There are names for what binds us:
strong forces, weak forces.
Look around, you can see them:
the skin that forms in a half-empty cup,
nails rusting into the places they join,
joints dovetailed on their own weight.
The way things stay so solidly
wherever they've been set down—
and gravity, scientists say, is weak.
And see how the flesh grows back
across a wound, with a great vehemence,
more strong
than the simple, untested surface before.
There's a name for it on horses,
when it comes back darker and raised: proud flesh,
as all flesh,
is proud of its wounds, wears them
as honors given out after battle,
small triumphs pinned to the chest—
And when two people have loved each other
see how it is like a
scar between their bodies,
stronger, darker, and proud;
how the black cord makes of them a single fabric
that nothing can tear or mend.
Jane Hirshfield, "For What Binds Us"
For what binds us
"Ora
siamo pari."
Dopo aver pugnalato Bellamy al fianco
e averlo tramortito, il terrestre la afferra per il gomito e inizia a
trascinarla verso l'uscita.
Clarke si divincola dalla sua presa,
ma è una reazione automatica, istintiva. Tutta la sua attenzione è concentrata
fino all'ultima molecola su Bellamy. Fissa intontita il corpo riverso sul
pavimento, il sangue che macchia la lama impugnata dal terrestre. Sente la
paura come un veleno che lento, progressivo si diffonde nelle sue vene senza
incontrare ostacoli.
No, pensa pietrificata. No.
"Devo aiutarlo- devo-" Quasi non si accorge che il terrestre l'ha
lasciata andare. Cade sulle ginocchia accanto a Bellamy e scosta le pellicce
per controllare la ferita. Non è facile. Ha ancora le mani legate e anche nel
suo stato di agitazione non le sfugge il tremore che le attraversa. In qualche
modo riesce ad esaminarla al meglio delle sue capacità.
Esala un sospiro. Dopo il primo,
respirare diventa più facile e il dolore al petto si affievolisce.
Il pugnale non sembra aver perforato
nessun organo vitale. La perdita di sangue non è considerevole. Ne tampona la
fuoriuscita con il lacero bavaglio che le pende dal collo, facendo pressione
sulla ferita. Il terrestre sapeva cosa stava facendo quando l'ha colpito. Due
centimetri più in alto. Sarebbero bastati due centimetri più in alto per
ucciderlo. Qualcosa dentro di lei trema. Anche se non è in immediato
pericolo, la ferita deve essere disinfettata e suturata. Un bendaggio
compressivo è solo una soluzione temporanea.
Mentre ragiona sul da farsi, può
sentire la presenza incombente alle sue spalle, l'insistenza di uno sguardo
penetrante puntato su di lei come la spada di Damocle.
"Se il tuo scopo era impedirgli
di seguirci, avresti potuto colpirlo alla gamba," sbotta senza voltarsi.
Lui ripulisce la lama del pugnale.
"Non sarebbe bastato a fermarlo. Ha attraversato un esercito nemico per
raggiungerti. Non avrebbe smesso di cercarci."
È così, ma Clarke non è tanto stupida
da confermare le sue supposizioni.
"Non lo conosci," dice. Che
creda pure quello che vuole.
"No, ma tu sì."
A quello non può ribattere. Anche lei
sa che non si sarebbe fermato. È quello che sono. È ciò che sono disposti a
fare l'uno per l'altra. Non importa quanto l'abbia ferito, sa di poter contare
su Bellamy. È qualcuno a cui affiderebbe la sua vita.
"Alzati," ordina il
terrestre, afferrandola di nuovo per il gomito. Anche se brusca e salda, questa
volta la presa non è dolorosa come prima.
Lei scuote la testa. Non smette di
applicare pressione sulla ferita neanche quando sente la punta della lama
contro la gola. Non ha paura. È solo grata che stia minacciando lei e non
Bellamy. Anche se posta di fronte a una scelta del genere, la terrorizza di più
l'idea di abbandonarlo così, incosciente e ferito con un esercito nemico a poca
distanza.
"Non posso lasciarlo," dice
a bassa voce.
"Chi è?" I suoi occhi sono
sempre gli occhi di un estraneo, ma la scintilla che li attraversa è
inconfondibile. La fa sentire in trappola.
"Nessuno," risponde in
fretta. È una bugia e anche pessima. Di solito sa mentire meglio di così. Non
adesso. Non è lucida, non è padrona di sé stessa. Ha smesso di essere Wanheda
non appena Bellamy le ha scostato i capelli dalla fronte, ha arcuato la bocca
nel suo mezzo sorriso di cieca spavalderia, gli occhi luminosi e trepidanti che
le divoravano il viso, catalogando le differenze e mappandole come una nuova
costellazione.
Il terrestre le slega i polsi e lei
deve combattere ogni istinto per non indulgere nell'impulso di prendere il
volto di Bellamy tra le mani, accostare la fronte alla sua. Si mette subito al
lavoro.
Il terrestre non batte ciglio. Perché
dovrebbe? Ha già tutto quello che gli occorre sapere, la mano più alta. Ha
trovato la sua debolezza. Il suo cuore è di fronte a lui, pesto e sanguinante.
"Fai in fretta," ordina
prima di mettersi a guardia delle scale.
Clarke vorrebbe odiarlo. Non può.
Avrebbe potuto ucciderlo e non lo ha fatto. Gli deve la vita di Bellamy e
questo per lei vale più di qualsiasi debito d'onore.
*
Dopo che l'eco lontana dei tamburi da
guerra inizia a sparire e il terreno smette di tremare per l'avanzata di
centinaia di guerrieri armati, il silenzio che proviene dalla foresta diventa assordante.
Il terrestre si sposta, tornando
accanto a lei. Non la afferra e non le punta contro la spada, ma il tono è
imperioso. "Muoviti. Dobbiamo rimetterci in marcia."
Il volto di Bellamy è pallido e
lucido di sudore nella penombra. Clarke continua a contare i battiti nel polso
- sono deboli e irregolari -, ad osservare il petto che si solleva
impercettibilmente ad ogni respiro. "No."
"Hai promesso," la accusa
il terrestre, la voce più simile a un ringhio. "Dov'è il tuo onore?"
"Ho promesso che ti avrei
seguito se tu lo avessi lasciato andare. Chi è davvero senza onore?"
Il tempo è essenziale. Lo sanno
entrambi. Per quanto testardo, Bellamy non è la testa calda che sembra. Bloccati
dal passaggio dell'esercito da qualche parte nelle vicinanze, nascosti e in
attesa esattamente come loro, deve esserci una squadra di soccorso. Anche il
terrestre deve essere arrivato alla stessa conclusione.
Estrae la spada e Clarke si chiede se
questa sia la fine, come termina la sua storia. Si aspetta di essere trafitta,
che lui minacci Bellamy per convincerla a collaborare. Quello che non si
aspetta è che lui afferri Bellamy e se lo metta di traverso sulle spalle.
"Cosa stai facendo?"
"Lo porto con noi."
"Perché?" Conosce già la
risposta. La conosce dal momento in cui lui le ha permesso di medicare Bellamy.
La risposta è la verità da cui è fuggita da quando lo ha lasciato vicino ai
cancelli di Arkadia. È una verità pericolosa e ora è in mano al nemico.
"Anche Wanheda non può uccidere
nessuno senza la sua bloreina."
Il modo in cui l'ha detto e in cui il
suo sguardo dardeggia da lei a Bellamy, le fa gelare il sangue È snervante,
come se sapesse qualcosa che deve ancora avvenire. Come se pensasse di avere un
vantaggio.
*
Dopo ore di marcia, Bellamy non si è
ancora svegliato e lei sta iniziando a preoccuparsi.
Le mani legate da una corda fissata
alla cintura del terrestre, Clarke gli arranca dietro, gli occhi puntati sul
corpo esamine sulle sue spalle. Non le sembrava che lo avesse colpito alla
testa al punto da provocargli una concussione. Non capisce. Improvvisamente la
sua mente è attraversata da una consapevolezza che la fa fermare sul posto. Una
rabbia incandescente le riempie i polmoni.
Strattona la corda finché anche il
terrestre è costretto ad arrestare i suoi passi. Quando si volta, lei si
trattiene a stento dal colpirlo. "Cosa gli hai dato?" Stringe i pugni
contro la corda, le nocche bianche come neve appena caduta. "Non si è
ancora svegliato. Cosa gli hai dato?"
Il terrestre non nega le sue accuse.
Non sembra neppure sorpreso dal fatto di essere stato scoperto. Scruta gli
alberi attorno a loro come se nascondessero potenziali minacce tra i rami. Dopo
un attimo di considerazione, posa Bellamy contro il tronco dell'albero più
vicino e procede a legarlo. "Non morirà," risponde, conciso.
Lei assottiglia gli occhi,
osservandone le manovre. È pronta a intervenire alla minima provocazione.
"Dammi una sola ragione per cui dovrei fidarmi di te."
"Te ne posso dare due," lui
risponde con lo stesso tono, guardandola da sopra la spalla. "Siete
entrambi ancora vivi."
La rabbia retrocede e quando si permette
di osservare la radura, non per la prima volta è attraversata da una strana
sensazione di familiarità. Riconosce il punto della foresta in cui si trovano,
ma non ha il minimo senso. Sin dall'inizio ha dato per scontato che lui
intendesse consegnarla alla Nazione del Ghiaccio. Perché avrebbe dovuto
presupporre diversamente?
"Non mi stai portando dal tuo
popolo." È solo una congettura, ma la sua voce suona sicura e la reazione
del terrestre è rivelatrice e soddisfacente. Le sue mani si immobilizzano prima
che lui riprenda a stringere il nodo. L’esitazione c’è stata, è innegabile e
Clarke ha ottenuto la conferma che le serviva.
Lui scuote la testa e dice qualcosa
in Trig, a voce troppo bassa perché lei riesca ad afferrare le parole,
figurarsi tradurre il significato. "Avrei dovuto bendarti."
Clarke aggrotta la fronte. "Ma
non lo hai fatto." La domanda che gli sta ponendo è implicita, ma chiara.
Perché non l'ha fatto?
Lui scrolla le spalle. "Sei
diversa da quello che mi aspettavo."
"Cosa guadagni da tutto questo?
Cosa ti è stato promesso in cambio?"
"Qualcosa che tu non puoi
darmi."
"E lei può?" La
Nazione del Ghiaccio è nella direzione opposta. Contraddirla ora sarebbe
inutile. Il terrestre deve leggerglielo in faccia.
Solleva un angolo di bocca in un
sorriso di recalcitrante rispetto. “Sei intelligente, te lo concedo.”
Lexa.
La sta portando da Lexa. Ha senso, pensa. La Nazione del ghiaccio si sta
ribellando. I vecchi equilibri sono saltati. La sua cattura è l'ultimo
tentativo di ricomporre la coalizione, di ottenere una parvenza di pace. Non
riesce ancora a capire come. Per questo è prioritario raggiungere Polis.
Arginare i danni. Quantificare l’entità del problema. Proteggere ancora una
volta ciò che ama a discapito di tutto il resto, anche di sé stessa.
“Allora siamo d'accordo.” Solleva il
mento e lo fissa dritto negli occhi. “Lascerò che mi porti da lei, che Lexa
creda che sono tua prigioniera.”
Lo ha preso alla sprovvista.
Nonostante la sua espressione non subisca mutamenti, non è abbastanza veloce da
mascherare il lampo sorpreso che gli ha attraversato lo sguardo. “Perché
dovresti?” domanda, guardingo.
“Il mio popolo, una mia
responsabilità.” Dice le parole con la praticità di qualcuno che è abituato a
ripeterle, con l’assoluta convinzione che altri riversano in una fede
religiosa. “Non abbiamo bisogno di combattere l'ennesima guerra.”
“Specialmente quando vi state ancora
riprendendo dall'ultima,” replica lui con brutale onestà. “Cosa vuoi in cambio della
tua collaborazione?”
La sua risposta è istantanea. “Immunità
per il mio amico. Smetterai di somministrargli qualsiasi narcotico gli stai
dando. Ci stai?”
Può praticamente sentirlo mentre
riflette, cercando di carpire il segreto dietro le sue motivazioni. Il trucco è
proprio questo. Non ci sono segreti. Le motivazioni sono quelle che gli ha
dato. Alla fine, annuisce. “Se il tuo amico tace, abbiamo un accordo.”
*
Quando Roan la informa che l’effetto
del narcotico che ha dato a Bellamy svanirà entro un paio d’ore, Clarke propone
una sosta. Vuole controllare che il bendaggio attorno alla ferita stia reggendo
e soprattutto –
“È pronto.” Roan le indica il pugnale
infilzato nelle braci del fuoco. Il ferro è caldo. Quando lo prende e lo
avvicina al fianco di Bellamy per cauterizzare la ferita, la sua mano è ferma.
La sua mente non lo è.
È grata del fatto che Bellamy sia
ancora incosciente. Se fosse stato sveglio e reattivo, non è sicura che sarebbe
stata in grado di farlo. Probabilmente sì, ma avrebbe richiesto maggiore forza
d’animo.
Roan osserva la scena con occhi
intensi e Clarke si sente incredibilmente esposta. Quello che prova non è
debolezza, ora lo sa. Però c’è stato un tempo in cui ha cercato di appropriarsi
dell’insegnamento opposto, di far propria una linea di pensiero che boicotta i
legami e gli affetti come se fossero qualcosa di aborrente, di cui vergognarsi.
Questo era prima. Prima che capisse
che il suo discernimento non è offuscato da ciò che prova. Un atto di
misericordia non è una colpa. I suoi sentimenti non la rendono inaffidabile,
non intralciano le sue percezioni della realtà e di ciò che è giusto, ma sono
la forza propulsiva della sua caparbietà. Non sono un ostacolo, tuttavia la
rendono vulnerabile ed è esattamente da questa consapevolezza che è scappata.
Essersi resa conto della loro profondità, delle leghe che è disposta a
percorrere pur di proteggerli, l’ha inorridita. C’è poco o niente che non
farebbe per le persone che ama e la portata delle sue azioni la tormenta giorno
e notte. Non è ciò che ha fatto a definire la persona che è diventata. È il suo
amore abnegante. Il suo compito è tenerli al sicuro e farà tutto il necessario.
“È uno difficile da uccidere.”
Clarke impiega qualche secondo a
capire a cosa Roan si riferisca e quando lo fa, è sopraffatta dalla nausea.
Perché lui sta fissando la schiena nuda di Bellamy, il lato sinistro dove ha
evidenti cicatrici da ustioni. Cicatrici che è stata lei a provocargli, anche
se indirettamente. Clarke le sfiora in punta di dita. Spera che il suo viso non
lasci trapelare i suoi pensieri. Sa che è una speranza vana.
“Avevo sentito che a voi Popolo del Cielo
piace far esplodere le cose.”
Si irrigidisce. “Non lo facciamo di
proposito. Non attacchiamo se non siamo attaccati.”
“Jus drein jus daun,” lo sente dire.
“Sono stata io.” Si volta verso Roan.
Il suo volto è in ombra, ma anche se non lo fosse, sa che non riuscirebbe a
comprenderlo. È impenetrabile. Rimane un enigma. Non sa cosa la spinga a
parlargli. Forse è proprio il fatto che non lo conosca, che non le importi di
essere giudicata da lui. A volte è più facile parlare con uno sconosciuto
perché non ti preoccupa la sua opinione, non ti importa di piacergli o di
fargli una buona impressione. “Eravamo in guerra con il Clan della Foresta, prima
che ci riunissimo al resto del nostro popolo. La maggior parte di noi è
riuscita a mettersi in salvo all’interno della navicella con cui siamo
atterrati sul pianeta. Quando ho chiuso le porte, lui è rimasto fuori.” È
sopravvissuto, ma non cambia ciò che ha fatto. È stata la prima volta che lo ha
lasciato indietro. La sua mano è ancora poggiata sulla sua schiena, in
corrispondenza della cicatrice più grande. Sotto i polpastrelli percepisce il
tessuto cicatriziale che è in rilievo rispetto alla pelle circostante. Ne segue
il contorno in punta di dita.
“Wanheda,” lui dice. Per la prima
volta il suo tono non è derisorio. La guarda come se la riconoscesse, come se
capisse di cosa sta parlando, ma ancora di più come se avesse ascoltato anche quello
che non ha detto.
Vorrebbe dirgli che non sono poi così
diversi da loro, soprattutto in guerra. Invece piega le labbra in qualcosa che
sarebbe quasi tentata di definire un sorriso se non avesse un sapore così
amaro. “Preferisco il nome Clarke.”
*
“Clarke.” Il suo nome è la prima
parola che Bellamy pronuncia quando apre gli occhi. La sua voce è roca e
gracchiante per il disuso e perché deve avere la gola secca, ma rimane comunque
il suono più bello che abbia sentito nelle ultime settimane.
Lei gli è subito accanto. “Sono qui.”
Gli passa un braccio attorno al busto e lo aiuta a sedersi, facendo attenzione
alla fasciatura. Gli accosta la borraccia alle labbra. Bellamy beve avidamente,
svuotando l’intero contenuto. Non commenta il fatto che abbia le mani legate,
né che invece le sue siano libere. Il suo sguardo allenato si distoglie da lei
per concentrarsi sul fuoco dove Roan sta continuando ad affilare la spada, fingendo
di non degnarli della minima considerazione quando invece è perfettamente chiaro
che sta ascoltando quello che si dicono con grande interesse. Stringe il polso
di Bellamy in un tacito avvertimento. Non che ce ne sia davvero bisogno. Lui
poggia la mano sopra la sua, stringendo di rimando.
“Dove siamo?” chiede.
“A un giorno di cammino da Polis.”
“Polis?”
“Non ci sta portando dalla regina Azgeda,
ma da Lexa.”
La menzione è sufficiente. Clarke può
già vedere il rancore affiorare nel suo sguardo, lo sforzo titanico per tenere
a bada il suo sarcasmo caustico e concentrarsi sulle priorità immediate. “Perché
sono legato?”
“È solo una precauzione.” Clarke si
volta verso Roan e aggiunge a voce più alta, con l’apposito scopo di farsi
sentire, “Dopotutto io e Roan abbiamo un accordo.”
Dopo avergli spiegato concisamente i
termini dell’accordo, non è stupita quando il suo umore cambia drasticamente.
La confusione del risveglio ha ceduto il passo alla collera. Bellamy storce la
bocca. “Come hai potuto acconsentire?”
“Quanto ricordi?”
Clarke scuote la testa, ma non ha
modo di dare voce a quello che pensa, di esprimere la sua gratitudine per il
suo tentativo di salvataggio. (Ha fallito, ma non è quella la parte importante.
Ha tentato ed è quello che conta.)
Il disprezzo che fino a un istante
prima Bellamy ha rivolto a sé stesso, ora lo sta indirizzando a lei. Lo sguardo
che le rivolge è pieno di livore e di dubbio. Una ferita d’arma da fuoco
farebbe meno male. Non può pensarci. Non adesso. “Se tu non fossi mai andata
via-”
“Hai ragione,” lo interrompe prima
che diventi troppo da sopportare. Si chiede se abbia sognato il modo in cui
l’ha guardata il giorno prima. Se sia stata solo un’illusione ottica generata
dai suoi desideri più intimi. Se abbia proiettato qualcosa che non esiste. “Ho
smesso di scappare.”
“La tua tempistica è l'ideale.”
“Non lo è mai,” lei concede
docilmente e forse è il fatto che non abbia controbattuto o forse è il tono
vagamente malinconico che ha usato, ma le rughe nel volto di Bellamy si
ingentiliscono percettibilmente, la tensione lo abbandona.
“Cosa hai intenzione di fare?”
domanda, già meno aspro.
“Affrontare Lexa.” Comincia a
slegargli i polsi.
“Ovvio.” Lo sente sbuffare. Lo
conosce abbastanza da sapere in anticipo l’espressione meditabondo sul suo viso
severo. “È troppo sperare in un po' di pace?”
“Forse siamo nati per questo,” le
replica con una leggerezza che è ben lontana dal provare. “Forse ce l'abbiamo
nel sangue.”
Non riesce a decifrare lo sguardo che
le rivolge. Il fuoco non è abbastanza vicino da illuminarlo completamente. “La
guerra?”
“La morte,” lo corregge. Si morde
l’interno della guancia. “Sai come mi chiamano adesso?”
“L'ho sentito.” Bellamy non si
strofina i polsi. Non la ferma e non si scansa quando lei comincia a farlo al suo
posto per riattivare la circolazione del sangue. “Qualunque nome ti diano, non
definisce chi sei.”
“Cosa ci definisce allora? Se non le
nostre azioni, allora cosa?”
Lui non risponde subito, si limita a
stringerle le mani tra le sue. Quando si arrischia a sollevare lo sguardo,
Bellamy le lascia andare. Allunga una mano e gliela poggia sul petto. “Questo,”
dice mentre con l’altra le picchietta gentilmente la fronte. “E questo.”
Non sono mai stati così vicini. È praticamente
inginocchiata di fronte a lui, tra le sue gambe, ma non si riferisce
all’aspetto meramente fisico. È tentata di fare qualcosa di avventato e
sciocco. Si umetta le labbra e vede il modo in cui i suoi occhi seguono il
movimento. Le sue pupille sono dilatate, ma potrebbe essere un effetto residuo
del narcotico, anche se sono passate ore. “Mi dispiace averti lasciato a
portare il peso da solo.”
Ha di nuovo quell’espressione
turbata, solo che questa volta le è impossibile non comprenderne la ragione,
soprattutto quando lui mormora, tirandosi leggermente indietro e schiarendosi
la gola, “Non ero solo.”
Oh. Lo schianto è
silenzioso, in qualche modo attutito dalla stanchezza. Le sembra di non essere
mai stata più sveglia e lucida che in quel momento, ma il mondo ha assunto
contorni surreali. “Come si chiama?”
Per un momento sembra quasi che lui
non voglia rispondere. Poi sembra ripensarci. “Gina.” Quando pronuncia il nome
c’è una peculiare e inequivocabile nota di tenerezza. Gli ha sentito usare quel
tono solo parlando con Octavia. Sente una fitta al cuore.
“Non devi venire con me.” Quello che
sta cercando di dirgli è che non vuole che si senta obbligato a seguirla.
Quello che vorrebbe dirgli è che lo capirebbe se scegliesse di non farlo. Lui
ha delle persone che aspettano il suo ritorno, qualcuno che gli ha chiesto di
tornare, a cui importa che lui stia bene. No, è ingiusto. Anche per lei è così.
Anche lei ha una famiglia da cui tornare.
Lui continua a guardarla e quando
arcua un angolo di bocca nel familiare sorriso sbilenco, sa che ha ascoltato
ciascuno dei pensieri che lei non ha espresso a voce alta. “Sei pazza se pensi
che ti lascerò andare da sola.”
Si siede accanto a lui e urta
leggermente la spalla con la sua. Lo vede scuotere la testa leggermente,
nascondere poco e male un’ombra di sorriso. Indipendentemente da tutto, sa di
averlo. È il suo migliore amico, la persona che è sulla sua stessa pagina, che
conosce i rischi e sa quando è il caso di correrli perché si tratta di un
sacrificio necessario. (Quello che li lega è più che semplice tessuto
cicatriziale e senso di colpa. Sono battaglie, trionfi e sconfitte condivise. È
qualcosa che batte all’unisono dentro di loro.)
“Se non fossi andata via, pensi che noi-”
Non riesce a finire. Non importa. Sa che lui capirà lo stesso.
Con la coda dell’occhio lo vede
deglutire. “Non lo so. Non lo so, ma mi
sarebbe piaciuto scoprirlo.”
Quando incrocia il suo sguardo, non è
l’unica ad avere gli occhi lucidi e inconsolabili per la perdita di quello che
sarebbe potuto essere e non è stato.
“Già,” sussurra, “anche a me.”
-
-
N/a:
Questa doveva essere una storia lampo.
Qualcosa per superare il blocco dello scrittore mentre sto scrivendo un AU
della 5 stagione in cui Clarke uccide McCreary, salvando la Valle dalla
distruzione, ma anche così non tutto è facile e felice e - versione ermetica, volevo
superare il blocco dello scrittore xD
Sono partita con le ultime due scene,
ma poi ho voluto contestualizzarle e una cosa tira un'altra e le parole hanno
iniziato a moltiplicarsi.
Spero che la lettura vi sia piaciuta!
Come avete intenzione di trascorrere l'ultimo giorno - ORE (argh!) - prima
della premiere? Io leggendo le mie ff Bellarke preferite e riguardando i miei
episodi preferiti. E voi? <3