbano su un libro di storia, perché temevano sempre che il suo viaggio a bordo di un treno regionale si concludesse con un pericolosissimo assalto alla diligenza – ma era sempre stato Ole a rifiutare.
Per qualche motivo, l’idea che Homer vedesse l’appartamento in cui era cresciuto lo metteva in un terribile imbarazzo: certo, i Nissen non erano ricchi quanto i Landmann, e Ole non poteva vantare un’ampia tenuta di famiglia – quella della madre di Homer – affacciata sul limitare della foresta di Dean, ma la sua vergogna non stava tanto nelle stanze modeste, nell’assenza di un giardino o nella macchia di umidità che andava progressivamente allargandosi sul muro sopra il suo letto. Non voleva che Homer incontrasse suo padre, e potesse riconoscere nei suoi silenzi delusi ciò di cui lui preferiva non parlare, né voleva che suo padre desse un volto a quel ragazzino che istintivamente detestava tanto. Non voleva che Homer si aggirasse per le stanze che lo avevano visto crescere: gli sembrava un gesto così intimo e sconsiderato da farlo sentire estremamente a disagio.
Ma Homer non chiedeva il permesso, mai: Homer arrivava, sorrideva, scuoteva le spalle ed era capace di abbattere ogni barriera di Ole, riducendo in polvere tutte le sue resistenze.
E così la mattina era scivolata via tra le loro dita, con Homer che si entusiasmava davanti al televisore del salotto e le sue dita che correvano a giocare quasi ininterrottamente con gli interruttori della luce di ogni stanza.
Solo la fame li aveva finalmente spinti ad abbandonare la casa, per gettarsi nella calura soffocante di quella giornata estiva.
 
Brighton era affollata di villeggianti e turisti che riempivano le sue vie di un vociare continuo e impossibile da interrompere: Ole aveva sempre detestato la propria città d'estate, con la calca di persone affamate di qualsiasi divertimento, sempre travolti da una corsa all’ultima distrazione.
D’inverno era tutta un'altra cosa. D’inverno poteva passeggiare sul pontile, dividendo il passaggio con pochi gabbiani dal passo ondeggiante, poteva guardare la distesa di ferro del mare che rispecchiava un cielo che sembrava tanto basso da poterlo sfiorare, e la decadenza di quel posto rimasto incastrato nel tempo assumeva un che di malinconico, quasi nostalgico.
D'estate, Brighton era solo una città che non riusciva a tenere il tempo: i divertimenti sembravano essere usciti dall'epoca sbagliata, con le giostre e i carretti dello zucchero filato ad affastellarsi come set cinematografici a buon mercato. Brighton era la città del divertimento malinconico, quello che non arrivava davvero a entusiasmare le persone, ma sembrava che tutti cercassero di fare del proprio meglio per nascondere questa delusione e mostrarsi felici, felici come non erano.
E poi, era arrivato Homer.
Homer che non aveva radici, che si muoveva nel mondo come se tutto fosse una nuova, entusiasmante avventura. Homer, che aveva vissuto in ogni continente, che aveva visto città splendide e monumenti di inestimabile valore, Homer che era cresciuto con la magia a colorare tutte le sue giornate, conversando con i maghi e le streghe più illustri dell'epoca.
Homer che quella mattina, pur non conoscendo il posto, aveva preso il comando della piccola spedizione, facendo da guida a Ole, trascinandolo di qua e di là, senza riuscire a nascondere nemmeno un gridolino di sorpresa, chiacchierando ininterrottamente e mostrando a Ole tutta la meraviglia che aveva sempre avuto sotto gli occhi senza mai accorgersene.
Ogni cosa che indicava, ogni scorcio che sfiorava con gli occhi sembrava illuminarsi di una luce tutta nuova: via quella patina di umido calore che ingrigiva tutto. Via quell’aria decadente da città che era ormai solo l’ombra di un passato lontano. Via anche quella confusione pacchiana di voci, via la tristezza di una spiaggia dove famiglie infelici e stanche si sforzavano di combattere la noia per convincersi che quello era il modo giusto di divertirsi.
Via, via tutto.
Sotto gli occhi di Homer restava solo la bellezza del sole che incendiava le scaglie del mare, restavano i suoi occhi socchiusi in estasi mentre si riempiva la bocca di zucchero filato azzurro, restavano solo le risate che spargeva a piene mani tutto attorno, e Ole, senza nemmeno rendersene conto, s'era ritrovato a condividerle, quelle risate. Ad alternare morsi del proprio fish&chips allo zucchero filato di Homer, e a pensare che il contrasto fosse proprio perfetto. Ad annuire, e dire che sì, era proprio fortunato ad abitare in un posto così bello.
 
“Il mondo non è poi così male, se lo guardo con i tuoi occhi".
Ole gettò un brandello di pesce fritto sulla sabbia sotto di loro, dondolando i piedi nel vuoto che separava il pontile dalla spiaggia, e osservò divertito due gabbiani litigarsi quel succulento bottino.
Homer, al suo fianco, si aprì in un sorriso che avrebbe potuto essere definito soltanto come sfacciato.
“Lo so. E con un po' di allenamento, potrai anche arrivare a dire che è proprio una figata. Parola di esperto!”
E allora tornò quella fitta dolorosa in mezzo al petto: Ole si era illuso, lasciandosi trasportare dall'entusiasmo dell’amico, che in quella giornata potesse esserci spazio solamente per sorrisi e risate, ma la verità era un'altra. La verità era che, dietro a tutte le belle parole che avrebbero potuto raccontarsi, quella giornata era solamente uno schifosissimo addio.
“Potresti almeno far finta di non essere così compiaciuto", borbottò Ole, gettando ai gabbiani ciò che restava nel suo cono di carta oleata. Non aveva più fame.
“Non sono compiaciuto, però è la verità! Ti farebbe davvero bene prendere un po’ esempio da me”.
“Be', grazie tante, sarà facilissimo prendere esempio da una persona che se ne sta a mille milioni di miglia da qui".
Il sorriso di Homer vacillò, anche se solo per un attimo. Vacillò, e quello che il ragazzo si costrinse a mostrare era solo un sorriso finto, la pallida eco dell’espressione che per diciassette anni gli aveva illuminato il volto.
“Non sono mille milioni di miglia. Sono solo…”
“Non dirmelo. Non dirmi quante sono esattamente queste schifosissime miglia, perché sono comunque troppe e io le odio tutte, una per una".
Ole fissò ostinatamente lo sguardo su quella macchia scura e mobile che era il mare: non poteva guardare Homer e leggere nei suoi occhi la delusione per la sua reazione stizzita. Ole sapeva di essere sciocco, infantile ed egoista. Studiare a Uagadou, per uno studente brillante come Homer, era un’occasione preziosissima: avrebbe potuto confrontarsi con insegnanti preparatissimi, avrebbe imparato ad avvicinarsi alla magia da un punto di vista del tutto inedito, avrebbe potuto fare esperienze che Hogwarts non gli avrebbe mai dato. Homer era felice di partire, era felice come Ole non lo aveva mai visto: Homer non era fatto per mettere radici, aveva bisogno del brivido dell'ignoto e della scoperta, aveva bisogno di continui stimoli e sfide. Ole non aveva mai sperato che la loro amicizia sopravvivesse a Hogwarts: aveva sempre saputo che il futuro di Homer non poteva essere l’Inghilterra, ma aveva scioccamente sperato di poter avere almeno un ultimo anno con lui.
“Ole…”
Ole avvertiva quell'inflessione vagamente implorante nella voce di Homer, ma non si voltò. Non si voltò e continuò a tenere i denti serrati, gli occhi stretti in fessure fisse sul mare, perché se si fosse voltato avrebbe pianto, e non aveva alcun motivo di mostrarsi così tanto stupido.
 
Ole non sapeva per quanto tempo se ne sarebbe rimasto fermo a fissare il mare sentendo Homer agitarsi inquieto al suo fianco, se all'improvviso un grido acuto non avesse attraversato l'aria, facendoli sobbalzare:
“Homer! Sorpresa! Sono qui!”
Ferma in mezzo al pontile, con un sorriso smagliante a illuminarle il viso, una ragazza alta e slanciata fissava Homer con gli occhi che brillavano. Le lunghe gambe abbronzate di Eloise Pearson spuntavano dai suoi pantaloncini di jeans in maniera quasi sfacciata: Ole, che l’aveva sempre vista con la divisa di Hogwarts o abbigliata con impeccabili vesti da strega, faceva quasi fatica a riconoscerla. Eppure, era lei, innegabilmente lei, con la sua lunga coda di cavallo bruna che le scendeva sulla schiena e i suoi occhi chiari che brillavano, mentre fissava felice Homer.
Homer che si era voltato di scatto, cercando di recuperare a tutti i costi un sorriso che proprio non riusciva a trovare.
“E-Eloise, ciao! Ma cosa ci fai qui?”
Homer si alzò a fatica, gettando sulla spiaggia sotto di loro lo stecchino ormai inutile dello zucchero filato – non lo avrebbe mai fatto, in un'altra situazione, non dopo tutti i discorsi con cui si era lamentato della poca considerazione per l’ambiente dei babbani – e si passò una mano fra i capelli scomposti, allontanandoli dal viso.
Homer era in imbarazzo: Ole non credeva che avrebbe mai visto l’imbarazzo adombrare il viso di Homer, eppure stava accadendo.
Eloise, però, sembrava non essersi accorta di nulla: i suoi occhi chiari continuavano a brillare, e le sue gote erano tinte di un rossore radioso.
Homer gettò a Ole uno sguardo implorante, che sembrava chiedergli di aiutarlo.
Prima che Ole potesse trovare qualcosa da dire, però, Eloise si era sollevata sulla punta dei piedi, stampando un bacio rapido e un po' imbarazzato sulle labbra di Homer.
 
 
 


 
Note:
È stata dura, durissima, ma anche questo capitolo ce l’ha fatta.
Non avete idea di quanto mi dispiaccia non essere riuscita a mantenere un po’ di costanza con questi aggiornamenti, e ancor più di non essere riuscita a dare un senso unitario al tutto (insomma, questa storia non è una vera propria long, non è una raccolta di one-shot separate… sa soltanto quello che non è, come Balto). Ma va bene anche così, perché il periodo è quello che è, e di meglio non credo avrei potuto fare. O probabilmente sì, ma insomma, davvero va bene anche così. In un certo senso, sono quasi contenta che Homer e Ole mi stiano tenendo compagnia così a lungo, nonostante lo spazio dedicato a loro sulla mia pagina non sia poi così tanto.
Non odiatemi e non odiate Eloise, per favore XD.
 

[1] Mi diverte sempre molto la difficoltà che i maghi, anche quelli che dovrebbero essere più esperti, continuano ad avere con l’abbigliamento babbano.
[2] Secondo Pottermore, gli studenti ammessi a Uagadou (scuola di magia africana, situata fra i Monti della Luna) vengono visitati in sogno da alcuni messaggeri della scuola, e si risvegliano la mattina tenendo in mano il sassolino che permetterà loro di raggiungere la scuola.
   
 
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