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Autore: Ruta    20/05/2020    1 recensioni
Estrae la spada e Clarke si chiede se questa sia la fine, come termina la sua storia. Si aspetta di essere trafitta, che lui minacci Bellamy per convincerla a collaborare. Quello che non si aspetta è che lui afferri Bellamy e se lo metta di traverso sulle spalle.
"Cosa stai facendo?"
"Lo porto con noi."
"Perché?" Conosce già la risposta. La conosce dal momento in cui lui le ha permesso di medicare Bellamy. La risposta è la verità da cui è fuggita da quando lo ha lasciato vicino ai cancelli di Arkadia. È una verità pericolosa e ora è in mano al nemico.
"Anche Wanheda non può uccidere nessuno senza la sua bloreina."
[3x02 Canon Divergence. Roan non coltella Bellamy alla gamba, ma al fianco. E' costretto a portarlo con loro.]
Genere: Generale, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Roan
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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binds

There are names for what binds us:
strong forces, weak forces.
Look around, you can see them:
the skin that forms in a half-empty cup,
nails rusting into the places they join,
joints dovetailed on their own weight.
The way things stay so solidly
wherever they've been set down—
and gravity, scientists say, is weak.
And see how the flesh grows back
across a wound, with a great vehemence,
more strong
than the simple, untested surface before.
There's a name for it on horses,
when it comes back darker and raised: proud flesh,
as all flesh,
is proud of its wounds, wears them
as honors given out after battle,
small triumphs pinned to the chest—
And when two people have loved each other
see how it is like a
scar between their bodies,
stronger, darker, and proud;
how the black cord makes of them a single fabric
that nothing can tear or mend.

Jane Hirshfield, "For What Binds Us"

 

 

 

 

For what binds us

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-

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 -

"Ora siamo pari."
Dopo aver pugnalato Bellamy al fianco e averlo tramortito, il terrestre la afferra per il gomito e inizia a trascinarla verso l'uscita.
Clarke si divincola dalla sua presa, ma è una reazione automatica, istintiva. Tutta la sua attenzione è concentrata fino all'ultima molecola su Bellamy. Fissa intontita il corpo riverso sul pavimento, il sangue che macchia la lama impugnata dal terrestre. Sente la paura come un veleno che lento, progressivo si diffonde nelle sue vene senza incontrare ostacoli.
No, pensa pietrificata. No. "Devo aiutarlo- devo-" Quasi non si accorge che il terrestre l'ha lasciata andare. Cade sulle ginocchia accanto a Bellamy e scosta le pellicce per controllare la ferita. Non è facile. Ha ancora le mani legate e anche nel suo stato di agitazione non le sfugge il tremore che le attraversa. In qualche modo riesce ad esaminarla al meglio delle sue capacità.
Esala un sospiro. Dopo il primo, respirare diventa più facile e il dolore al petto si affievolisce.
Il pugnale non sembra aver perforato nessun organo vitale. La perdita di sangue non è considerevole. Ne tampona la fuoriuscita con il lacero bavaglio che le pende dal collo, facendo pressione sulla ferita. Il terrestre sapeva cosa stava facendo quando l'ha colpito. Due centimetri più in alto. Sarebbero bastati due centimetri più in alto per ucciderlo. Qualcosa dentro di lei trema. Anche se non è in immediato pericolo, la ferita deve essere disinfettata e suturata. Un bendaggio compressivo è solo una soluzione temporanea.   
Mentre ragiona sul da farsi, può sentire la presenza incombente alle sue spalle, l'insistenza di uno sguardo penetrante puntato su di lei come la spada di Damocle.
"Se il tuo scopo era impedirgli di seguirci, avresti potuto colpirlo alla gamba," sbotta senza voltarsi.
Lui ripulisce la lama del pugnale. "Non sarebbe bastato a fermarlo. Ha attraversato un esercito nemico per raggiungerti. Non avrebbe smesso di cercarci."
È così, ma Clarke non è tanto stupida da confermare le sue supposizioni.
"Non lo conosci," dice. Che creda pure quello che vuole.
"No, ma tu sì."
A quello non può ribattere. Anche lei sa che non si sarebbe fermato. È quello che sono. È ciò che sono disposti a fare l'uno per l'altra. Non importa quanto l'abbia ferito, sa di poter contare su Bellamy. È qualcuno a cui affiderebbe la sua vita.
"Alzati," ordina il terrestre, afferrandola di nuovo per il gomito. Anche se brusca e salda, questa volta la presa non è dolorosa come prima.
Lei scuote la testa. Non smette di applicare pressione sulla ferita neanche quando sente la punta della lama contro la gola. Non ha paura. È solo grata che stia minacciando lei e non Bellamy. Anche se posta di fronte a una scelta del genere, la terrorizza di più l'idea di abbandonarlo così, incosciente e ferito con un esercito nemico a poca distanza.
"Non posso lasciarlo," dice a bassa voce.
"Chi è?" I suoi occhi sono sempre gli occhi di un estraneo, ma la scintilla che li attraversa è inconfondibile. La fa sentire in trappola.
"Nessuno," risponde in fretta. È una bugia e anche pessima. Di solito sa mentire meglio di così. Non adesso. Non è lucida, non è padrona di sé stessa. Ha smesso di essere Wanheda non appena Bellamy le ha scostato i capelli dalla fronte, ha arcuato la bocca nel suo mezzo sorriso di cieca spavalderia, gli occhi luminosi e trepidanti che le divoravano il viso, catalogando le differenze e mappandole come una nuova costellazione.
Il terrestre le slega i polsi e lei deve combattere ogni istinto per non indulgere nell'impulso di prendere il volto di Bellamy tra le mani, accostare la fronte alla sua. Si mette subito al lavoro.
Il terrestre non batte ciglio. Perché dovrebbe? Ha già tutto quello che gli occorre sapere, la mano più alta. Ha trovato la sua debolezza. Il suo cuore è di fronte a lui, pesto e sanguinante.
"Fai in fretta," ordina prima di mettersi a guardia delle scale.
Clarke vorrebbe odiarlo. Non può. Avrebbe potuto ucciderlo e non lo ha fatto. Gli deve la vita di Bellamy e questo per lei vale più di qualsiasi debito d'onore.

*

Dopo che l'eco lontana dei tamburi da guerra inizia a sparire e il terreno smette di tremare per l'avanzata di centinaia di guerrieri armati, il silenzio che proviene dalla foresta diventa assordante.
Il terrestre si sposta, tornando accanto a lei. Non la afferra e non le punta contro la spada, ma il tono è imperioso. "Muoviti. Dobbiamo rimetterci in marcia."
Il volto di Bellamy è pallido e lucido di sudore nella penombra. Clarke continua a contare i battiti nel polso - sono deboli e irregolari -, ad osservare il petto che si solleva impercettibilmente ad ogni respiro. "No."
"Hai promesso," la accusa il terrestre, la voce più simile a un ringhio. "Dov'è il tuo onore?"
"Ho promesso che ti avrei seguito se tu lo avessi lasciato andare. Chi è davvero senza onore?"
Il tempo è essenziale. Lo sanno entrambi. Per quanto testardo, Bellamy non è la testa calda che sembra. Bloccati dal passaggio dell'esercito da qualche parte nelle vicinanze, nascosti e in attesa esattamente come loro, deve esserci una squadra di soccorso. Anche il terrestre deve essere arrivato alla stessa conclusione.
Estrae la spada e Clarke si chiede se questa sia la fine, come termina la sua storia. Si aspetta di essere trafitta, che lui minacci Bellamy per convincerla a collaborare. Quello che non si aspetta è che lui afferri Bellamy e se lo metta di traverso sulle spalle.
"Cosa stai facendo?"
"Lo porto con noi."
"Perché?" Conosce già la risposta. La conosce dal momento in cui lui le ha permesso di medicare Bellamy. La risposta è la verità da cui è fuggita da quando lo ha lasciato vicino ai cancelli di Arkadia. È una verità pericolosa e ora è in mano al nemico.
"Anche Wanheda non può uccidere nessuno senza la sua bloreina."
Il modo in cui l'ha detto e in cui il suo sguardo dardeggia da lei a Bellamy, le fa gelare il sangue È snervante, come se sapesse qualcosa che deve ancora avvenire. Come se pensasse di avere un vantaggio.

*

Dopo ore di marcia, Bellamy non si è ancora svegliato e lei sta iniziando a preoccuparsi.
Le mani legate da una corda fissata alla cintura del terrestre, Clarke gli arranca dietro, gli occhi puntati sul corpo esamine sulle sue spalle. Non le sembrava che lo avesse colpito alla testa al punto da provocargli una concussione. Non capisce. Improvvisamente la sua mente è attraversata da una consapevolezza che la fa fermare sul posto. Una rabbia incandescente le riempie i polmoni.
Strattona la corda finché anche il terrestre è costretto ad arrestare i suoi passi. Quando si volta, lei si trattiene a stento dal colpirlo. "Cosa gli hai dato?" Stringe i pugni contro la corda, le nocche bianche come neve appena caduta. "Non si è ancora svegliato. Cosa gli hai dato?"
Il terrestre non nega le sue accuse. Non sembra neppure sorpreso dal fatto di essere stato scoperto. Scruta gli alberi attorno a loro come se nascondessero potenziali minacce tra i rami. Dopo un attimo di considerazione, posa Bellamy contro il tronco dell'albero più vicino e procede a legarlo. "Non morirà," risponde, conciso.
Lei assottiglia gli occhi, osservandone le manovre. È pronta a intervenire alla minima provocazione. "Dammi una sola ragione per cui dovrei fidarmi di te."
"Te ne posso dare due," lui risponde con lo stesso tono, guardandola da sopra la spalla. "Siete entrambi ancora vivi."
La rabbia retrocede e quando si permette di osservare la radura, non per la prima volta è attraversata da una strana sensazione di familiarità. Riconosce il punto della foresta in cui si trovano, ma non ha il minimo senso. Sin dall'inizio ha dato per scontato che lui intendesse consegnarla alla Nazione del Ghiaccio. Perché avrebbe dovuto presupporre diversamente?
"Non mi stai portando dal tuo popolo." È solo una congettura, ma la sua voce suona sicura e la reazione del terrestre è rivelatrice e soddisfacente. Le sue mani si immobilizzano prima che lui riprenda a stringere il nodo. L’esitazione c’è stata, è innegabile e Clarke ha ottenuto la conferma che le serviva.
Lui scuote la testa e dice qualcosa in Trig, a voce troppo bassa perché lei riesca ad afferrare le parole, figurarsi tradurre il significato. "Avrei dovuto bendarti."
Clarke aggrotta la fronte. "Ma non lo hai fatto." La domanda che gli sta ponendo è implicita, ma chiara. Perché non l'ha fatto?
Lui scrolla le spalle. "Sei diversa da quello che mi aspettavo."
"Cosa guadagni da tutto questo? Cosa ti è stato promesso in cambio?"
"Qualcosa che tu non puoi darmi."
"E lei può?" La Nazione del Ghiaccio è nella direzione opposta. Contraddirla ora sarebbe inutile. Il terrestre deve leggerglielo in faccia.
Solleva un angolo di bocca in un sorriso di recalcitrante rispetto. “Sei intelligente, te lo concedo.”

Lexa. La sta portando da Lexa. Ha senso, pensa. La Nazione del ghiaccio si sta ribellando. I vecchi equilibri sono saltati. La sua cattura è l'ultimo tentativo di ricomporre la coalizione, di ottenere una parvenza di pace. Non riesce ancora a capire come. Per questo è prioritario raggiungere Polis. Arginare i danni. Quantificare l’entità del problema. Proteggere ancora una volta ciò che ama a discapito di tutto il resto, anche di sé stessa.  
“Allora siamo d'accordo.” Solleva il mento e lo fissa dritto negli occhi. “Lascerò che mi porti da lei, che Lexa creda che sono tua prigioniera.”
Lo ha preso alla sprovvista. Nonostante la sua espressione non subisca mutamenti, non è abbastanza veloce da mascherare il lampo sorpreso che gli ha attraversato lo sguardo. “Perché dovresti?” domanda, guardingo.
“Il mio popolo, una mia responsabilità.” Dice le parole con la praticità di qualcuno che è abituato a ripeterle, con l’assoluta convinzione che altri riversano in una fede religiosa. “Non abbiamo bisogno di combattere l'ennesima guerra.”
“Specialmente quando vi state ancora riprendendo dall'ultima,” replica lui con brutale onestà. “Cosa vuoi in cambio della tua collaborazione?”
La sua risposta è istantanea. “Immunità per il mio amico. Smetterai di somministrargli qualsiasi narcotico gli stai dando. Ci stai?”
Può praticamente sentirlo mentre riflette, cercando di carpire il segreto dietro le sue motivazioni. Il trucco è proprio questo. Non ci sono segreti. Le motivazioni sono quelle che gli ha dato. Alla fine, annuisce. “Se il tuo amico tace, abbiamo un accordo.”

*

Quando Roan la informa che l’effetto del narcotico che ha dato a Bellamy svanirà entro un paio d’ore, Clarke propone una sosta. Vuole controllare che il bendaggio attorno alla ferita stia reggendo e soprattutto –
“È pronto.” Roan le indica il pugnale infilzato nelle braci del fuoco. Il ferro è caldo. Quando lo prende e lo avvicina al fianco di Bellamy per cauterizzare la ferita, la sua mano è ferma. La sua mente non lo è.
È grata del fatto che Bellamy sia ancora incosciente. Se fosse stato sveglio e reattivo, non è sicura che sarebbe stata in grado di farlo. Probabilmente sì, ma avrebbe richiesto maggiore forza d’animo.
Roan osserva la scena con occhi intensi e Clarke si sente incredibilmente esposta. Quello che prova non è debolezza, ora lo sa. Però c’è stato un tempo in cui ha cercato di appropriarsi dell’insegnamento opposto, di far propria una linea di pensiero che boicotta i legami e gli affetti come se fossero qualcosa di aborrente, di cui vergognarsi.
Questo era prima. Prima che capisse che il suo discernimento non è offuscato da ciò che prova. Un atto di misericordia non è una colpa. I suoi sentimenti non la rendono inaffidabile, non intralciano le sue percezioni della realtà e di ciò che è giusto, ma sono la forza propulsiva della sua caparbietà. Non sono un ostacolo, tuttavia la rendono vulnerabile ed è esattamente da questa consapevolezza che è scappata. Essersi resa conto della loro profondità, delle leghe che è disposta a percorrere pur di proteggerli, l’ha inorridita. C’è poco o niente che non farebbe per le persone che ama e la portata delle sue azioni la tormenta giorno e notte. Non è ciò che ha fatto a definire la persona che è diventata. È il suo amore abnegante. Il suo compito è tenerli al sicuro e farà tutto il necessario.
“È uno difficile da uccidere.”
Clarke impiega qualche secondo a capire a cosa Roan si riferisca e quando lo fa, è sopraffatta dalla nausea. Perché lui sta fissando la schiena nuda di Bellamy, il lato sinistro dove ha evidenti cicatrici da ustioni. Cicatrici che è stata lei a provocargli, anche se indirettamente. Clarke le sfiora in punta di dita. Spera che il suo viso non lasci trapelare i suoi pensieri. Sa che è una speranza vana.
“Avevo sentito che a voi Popolo del Cielo piace far esplodere le cose.”
Si irrigidisce. “Non lo facciamo di proposito. Non attacchiamo se non siamo attaccati.”
“Jus drein jus daun,” lo sente dire.  
“Sono stata io.” Si volta verso Roan. Il suo volto è in ombra, ma anche se non lo fosse, sa che non riuscirebbe a comprenderlo. È impenetrabile. Rimane un enigma. Non sa cosa la spinga a parlargli. Forse è proprio il fatto che non lo conosca, che non le importi di essere giudicata da lui. A volte è più facile parlare con uno sconosciuto perché non ti preoccupa la sua opinione, non ti importa di piacergli o di fargli una buona impressione. “Eravamo in guerra con il Clan della Foresta, prima che ci riunissimo al resto del nostro popolo. La maggior parte di noi è riuscita a mettersi in salvo all’interno della navicella con cui siamo atterrati sul pianeta. Quando ho chiuso le porte, lui è rimasto fuori.” È sopravvissuto, ma non cambia ciò che ha fatto. È stata la prima volta che lo ha lasciato indietro. La sua mano è ancora poggiata sulla sua schiena, in corrispondenza della cicatrice più grande. Sotto i polpastrelli percepisce il tessuto cicatriziale che è in rilievo rispetto alla pelle circostante. Ne segue il contorno in punta di dita.
“Wanheda,” lui dice. Per la prima volta il suo tono non è derisorio. La guarda come se la riconoscesse, come se capisse di cosa sta parlando, ma ancora di più come se avesse ascoltato anche quello che non ha detto.  
Vorrebbe dirgli che non sono poi così diversi da loro, soprattutto in guerra. Invece piega le labbra in qualcosa che sarebbe quasi tentata di definire un sorriso se non avesse un sapore così amaro.  “Preferisco il nome Clarke.”

*    

“Clarke.” Il suo nome è la prima parola che Bellamy pronuncia quando apre gli occhi. La sua voce è roca e gracchiante per il disuso e perché deve avere la gola secca, ma rimane comunque il suono più bello che abbia sentito nelle ultime settimane.     
Lei gli è subito accanto. “Sono qui.” Gli passa un braccio attorno al busto e lo aiuta a sedersi, facendo attenzione alla fasciatura. Gli accosta la borraccia alle labbra. Bellamy beve avidamente, svuotando l’intero contenuto. Non commenta il fatto che abbia le mani legate, né che invece le sue siano libere. Il suo sguardo allenato si distoglie da lei per concentrarsi sul fuoco dove Roan sta continuando ad affilare la spada, fingendo di non degnarli della minima considerazione quando invece è perfettamente chiaro che sta ascoltando quello che si dicono con grande interesse. Stringe il polso di Bellamy in un tacito avvertimento. Non che ce ne sia davvero bisogno. Lui poggia la mano sopra la sua, stringendo di rimando.
“Dove siamo?” chiede.
“A un giorno di cammino da Polis.”
“Polis?”
“Non ci sta portando dalla regina Azgeda, ma da Lexa.”
La menzione è sufficiente. Clarke può già vedere il rancore affiorare nel suo sguardo, lo sforzo titanico per tenere a bada il suo sarcasmo caustico e concentrarsi sulle priorità immediate. “Perché sono legato?”
“È solo una precauzione.” Clarke si volta verso Roan e aggiunge a voce più alta, con l’apposito scopo di farsi sentire, “Dopotutto io e Roan abbiamo un accordo.”
Dopo avergli spiegato concisamente i termini dell’accordo, non è stupita quando il suo umore cambia drasticamente. La confusione del risveglio ha ceduto il passo alla collera. Bellamy storce la bocca. “Come hai potuto acconsentire?”
“Quanto ricordi?”
Bellamy aggrotta le sopracciglia mentre cerca di ricordare gli avvenimenti dell’ultimo giorno. Si tocca il fianco con una smorfia di disgusto e di odio per sé stesso. “È colpa mia se siamo in questa situazione.”
Clarke scuote la testa, ma non ha modo di dare voce a quello che pensa, di esprimere la sua gratitudine per il suo tentativo di salvataggio. (Ha fallito, ma non è quella la parte importante. Ha tentato ed è quello che conta.)
Il disprezzo che fino a un istante prima Bellamy ha rivolto a sé stesso, ora lo sta indirizzando a lei. Lo sguardo che le rivolge è pieno di livore e di dubbio. Una ferita d’arma da fuoco farebbe meno male. Non può pensarci. Non adesso. “Se tu non fossi mai andata via-”
“Hai ragione,” lo interrompe prima che diventi troppo da sopportare. Si chiede se abbia sognato il modo in cui l’ha guardata il giorno prima. Se sia stata solo un’illusione ottica generata dai suoi desideri più intimi. Se abbia proiettato qualcosa che non esiste. “Ho smesso di scappare.”
“La tua tempistica è l'ideale.”
“Non lo è mai,” lei concede docilmente e forse è il fatto che non abbia controbattuto o forse è il tono vagamente malinconico che ha usato, ma le rughe nel volto di Bellamy si ingentiliscono percettibilmente, la tensione lo abbandona.   
“Cosa hai intenzione di fare?” domanda, già meno aspro.
“Affrontare Lexa.” Comincia a slegargli i polsi.  
“Ovvio.” Lo sente sbuffare. Lo conosce abbastanza da sapere in anticipo l’espressione meditabondo sul suo viso severo. “È troppo sperare in un po' di pace?”
“Forse siamo nati per questo,” le replica con una leggerezza che è ben lontana dal provare. “Forse ce l'abbiamo nel sangue.”
Non riesce a decifrare lo sguardo che le rivolge. Il fuoco non è abbastanza vicino da illuminarlo completamente. “La guerra?”
“La morte,” lo corregge. Si morde l’interno della guancia. “Sai come mi chiamano adesso?”
“L'ho sentito.” Bellamy non si strofina i polsi. Non la ferma e non si scansa quando lei comincia a farlo al suo posto per riattivare la circolazione del sangue. “Qualunque nome ti diano, non definisce chi sei.”
“Cosa ci definisce allora? Se non le nostre azioni, allora cosa?”
Lui non risponde subito, si limita a stringerle le mani tra le sue. Quando si arrischia a sollevare lo sguardo, Bellamy le lascia andare. Allunga una mano e gliela poggia sul petto. “Questo,” dice mentre con l’altra le picchietta gentilmente la fronte. “E questo.”
Non sono mai stati così vicini. È praticamente inginocchiata di fronte a lui, tra le sue gambe, ma non si riferisce all’aspetto meramente fisico. È tentata di fare qualcosa di avventato e sciocco. Si umetta le labbra e vede il modo in cui i suoi occhi seguono il movimento. Le sue pupille sono dilatate, ma potrebbe essere un effetto residuo del narcotico, anche se sono passate ore. “Mi dispiace averti lasciato a portare il peso da solo.”
Ha di nuovo quell’espressione turbata, solo che questa volta le è impossibile non comprenderne la ragione, soprattutto quando lui mormora, tirandosi leggermente indietro e schiarendosi la gola, “Non ero solo.”

Oh. Lo schianto è silenzioso, in qualche modo attutito dalla stanchezza. Le sembra di non essere mai stata più sveglia e lucida che in quel momento, ma il mondo ha assunto contorni surreali. “Come si chiama?”
Per un momento sembra quasi che lui non voglia rispondere. Poi sembra ripensarci. “Gina.” Quando pronuncia il nome c’è una peculiare e inequivocabile nota di tenerezza. Gli ha sentito usare quel tono solo parlando con Octavia. Sente una fitta al cuore.
“Non devi venire con me.” Quello che sta cercando di dirgli è che non vuole che si senta obbligato a seguirla. Quello che vorrebbe dirgli è che lo capirebbe se scegliesse di non farlo. Lui ha delle persone che aspettano il suo ritorno, qualcuno che gli ha chiesto di tornare, a cui importa che lui stia bene. No, è ingiusto. Anche per lei è così. Anche lei ha una famiglia da cui tornare.
Lui continua a guardarla e quando arcua un angolo di bocca nel familiare sorriso sbilenco, sa che ha ascoltato ciascuno dei pensieri che lei non ha espresso a voce alta. “Sei pazza se pensi che ti lascerò andare da sola.”
Si siede accanto a lui e urta leggermente la spalla con la sua. Lo vede scuotere la testa leggermente, nascondere poco e male un’ombra di sorriso. Indipendentemente da tutto, sa di averlo. È il suo migliore amico, la persona che è sulla sua stessa pagina, che conosce i rischi e sa quando è il caso di correrli perché si tratta di un sacrificio necessario. (Quello che li lega è più che semplice tessuto cicatriziale e senso di colpa. Sono battaglie, trionfi e sconfitte condivise. È qualcosa che batte all’unisono dentro di loro.)     
“Se non fossi andata via, pensi che noi-” Non riesce a finire. Non importa. Sa che lui capirà lo stesso. 
Con la coda dell’occhio lo vede deglutire.  “Non lo so. Non lo so, ma mi sarebbe piaciuto scoprirlo.”
Quando incrocia il suo sguardo, non è l’unica ad avere gli occhi lucidi e inconsolabili per la perdita di quello che sarebbe potuto essere e non è stato.
“Già,” sussurra, “anche a me.”

-

-


 
N/a:

Questa doveva essere una storia lampo. Qualcosa per superare il blocco dello scrittore mentre sto scrivendo un AU della 5 stagione in cui Clarke uccide McCreary, salvando la Valle dalla distruzione, ma anche così non tutto è facile e felice e - versione ermetica, volevo superare il blocco dello scrittore xD

Sono partita con le ultime due scene, ma poi ho voluto contestualizzarle e una cosa tira un'altra e le parole hanno iniziato a moltiplicarsi.

Spero che la lettura vi sia piaciuta! Come avete intenzione di trascorrere l'ultimo giorno - ORE (argh!) - prima della premiere? Io leggendo le mie ff Bellarke preferite e riguardando i miei episodi preferiti. E voi? <3

  
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