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Autore: beavlar    21/05/2020    1 recensioni
Fili e Kili sono morti, hanno sacrificato tutto per il loro re, per la loro gente, ora anche Thorin dovrà rinunciare a tutto, ai suoi pregiudizi, alle sue idee, alle sue alleanze, per il suo "tesoro" e il suo popolo.
Dall'altra parte una mezz'elfa divisa tra due razze, dovrà invece fare i conti con il suo oscuro passato, accettando se stessa e accettando accanto a se il re di Erebor.
Due animi carichi di dolore e rimorsi, in cerca del loro posto al di sotto della Montagna e al di sopra delle stelle.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Pre angolo autrice
Miei cari lettori, vi devo le mie scuse per ilritardo immane, so che perdonarmi sarà difficile ma in compenso vi mostro un bel capitolone. <3 Questo ne vale per due su.
 


“E a cosa appartiene il vostro?”
 





 
 
“Penso che questa sia l’ultima opportunità per rivolgerti i miei saluti Thorin figlio di Thràin.”

Esordì il nano dai folti capelli brizzolati facendo rimbombare la sua voce all’interno della sala del trono semi deserta se non fosse stato per Thorin in piedi sull’enorme piedistallo occupato dal trono  e i due fratelli Balin e Dwalin ai due fianchi di esso in disparte che osservavano la scena.
Telkar era entrato con una piccola scorta nella sala del trono per un saluto al re prima del suo congedo verso Elcar, per Balin il gesto sembrò estremamente superfluo in tempi come quelli, ma al quale con sua enorme sorpresa Thorin acconsentì senza neanche batter ciglio e fu questo che invece turbò l’animo di Dwalin.

Era diverso piu’ silenzioso di quanto già non fosse negli ultimi giorni, ma i suoi occhi non erano velati da una patina di afflizione, quella non c’era quella mattina negli occhi del suo re, del suo amico, erano degli occhi che non vedeva da tempo, risoluti, uno sguardo che mai si sarebbe aspettato, non dopo quello che aveva visto il giorno prima, quello che aveva sentito il giorno prima.
Sarebbe morto per lui, e Thorin sarebbe morto per Fili e Kili, ma sentire ad alta voce quella sua confessione era tutta un'altra faccenda: era quello che nella vita aveva perso piu’ di tutti, e mai lo aveva dato a vedere, mai lo aveva visto versare neanche una lacrima, neanche quando Frerin gli morì fra le braccia, ma la perdita dei suoi nipoti forse per lui era davvero il limite e, peggio, se ne dava la colpa.
Che dopo la battaglia delle cinque armate Thorin fosse profondamente cambiato nessuno osò mai metterlo in dubbio, nemmeno lui ma, dopo averlo visto talmente inerme e in balia del dolore, scosso dai tremiti la notte precedente, gli diede ancora di piu’ la sicurezza che qualcosa in quel lasso di tempo, nell’arco di una notte, avesse scosso i pensieri del re, a tal punto da trasformare l’angoscia e il dolore in altro.

“I miei saluti fino all’arrivo della primavera, come d’accordo.”

Si corresse immediatamente Telkar  tirandosi su con la schiena dalla sua riverenza, verso Thorin, che rimase impassibile in piedi di fronte al trono, sottolineando e, godendo probabilmente, del suo lignaggio rimanendo a vari scalini sopra il lungo corridoio.

Alle parole del capofamiglia rispose piegando leggermente il capo ma inaspettatamente oltre le folte sopracciglia, Balin riuscì a cogliere uno sguardo che non gli fece presagire nulla di buono e che cancellava la parola “pacifico” dagli aggettivi che si poterono in seguito attribuire a quell’incontro.

“Un manipolo di miei fidati verrà con te fino ai monti Gialli, torneranno a fine inverno come garanzia.”

A quelle parole la bocca di Telkar si inclinò da un lato in un  falso sorriso,  alzando lo sguardo oltre le folte sopracciglia nere, facendo incurvare la profonda cicatrice che gli attraversava l’occhio sinistro.

“Non ti fidi della mia parola Re Sotto la Montagna? È sempre un matrimonio con la mia discendenza che ti ho offerto, non solo delle casse di gioielli: la garanzia è avere lei sotto questa montagna, non ti è sufficiente?”

La mascella di Thorin scattò mentre, con le mani adesso dietro la schiena che stringevano i polsi duramente, scese gli ultimi scalini arrivando alla stessa altezza del signore dei nani di fronte a lui.

“Lealtà, onore, devozione, ho visto venirli infranti per molto meno.”

Alzando un sopracciglio lo sguardo di Telkar mutò un'altra volta, i suoi occhi diventarono due fessure, due braci di fuoco che si andarono a infrangere su Thorin.
Era stato toccato un punto saldo, un punto che per ogni nano era sacro quanto le tombe sotterranee dei loro padri.

L’onore.

Balin lanciò un’occhiata preoccupata verso il fratello, Dwalin capì: la discussione era passata su un altro livello, a meno che non lo fosse sempre stata sin dall’inizio; e lui era consapevole che Thorin lo sapesse fin troppo bene per non farlo di proposito: voleva portarlo al limite, farlo uscire dalla sua tana, perché?

“Ho fatto un giuramento a vostro nonno, Thròr, sotto questo stesso soffitto, come i restanti capifamiglia dei sette clan dei nani, un giuramento che andrà avanti fino al Dagor Dagorat… ma tu questo lo sai bene.”

Gli angoli degli occhi di Thorin si incresparono avvicinandosi di un altro passo. 

“A mio nonno… non a me.” Sottolineò roco.

“Ho giurato a colui che maneggia , il gioiello del re, l’Arkengemma.” Gli occhi di Telkar oltrepassarono come se fosse invisibile la figura del Re di Erebor, e si andarono a incatenare alla gemma incastonata sopra al trono, che lucente, sovrastava la sala, come monito per tutti i nani che vi entravano.

Un guizzo di desiderio si intravide negli occhi del nano, al quale Dwalin rispose portando leggermente la mano sull’ascia legata al suo fianco, ma fu solo per un istante, perché poi il volto del signore dei nani tornò impassibile a osservare quello di Thorin.

“E a quanto mi risulta, ora è nelle tue mani… Thorin Scudodiquercia.”

Aggiunse facendo diventare l’aria nella stanza improvvisamente pesante, il nome gli era uscito dalla bocca come una delle maledizioni piu’ indicibile in nanico, scivolose e velenose come quelle di un serpente.

“Il mio giuramento a te è la mano di mia figlia, la mia unica figlia ed erede al regno di Elcar, credo che valga piu’ di qualsiasi patto di sangue già stretto in tempi passati.”

Dwalin capì che Thorin aveva raggiunto il suo obbiettivo poiché non disse nulla: le mani, che poteva ben vedere del trono, allentarono la stretta ai polsi.

“Giuramento, per promessa.”

Definì Thorin con voce roca dando le spalle al capo dei Nerachiave e tornando a passi lenti indietro verso il trono salendo un paio di scale; i suoi erano fissi sul pavimento, pensierosi, qualcosa gli scavava profondamente nella testa: una domanda.
Alzò lo sguardo verso Dwalin che nel frattempo aveva osservato la scena in silenzio, continuava a non capire, ma quando Thorin abbassò di nuovo lo sguardo e poi si voltò lentamente per guardare il signore dei nani dietro di lui, la risposta ai quesiti di quest’ultimo arrivò e non fu tanto la domanda, ma il tono che Thorin usò a fargli sgranare gli occhi: ruggente…possessivo.

“C’è una cosa che voglio sapere” Esordì  “Hai messo delle guardie alla sua porta, perché?”

Non servì specificare il soggetto, infatti alla domanda la sala parve diventare piu’ silenziosa di quanto già non fosse, la bocca di Balin rimase leggermente aperta mentre le sopracciglia di Dwalin si inarcarono leggermente facendo scorrere lo sguardo sulla schiena di Thorin e poi verso il capo dei Nerachiave:  Si tratta di lei.

Telkar d’ altra parte rimase in silenzio, passando lo sguardo sul re di Erebor, che in attesa di una sua risposta si girò del tutto di nuovo verso di lui, fino a che anche su Thorin si dipinse un cipiglio di confusione quando il lato della bocca del nano dei Monti Gialli si trasmutò in un ghigno.

“Temo di aver fatto passare il messaggio sbagliato, credo che tu abbia capito che la mia fiducia non sia riposta in te.” Precisò marcando bene l’ultima parola. “Ti devo le mie scuse Re Sotto la Montagna.”

Si avvicinò poi di un paio di passi assottigliando lo sguardo portando questa volta lui le mani dietro la schiena tirandola leggermente piu’ su.

“Devi conoscere un particolare su mia figlia, Thorin, figlio di Thràin... un errore di esecuzione, se così si può definire, un qualcosa che si è portata dietro da… dall’altro sangue che ha nelle vene.” Cominciò a spiegare Telkar sotto ancora lo sguardo vigile del re di Erebor che osservava ogni singolo movimento, e ascoltava ogni singola parola con attenzione.

“Hai mai provato a forgiare ferro e oro insieme?” Chiese guardandosi intorno verso le statue dei nani che facevano da guardia sui lati dell’androne per poi cominciare lentamente a camminare avanti e indietro facendo vagare lo sguardo per la stanza come a cercare le metafore giuste per quello che stava spiegando. “Si amalgamano, si fondono, si incastrano l’uno con l’latro, risultando anche incantevoli agli occhi… ma ogni martellata troppo forte per temprare il ferro distrugge l’oro, e ogni martellata delicata per affinare l’oro piega a malapena il ferro. Si può provare per ore, giorni, cambiando fucina, martello, allentando il soffietto, ma anche nelle fucine del grande Mahal, questo rimarrebbe solo un bello, ma inutile oggetto: una decorazione da esporre, unico, ma che non può essere usato né per combattere, né per adornare una stanza.”

Thorin rimase in silenzio, aumentando la forza della stretta nel suo pugno ben nascoso dietro la schiena  mentre Balin invece passò lo sguardo su entrambi mandando giù un groppo che gli si era creato in gola.

“Tratta mia figlia come tale.” Aggiunse sprezzante Telkar osservandolo dritto negli occhi.

Un sottile gelo si diffuse per la stanza, penetrando nelle ossa dei presenti facendo addirittura aprire leggermente la bocca a Dwalin che non riusciva a credere alle parole che aveva appena sentito, allo sprezzo con cui erano state dette.
Nessuno riuscì a vederlo, celato da uno sguardo freddo e impassibile, ma l’animo di Thorin bruciò a quelle parole, trasformando la stretta del suo pugno in un mezzo con cui sfogare l’ira che gli montava dalla pancia, conficcandosi le unghie nella carne quasi a farsi male.

“Lei non è una nana, e non lo sarà mai, lasciale credere che sposandoti le cose cambieranno, ma sappiamo entrambi che non sarà così, se glielo lascerai immaginare renderà le cose piu’ facili per entrambe le parti.”

 “Ti stai rivolgendo a tua figlia come se fosse un gioiello.” Lo interruppe Thorin con voce bassa e lacerante, ma così controllata che Dwalin dietro di lui rimase scioccato sgranando ancora di piu’ gli occhi indirizzandoli sulle sue spalle e fu in quell’istane che notò le nocche bianche e un leggero fremito attraversargli la schiena.

“Perché non lo è?”
Non fu neanche in questo caso la cosa che disse ma il tono con cui lo disse a far stringere, dall’altra parte del trono, il cuore a Balin: freddo, non c’era amore in quelle parole, solo possessione e quello sguardo lui lo aveva già visto, lo aveva visto sul viso di Thròr, sul viso di Thorin, pura possessione fisica: non avrebbe mai creduto nella sua vita  poterlo vedere in funzione di un essere vivente.
Questa volta, al silenzio controllato del re, fu Telkar ad avvicinarsi al trono posando addirittura un piede sul gradino che portava verso di lui e verso il trono.

“Lei è unica, è una gemma unica nel suo genere, è la mia gemma sul trono: lei non appartiene ai fondi delle miniere, o agli alberi delle foreste silvane, lei appartiene a me.” Si fermò assottigliando ancora lo sguardo.  “Guardati bene dal dire che non ti fidi della mia parola perché io ti ho donato la mia Arkengemma, Re Sotto la Montagna.“
Sibilò prima di scendere di nuovo il gradino senza però scostare la vista dal volto rigido del re di Erebor.

Non una parola fu aggiunta da Thorin, che osservò il profondo inchino finale del signore dei nani prima che questi gli rivolse un’ ultima occhiata sprezzante e si voltò su sé stesso senza aggiungere altro e camminare via verso l’uscita facendo rimbombare i suoi pasi pesanti per tutta la sala del trono che invece di rompere il la tensione di quella discussione ormai conclusa, non fecero altro che aumentare il gelo nella stanza così come il silenzio, che aumentava ogni attimo.

“Povera ragazza.”
Si lasciò sfuggire mormorando Balin seguendo il capofamiglia uscire dalla sala del trono senza però prestare attenzione al re: con un enorme sospiro si girò su se stesso, guardando di nuovo verso il trono, ma questa volta piu’ in alto, verso l’Arkengemma che risplendeva sopra di esso, la fissò per alcuni attimi, prima di abbassare lo sguardo poggiando entrambe i pugni sui corrimani guardando verso la seduta.

Dwalin abbassò leggermente lo sguardo verso Thorin tanto da poter vedere la sua espressione celata parzialmente dei lunghi ciuffi neri e grigi che gli ricadevano sulla fronte: le fucine di Mahal gli splendevano negli occhi mentre un singolo rivolo di sangue scuro gli oltrepassò il pungo chiuso che era rimasto, fino a quel momento, sigillato.

Solo quando ormai i passi del capoclan diventarono solo un rimbombo in lontananza Balin abbassò finalmente lo sguardo notando anche lui la profonda irrequietudine di Thorin, che non diceva nulla, dalla sua bocca uscivano solo pesanti respiri, che celavano ben altro che una semplice turbamento: Thorin si sentiva bruciare vivo.

 “Tutto bene ragazzo?”

 Gli chiese infine , ma al re sotto la montagna bastò quella semplice domanda per calmare i respiri, e far distendere i pugni ancora serrati sul freddo marmo facendo tornare la schiena da prima curva a dritta e tesa.

“Balin vai da Bofur alla biblioteca, digli di portare i progetti per i mulini, tutti quella che trova, entro oggi dobbiamo far ripartire le carrucole delle fucine.” Ordinò sbrigativo a Balin continuando a guardare giù verso il sedile.

“Ragaz…”

“Abbiamo altro a cui pensare.” Lo interruppe secco impedendogli di dire altro rivolgendogli solo uno sguardo di sbieco, arrestando ulteriori domande che in quel momento non dovevano essergli poste: non potevano essergli poste.

Balin annuì e lanciò un’occhiata verso Dwalin, rimasto al lato del trono, prima di oltrepassare Thorin e uscire dalla sala, lasciando i due amici di infanzia immersi in un silenzio, pieno di domande e di risposte che non sarebbero state date.

“Dwalin tu vieni con me alle forge.“
Aggiunse Thorin infine tirandosi su dal trono e tornando lentamente a essere il re che Dwalin che aveva imparato a conoscere in questi giorni, distaccato, freddo, e pieno di oneri sulle spalle.
Thorin permise solo a un sospiro di attraversargli le labbra prima di lanciare un’occhiata verso il trono e senza aggiungere altro che non fosse un breve cenno con la testa verso il nano accanto a lui, scavalcò le scale a grandi passi scrutato da Dwalin per alcuni attimi prima di essere seguito senza ulteriori domande.

Saluti e riverenze si diffusero da ogni nano che incrociava il loro cammino da quando avevano messo piedi fuori dall’uscio, ogni guardia rizzava la schiena, ogni chiacchiericcio diventava sommesso o si interrompeva al suo passaggio. Thorin a tutto ciò rispondeva con un breve movimento della testa o abbassando leggermente gli occhi: era nato per questo, e non perché era stato o l’erede al trono, no lui era nato per essere re, il suo re, ma che ormai sembrava piu’ l’ombra del Thorin con cui era cresciuto.

Dwalin lo seguì in silenzio, accanto a lui, lanciandogli ogni tanto qualche occhiata, verso la fronte ancora leggermente corrugata e gli occhi spenti, fissi chissà in quali pensieri, in quel emozioni; per confermare i suoi turbamenti osservò di nuovo la mano di Thorin, e anche se ormai secco, riuscì a intravedere tra le dita il rivolo di sangue secco che gli oltrepassa il palmo fino alla punta del dito medio, macchiando l’enorme anello argentato.
Distolse velocemente lo sguardo, prima che potesse accorgersi dei suoi occhi che indugiavano, forse anche troppo, sulla sua mano.
“Stai bene?”

“Non dovrei?” Gli rispose neanche guardandolo continuando a camminare tra la roccia verde e i corrimani dorati.

“Sai a cosa mi riferisco, Thorin.”

Il suo passo si fermò per un istante, sembrò quasi che stesse per rispondergli, allargo lentamente la bocca per parlare acciglio lo sguardo, ma le sue speranze furono vane perché riprese a camminare, questa volta anche piu’ velocemente di prima.
“Avevo bisogno di capire i suoi scopi, nulla di più’.”  Gli rispose infine, ma chiunque avrebbe capito che era solo un modo per tagliare il discorso, anche se un fondo di verità in quelle parole c’era in ogni caso

“Se non ti fidi di lui perché hai accettato un simile accordo? Un simile patto? Thorin, è della tua vita che stiamo parlando, del trono, della discendenza della nostra casata, della tua discendenza.”

“Non ti ho chiesto io di presenziare e neanche di farmi la morale, non ne ho bisogno.” Replicò a quelle parole con un ringhio sommesso continuando ad evitare il suo sguardo mente i suoi passi si facevano sempre piu’ pesanti.

“Quando sento che stai compiendo una sciocchezza rientra nei miei compiti anche farti la morale.” Stufo Dwalin bloccò il passo, osservando la schiena del re di fronte a lui, mentre questo lentamente si fermava in mezzo alla scala che stavano scendendo notando il suo passo interrotto.

Dwalin prese un profondo respiro, prima di parlare ancora, per farsi coraggio.
“Sono solo preoccupato per te.”
Ammise e forse fu proprio il tono che uscì dalla sua bocca a far tentennare Thorin bloccandone del tutto il passo a pochi scalini sotto di lui. Passarono diversi secondi di silenzio nel quale Dwalin era sempre piu’ irrequieto, nel quale diverse possibilità gli si paravano davanti agli occhi, ma continuava a rifiutare quella piu’ probabile, perché in quel caso lui non avrebbe potuto fare niente.

Thorin si voltò verso di lui ricambiando il suo sguardo insistente sulla sua schiena.

“Ho bisogno di sapere che tu ti fidi di me.” Dwalin si irrigidì a quella domanda, e gonfiò leggermente il petto guardando il suo re con determinazione, come il giorno del suo giuramento, tanti anni fa, quando lui era solo una semplice guardia e lui un semplice principe dei nani, quando tutto era piu’ semplice.

“Sempre.”

“Allora non chiedere oltre.”









“Lasciateci.” Ordinò secco Telkar alle due guardie che lanciandole un’ultima occhiata colpevole, chiusero le sete rosse e si allontanarono dalla tenda. Le mani le cominciarono leggermente a tremare, quello sguardo, quel tono, la paura prese pieno possesso di lei facendole stringere con forza i lembi del vestito.

A ogni passo che compiva suo padre verso di lei i respiri diventavano piu’ veloci e sconnessi; prima che avesse il tempo di aprire bocca per parlare un colpo la guancia così  violentemente da farle perdere l’equilibrio e farla cadere a terra. 
Un gemito di dolore le uscì dalla bocca  quando si parò con le mani dalla caduta afferrando il vello sotto di lei mentre all’interno di essa si andava a plasmare un sapore metallico.  Alzò terrorizzata gli occhi verso suo padre fuori di se dalla collera; non ebbe il tempo di dire nulla poiché con violenza il nano di fronte a lei le si avvicinò ancora di più.

“Tu brutta piccola insolente.” Le ruggì addosso e con un movimento rapido le afferrò i capelli da dietro la nuca tirandola su costringendola a guardarlo negli occhi. “Cosa ti avevo detto? Dovevi fare una sola cosa, stare zitta ed essere compiacente e non sei riuscita a fare nessuna delle due cose!”

“L-lasciatemi.” Sussurrò quasi implorante.

Si era ripromessa di non implorarlo mai, di non supplicarlo mai piu’, ma il terrore aveva preso possesso di lei, dei suoi pensieri e del suo corpo. Il lamento però non fece altro che far adirare Telkar ancora di piu’ che ù tutta risposta le tirò i capelli da dietro la nuca ancora di piu’ facendola alzare e portarla di nuovo alla sua altezza.
“Sei rimasta chiusa in quella stanza per cinque giorni.” Aggiunse a pochi centimetri da lei, la cute le faceva male, la stretta decisa le tirava la lunga chioma scura che adesso era intrecciata tra le dita del nano con la folta barba nera, mentre lei non riusciva a fare altro che guardarlo inerme, paralizzata.

“Tu dovevi solo girare, sorridere e fare qualche inchino aggraziato.” Ruggì ancora tirandole di piu’ i capelli facendole uscire un gemito acuto di dolore e forzandola a portare le mani sulla sua stretta. “Ma devi sempre comportarti come una ragazzina, come il sangue sporco che ti scorre nelle vene!”  Le lacrime cominciavano a spingerle  sulle palpebre, ma no non avrebbe pianto, non piu’ di fronte a lui, mai piu’.
“Hai idea di quello che ho fatto per pianificare questo matrimonio Ghìda? Di quello che c’è a rischio?” Aggiunse e con uno strattone la lasciò andare facendola traballare leggermente all’indietro e mandandola a urtare con la schiena il piccolo tavolino dietro di lei.
Tremante strinse le dita intorno al legno sotto i suoi ancora scossa dalla spinta di suo padre e frastornata dallo schiaffo che ancora sentiva reale sulla sua pelle; si portò una mano sul labbro sgranando leggermente gli occhi alla vista del liquido rosso che le macchiava la punta delle dita mentre la guancia le continuava a pulsare.

Inaspettatamente però riuscì a parlare a esporle la verità che entrambi sapevano, ma che suo padre continuava a negare.
“Girare scortata per un palazzo non rende i nani di Erebor piu’ affabili, padre.” Riuscì con anche sua sorpresa a mormorare guardando il suo volto trasmutato dalla furia.

Con dito giudicatore avanzò vero di lei minaccioso e si fermò a pochi centimetri dal suo viso. 
“Ringrazia Mahal che non ti ho messo un esercito di fronte alla porta, guarda infatti da sola cosa sei riuscita a fare, ti sei fatta gettare per la montagna come una balia!” Le rinfacciò tuonando.

Con un piccolo movimento si tirò su ricacciando indietro le lacrime che continuavano a cercare di farle sfogare la sua paura, che però già era visibile dal suo tremolio leggero alle mani sul legno.

“È stato il re a darmi questo compito io l’ho accettato, come volevate voi, avrei dovuto rifiutare?”

“Tu avresti dovuto fare quello che ti avevo ordinato, invece di pensare ai giudizi di un popolo che se non fosse per una sorte favorevole adesso brucerebbe tra le fiamme.” Fece una pausa afferrandole il braccio con forza e portandoselo vicino al viso così da farlo vedere chiaramente a entrambi a entrambi. Le rune sul suo braccio erano ben visibili, esposti dalla manica che era caduta oltre il suo avambraccio.
“Vuoi essere una nana? Comportati come tale! Dimostralo, e fai quello che il tuo sovrano ti comanda: tu ora tornerai dentro quella montagna, non farai adirare Thorin Scudodiquercia, sarai raggiante e docile e tra cinque mesi da oggi, tu lo sposerai senza dare fiato alla bocca, mi hai capito bene?” Ringhio selvaggiamente a pochi centimetri da lei, poté sentire il suo respiro sul viso, così come i suoi occhi penetrarle nella carne.
Lo sguardo di suo padre si spostò poi  verso il labbro spaccato e, lasciandole andare lentamente il braccio, inarcò le sopracciglia e sospirò allungando invece l’altra mano verso di lei.


D’istinto si ritrasse spingendo la schiena ancora di piu’ sul tavolino dietro di lei, ma la mano piena di tatuaggi di suo padre non si fermò andandole ad asciugare col pollice il rivolo di sangue che continuava a formarsi sul suo labbro: mandò giù il groppo che aveva in gola disgustata da quel tocco così pesante e infido. Con una lentezza estrema poi passo la mano sotto il suo mento costringendola a guardarlo negli occhi ancora una volta.

“Fai quello che ti ho ordinato e tutto andrà divinamente va bene mio mizim?” Mormorò osservando per l’ultima volta il segno che le aveva lasciato sul labbro per poi lasciarla andare e in quel momento il corpo di il corpo le smise di tremare lasciando un lungo respiro uscirle dal petto, scaricando tutta la paura che aveva provato in quei pochi minuti, una paura che mai nella vita sarebbe riuscita a scrollarsi da dosso, che la faceva nauseare e desiderare di fuggire ad ovest: via da tutto, via da lui.
“Vuoi vedere cosa ti asetta quando diventerai regina? Vai nelle sale piu’ basse del palazzo, le antiche stanze del trono, le sale di Thròr e renditi conto di cosa avrai tra non molto nelle tue mani figlia mia.”

Ghìda abbassò il capo stringendo il vestito tra le dita e senza aggiungere altro si voltò andando verso l’uscita, ma prima che potesse uscire dalla tenda la voce del nano dietro di lei la bloccò nuovamente.

“Ghìda…” Fece una lunga pausa aspettando che lei girasse lo sguardo di nuovo verso di lui. “Ricordati sempre a chi devi la tua lealtà.”
 
 

“E a cosa appartiene il vostro?”
 
 
 
 
 




 “Mia signora, state bene?”

Una piccola voce la ridestò di colpo dai suoi pensieri, facendole sbatte piu’ volte le palpebre aiutandola a riprendersi dalla scena della sera prima che prepotentemente le aveva invaso la testa.
Di fronte a lei sette piccoli nani la guardavo confusi e in attesa, tutti seduti intorno all’enorme tavolo in mezzo alla biblioteca; chi piu’ chi meno l’avevano ascoltata leggere da tutta la mattina le storie della gente di Durin e delle sette famiglie dei nani, della loro nascita e dei vari ruoli che rappresentavano per la Terra di Mezzo.
Ma lei per un lasso di tempo aveva lasciato la sua mente vagare, rimembrando ricordi che in quel momento non erano altro che nocivi.
Gli occhi continuavano a fissarla aspettando una sua risposta, in particolar il modo il paio scuri di chi le aveva posto la domanda, a un paio di sedie lontano da lei; fu costretta ad annuire velocemente con la testa, per non destare sospetti e nascondendo la tensione con un leggero sorriso.

“S-si Trel, non ti preoccupare, ero solo persa nei miei pensieri, dove eravamo rimasti?” Chiese tirandosi leggermente su’ con la schiena e osservando di nuovo verso il basso l’enorme tomo rosso pieno di disegni e mappe e folto di antichi racconti scritti in nanico antico.

“Alla corona di Durin.” Nìm si era inginocchiata sulla sedia accanto a lei tenendo i palmi delle mani sul tavolo entusiasta.

“E dove è?” Una mano minuta si avvicinò al libro puntando le mani sul tavolo per guardare il tomo da piu’ vicino; con un leggero sorriso prese il piccolo dito di Màr ancora puntato sul tavolo e con gentilezza lo spostò nel punto corretto verso un disegno abbozzato di un cielo.

“Qui.”
Un silenzio si creò intanto che tutte e sei le piccole teste si avvicinavano di piu’ al libro per guardare meglio dove aveva spostato il dito della piccola nana seduta accanto a sé; sorridendo con gentilezza, roteò il libro permettendo a tutti di vedere la mappa dalla giusta prospettiva e spostandolo leggermente piu’ al centro del tavolo.

 “E la corona dov’è?” Esordì Lòni, il piu’ grande tra i sei, guardando con attenzione ogni angolo delle pagine di fronte a sé non trovando però quello che cercava.

“Quale corona?” Domandò Drel, che fino a poco fa era rimasto in silenzio infondo al tavolo, sporgendosi ancora di più verso il libro cercando con attenzione una corona disegnata sulla pagina.

“La corona di Durin l’immortale, come dice la canzone, giace con lui negli abissi

“È fatta d’oro, no no meglio, di gemme? Vero?”

“Come può essere una corna fatta di gemme?”

“E perché non potrebbero esserci Fàrim? A-mad ha un bracciale di gemme, perché non potrebbe esistere una corona fatta di gemme?”

“Una corona di Durin può essere fatta solo d’oro come quella di Re Thorin!” Alzò leggermente la voce Lòni tirandosi su’ sulla sedia mettendosi in piedi su di essa facendo cominciare un battibecco che mai  lei si sarebbe aspettata: se i nani erano testardi da grandi come pretendeva che da piccoli fossero da meno.

Da infondo la sala Bofur osservava la scena dietro una grande libreria sistemando alcuni vecchi volumi al loro posto, trattenendo a stendo una risata alla confusione che si stava creando in quel momento.
Osservò Ghìda che spostava velocemente lo sguardo tra i vari interlocutori senza però prendere la parola: e come poteva, i piccoli nani l’aveva circondata di domande e ormai sovrastavano quasi l’intero tomo sotto di lei.
Notò che il suo sguardo si era alzato su di lui oltrepassando la cortina di teste e trecce che le facevano da muro davanti al viso: con uno sguardo quasi implorante mimò con una bocca un leggero Aiuto, e lui scosse la testa sorridendo puntando di nuovo lo sguardo verso il suo compito.

“È fatta di stelle.” Urlò Bofur correndo in suo soccorso facendo cessare immediatamente il vociare, tutti e sei i piccoli nani che fino a poco prima si urlavano l’un altro lo osservarono con gli occhi sbarrati.
Un sospiro di sollievo le uscì dalle labbra, mentre questi ultimi, intimoriti dalle parole del nano a loro quasi sconosciuto, si voltarono verso di lei di nuovo, permettendole finalmente di parlare.
“Come ha detto Bofur, sì, è fatta di stelle.” Rispose gettando un’occhiata al nano dai lunghi baffi neri capendo che aveva compreso in quale difficoltà si era trovata, di tutta risposta le fece un breve inchino con la testa, prima di girarsi di nuovo verso i suoi libri e continuare con cura a rimetterli apposto.
Ghìda si sporse quindi leggermente di piu’ verso il tavolo e girò la pagina del grande tomo, mostrando agli occhi increduli, una grande porta, incisa nella roccia della montagna, un disegno su cui lei era stata per giorni. Voltarla infatti le fece venire un breve sussulto, e come se la pagina avesse preso fuoco sotto le sue dita ne tirò via la mano permettendo ai piccoli nani di avvicinarsi ad essa.

“L-le stelle sulla porta di Durin, incise con ithildin rappresentano le sette stelle, che vide affacciandosi nel Kheled-zâram, e che incoronarono il suo riflesso, per questo si chiama corona di Durin.”
Aggiunse cercando di non far trasparire il disagio che quel linguaggio inciso sulla porta le provocava e come il suo significato le scavasse una voragine nel petto tutte le volte che lo leggeva.
Per sua fortuna nessuno, neanche Nìm, che di solito passava piu’ tempo ad osservarla che ad ascoltare le sue brevi lezioni, si accorse del suo cambio di umore, o dell sue mani che si stringevano in due pugni sotto il tavolo; ma la domanda che però seguì fu proprio quella a cui lei sperava di non rispondere.

 “Cosa c’è scritto? È elfico vero?” Chiese Fàrim crucciando le sopracciglia osservando le scritte, provando molto probabilmente a decifrarle, ma senza successo: anche se la sua testa cambiava inclinazione le scritte per lui rimanevano incomprensibili.

"Ennyn Durin Aran Moria. Pedo Mellon a Minno. Im Narvi hain echant. Celebrimbor o Eregion teithant i thiw hin.”

Mellon.

La lesse nella sua testa non riuscendo però a farle uscire dalla sua bocca, né in elfico né nella lingua comune; le parole le si erano fermate come un groppo nella gola, leggerle avrebbe significato renderle reali e lei non voleva pensare che fossero reali, voleva continuare a pensare che appartenessero alla leggenda, come quella di Durin l’Immortale.

“Perché è scritto in elfico se è la porta del nostro popolo?”

Anche a quella domanda lei rimase in silenzio aprendo solo leggermente la bocca senza riuscire a far uscire nulla, che non fosse un leggero suono gutturale.

Perché erano alleati.

Erano … compagni.

Nani ed elfi, elfi e nani che aveva costruito insieme qualcosa, che avevano creato qualcosa; serrò la mascella incapace di parlare, continuando ad osservare l’enorme porta disegnata al centro della pagina ingiallita dal tempo. Tempo che sarebbe stato diverso se si fosse arrivati a un accordo, due ere fa: se gli elfi fossero stati piu’ accondiscendenti e i nani piu’ saggi molte cose sarebbero andate diversamente, molte vite sarebbero diverse, perfino la sua.

Bofur nel frattempo, che aveva finito di sistemare i pochi libri rimasti passando alle pergamene dall’altro lato della libreria: rimase in silenzio di fronte alle domande dei piccoli nani, intuendo la causa del mutismo di Ghìda che si era venuto a creare alle domande dei bambini. 
Alzò lo sguardo da terra e osservò il suo viso di spegnersi in un lampo e prontamente prese una decisione: si sistemò il cappello con un paio di movimenti meccanici e si schiarì la voce affacciandosi sorridente da dietro la libreria guardando il tavolo dove tutti erano seduti.

“Mia signora mi duole interrompervi ma è passato mezzo-dì.”

La frase ebbe il potere di far scomparire i battiti sempre piu’ accelerati del cuore di Ghìda, scostandola da quei pensieri e da quelle immagini e ,oltretutto, di far saltare leggermente Lòni che si drizzò sulla sedia facendo smuovere la lunga treccia bionda che portava al lato del viso facendogliela ondeggiare di fronte agli occhi.

“Mezzo dì? Fàrim dobbiamo correre alle fucine abbiamo l’addestramento in forgiatura, oggi è il turno delle spade! Andiamo, ne voglio una tutta mia!”
Urlò saltando giù dalla sedia facendo sbuffare il nano dai capelli rossi di fronte a lui che con lentezza si alzò anche lui dalla sedia mettendosi le mani nelle tasche della giacca. “Arrivo, arrivo, tanto non cominciano ancora, è troppo presto, Lòni.”

“Drèl, Trèl, Mar anche voi dovete venire veloci su!” Urlò saltellando leggermente su e giù eccitato, facendo sbuffare Drèl che invece rimase seduto osservando l’eccitazione del nano piu’ grande prima di annuire sconfitto e alzarsi così come il fratello accanto a se, che però anche lui sovraeccitato dalle parole di Lòni si era quasi lanciato giù dalla sedia.

Un lungo sospiro le uscì dalle labbra puntando uno sguardo fuggevole verso Bofur che nel frattempo era tornato alle sue faccende non accorgendosi come lo stessi ringraziando con lo sguardo e di come fosse grata che avesse compreso il suo silenzio.
Nìm invece rimase seduta guardando il fratello saltare giù dalla sedia, seguendolo con lo sguardo nel frattempo che questo appena si avvicinava a Fàrim che gli mise un braccio intorno alle spalle amichevolmente appena fu abbastanza vicino. Ghìda poté addirittura dire di averla vista arrossire quando spostò lo sguardo sul nano piu’ grande dei due gonfiando leggermente le guance e crucciando le sopracciglia.

“Io pure voglio venire con voi!”  Urlò saltando giù dalla sedia e andando verso il fratello che la fulminò con lo sguardo appena si frappose fra i due amici e la loro stretta.

“Sei piccola, non puoi venire con noi.” Le rispose apposta il fratello nascondendo a stento una risata quando sua sorella batté un piede a terra.

“Non sono piccola, e poi anche a-dad ha detto che posso provare se voglio!”

Lo sguardo le si spostò da Nìm verso Lòni che nel frattempo osserva giù verso la piccola nana anche lui arrossendo un minimo, mentre quest’ultima che gli teneva la camicia stretta in un pugno, distogliendo velocemente lo sguardo arrossendo ancora di piu’ di come aveva fatto la piccola nana poco prima.

Dovette premere forte le labbra insieme per sogghignare rimanendo seria alla scena che per molti sarebbe stata ridicola ma lei la trovava in qualche modo adorabile. Ringraziò i Valar che anche con delle piccole parole, i due fratelli fossero riusciti a dilatare quella nebbia che le stava cominciando a pesare  sul petto. Si alzò dalla sedia intanto che il piccolo battibecco tra i cinque piccoli nani continuava ma lo sguardo le cadde inevitabilmente sulla pagina sotto di lei, di nuovo sulla porta di Durin, e come per dimenticarsela, velocemente chiuse il tomo cancellando ogni pensiero che le si era formato nella testa, provocando un tonfo che si espanse per tutta la biblioteca, per poi alzarlo con entrambe le braccia e avvicinarsi verso la libreria dove prima era riposto l’enorme tomo.
 
“Non vieni con noi?”

Le chiese una voce piccola percependo anche una leggera tensione alla gonna del vestito e guardò giù, Màr la guardava con gli occhi spalancati.

“Metto apposto questo e vengo con voi.” Le rispose sorridendo gentilmente guardando giù verso di lei un attimo prima di tirarsi un po' meglio su con le punte dei piedi e con forza, incastrò il tomo nel mezzo di altri due libri grandi almeno il doppio.

“Mi unisco anche io alla compagnia.” Esordì Bofur mostrandosi di nuovo alla luce da dietro la libreria con decine di pergamene tra le braccia facendole inclinare curiosamente la testa da un lato mentre la piccola mano di Màr si andava sempre dio piu’ a insediare tra i tessuti del vestito.

“Sono tutti i progetti originali delle macchinari nelle fucine.” Le tolse il cipiglio Bofur alzando leggermente le spalle e stringendoli meglio. “Dai mulini alle carrucole: oggi vogliono provare a farle funzionare, il lavoro alle miniere diventerà molto piu’ faticoso senza, ma senza questi l’impresa diventa quasi impossibile.”

E con questa ultima tirò su tutti i rotoli leggermente piu’ verso le spalle ma l’ idea non fu delle piu’ acute in quanto appena mosse un passò quelle nel mezzo della stanza cominciarono a scivolare verso il basso o perfino a cadere.

“Fermo Bofur…” Cercò di fermarlo Ghìda afferrando le due carte arrotolate che già stavano cadendo e ne raccolse una terza da terra. “Lascia che ti dia una mano.” Aggiunse trattenendo le carte al petto per poi sfilarne altre due dà in mezzo le braccia del nano dal cappello singolare facendolo arrossire lievemente e scuotere la testa sfilandone con accortezza una terza dalle sue braccia.

“Mia signora non preoccupatevi, ce la posso fare.” Disse orgoglioso, ma la sua difficoltà nel portare così tanti rotoli sarebbe stata evidente a chiunque, poiché pendevano un po' a destra e un po' a sinistra, e non erano certamente stabili.
Scosse la testa alla testardaggine del nano e gliene prese una quarta dalle braccia, notando il viso sempre piu’ contrariato del nano di fronte a lei, ma che ignorò volutamente issandosi i fogli arrotolati poggiandoli su una spalla.
Bofur tentò nuovamente di opporsi ma una voce insistente fece capolino prima che potesse ribattere.

“Mia signora non possiamo tardare!” Disse ad alta voce Lòni che insieme ai restanti quattro nani si erano fermati ad aspettarla sotto la grande arcata della biblioteca.

“Non essere scortese!” Lo rimproverò Trel tirandogli una gomitata giocosa sul fianco, facendo indispettire Nìm che prontamente si mise come una barriera davanti al fianco colpito evidentemente seccata, da quel semplice segno d’affetto.
Ghìda sospirò leggermente e con un movimento secco si issò in un braccio le pergamene e con l’altra prese la mano a Màr che ancora rimaneva attaccata al lato della sua gonna, lanciando poi un’occhiata vittoriosa a Bofur che sbuffò sorridendo.

“Molto bene, non credo di potermi opporre.”

“Se non vuoi far scatenare una battaglia in questa biblioteca non credo proprio mastro nano.” Ammicco riferendosi al gruppetto che insofferente li aspettava alla soglia della porta.

E con questo facendosi da parte lasciò che Bofur la sorpassasse, illuminando i visi del gruppetto, facendoli irrimediabilmente scattare dritti e uscire fuori correndo dalla biblioteca, a differenza di Màr che le teneva ancor ben stretta la mano mentre, con cautela, seguiva Bofur oltre la soglia verso gli immensi corridoi aperti del palazzo.
I vari piani  di scale adesso risplendevano di luce calda, e decine di nani vi passavano sopra per svolgere le loro commissioni, il silenzio che si portava dietro in quel ricordo era stato stravolto, lasciando spazio a rimbombi di passi e parole che come un eco si propagavano nella montagna. Le scale dapprima vuote erano passaggio di nani e qualche volta anche nane, che zelanti ancora non si erano abituati alla situazione , al fatto che Erebor stava per rinascere e tutta la dinamicità presto si sarebbe riversata solo in banchetti e feste.


“Siete brava con i bambini ; avete fatto incuriosire perfino me: improvvisamente voglio tornare un piccolo nano.” Le confessò Bofur camminandole di fianco.

“Senza il tuo aiuto di prima, probabilmente starei ancora cercando di farmi strada tra le loro urla.” Lo corresse abbassando la voce il piu’ possibile per non farsi notare dalla nana accanto a se che le stringeva forte la mano. “Mi spiace solo non poter fare di più .” Ammise mordendosi l’interno guancia.

“Oh ma voi già fate abbastanza, non tutti avrebbero il coraggio di portare avanti la vostra missione, nessuno vi biasimerebbe se voleste abbandonarla.” Rispose sempre con voce bassa Bofur ma inarcando le labbra in un sorriso divertito.

“Sono solo piccoli.” Ridacchiò di rimando scuotendo la testa.
Bofur di tutta risosta alzò le spalle “Sarà ma io preferisco sei orchi a sei bambini: in quell’età soprattutto!”

“Tu non hai figli Bofur?”

“Ho dodici nipoti, credo che di mocciosi io ne abbia fin troppi in giro per averne anche dei miei, e poi mi sento piu’ uno spirito libero mia signora, la vita matrimoniale non farebbe per me.”

L’affermazione le strappo un sorriso e puntò nuovamente lo sguardo sulle schiene dei cinque nani che camminavano di fronte a loro, in particolar modo su quella di Lòni, che sovrastava sia in chiasso che in altezza tutti e cinque: se ci fosse stato un capitano all’interno di quella compagnia di bambini probabilmente sarebbe stato lui, non era difficile infatti capire perché Nìm lo guardasse in quel modo o perché anche in quel momento le tenesse la camicia stretta nella mano.
Involontariamente il pensiero le ritorno nuovamente alla sera prima, a come per la prima volta aveva visto sorridere il re sotto la montagna, quando aveva sentito cosa gli avesse raccontato Lòni, di come sarebbe voluto essere come lui.

“Lo stimano molto sai?” Esordì senza pensarci o riuscire a controllare i suoi pensieri, infatti Bofur inarcò un attimo le sopracciglia confuso da quella dichiarazione

“Chi intendete?”

“Thorin, Re Thorin” Si corresse velocemente mordendosi l’interno guancia e a quel punto Bofur comprese e sorrise malinconicamente con il lato della bocca spostando lo sguardo in avanti verso i cinque bambini che li antecedevano, mentre piccoli frammenti di ricordi di un’avventura ormai lontana gli si paravano di fronte alla vista.

“In molti lo fanno, compreso il sottoscritto.”

Di nuovo sentì il cuore stringersi leggermente, la situazione le ricordò il primo giorno che era entrata così in profondità nella montagna: si era sentita così piccola e insignificante circondata dalle enormi mura verdi e blu, e anche in quel momento la sensazione fu piu’ o meno la stessa anche se il contorno e la ragione erano nettamente diversi. Quel giorno era Balin che la scortava verso la sala del trono, ma la sensazione che provò a quelle parole del nano di fianco a lei, fu la stessa che provò quando Balin  il tono della voce di Bofur era lo stesso quando si riferì a Thorin.

“E’ il re, non hai bisogno di spiegarti oltre, comprendo.”

Alle sue parole però Bofur scosse la testa mentre baffi gli si arricciarono brevemente a causa di un fugace sorriso, sposando il suo sguardo da di fronte a lui verso di lei.

“E’ più di questo.” Cominciò stringendo lievemente le labbra, spiegarsi sarebbe stato piu’ complicato del previsto, soprattutto dopo quello che era successo, dopo come la battaglia era finita.

Ghìda lo guardo, sentendo che c’era dell’altro e infatti Bofur prese un respiro e rizzò leggermente la schiena.

“E’ sempre stato il nostro re, da quando avevamo poco o nulla.” Confessò facendo aprire leggermente la bocca a Ghìda che spostò lo sguardo verso Bofur che ora fissava piccoli nani, annuendo fra se e se come per confermare un pensiero, o un ricordo.  “Ci ha costruito una nuova vita, nell’ Ered Luin, ha lottato per riprendere casa nostra, quando ormai ci eravamo abituati a non averla piu’ a non immaginarla neanche più’. Non avevamo nulla a cui appartenere, lui ce lo ha ridato, ci ha donato la speranza di poterlo riavere e…” Si bloccò per un secondo, Bofur dovette per la prima volta dopo giorni controllare il suo viso, e le sue emozioni. “Ha sacrificato tanto per ottenerlo.” Terminò frettolosamente, come se parlare ora facesse quasi male.

Ghìda era rimasta in silenzio ascolando il nano parlare trattenendo con meno fermezza la mano della piccola nana accanto a lei, mentre faceva suo il turbamento di Bofur e seguì poi il suo sguardo che adesso era puntato verso i piccoli nani di fronte a loro, che si spintonavano e ridevano spensieratamente.

“Capite adesso? Quei bambini gli devono tutto, come tutti noi.”

Finì dicendo le ultime parole non con tristezza, abbozzando invece un sorriso leggero.
  

“E a cosa appartiene il vostro?”
 

La voce di Thorin le rimbombò nuovamente nella testa, e il suo viso le si parò davanti come un’illusione: sotto quel cielo, guardata da quegli occhi le parole le si erano fermate, così come i pensieri, o tutto il mondo intorno a lei se è per questo.
La domanda l’aveva talmente scossa che in quel momento sarebbe solo voluta fuggire, ma come ormai era abituata, invece che voltarsi dall’altra parte, si ritrovava sempre piu’ vicino a Thorin Scudodiquercia. Cosa gli avrebbe dovuto rispondere, che risposta si aspettava da lei? E poi di nuovo quella forza, quella corda al ventre che la tirava facendola satellitare verso di lui, quel calore, quel bisogno di essergli accanto, era una brama che mai aveva provato prima di allora.
In quell’attimo capii cosa volesse intendere Thorin, da come ne parlava Bofur, dal dolore con cui ne parlava, con la malinconia, Thorin probabilmente quella sera aveva compreso appieno la sua domanda, cosa volesse dire non appartenere a nulla.
Per un secondo le parve di risentire il freddo della notte attenuato solo dal calore del suo mantello scuro, e il suo profumo che le se insinuava nelle narici, mentre il re sotto la montagna sorrideva sommesso ignorando il suo sguardo.

Senza rendersene conto si ritrovo a sorridere guardando verso il basso e la cosa non sfuggì al nano accanto a lei, che seguito del suo eccessivo mutismo si era girato nella sua direzione, notando il sorriso sommesso, quasi sognate.
“Perché sorridete?”

Alla domanda il sorriso le si ampliò ancora un po' ma venne irrimediabilmente calato da un sospiro e uno movimento della testa.

“Solo un pensiero.”

Gli rispose abbassando nuovamente lo sguardo colta in flagrante e lui non ebbe bisogno di chiedere oltre, gli lanciò una breve occhiata e continuò a camminare spedito lasciandola ai suoi pensieri; cominciarono a percorrere un corridoio rialzato senza ringhiere, facendo diventare il passo sempre meno sicuro e sempre piu’ attento. Lo sguardo le si spostò repentino sui cinque piccoli nani e istintivamente portò piu’ vicino a se Mar che invece così come Bofur sembravano trovarsi completamente a loro agio in quella situazione.

“State pronta.” La mise in guardai Bofur continuando a camminare oltre il lungo corridoio.

L’osservazione la fece accigliare leggermente ma quando ripresero il passo imboccando questa volta un enorme scala che scendeva verso il basso riuscì perfettamente a capire la constatazione che le aveva rivolto: una vampata di calore cominciò ad alzarsi dal fondo, facendole inspirare profondamente, quando misero piede in un lungo corridoio illuminato da una luce calda.
Diverse porte che si aprivano da tutti i lati: sale con utensili, materiali, casse star colme di oro e carbone che riempivano ogni angolo, e infondo al lungo corridoio un’arcata piu’ grande delle altre da dove fuoriusciva un vociare molto alto e diversi stridii e rumori di martelli che battevano sui metalli.

Appena il piccolo gruppo scorse la gigantesca porta lei non ebbe neanche il tempo di digli qualcosa che questi sfrecciarono, guidati da Fàrim e Lòni che si lanciarono al lor interno saltellando, seguiti repentinamente d Nìm, Drel e Trel, Così come la piccola Màr che appena notò i compagni correre le lascio la mano rincorrendoli oltre la soglia.

Vemu’ Ghìda.”

Le urlò salutandola oltre la soglia sorridente prima di immergersi nel calore che emanava la sala illuminata dal fuoco; anche Bofur oltrepassò l’uscio lasciandola dietro di alcuni passi, perché i suoi si erano fermati al confine della sala e del corridoio; osservo il suo interno da di fuori, un ennesimo brivido le attraversò la schiena, mentre il cuore le si chiuse improvvisamente in una morsa.
 

“E a cosa appartiene il vostro?”

 

Inspirò profondamente e drizzando la schiena e trattenendo le carte ora con entrambe le mani strette al petto, entrò con passo cauto seguendo il nano di fronte a lei rimanendo indietro di pochi passi continuando a sorreggere le carte strette al suo petto; questo si alzò e si abbassò in un enorme sospiro di stupore appena poté osservare all’interno l’immensità della fucina scavata nelle pareti grezze della montagna: sei immense forge erano allineate al centro del salone, il fuoco sbuffava e ruggiva dalla loro parte bassa illuminando la sala di una luce calda e di un calore soffocante che da subito le creò piccole gocce di sudore dietro la schiena.

Gli enormi mulini ad acqua incisi nella roccia, che dovevano servire al funzionamento delle catene di montaggio, erano spaccati in due, ma diverse carrucole di legno permettevano all’acqua di affluire in dei secchi di emergenza per spegnere eventuali fuochi o raffreddare il ferro e i metalli preziosi che invece decine e decine di nani stavano lavorando al meglio delle loro possibilità in delle piccole postazioni che fungevano da officine improvvisate intorno alla sala e in mezzo alle enormi fornaci naniche.

Ma gli occhi di Ghìda non furono gli unici che si spalancarono nella sala, quando infatti varcò la soglia della fonderia, alcuni battiti sulle incudini rallentarono, diversi occhi si puntarono sulla figura fasciata di rosso che entrava nella sala con la schiena dritta e posata tenendo ,rigida, carte su carte tra le sue braccia.  Diversi capi si abbassarono tremanti in segno di rispetto, altri rimanevano ben dritti studiandone il passo, o a osservare le orecchie a punta che spuntavano, come un marchio indelebile sul suo corpo, da dietro i capelli decorati con diversi piccoli pendagli dorati quasi su ogni ciocca, che nascondevano delle trecce sporadiche  piu’ o meno grandi.
Ghìda manteneva lo sguardo fisso in avanti ripercorrendo precisamente i passi del nano di fronte a lei, percependo gli occhi su di lei come aghi le si infilavano nella carne, sentendoli quasi come se fossero reali, facendole rizzare ancora di piu’ la schiena per mascherare il pesante peso che stava cominciando a sentire addosso.

“Finalmente Bofur dove ti eri ca-…”

La voce profonda di Dwalin, si levò da infondo alla sala sovrastando i rumori di martelli e rimbombi, facendo alzare lo sguardo a Ghìda e puntarlo dietro le forge vicino ai mulini in frantumi.
Lì infatti, intorno a un grande tavolaccio di legno, il massiccio nano che si era rivolto a Bofur, si alzò con la schiena poggiandola puntando gli occhi su di lei, accanto a lui, altri due nani: uno imponente quanto lui con la barba bianca e nera e una lunga cicatrice sulla testa e un altro che aveva già avuto il piacere di incontrare, Balin, che incrociando il suo sguardo le indirizzò un breve segno con la testa.
Una quarta figura però si mostrò lentamente, ca ogni passo che compiva, la penombra la celava, fino a da questa non uscirono però due occhi azzurri che si incatenarono ai suoi bloccandole il passo.

“Scusate ragazzi, ho dovuto chiedere una mano.” Urlò Bofur verso il tavolo non prestando attenzione agli occhi dei tre ancora puntati dietro di lui.

“Sapete nessuno di voi è venuto quindi…” Ma quando si voltò verso Ghìda le parole le gli morirono in bocca notando come il suo viso era puntato verso Thorin che era chinato sul tavolo di legno accanto a Dwalin, così come quello di Thorin era puntato verso di lei.
 
A Ghìda manco il fiato quando il suo sguardo incrociò quello del re a diversi metri da lei, piegato con gli avambracci sul tavolaccio con la camicia blu macchiata di sudore e i capelli tirati indietro, che la osservava con la bocca socchiusa, come se dovesse dirle qualcosa, ma nulla uscì dalla sua bocca: Thorin non riuscì a dire nulla. Come era successo la notte precedente,  tutto il mondo intorno a lei si sbriciolò, rimanendo soli nel caldo cocente della forgia solo lei e il Re Sotto la Montagna che non distoglieva lo sguardo da lei. Qualcosa però era cambiato, la guardava così intensamente che senti come se l’anima le si fosse spezzata nel petto.
 

“E a cosa appartiene il vostro?”
 

Al risentire quella frase riprese possesso di sé e prontamente piegò la testa in avanti a che lui ricambiò con un breve cenno del capo prima di distogliere te lo sguardo re- indirizzandolo verso i progetti che stava studiando fino a poco prima.
Nessuno l’aveva mai guardata così, era per questo che non riusciva a reggere mai i suoi occhi nei propri, in cuor suo aveva una paura profonda che il la sua espressione mutasse in altro, in un’espressione che sarebbe stata capace di reggere da tutti i nani della montagna, ma che sapeva perfettamente non sarebbe stata capace di reggere da lui.

Lo scambio di occhiate però non era passato inosservato, Dwalin infatti ne aveva approfittato per scrutare Thorin, il modo in cui l’aveva guardata, come si era rizzato appena la piccola voce della ragazzina aveva chiamato il nome della mezz’elfa per salutarla al bordo dell’ entrata, voce che a lui arrivò poco chiara ma a Thorin molto bene: tutto comincio a uniformarsi nella sua testa, i vari tasselli cominciavano a prendere il loro posto.
Quella mattina, si trattava davvero di lei.

“Ho avuto bisogno di una mano.”
Continuò Bofur sorridente verso i suoi compagni poggiando finalmente le carte che aveva in mano sul tavolo dove erano tutti raccolti e voltandosi di nuovo verso di lei che ancora leggermente scossa avanzava verso il tavolo.

Balin era rimasto in silenzio, studiando i movimenti di Thorin, il modo in cui l’aveva osservata quando era entrata nella stanza, o come si era tirato su appena l’aveva sentita, il piu’ completo eclissarsi dalla situazione, riconcentrandosi di nuovo verso le mappe sotto di lui,  era un comportamento che non era solito al Thorin che conosceva, come quello che aveva avuto poche ore prima, di fronte al padre della giovane che ora si stava avvicinando a loro. Lanciò un’occhiata verso suo fratello che ora aveva lo sguardo basso verso il viso di Thorin piegato sulle pergamene, probabilmente pensando quello che già immaginava, se non aveva capito addirittura di piu’.
Dovette sbattere gli occhi prima di guardare la ragazza di fronte a lui di nuovo e rivolgerle un caldo sorriso seguito da un inchino che cercò di far sembrare il piu’ naturale possibile, non riuscendo però a far sparire dalla sua testa le parole che aveva sentito quella mattina, infatti il suo nervosismo si notò probabilmente dalla poca naturalezza nella sua voce.

“Mia signora è sempre un piacere incontrarvi, anche in situazioni insolite come questa.”

“Anche per me signor Balin.” Gli sorrise nervosamente sentendo gli aghi nella pelle, provocati dagli sguardi esistenti sempre piu’ flebili, neanche la presenza di Thorin riuscì a fermarla, anzi forse li resero anche piu’ dolorosi.

“Oh non penso vi siate mai incontrati, lasciate che vi presenti mia cara ragazza, mio fratello, Dwalin.”

Si voltò verso il nano che poco prima aveva chiamato Bofur ad alta voce: lei quel nano già lo aveva visto, era quello che era venuto a chiamare Thorin nella sala del trono, era ancora piu’ imponente da vicino e anche più minaccioso.
Titubante gli rivolse breve cenno con la testa al quale lui rispose scrutandola e la salutò di risposta con un leggero movimento della testa serrando la mascella, suscitando un respiro nervosamente al fratello e poi spostò lo sguardo verso il secondo nano con il ciuffo bianco accanto a lui.

“Bifur, mia signora.” Lo anticipò invece il nano accanto a lui facendo un breve inchino anche lui però abbassando lo sguardo verso il basso.

“Mio cugino!” Esordì Bofur nella situazione alquanto pesante che si era venuta a creare, cercando di alleggerire un po' la tensione che correva per la fucina, sentendosi tremendamente in colpa, notando come dalla spensieratezza con cui si era comportata fino a pochi minuti prima, era passata a tornare il blocco di pietra che era entrata nella sala del consiglio dopo la battaglia e non fu difficile intuire il perché visto come le martellate si fecero meno frequenti.

“Datemi adesso.” Allungò le braccia gentilmente per prendere le pergamene che teneva ancora tra le braccia, cercando nuovamente di metterla a proprio agio. “Vi devo ancora ringraziare.“

Lei scosse la testa leggermente verso Bofur, forzando un sorriso per tentare di nascondere, per quanto possibile ciò che provava in quel momento: era un gioco a cui aveva imparato a  giocare da molto tempo.
“Come ti ho già detto prima mi spiace solo non aver fatto di piu’.”

Ripeté compiendo un breve inchino con la testa verso Bofur che la guardò crucciando le sopracciglia, ma che non poté nascondere un lampo di tristezza negli occhi a cui lei non batte ciglio.
 
Notò però il nano piu’ grosso dei tre, Dwalin, tenere gli occhi fissi dietro di se, studiando con oggi gravosi, qualcosa dietro le sue spalle: d’un tratto un brivido freddo le attraversò la schiena e tese ancora di piu’ le orecchie, i battiti sulle incudini erano diminuiti sempre di piu’ quasi a diventare un tenue sottofondo al contrario dei mormorii  che erano diventati sempre piu’ alti, e sentì il suo nome sussurrato in alcuni meandri indecifrabili delle fucine.  La tensione che era riuscita a controllare sino a quel momento le se riversò addosso, non riuscì neanche ad abbozzare un sorriso, solo ad abbassare lo sguardo confusa prima che senti chiaramente il suo nome pronunciato dietro di lei.

In pochi riuscirono a captare il cambio di portamento, ma quello a cui non sfuggì fu Thorin che strinse con forza i bordi del tavolo sotto di lui serrando la mascella e Balin che notò le mani della futura regina strette fermamente al lato della gonna: un gesto che l’avrebbe sempre tradita.

Le mani  le andarono nuovamente verso il tessuto del vestito mentre buttava giù il groppo che le si era formato nella gola e facendo un respiro profondo rizzò nuovamente la schiena sorridendo nervosamente verso il gruppo di nani di fronte a lei

“Non credo io possa attardarmi oltre credo, scusatemi.”

Mormorò cercando di abbozzare un misero sorriso, che fu però tradito dagli occhi di nuovo freddi come il ghiaccio, fece un  breve inchino con la testa e , verso Thorin che era ancora con il capo chino verso le carte, non la degno neanche di uno sguardo, portandola ad abbassare ulteriormente lo sguardo, incapace di poter nascondere in quel momento il senso di vergogna per se stessa. Balin le sorrise tristemente provando a dirle qualcosa , ma lei scosse la testa per fermarlo, non sarebbe servito a nulla.

Dwalin lanciò un’occhiata alla mano di Thorin, chiusa a pungo sul bordo del tavolo come quella mattina, mentre il viso continuava a indugiare verso il basso no alzandosi neanche quando la mezz’elfa si girò su se stessa per andarsene e lasciare la sala, ma un movimento improvviso di Thorin gli catturo di nuovo lo sguardo: aveva alzato la testa e la stava guardando ancora in quel modo.

“Al calar del sole, aspettatemi nella sala del trono.”

La voce che si alzò piu’ alta delle altre bloccò il fiato a tutti i presenti alla tavola e fece voltare i loro sguardi tutti verso di Thorin, compreso quello di Ghìda che fermò i suoi passi voltandosi verso il re.

“Non tardate.” Aggiunse abbassando di nuovo lo sguardo

A Ghìda non gli uscì neanche una parola chino solo leggermente il capo annuendo, prima di continuare per la sua strada, senza voltarsi indietro, neanche quando i mormorii si alzarono ancora di piu’ e gli sguardi le pesavano sulle spalle ancora piu’ prepotentemente mentre varcava la soglia della fucina, seguita dallo sguardo dei presenti.

“Se avete finito di perdere tempo abbiamo un lavoro da svolgere.” Ruggì ad alta voce Thorin, così che tutti nelle fornaci lo potessero sentire, infatti alle sue parole tutti nani tornarono operosi e fecero cessare il loro mormorio. “Bofur apri le carte, Bifur tu vai a chiamare gli altri e tu pensa agli attrezzi, e Balin… tu vieni darmi una mano, dobbiamo muoverci” Ordinò secco tirandosi su dal tavolo serrando la mascella e camminando  a grandi passi  oltre le macerie dei mulini, verso una delle celle ai lati della stanza.

Balin annuì con un cenno del capo, prima di lanciare un occhiata verso suo fratello che ancora con le braccia incrociate al petto seguiva la mezz’elfa che usciva dalla fucina, ma appena venne notato, con la coda dell’occhio, ricevette di risposta da Dwalin un’occhiata colpevole: già colpevole, perché lui poche ore prima, così come il fratello, capii che per quanto i nani di Erebor potessero disprezzare la futura regina sotto la montagna, lei nella sua vita aveva imparato a disprezzare se stessa tanto quanto loro, se non di piu’, però di una cosa era sicuro piu’ di ogni altro, era sicuro in quel momento che Thorin gli aveva celato la verità e stata continuando a celarla, distogliendo lo sguardo quando notato, o evitando le domande che gli venivano poste: in quei pochi istanti in cui lui l’aveva guardata, aveva rivisto il Thorin che conosceva, da tutta una vita, aveva rivisto uno scintillio che mai si sarebbe immaginato di poter rivedere risplendere nei suoi occhi.
Tutte le risposte che tanto aveva agognato quella mattina gli si palesò davanti e, come aveva pensato lui non poteva piu’ far nulla.









I minuti passavano e le luce arancio-rossastra che entrava dall’enorme finestra in fondo alla sala del trono illuminava sempre in modo piu’ flebile la stanza, facendo scintillare i piccoli pendagli nei capelli e illuminandole il lato del viso mentre camminava su e giù a piccoli passi davanti al trono vuoto, ma che per lei era già abbastanza per renderla irrequieta di quanto si sarebbe mai aspettata.

Le ultime ore erano passate talmente tanto lentamente che ogni minuto le sembrò un’era.
La richiesta di Thorin le era sembrata così assurda, non l’aveva mai convocata, non in modo così ufficiale, mai lì in quella stanza, dove si erano rivolti l’uno all’altra per la prima volta, dove per la prima volta si sentì, dopo tanto tempo, fragile come il vetro… come la notte precedente.
Il ricordo di quella sera tornò prepotentemente a farle visita: l’odore di pini e fumo le tornò alle narici, come il calore di quel mantello scuro che ora giaceva sul tavolo in camera sua, ripenso al suo sguardo, al naso acuto, ai lineamenti duri e i capelli scuri che andavano in contrasto con gli occhi tanto chiari.
Nella sua testa il confine tra dovere e volere si era fatto sempre piu’ confuso: non sapeva piu’ se quello che faceva lo faceva perché doveva o perché voleva. Se ogni suo gesto fosse dettato dall’onore e da quello che si aspettavano tutti da lei o dalla sua volontà. Lei era una guerriera, lo era sempre stata, e lo era tutt’ora, ma ora la sua guerra non era con qualcuno, non era contro le voci che la circondavano, contro la presenza inquisitoria di suo padre, contro la sua vera natura,  ma contro se stessa, con le sue emozioni che in quei giorni si erano andate a confondere con i suoi obblighi.
Guidate di vita propria la sua mano si diresse verso il braccio, stringendolo, come se quel piccolo gesto, verso le rune tatuate, le potesse dare un po' di forza che mancava, a ricordarle chi fosse, cosa era.
 

“E a cosa appartiene il vostro?”
 

Fece un grande respiro per cancellare di nuovo quella domanda dalla testa, passando lo sguardo altrove, ma che poi finì irrimediabilmente verso il trono e poi ancora piu’ su, sopra di esso: l’Arkengemma era al suo posto.

Il gioiello del re.

Il cuore della montagna.

Un brivido le attraversò la schiena allo scintillare della gemma bianca, c’era qualcosa che l’attirava profondamente, il suo bagliore, la sua superfice liscia, non se lo seppe spiegare, ma così tanta era la bramosia, tanta era il terrore che le si instaurò nel petto quando la fisso troppo a lungo. Un dolore così reale che si dovette portare una mano verso il petto per la fitta che al attraverso, per un attimo vide, oltre quello scintillio, un reame scuro, pieno di dolore e rimorsi e di desiderio, quello che aveva sentito lei fino a poco fa.

Un rumore di passi dietro di lei la fece voltare  verso il lungo corridoio che portava fuori dalla sala del trono: Thorin era al limite della stanza, non avanzando oltre: la camicia, sporca e tirata su fino alle maniche, così come qualche macchia di fuliggine sulle braccia e il viso leggermente arrossato, lo avrebbero fatto passare per un qualsiasi nano, se non fosse stato per il suo portamento, temprato dal tempo e irrigidito dalle responsabilità verso il suo popolo e verso se stesso.
Come un rito Ghìda sui abbassò lievemente per chinarsi cercando in tutti i modi di evitare lo sguardo del re, ma fu interrotta da un tono autoritario che le fece rizzare di nuovo la schiena.

“Seguitemi.”
Le ordinò secco e con un gesto netto della testa le indicò l’uscita della sala indugiando  però per un istante, prima su di lei e poi su un qualcosa dietro di lei, molto piu’ in alto e molto piu’ lucente.

Non aggiunse altro, si voltò  su sé stesso cominciando a camminare verso dove era arrivato lei si morse leggermente il labbro e cominciò a seguirlo, a passi lenti, e incerti; sembrò quasi che Thorin se ne accorse, infatti si girò nuovamente, questa volta solo con il capo continuando a grandi falcate giù per la prima rampa di scale che si trovarono di fronte.

“Voglio mostrarvi una cosa.” Mormorò guardandola nello stesso modo indecifrabile con cui l’aveva guardata dentro le fucine, che nuovamente le fece mordere l’interno della guancia e piegare la testa in avanti annuendo.

“Molto bene.” Mormorò cercando di rimanere di nuovo il piu’ distaccata possibile, anche se di nuovo, di fronte a lui, la sfida le parve estremamente ardua.
 Il passo di Thorin era veloce tra la sale e i corridoi di Erebor dava l’impressione, di conoscerne ogni roccia, ogni scala, ogni stanza ogni angolo nascosto dall’ombra: e così era. Avrebbe potuto percorrere quella vaste sale ad occhi chiusi e non perdersi, avrebbe potuti perfino scolpirla di nuovo nella roccia se glielo avessero chiesto.

Lei lo seguì attentamente, incapace di rivolgergli la parola, incapace di chiedere o di aggiungere altro, mentre le scale e i corridoi si facevano sempre meno affollati e ripidi , scendendo sempre di piu’ nella profondità della montagna.

“Dove stiamo andando?”

Non le rispose, continuando con passo deciso a scendere ancora di piu’ nella profondità della montagna, ad immergersi in quell’abisso che si era tante volte si era fermata ad osservare da quando era nero come la pece fino a quando cominciò di nuovo a scintillare di luce dorata.
La roccia si faceva meno levigata, le pareti sempre piu’ grezze, le sembrò di essere scesa nelle profondità della terra, anche le torce scarseggiavano, solo piccole fiaccole illuminavano la via. Thorin svoltò verso un corridoio piu’ ampio degli altri, dopo aver sceso un enorme scala, questa volta non sospesa, ma scavata su al lato della  parete della montagna, senza corrimani o barriere di futile oro.
Ghìda la portò giù lentamente, guardandosi intorno pretendendo la compostezza che aveva mantenuto faticosamente fino a quel momento.
Oltre la fine delle scale, di fronte lei, Thorin si fermò di colpo: un enorme arcata si apriva nella nuda roccia, la pietra irregolare, non aveva decorazioni, ne fregi dorati che ne sottolineavano l’importanza, oltre questa un tunnel buoi e da dove proveniva un’aria leggermente piu’ fredda di quella che c’era al di fuori. 
A incorniciare l’entrata solo sette stelle poste su tutta la lunghezza dell’arco su cui erano incise delle antiche rune, ormai quasi cancellate dal susseguirsi del tempo:

“Kashelkel mainsisî zurumka sullu khuzdu Azsâlul'abad ai Sigin-tarâg”

Si fermò sotto di esse, guardando vero l’alto, cercando di decifrarle meglio che poteva, ma erano antiche, molto antiche, le rune erano incise rudemente e si andavo a confondere l’una con l’altra. Strinse gli occhi, tentando di riuscire almeno a distinguerle ma non ebbe il tempo di decifrarne neanche metà che Thorin si bloccò oltre la porta guardandola in attesa che muovesse qualche passo.

“Non abbiamo molto tempo.” Sottolineò  con un tono che non ammetteva repliche, ma anche questa volta  prima di proseguire da solo nell’oscurità non aspettandola, almeno così credeva, perché Thorin rallentò il passo appena lei velocizzare il suo per raggiungerlo.
Ghìda lo seguì cautamente senza obbiettare, grata della poca luce che ancora le permetteva di vedere la sua schiena larga, ma durò poco perché il buio scendeva prepotentemente su di loro: l’oscurità aumentava sempre di piu’, così come l’aria che diventava sempre piu’ pesante, mentre scendevano per il lungo corridoio a lei sconosciuto, ma che per Thorin era tanto familiare tanto da percorrerlo senza luce o impegno alcuno.
Il pavimento sotto i suoi pedi divenne improvvisamente piu’ irregolare e scosceso, l’aria piu’ fredda e umida, mentre in alternanza ai passi suoi e del re si andavano a sentire in lontananza piccole gocce che si infrangevano sulla roccia o che cadeva a vuoto e facevano dei rumori sordi in lontananza.  

“Ferma.” Le ordinò secco, la sua voce si propagò come un eco, tutto intorno a lei mentre l’oscurità li circondava era cosi densa da renderla incapace di vederlo, l’unica cosa che la rendeva certa che fosse ancora lì con lei era il suo respiro lento e profondo e il tenue calore che riusciva a percepire di fronte a lei.
Un leggero sussulto le uscì dalle labbra infatti quando la presenza di Thorin, che prima era così vicina a lei, si allontanò di colpo, lasciandola sola nel buio sconosciuto in cui l’aveva portata; si resse alla parete umida accanto a lei, assottigliando lo sguardo sperando di scorgere  qualcosa, ma non ne fu capace. Riuscì solo a ditinguere un rumore sordo poco lontano da lei, seguiti da uno strusciare d lo strusciare dei suoi passi ne luogo angusto dove si trovavano. Piccoli rumori acuti susseguirono facendole aguzzare gli occhi gli occhi cercando di capire cosa stesse succedendo, ma la figura di Thorin rimaneva celata nell’ ombra, fino a che dopo un paio di battiti secchi, una luce calda di una torcia illuminò l’ambiente,  e rivelò quello che la circondava facendola sussultare lievemente incredula a ciò che le si mostrava davanti.
Si trovavano in una caverna, sotto la Montagna Solitaria, le pareti scure come la roccia della montagna la circondavano e anche se illuminati flebilmente dalla luce della torcia, le varie sfumature di verde si alternarono piu’ scintillanti che mai, inumidite dall’acqua che bagnava la roccia.

Pochi metri sotto di loro, un enorme lago sotterraneo si estendeva per centinaia di metri, tanto oscuro da sembrare quasi nero così come l’oscurità oltre questo: anche con la flebile luce della torcia, riusciva  solo a distinguere nella penombra l’inizio delle acque scure ma non la loro fine, così come l’inizio ma non la fine di centinaia di stalattiti che ,come lame ,puntavano verso l’acqua.

“Che posto è questo?” Riuscì solo a sussurrare distogliendo brevemente lo sguardo e puntandolo verso Thorin che  le dava le spalle mentre incastrava nella roccia la loro unica fonte di luce, prima di voltarsi verso il bacino scuro sotto di loro.

“La fonte da cui arriva l’acqua della montagna.”

Ghìda lo guardò ancora piu’ confusa incaricando le sopracciglia.
“Perché vi avete portata qui?”

Alla domanda Thorin si spostò indietro di qualche passo e con un gesto della testa la invitò a seguirlo di nuovo: infatti inaspettatamente, intagliata nella roccia, c’era un’ennesima scala che scendeva dal lato dell’altura su cui si trovavano, che li avrebbe portati alla stessa altezza specchio d’acqua.
Si lasciò precedere nella discesa, la mano del  re mentre scendeva le scale ripide accarezzava leggermente con la punta delle dita la nuda roccia accanto a sé, come per ripercorrere un ricordo, per sentirlo il piu’ reale possibile.
Arrivati all’ultimo gradino uno spiazzo si manifesto di fronte ai suoi occhi:  il pavimento lavorato come quello delle sale superiori, appiattiva la roccia dapprima scoscesa, si immergeva nell’acqua scura scomparendo sotto di essa scura creando una piccola insenatura simile a un golfo.
Il re si fermo di fronte a lei allungando il braccio leggermente per farla fermare, prima dell’ultimo gradino della scala, interrompendo anche i suoi passi, che se non fosse stato per l’interruzione brusca del re avrebbero continuato verso lo specchio d’acqua.

“Guardate.”
Le mormorò questa volta Thorin, il suo tono si era addolcito leggermente mentre puntava lo sguardo verso la fine della grotta, lei seguì il suo sguardo verso il punto indefinito e come per incanto, l’ultimo raggio di sole del tramonto, attraversò un piccolo foro nella roccia infondo al buio infinito di fronte a loro, filtrando la luce all’interno della grotta, che come per un incanto, si illuminò improvvisamente.
Il bagliore andò a rimbalzare su tutte le vene d’oro che arricchivano le pareti  della profondità della caverna e che cingevano come serpenti le stalattiti sopra le loro teste. Lo spettacolo che le si parò davanti fu una delle cose che non dimenticò mai nella vita: le vene d’oro, adesso illuminate e lucenti riesplodevano sul pelo dell’acqua limpida, creando uno specchio preciso di quello che succedeva sopra di lei, illuminando con piccole chiazze e scintilli lo specchio d’acqua che da nera era diventata blu come notte.

Come il riflesso delle stelle sul mare.

La bocca le rimase spalancata mentre muoveva dei passi incerti verso l’acqua, superando Thorin ancora fermo sulle scale, non preoccupandosi neanche di alzare il vestito tanto che si bagno leggermente a causa della pietra umida sotto di sé.

“È bellissimo.” Sussurrò incantata passando velocemente lo sguardo sui coni di luce che guizzanti si andavano a infrangere sulla superficie limpida dell’acqua, era sicura che se si fosse sporta un altro po' ci si sarebbe persa, inseguendo le piccole pagliuzze dorate.

Di fronte a un tale spettacolo però  ma il suo animo a differenza di quelle acque era agitata, un tumulto di domande e di incertezze. Il cuore le cominciò a galoppare nel petto, mentre un altro tassello della sua corazza andava a infrangersi nell’oblio dei sentimenti contrastanti che provava in quel momento.

No, non poteva aver ricordato, non poteva davvero pensare che lui avesse potuto ricordare una frase, una confessione alla luce delle stelle, nel pieno della notte, il desiderio infantile di una reietta verso un bisogno che mai aveva colmato, che aveva sempre agognato ma mai stretto tra le mani.  Eppure, le sembrò davvero l’oceano, se non qualcosa di piu’ bello, qualcosa di piu’ puro e prezioso, qualcosa che, in quel momento le sembrò la cosa piu’ bella che le fosse mai capitata davanti nella vita.

Scosse la testa confusa guardando verso il basso crucciando lo sguardo lo alzò verso il profilo del re ancora puntato verso la fine della caverna.
“Perché?” Riuscì solamente a chiedere mettendo da parte tutto l’orgoglio, tutto il dolore, tutti i dubbi e le incertezze, dando posto a un qualcosa che mai aveva provato, alla speranza.

“Perché avrei voluto che qualcuno lo avesse fatto per me… tanto tempo fa.” Ammise addolcendo la voce Thorin e  incrociando le braccia al petto, e camminò piu’ vicino a lei, avvicinandosi lentamente, lottando contro se stesso per non guardarla, per non dare retta a quella sensazione nel petto, per non ritrovarsi come quella mattina in balia delle sue emozioni.

Lo sguardo di Ghìda rimaneva ben fisso sul profilo del re di Erebor ancora confusa da quello che stava succedendo.

“Non ho il diritto di pretendere che voi mi rispondiate che la vostra casa sia Erebor, ne posso pretendere che lo diventi ma vorrei che la sentiate tale, per quanto sia in mio potere.” Confessò Thorin spostando lo sguardo sull’acqua ancora illuminata dei piccoli scintillì.

A quelle parole il cuore le si fermò nel petto, e le mani che prima stringevano il vestito in modo ferreo si sciolsero, come neve al sole, così come tutte le sue viscere, che fino a poco prima erano ingarbugliati di domande e dolore. Tutta la disperazione, le angosce si andarono a distendere sotto i raggi flebili dell’roro che andavano a scomparire facendo ritornare l’oscurità.

Tra gli occhi che gli bruciavano e quelli di Thorin che evitavano il suo sguardo, un altro blocco del muro che aveva creato per anni, che si era ripromessa di non far mai cedere, era crollato, insieme a tutte le vane speranze che si era creata per seppellire la dura verità  che nascondeva  e ricopriva da quando lo aveva visto la prima volta nella sala del consiglio.
Per quanto assurdo e fuori da ogni ragione, la forza invisibile che le aveva stretto le viscere per quelle settimane le suggerì la risposta alla domanda della sera prima: confessarlo a sé stessa sarebbe stato ancora piu’ complesso e ammetterlo ad alta voce, un vago sogno.

“Potete venire qui quando volete.” Sentenziò ancora non guardandola, incapace di guardarla, incapace di fermare il desiderio di starle piu’ vicino, di dirle altro, di toccarla.

“Io…”

“Non donatemi il beneficio dei vostri ringraziamenti, non ne ho il d-“

“Grazie.” Lo interruppe prima che potesse finire la frase la voce piu’ dolce ma spezzata che Thorin avesse mai sentito. Thorin sobbalzò e lentamente voltò lo sguardo verso Ghìda che lo guardava con gli occhi leggermente lucidi, mentre un sorriso tanto lucente quanto le stelle gli fece sussultare il petto, mandando in malora tutti i suoi buoni propositi.
“Grazie Thorin.”
 


“E a cosa appartiene il vostro?”
“A voi.”










La flebile luce dell’alba appena sorta fece capolino dalla finestra, sbattendogli dolcemente sugli occhi, ridestandolo lentamente dal suo sonno, seguito da un profumo da lui sconosciuto ma sempre piu’ vicino.
Un improvviso peso leggero intoro ai fianchi e sul petto lo destò, facendogli aprire lentamente gli occhi che fino a quel momento si beavano della luce del mattino: distesa sopra di lui, infilata sotto le coperte, si trovava Ghìda. Il petto poggiato sul suo, con i goti rosse e i capelli che le incorniciavano il viso, che si reggeva con le mani poggiate sul suo petto mente il peso del suo corpo era ben percepibile su di lui cosi come le sue gambe strette intorno ai suoi fianchi.

“Buongiorno.” Gli sussurrò a pochi centimetri dal viso, disegnando piccoli cerchi con il dito sulla sua scapola per poi risalire fino al collo lentamente, accarezzandogli la barba per poi spostarsi verso la mascella. Non riusciva a muovere un muscolo, osservandola come se fosse una visione: perché quello doveva essere, per forza lo doveva essere.
Con lentezza Ghìda adagiò la fronte sulla sua indugiando qualche secondo guardandolo negli occhi prima far sfiorare i loro nasi e avviarsi ancora di piu’ alle sue labbra.

“Tu non sei reale.” Mormorò Thorin quando le sue labbra stavano per sfiorare le proprie e tirandosi indietro velocemente impedendoglielo.

Lei di tutta risposta si fece ancora più’ forza sulle mani guardandolo piu’ intensamente mordendo leggermente il labbro, e gli scostò un ciuffo di capelli via dalla fronte, accarezzandogli poi il viso dolcemente senza mai staccare gli occhi dai suoi.
“Si che lo sono” Gli sussurrò di nuovo vicino alle labbra, avvicinandole di nuovo alle sue questa volta non le permise neanche di sfiorarle: tutto quello non era reale, doveva finire.

Un lieve ruggito si fece largo nella sua gola quando le sue mani scesero giù verso il petto spostandosi di nuovo e afferrandole i polsi prima che potesse toccarlo un'altra volta o che potesse scendere ancora di piu’ con le sue dita rendendo la situazione irrecuperabile. Non avrebbe ceduto, non così, almeno nei suoi sogni, voleva il controllo, almeno lì non voleva vederla, non voleva che il suo viso infestasse la sua mente, perché poi, a suo malgrado, si sarebbe dovuto svegliare e tutto sarebbe ricominciato daccapo.
Con forza strinse i suoi polsi e ribaltò le posizioni trovandosi ora lui sopra di lei bloccandole le braccia  saldamente ai lati della testa sul cuscino accanto al suo e inaspettatamente un sorriso malizioso le si dispense sulle labbra mentre il suo corpo la premeva ancora piu’ sul materasso, cercando di non farla muovere, cercando di uscire da quello scherzo nella sua testa.

“No, no non lo sei.” Ruggì, come un ordine, un ordine al quale lei doveva rispondere , alla quale la sua testa doveva rispondere.

“Se non fossi reale, sarebbe comunque così terribile?”

Sussurrò maliziosamente tirandosi ancora piu’ su con il busto e con il viso, facendo sfiorare i loro nasi l’uno sull’altro ma la bloccò un'altra volta tirando di nuovo via il viso e spingendo ancora di piu’ i suoi polsi verso il cuscino, averla lì così, sotto di lui… no, no.
Le osservò il viso quasi furente, ma poi uno scintillio vibrante catturò il suo sguardo piu’ in basso: in mezzo al petto, nascosta sotto la pelle, l’Arkengemma brillava di luce propria, di quelle centinaia di raggi di ogni colore e lucentezza, custodita tra i suoi due seni nudi, sotto la pelle immacolata di Ghìda. Il suo bagliore, la sua forza era talmente inebriante che ormai i suoi occhi non aerano piu’ puntati verso Ghìda ma verso quello che le risplenda nel petto, estasiandolo da tutto quello che gli stava accadendo intorno.
Non si accorse neanche che le si era di nuovo avvicinata tirandosi su verso di lui, e ora la sua bocca era vicino al suo collo, dove lasciò una scia infuocata strusciandoci leggermente le labbra facendole risalire  verso l’orecchio con una lentezza disarmante.

“Non la vorresti?” 

Gli sussurrò all’orecchio scandendo ogni parola, ogni lettera, facendogliela entrare in testa come un eco. Dovette resistere a non guardarla mentre la sentiva ancora piu’ vicina, mente la sua bocca ripercorreva il percorso che aveva fatto prima al contrario, sfiorandogli la barba, per poi ritrovarsi di nuovo a pochi millimetri dalle sue labbra mentre la stretta di Thorin intorno ai suoi polsi si faceva sempre piu’ lenta, così come il suo respiro sempre piu’ irregolare.

“Non mi vorresti?”

Gli mormorò  facendo sfiorare le loro labbra lentamente di nuovo prima di far incontrare le loro labbra, con un bacio leggero, quasi infantile, leggero come una carezza, ma ben presto Thorin si rese conto che quello non gli sarebbe bastato, ne voleva ancora: un desiderio gli si fece largo nel petto che non riuscì piu’ a controllare, lo stava bruciando vivo.
Lei sembrò accorgersene perché con  voracità poggiò di nuovo le labbra sulle sue baciandolo con un’intensità tale da fargli chiudere gli occhi.
In quel momento Thorin si dimenticò tutto, ogni dolore ogni afflizione, ogni peso che si portava sul petto, ogni responsabilità:  se era un sogno, allora avrebbe goduto di ogni secondo mandando a marcire ogni cosa, mandando a bruciare il mondo.
Desideroso schiuse le labbra lasciando i loro respiri incontrarsi e fondersi l’uno con l’altro.
Il bacio si face piu’ profondo, piu’ intenso, le mani prima ben salde sui suoi polsi si lasciarono andare a un viaggio sul suo corpo, verso i seni, fino scendere verso i fianchi nudi per poi andare ad afferrarle saldamente le cosce tese ai lati dei suoi fianchi.
A quella stretta, che si faceva sempre piu’ decisa, sentì un leggero gemito uscirle dalla gola mentre ora le mani di lei erano affondate nei suoi capelli tirandolo ancora di piu’ verso il suo corpo nudo, verso il freddo della pietra nel suo petto.
Leggeri mormorii si cominciarono ad alzare nella sua testa, sibili nei meandri della sua mente, sussurri di un folle desiderio che aumentava bacio dopo bacio, tocco, dopo tocco, gemito dopo gemito.
 
“Quel tesoro portò tuo nonno alla pazzia.”
 
Thorin non capì piu’ nulla, il suo profumo i suoi leggeri fremiti gli fecero perdere il controllo portando le sue gambe a cingersi ancora meglio intorno al suo ventre rendendo il bacio quasi violento, famelico, un bisogno profondo e terribile che cominciava a formarsi dentro di lui che non riusciva ad essere colmato.
 
“Qualcuno di loro l’ha presa, qualcuno di loro è un ingannatore.”
 
La voleva.

Era sua.

Lei apparteneva solo a lui.
 
“E’ il gioiello del re, non sono io il re!?”
 
Le passo le mani sulla pelle nuda, assaporando ogni singolo istante: dalle cosce fino, ai fianchi e alla vita, che afferrò con decisione e con un movimento secco si mise a sedere sul letto portandola sopra di lui facendo combaciare perfettamente i loro due corpi senza mai far staccare le loro labbra: anche respirare era diventato superfluo, non gli serviva piu’, sarebbe morto piu’ che interrompere tutto ciò.
Le mani di Ghìda si sciolsero dai suoi capelli scendendo verso le spalle e gli accarezzarono il petto scendendo sempre piu’ giù fino ad alzare i lembi della camicia che portava, insinuandosi sotto di essa, aggrappandosi ai muscoli della schiena, segnata da cicatrici e segni indelebili di un tempo passato nelle forge.
A sentirla così vicina, a sentire le sue mani sfiorare la sua pelle gli fece uscire lamento dalla gola, un gemito sommesso, non di piacere ma di rabbia, rabbia perché improvvisamente i suoi indumenti erano diventati troppo stretti e futili.
 
“E a cosa appartiene il vostro?”
 
“A me tu appartieni a me.”
 
Rispose alla voce che sentiva nella testa ruggendo tra i baci e tra gli ansimi  di entrambi che rimbombavano nella stanza; sulle labbra percepì un sorriso vittorioso di Ghìda mentre le sue mani si adoperavano graffiargli la schiena provocandogli un dolore talmente piacevole che lo fece gemere nella sua bocca. Con forza le afferrò con una mano i capelli stringendola ancora di più  a se mentre con l’altra la passo sotto le cosce alzandola di qualche centimetro e tirandola su ancora di più se fosse possibile verso di sé.
 
 “Non puoi vedere cosa sei diventato.”
 
Al suono di quella frase questa volta però la presa che fino a poco tempo fa era stratta intorno a quel corpo su di lui mancò, così come quel piacevole peso sul suo corpo, riaprì gli occhi di colpo guardandosi intorno: non era nemmeno piu’ nel suo letto.

Decine e decine di monete, di monili d’oro di gemme erano intorno a lui, montagne di oro che si estendevano per tutta la sala, nelle sale del tesoro di Thròr e lui era ora inginocchiato tra quelle monete, ma quelle che ora gli sentiva umido sui palmi non era oro, non erano gemme, era un liquido viscoso, denso, rosso. Si osservò i palmi e poi una strana sensazione gli fece alzare ancora di piu’ lo sguardo e quello che vide gli bloccò il respiro in gola, di fronte a lui, immersi nelle monete, i corpi di Fili e Kili giacevano senza vita, posti l’uno accanto all’altro, con gli occhi sbarrati, come li aveva visti l’ultima volta. Con le loro armi sul petto, i visi pallidi e gli occhi chiusi, ma le ferite erano aperte, e pulsavano ancora sangue, facendo diventare le monete sotto di loro purpuree.

“No.” Sussurrò scosso dai tremiti, mentre un dolore atroce si faceva avanti nel suo petto. “No.” Sussurrò di nuovo mentre le mani cominciarono a tremargli e a tentoni si avvicinava di piu’ a loro. Il respiro gli mancò mentre con lentezza avvicinava le mani imbrattate del loro sangue verso i loro visi mentre la fitta al cuore divenne quasi insopportabile tanto da fargli uscire un enorme respiro interrotto da un fremito. Lentamente si avvicinò verso i loro corpi stringendoli a sé poggiando la fronte sue quella di Fili.
Da dietro di lui ruggito roco risuonò per la sala, uno strusciare sulle monete, un sibilo di fondo così familiare terribile che non ebbe nemmeno la forza di guardarsi indietro rimanendo a fissare i volti dei due ragazzi sotto di lui.

“Sssssarei quasi tentato di lasciartela prendere, solo per vedere come ti distrugge, come corrompe il tuo cuore.”
Ruggì nell’ombra Smaug alle sue spalle, mentre lui non riusciva a staccare gli occhi dai volti di Fili e Kili sotto di lui.
Non ne la sua testa, lui era lì in quella sala, era sempre stato lì, in quella sala, nel suo petto, nel suo cuore che lo mordeva e bruciava e gli ricordava ogni ora come fosse colpa sua, come tutto quello che aveva sotto gli occhi fosse solo colpa sua.
D’un tratto due braccia poi lo avvolsero con delicatezza  da dietro cingendogli la vita dolcemente e poggiare il mento sulla sua spalla avvicinandosi con lentezza al suo orecchio.

“Thorin.”
 
Un sussultò gli uscì dal petto aprendo repentinamente gli occhi svegliandosi violentemente, mentre ansimi pesanti gli venivano fuori dalla bocca. Si girò di scatto verso il cuscino accanto a lui, e come ben sapeva, era perfetto, ancora soffice, non c’era nessuno lì con lui era stato tutto un…incubo.

Si portò entrambe le mani sul viso prendendo un profondo respiro, ma i tremiti questa volta non si fermavano, aumentavano ogni secondo che passava, così come l’angoscia e il terrore che gli attanagliano il petto.
Sì, tirò su a sedere andando ad afferrare saldamente le coperte sotto di lui: poteva sentire ancora le labbra di Ghìda sulle proprie, i suoi gemiti, i suoi tocchi, le dita morbide sulla schiena, il suo sorriso rivolto verso di lui accanto all’acqua, la bramosia che l’aveva colto in quel sogno, la bramosia che gli contorceva lo stomaco ogni volta che lei entrava in una stanza, quella stessa bramosia che lo aveva portato alla pazzia, che lo aveva portato nell’oblio e ritorno.

Si guardò la mano, che quella mattina aveva stretto fino a farla sanguinare, dove i segni nella carne erano ancora rossi e ben visibili, i segni di una furia ceca e terribile che gli erano montati nel petto quella mattina rivolte alle parole fredde e sprezzanti che riguardavano lei. Sentir qualcun altro, suo padre, accentuarla come sua, come un oggetto da poter donare, come una gemma, come l’Arkengemma.

Quello era diventato lei per lui? Una gemma sulla cima della sua ira, una gemma sulla sommità di quel tesoro?

No, non lo avrebbe permesso, non un'altra volta, non di nuovo.
Puntò gli occhi sulla porta, doveva vedere, doveva vederlo, doveva sapere, se quello che aveva sognato fosse reale, se quel tesoro avesse ancora quel potere su di lui, il potere di distruggere, il potere di uccidere per esso.
Si alzò mettendosi velocemente gli stivali e neanche preoccupandosi di indossare un qualcosa per coprirsi:  un uscì così, con le brache e la camicia con cui aveva dormito, ancora imbrattata di sudore, sotto la quale poteva ancora sentire le sue mani sul suo corpo.
Se non lo avesse visto in quel momento, se non fosse rientrato la dentro, la smania lo avrebbe consumato dall’interno, lo avrebbe inchiodato in quella paura che non gli apparteneva,, lui era il re, era il re, se non poteva controllare quello che provava come avrebbe mai potuto controllare Erebor.

A grandi falcate uscì dal corridoio delle sue stanze, per poi avviarsi lungo le scale che scendevano ripide all’interno del palazzo. La notte era silenziosa, non  un’anima girava nelle grandi sale, l’unico suono che rimbombava tra queste erano gli ansimi di Thorin e i suoi passi sempre piu’ veloci che si alternavo tra le alte arcate e le infinite scale che si addentravano sempre di piu’ nelle profondità del palazzo.
Il peso dentro al petto gli divenne sempre piu’ pesante ogni passo che compiva, ogni scalino che scendeva, ogni raggio di luce gialla che vedeva sorgere dal fondo dei corridoi, tre le gigantesche colonne di pietra. Non si rese neanche conto di quanto ci mise, stava correndo di questo era sicuro, la sua testa era altrove, se ne rese solo conto quando due guardie si rizzarono improvvisamente dalle loro postazioni accanto alla porta principale della sala. Non si curò neanche dei loro saluti e ansimante oltrepassò la soglia affacciandosi dalla balconata che sovrastava le montagne di monete nella sala.

L’oro scintillava, metri e metri di montagne di oro che brillavano sotto di lui illuminate dalla luce gialla dei bracieri sparsi tra il tesoro e attaccate ai muri. Senza staccare gli occhi cominciò a scendere lentamente le scale, passando lo sguardo su ogni scintillio piu’ forte degli altri, fino a che non arrivò al limite tra le scale e le monete. Lì si fermò, un terrore cieco lo invase, chiuse gli occhi ricordandosi lì, per giorni, a dormire  a malapena poggiato su una colonna fredda mentre si beava dello strusciare leggero delle monete e del loro suono a ogni suo movimento.
Riaprì poi gli occhi e stringendo i pugni vi poggiò il piede sopra e poi un altro  muovendo i passi sempre piu’ in profondità nella sala circondandosi delle migliaia di monete lucenti, ma quello che provò fu tutto il contrario di quello che si sarebbe aspettato, il profondo malanimo si fece spazio nelle viscere, seguito da un senso di nausea e disgusto verso tutta quella ricchezza. La sua paura si dimostrò infondata, tutto quello che sentiva pe quell’oro era ribrezzo e astio, niente di piu’ solo un grande vuoto.

Un tintinnio in lontananza gli fece appizzare le orecchie, leggeri passi si muovevano fra le monete, mettendolo la guardia, mentre queste si facevano sempre piu’ vicini e da dietro un blocco di marmo verde venne fuori Ghìda camminava indecisa, tra le monete, scrutando l’oro sotto di se attentamente, con la schiena curva e ole mani che reggevano la lunga gonna della veste da notte chiara.
Lo scintillare delle monete gli si infranse addosso, illuminandola di piu’ colori, come la gemma che fino a poco tempo fa l’aveva incastrata nel petto, e il desiderio, la stretta allo stomaco in quel momento fu reale piu’ reale che mai in quei giorni: in quel momento si chiese effettivamente se fosse ancora bloccato nei suoi incubi.












Kashelkel mainsisî zurumka sullu khuzdu Azsâlul'abad ai Sigin-tarâg = Possano queste acque dissetare i nani di Erebor e i discendenti di Durin
Vemu’= Salute
 
 
 








 
 
 
Angolo Autrice
Saaaaaaalve, in ritardo, di nuovo ma questa volta sono senza scusanti :/ Il capitolo è stato riscritto tre volte se vi interessa ed è lungo il doppio di quando sarebbe dovuto essere in realtà hahahaha però così vi ho dato una minima gioia no? E non solo quella spero ;D Di gioia nel capitolo ce ne stanno un paio in piu’ anche hahahahahah  peccato fosse un sogno, che è sarà molto funzionale per il capitolo successivo, giuro non è stato buttato a caso. Vi ho lasciato anche con un bell cliffanger, qualcuno vuole indovinare cosa accadrà? Perché lei è li? Eh eh.
Qua vediamo Throin che ormai è sempre piu’ insicuro di quello che sente, mentre Ghìda lo è sempre di piu’ ma entrambi chi per un modo chi per un altro ne soffrono e Thorin ad sta scambiando quel desiderio per il desiderio che provava per l’Arkengemma, e quindi ne ha pura, lo teme e qua cominciano i problemi veri. Lei invece deve ancora ben capire, o meglio un po' ha capito, ma per adesso è piu’ una stima che un ammmmore vero e proprio.
Ditemi ditemi, vi sta intrigando di piu'? A me i capitoli come sono usciti questi ultimi due mi soddisfano enormemente, anche perchè la sotia sta prendendo sempre piu' una piega verso il vero fulcro della storia.

Vorrei inoltre ringraziare Nekonlonde,Thorin78 e Valepassion95 per aver aggiunto la storia alle seguite, Aralinn per averla ggiunta alle ricordate e di nuovo *.* Thorin78 per averla messa anche tra le Da ricordare, non sapete quanto mi rendete contetna con questi piccoli gesti <3
Neekoblonde hahahahahah non so se questa conclusione ti sia bastata per ora ma si la frustrazione c'è è iun vero e proprio desiderio, in qualunque forma, spero di aver reso bene l'dea ;)

 
   
 
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