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Autore: Melanto    21/05/2020    5 recensioni
Sono passati quattro mesi in cui il mondo è andato in crash, si è mostrato in tutta la sua debolezza a dispetto di ogni tecnologia. Si è dimostrato unito e solo, vicino e lontano, fragile e resiliente. Si è ferito tante volte, e ha lasciato una cicatrice su ognuno di loro, però è ancora lì e se non può tornare ciò che era, può sempre ricominciare.
Perché non si può tornare indietro, ma solo andare avanti, anche dopo esser stati sul baratro della fine del mondo.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Mamoru Izawa/Paul Diamond
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima della fine del mondoo

Note Iniziali: una premessa generale e veloce: niente viene nominato nello specifico per mia volontà. La situazione che ha colpito i personaggi di questa storia non ha nome, non ha origine chiara, ma è di certo qualcosa di un po’ peggiore e, allo stesso tempo, con una risoluzione più netta di quella che abbiamo vissuto e stiamo vivendo noi. Non mi interessava andare nello specifico del cosa e del come, ma di tutto il resto.

E tutto il resto è davvero vicino a ciò che abbiamo conosciuto.

 

Ci troviamo alle note finali,

buona lettura. :*

 

 

 

 

 

 

Prima della fine del mondo

 

 

 

 

 

 

“Invece di tornare alla normalità,

cominciamo da capo.”

Residente.

 

 

 

È nervoso.

Non lo ammette, ma è così. Si guarda attorno, nella stazione dei treni, con un velo di sospetto verso le persone che gli passano accanto e quando una gli sembra troppo vicina, indietreggia di quei cinquanta, sessanta centimetri. Quant’è un passo? Ecco, sì. Indietreggia, prende la distanza.

Si è così abituato a stare lontano dalla gente che ora la vicinanza gli fa paura, infatti preferirebbe non trovarsi lì, ma c’è per un motivo importante.

Aspetta un treno.

Ne ha presi a iosa in un passato prossimo – o più remoto? – di quattro mesi prima. Li ha presi di continuo. Metropolitane, Shinkansen. Nankatsu-Yokohama, Yokohama-Tokyo, Yokohama-Osaka, Yokohama-Hiroshima. Yokohama-Shimizu. Yokohama-Nankatsu. Quanti treni nella sua vita, quanta gente, che è andata e venuta, con quanti è andato a bere, a ballare, a mangiare fuori, allo stadio. Ora la sola idea di tornare allo stadio come spettatore in mezzo alla calca gli fa tremare le ginocchia.

In televisione ha visto cose brutte per mesi e le ambulanze sono state l’unico suono nelle strade vuote.

Il mondo se l’è passata troppo male per dimenticare in fretta, anche se lo farà.

Ora si piangono i morti freschi, domani saranno tutti a prendere una birra e a organizzare le vacanze.

Perché è tutto normale, dicono, la percezione del pericolo si abbassa quando ci si abitua, quando si è sempre sulla corda ma i segnali sono incoraggianti. Si abbassa, si annulla, si cerca la normalità lasciata alle spalle.

Mamoru non vuole dimenticare, neppure adesso che il peggio è passato e gli esperti sono certi che non possa tornare. Ci sono cure, ha letto, stanno facendo miracoli. Ma chi lo rattoppa il segno che ha lasciato tutto quello? La ferita è dentro, ti ha aperto come un bisturi. Quella non la cura nessuno.

Ne puoi parlare, certo che ne parlerai!

Ti puoi distrarre, certo che ti distrarrai!

E lo potrai ricordare; oh, certo che lo ricorderai.

Ma al primo segnale di pericolo sarà lì e lo temerai di nuovo, come temi la persona troppo vicina troppo presto.

Mamoru guarda i treni dall’altra parte dei tornelli. Ne è arrivato uno da Tokyo. Nankatsu non gli è mai sembrata così attiva o forse l’ha solo dimenticato, complice la ressa della metropoli che fa sembrare tutto il resto poco più caotico di un armadio durante il cambio di stagione.

Il treno da Shimizu-ku arriverà tra venti minuti; catastrofe o meno la puntualità giapponese non si discute.

Lui è lì, almeno in apparenza, per onorare un patto. Lo ha deciso con Yuzo, nella loro ultima videochiamata della sera prima.

Quella distanza forzata lo ha costretto ad adattarsi a un modo di comunicare cui non era abituato: prima prendeva un treno, per vedersi con qualcuno, prendeva la macchina. Ogni tanto faceva una telefonata e poi ci si incontrava sul campo, ogni settimana a turno. Prima Hajime, poi Teppei, poi Shingo, poi Ryo, Taro e Urabe, poi Yuzo e Takeshi. Chi aveva bisogno di videochiamarsi? A che gli serviva? Neppure con i suoi genitori lo faceva mai e loro sì che li vedeva poco.

Ma poi si è ritrovato a casa, da solo. Un appartamento silenzioso, un grattacielo solitario, le luci dei palazzi del quartiere snob di Yokohama, le ambulanze che hanno fatto arrivare la loro eco anche lassù. O forse è solo divenuto lui più sensibile da riuscire sempre a sentirle, a qualsiasi ora, anche nella notte.

Allora si è dovuto reinventare la socialità. Perché dopo una settimana passata a messaggiare di continuo o telefonando ai suoi genitori, gli è mancato avere un viso con cui interagire.

Nemmeno con i compagni di squadra è riuscito a vedersi; le restrizioni sono dure ma vanno rispettate, la prima cosa che ha imparato.

Così ha iniziato ad accettare le videochiamate.

Hajime e Teppei i primi in assoluto, e alla fine ci ha preso talmente tanto gusto da fare chiamate multiple con una birra in mano come fossero in un locale.

Poi un giorno, il messaggio di Yuzo: ho saputo che ti è passato l’odio per Skype! Sprecati a chiamarmi, stronzo.

Mamoru ricorda di averci riso e poi essersi chiesto perché non l’avesse fatto già da prima. Videochiamare Yuzo. Si sono sempre sentiti in maniera regolare via messaggistica, con o senza casino universale.

Allora una sera lo ha fatto.

Lo ha fatto e Yuzo lo ha guardato malissimo per i primi trenta secondi, poi è scoppiato a ridere.

– Quindi è vero che hai ceduto al principio di adattamento come evoluzione della specie. Darwin sarebbe fiero di te.

«Cretino. Avresti potuto chiamarmi tu se ci tenevi tanto!»

– Ma se hai sempre detto che non le sopportavi?! Che ne so che hai cambiato idea!

Le loro videochiamate sono iniziate così, una volta ogni tre giorni circa, senza invasioni di campo e continuandosi a scrivere come hanno sempre fatto. Poi i giorni sono diventati due senza accorgersene, e poi ‘ma che vocalizzi a fare! Videochiamami!’, ‘Ma magari sei impegnato…’, ‘Sì, e a fare cosa? A contare le crepe nel muro?’.

Hanno finito per cucinare insieme, anche se in città diverse, mentre Yuzo cercava di prevenire i suoi disastri dicendogli cosa fare.

– Impasta, Mamoru! Impasta! Ma non con le dita! Di polso! Lavora di polso!

«Io di polso ci lavoro solo quando devo fare una cosa, e non è un impasto.»

– Oh, be’, allora dovresti essere allenato.

«Mi hai appena dato del segaiolo?»

Hanno finito per fare anche ginnastica insieme, con i risultati peggiori di sempre.

«Se ti fai scappare che mi hai convinto a fare danza africana, mi incazzo.»

– Ma se è divertentissimo! Degli squat così non li ho mai fatti neppure in allenamento!

«Sentirmi un cretino scoordinato è il prezzo da pagare per avere un culo di marmo?»

– Non lo dirò a nessuno, tranquillo!

Ma il giorno dopo era già sulla bocca di tutti, con lui a cazziarlo per essere un chiacchierone, entrambi seduti davanti a un aperitivo fatto in casa – con poco alcool e più frutta, per preservare le buone abitudini – e separati da un monitor e poco più di un centinaio di chilometri.

Hanno finito per sentirsi ogni giorno, è stato un po’ come frequentarsi.

Può dire che lui e Yuzo si sono fidanzati quattro mesi fa, senza bisogno di comunicarselo.

Ha visto i suoi abiti cambiare con il cambiare del tempo: dai maglioni, alle tute, alle t-shirt.

Ha visto i suoi capelli crescere, farsi più folti e spettinati. La barba diventare lunga per qualche giorno e poi sparire, e lui farci caso quando prima non se n’era mai accorto.

C’è stato quando Yuzo ha avuto il suo breakdown.

Shimizu-ku è stata una delle più colpite. Gli abitanti chiusi in casa senza neppure poter fare la spesa, ma con l’obbligo del servizio a domicilio per ogni cosa; per un lungo periodo se ne sono occupate le forze dell’ordine; da sembrare tutto assurdo e fuorilegge.

Yuzo, nel suo carattere che frega sempre tutti e fa credere che sia debole, ha tenuto botta meglio di quanto avrebbe fatto lui. Forse è per questo che Mamoru ha percepito più tardi il pericolo in cui era chiuso, come in una bolla. Ma un giorno, anche Morisaki ha mollato, perché alla lunga lo sconforto colpisce chiunque.

Così, un pomeriggio uguale agli altri, davanti a un aperitivo quasi analcolico, mentre ridevano per un vecchio ricordo delle medie e delle parate di faccia di Ryo, Yuzo ha rigirato con due dita il gambo del suo bicchiere ancora pieno e ha distolto lo sguardo.

– Il capitano è stato ricoverato.

«Kagimoto?! E come sta?»

– Non lo so. Non ci si riesce a mettere in contatto. A me lo ha detto il mister.

«Diavolo… Ha una figlia, vero?»

– Sì.

«Diavolo…»

– Hanno detto che questi giorni ci manderanno dei medici dell’esercito per dei controlli speciali.

«Ma tu stai bene?! Cioè, ti senti qualcosa? Stai-»

– A posto. Non ho sintomi, non ho niente. Non vedo Yohei da settimane, ormai.

«Di che controlli parliamo?»

– Mah, magari ci sforacchiano un po’. Non lo so.

«E quando verranno?»

– Ce lo faranno sapere. Oppure chissà, magari me li ritrovo domani davanti alla porta. – Yuzo ha sorriso, col suo sguardo distante. – Sono contento che Takeshi sia riuscito a trasferirsi prima che succedesse questo casino. Almeno lui e Kumi sono insieme sul baratro della fine del mondo.

Mamoru gli ha visto perdere tutta la resistenza ostentata in quei giorni, tutto l’ottimismo. Il labbro stretto fino a tremare, gli occhi lucidi. Un veloce ‘Scusa’ e la chiamata staccata senza dargli neppure il tempo di dire ‘Aspetta!’.

Aspetta, parliamone. Non sei da solo, parliamone.

Mentre i treni continuano ad arrivare, la gente a scendere, gli operatori a sanificare, la polizia a brandire i termometri frontali come fossero pistole, Mamoru ricorda con la stessa angoscia il silenzio dei quattro giorni successivi a quel momento.

Nessuna chiamata da Yuzo, nessuna risposta alle chiamate né ai messaggi.

Mamoru ha chiesto a tutti se ne avessero saputo qualcosa, compreso Takeshi.

– Prima che ci barricassero in casa glielo avevo detto se voleva venire a stare da noi, per non rimanere da solo. Ma tu lo sai quanto è testardo. Non voleva ‘darci noie’.

«Ma sei riuscito a sentirlo, almeno tu?»

– Ci ho provato, non risponde.

«I medici sono venuti?»

– Sì, già la mattina dopo il ricovero di Yohei.

«Come è andata?»

– Aspettiamo i risultati.

In quei giorni di silenzio, Mamoru ha desiderato più che in qualunque altro momento di prendere l’auto e scendere a Shimizu-ku. Ha sentito tutto il peso del distanziamento sociale che non è solo verso gli estranei o la ‘gente’ in generale, ma anche verso le poche persone cui davvero vuole bene.

Poi, dopo quattro giorni di tentativi andati a vuoto, quel messaggio inaspettato: ‘A che ora l’aperitivo di oggi?’.

Mamoru lo ha chiamato subito, senza rispondere e senza aspettare.

– Io pensavo nel pomeriggio.

Il portiere ha sorriso e lui si è accorto subito che qualcosa era cambiato per sempre. Perché quando ti spezzi non è detto che debba essere un evento eclatante. Per lo più è microscopico, ma ti lascia un segno che non si sanerà e ti si leggerà negli occhi.

– Sono risultato negativo, – ha aggiunto poi e non hanno mai accennato a quello che è accaduto in quel tempo in cui sono stati separati anche virtualmente. Yuzo non ne ha parlato, lui lo ha rispettato e non ha chiesto, comportandosi come si fossero sentiti solo la sera prima.

Di nuovo la loro routine, di nuovo le loro stronzate, la danza africana, la cucina bislacca e i film da vedere e commentare insieme come a un cineforum.

«No! Tocca a me, e scelgo io!»

– Non provare a rifilarmi l’ennesimo Sharknado, abbi pietà.

«Tranquillo, stasera: cinema impegnato.»

– Sì, certo. Fammi indovinare: ‘Cobra’ o ‘Commando’?

«Fanculo, Morisaki.»

Di nuovo la musica da mettere come sottofondo ai loro aperitivi.

«Ancora Machine Gun Kelly?!»

– Sì, e non hai diritto di lamentarti, visto che hai messo i BTS per tre giorni di fila!

«Ah! Ma andiamo! Sono i BTS!»

– Eh, andiamo, è Machine Gun Kelly!

«Che ci trovi in quel biondo tinto, magro come un chiodo e che si veste malissimo?!»

– A parte che è bravo, direi che è anche discretamente figo.

«Lui figo? Io sono figo!»

– Tu sei modesto. E non hai gli occhi chiari.

«Da quando ti piacciono gli occhi chiari?»

– Da sempre?

«I giapponesi non hanno gli occhi chiari.»

– Mica devo trovarmi per forza un ragazzo giapponese.

«Oh, quindi sei per i gaijin… Questa è un’offesa al sottoscritto, traditore della patria!»

E quando il breakdown lo ha avuto lui, Yuzo c’è stato.

A ripensarci, Mamoru crede che forse il peggior punto di rottura sia quello che arrivi quando non te lo aspetti e la tua giornata è scorsa uguale a tutte le altre. Ripeti le cose di sempre e la routine è trappola e salvezza insieme: la sicurezza logora poco alla volta.

Lui si è trovato spezzato di notte, svegliato di soprassalto alle quattro, fuori ancora buio, nel petto una tachicardia che gli ha fatto spalancare gli occhi. L’oscurità della stanza e la paura che lo ha preso all’improvviso gli hanno trasmesso un senso di oppressione che lo ha tirato a sedere e fatto catapultare i piedi fuori dal letto; tastare il comodino, cercare il cellulare e poi alzarsi, senza neppure infilare le ciabatte, e raggiungere il salotto a tentoni, con le mani sulla parete. Una botta da un lato, una dall’altro. Ha acceso la luce e si è accecato da solo, così l'ha rispenta e non ha visto più niente. Si è spaventato a morte, lasciandosi cadere sul divano. Troppi pensieri, l’idea che niente avrebbe avuto fine e quell’ultima frase di Yuzo a ronzargli in testa: sono sul baratro della fine del mondo. Il dubbio che fossero stati davvero tutti in riga ad aspettare che qualcuno li spingesse giù si è fatta così forte da non avere più fiato e da sentire tutto il peso della solitudine di quell’appartamento e delle luci fuori che al decimo piano arrivavano soffuse. Qualcuna dai palazzi vicini, gente spaventata come lui o solo nottambula, con i ritmi circadiani andati a fanculo.

Nella claustrofobia dei suoi stessi pensieri e dell’appartamento troppo vuoto e chiuso e silenzioso ha fatto la cosa più istintiva e naturale: ha cercato aiuto e ha chiamato Yuzo.

– Ohi… ma che ore…? Che succede?

«Claustrofobia da quarantena.»

– Merda. Che ti senti?

«Scusa, non volevo svegliarti…»

– Smettila e dimmi cosa ti senti.

«Ho il cuore sparato sulla luna.»

– Prendi un paio di bei respiri, come me. Okay?

«Okay…»

– Stai disteso.

«No, non ci riesco.»

– Dove sei?

«Sul divano.»

– Oh, be’, il tuo è grosso. Stendi i piedi, piega la testa all’indietro e chiudi gli occhi. E respira.

«Respiro… E se fosse davvero la fine del mondo?»

– Non ci pensare.

«Ma se lo fosse? Ci hanno chiuso in casa… è contro la legge. Se fosse davvero la fine?»

– Non lo è, siamo ancora qui.

«Non me lo riesco a togliere dalla testa.»

– Lo so.

«Che faccio se dovesse esserlo?»

– Chiami i tuoi genitori. Sarebbero felici di sentirti.

«E se non lo fosse…»

– In quel caso mi inviti a cena.

«A cena?»

– A cena. E cucini tu. Dopo tutte le lezioni che ti ho dato, vorrei sentire che sapore ha la roba che sai preparare.

«Mi sembra giusto.»

Con quella certezza di rivedersi, con quella promessa sciocca di una normalissima cena, Mamoru ha sentito l’ansia allentare la morsa, i pensieri cupi farsi da parte. Dentro si è spezzato, certo, e quando il giorno dopo avrebbe guardato Yuzo negli occhi di sicuro il portiere si sarebbe accorto che anche i suoi ormai sarebbero stati diversi senza possibilità di ritorno. Ma in quel momento è riuscito di nuovo a respirare.

«Ti va di ascoltare qualcosa insieme?»

– Cosa ti andrebbe?

«Quello che vuoi…»

– Lo hai detto, ma poi non ti lamentare.

«Ora come ora, sopporterei anche Machine Gun Kelly…» Ma dopo le prime note ha sorriso. «La DeShannon o Dionne Warwick?»

– Lo sai che sono un purista delle versioni originali.

Mamoru ha sempre saputo che non è stata ‘What the world needs now’ a farlo scivolare adagio nel sonno, quella notte; non è stata la voce di Jackie DeShannon.

«…quando ‘sto casino finirà, ti verrò a prendere.»

Il fischio di un treno lo riscuote tanto che ha un sobbalzo. Era così sovrappensiero da essersi un po’ isolato e ora si ritrova con più persone attorno. Il senso di fastidio ritorna e Mamoru, distrattamente, fa qualche passo per allontanarsi; per non passare per paranoico finge di guardare un tabellone con orari e arrivi. Il treno da Shimizu-ku è segnato in arrivo tra cinque minuti e lui prende un respiro dal fondo dei polmoni.

Fa caldo a Nankatsu, ma Mamoru ha caldo un po’ di più anche se è già in t-shirt. Le mani affondano nelle tasche dei jeans e vorrebbe fare qualche passo avanti verso i tornelli, però sono già così affollati che invece scivola sempre più indietro, sempre più defilato, mentre la gente si accalca.

Shimizu-ku è stata dichiarata ‘libera’ solo la sera precedente con il divieto di spostarti fino a quella mattina e l’accesso precluso per almeno due giorni, in modo da far defluire il traffico in uscita; quindi non è riuscito ad andare a prenderlo come promesso.

Lui, invece, è a Nankatsu da almeno una settimana. Nella gioia discreta tra l’incontro con i suoi genitori e gli amici di sempre, ha continuato a tenersi in contatto costante con Yuzo per non intaccare gli equilibri creati insieme e non farlo sentire abbandonato.

– Vorrà dire che verrai alla stazione! – ha riso il portiere, dopo l’annuncio che Shimizu era ufficialmente zona verde.

Per questo Mamoru è lì, ora. A guardare il treno entrare in stazione con l’ansia aggrovigliata nello stomaco. Sono passati quattro mesi in cui il mondo è andato in crash, si è mostrato in tutta la sua debolezza a dispetto di ogni tecnologia. Si è dimostrato unito e solo, vicino e lontano, fragile e resiliente. Si è ferito tante volte, e ha lasciato una cicatrice su ognuno di loro, però è ancora lì e se non può tornare ciò che era, può sempre ricominciare.

Tra la gente che scende e chi si abbraccia felice, Mamoru riesce a vedere Yuzo. L’aria un po’ spaesata gli ricorda la propria avuta quando ha messo naso fuori di casa. I capelli sono troppo lunghi e scarmigliati. Ha uno zaino e un trolley. Si guarda in giro come fosse arrivato lì per la prima volta e non sapesse cosa fare, dove andare. Scansa la gente come ha fatto lui. Spaventato come tutti o solo più consapevole di altri che la normalità è da ricostruire da capo.

Esce dalla calca, attraversa i tornelli e tira il fiato.

Allora si vedono.

E non c’è più uno schermo, non c’è la voce filtrata del telefono o delle casse.

Di nuovo, la sensazione che quella sia la prima volta è forte per entrambi, perché Mamoru sente il vuoto nello stomaco mentre Yuzo lo guarda con occhi grandi. Tutti e due immobili.

Mamoru non si stupisce di come Yuzo trovi il coraggio per primo, e la normalità sta già venendo riedificata in ogni passo che il portiere compie per raggiungerlo e nel sorriso che gli distende le labbra, ma non snuda i denti almeno fino a che non molla il trolley e lascia cadere lo zaino.

Da quando ha potuto assaporare di nuovo la libertà, Mamoru ha paura della gente, ma non ha paura di Yuzo; e l’ultimo passo verso la normalità è tutto suo, perché non è da cercare indietro, a ciò che avevano e hanno lasciato alle spalle, ma a ciò che hanno e che possono ancora abbracciare.

E Mamoru abbraccia Yuzo così stretto da non dare modo al mondo di strapparglielo via. Per Yuzo è lo stesso e anche Mamoru si sente stringere forte. Con il viso nel suo collo l’eco notturno delle sirene passa nei ricordi ed è già lontana, passa la solitudine dei singoli giorni, passano i vorrei, farei, vedrei, andrei. Ti direi… Ci sono, ci sei…

E la normalità diventa quel respiro spezzato, l’odore della pelle, le dita che affondano nella stoffa, le lacrime nella gola.

La potenza degli abbracci è sottovalutata, pensa, perché guarda che miracoli fanno, guarda che gioia sanno dare. Sono corpo, sono presenza, sono calore, sono certezza. Sono una seconda possibilità quando non sai neppure di averne avuta una prima. Sono perdono anche per le mancanze a venire. Sono tutte le dichiarazioni taciute. Sono partenze, molte volte, e altrettante sono arrivi. Sono addii e sono bentornati.

«Siamo a casa», dice, trovando le parole sotto il groppo nella gola. «Tranquillo, siamo a casa.»

Yuzo respira a fondo, poi solleva il capo, ma non allenta la presa. Il naso struscia contro la guancia. Mamoru gli offre il sostegno della fronte e benedice il fiato che sta respirando. Anche di quello non ha paura, anzi gli va incontro, se lo prende con un bacio cercato allo stesso modo, come fosse naturale. Un bacio che va a fondo, che è lingua e saliva e labbra strette alle labbra, un po’ morse, un po’ accarezzate. Un bacio che accoglie dopo un lungo viaggio, che parla di una cena da consumare e dell’amore che avrebbero fatto dopo, dei sentimenti che non si sapeva di tenere sepolti ma sono nati lo stesso, nella condizione peggiore. Della possibilità di ricominciare e che tutto, per essere davvero normale, debba essere diverso. Del fatto che sono stati entrambi sul baratro e hanno guardato in basso, ma non sono caduti.

In mezzo alla stazione di Nankatsu, con la gente che passa loro attorno, che affolla le banchine, che aspetta i treni, che sale e scende, Mamoru bacia Yuzo come se ogni attimo fosse quello prima della fine del mondo.

 

 

“E se questa è la fine

troveremo la sua bellezza.

Forse in realtà

ora è quando tutto inizia.

Chissà?

Per ora baciamoci,

prima che il mondo finisca.”

 

Antes que el mundo se acabe – Residente

 

 


 

 

Note Finali: pensavo che non ne avrei mai scritto, in verità.

Pensavo che questa cosa avrei finito col tenerla lontana dal mondo dei miei ragazzi e che, almeno da loro, tutto potesse andare ‘bene’ (a parte le apocalissi zombie, ma dettagli XD). È come se non volessi che le brutte cose fin troppo reali e vicine, potessero intaccare il mondo fantastico delle storie. Eppure, di disgrazie presenti nella realtà gliene ho fatte accadere ogni momento.

Alla fine, invece, mi è capitata una canzone davanti di un artista che stimo e che è troppo sottovalutato, con un video bellissimo e che vi invito a guardare (vi basta cliccare sul titolo della canzone, poco più su :3)

Ho visto il video, ho subito pensato a Yuzo e Mamoru e alla fine mi son detta: eddai, esorcizziamo un po’ il mostro.

 

Non è stato facile per nessuno e non sarà facile adesso, ma se ognuno di noi farà un minimo, potrà sempre essere meglio.

Non riavremo ciò che ci siamo lasciati alle spalle, ma non ci abbattiamo. Ricominciamo.

 




Ps: Kara è una Santa. Lei sa perché. XD

 

 

   
 
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