Libri > L'Attraversaspecchi
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Autore: MaxB    24/05/2020    5 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chiedo venia, l'intento era quello di farne un capitolo solo, ma era troppo lungo e sono diventati due, e in realtà alla fine sono tre.
Riporto alcune piccole precisazioni alla fine del capitolo, per non farvi spoiler su quello che leggerete ora.
L’Attraversaspecchi I, Fidanzati dell'inverno, Il Guardacaccia, pagina 117


10. Le traineau pt. 2

Quando si svegliò, da fuori non filtrava più nessuna luce. La sciarpa era rimasta schiacciata sotto il suo collo e si ribellò quando Ofelia si mise seduta, offesa e risentita. Sembrava che il vento esterno fosse entrato in casa da quanto si agitava.
Ofelia diede un’occhiata alla pendola di fianco al camino, strabuzzando gli occhi quando vide che ora era. Non sarebbe riuscita a prendere sonno quella notte, aveva dormito davvero troppo. Consapevole del fatto che Thorn sarebbe arrivato da un momento all’altro, si diede una sistemata e si preparò, in modo da essere pronta per uscire. Sapeva quanto lui detestasse aspettare.
Ne approfittò per esaminare i quadri che tappezzavano i muri, nell’attesa del suo ritorno. A casa loro ce n’erano pochi, così come nel palazzo di Berenilde. Quelli che vi erano appesi oltretutto rappresentavano per lo più paesaggi dipinti a olio o acquerello, del tutto diversi dalle scene mostrate lì, in quella specie di baita. Erano ritratti di Draghi a caccia, terribilmente familiari: le ricordavano quelli che lei aveva visto nell’archivio del prozio, su Anima. Una rapida occhiata le diede la conferma che infatti l’autore dei dipinti apparteneva alla stessa famiglia del pittore dei quadri presenti nell’Archivio della sua Arca natia.
In alcune scene si distingueva chiaramente Berenilde con i lunghi boccoli dorati sciolti, in procinto di finire una Bestia parecchio più alta di lei. Era a fianco ad un uomo che sorrideva ferino, suo marito con ogni probabilità. Era aitante, bello, fiero. L’autore era riuscito anche a catturare il bagliore adrenalinico negli occhi dell’uomo. In altre scene padre Vladimir era alla testa del drappello di spedizione; una, più grande delle altre, era un ritratto di famiglia. Riconobbe Freya e Godefroy da giovani, forse sui quattordici anni, altezzosi e seri come il loro nonno. Infine ne vide una, piccola, posata sulla cappa del camino, vuota se non per quella cornice. Era la foto a colori di un bambino con i capelli biondissimi, quasi argento, leggeri e fini come piume. Aveva gli occhi grigi come le nuvole non ancora cariche di pioggia, sereni. Sorrideva con le labbra sottili incurvate, mostrando dei denti bianchi e perfetti e una fossetta sul mento. Aveva forse sei o sette anni, anche se non era paffuto com’era tipico a quell’età. La prese in mano per scrutarla meglio, incredula.
Una foto di Thorn da bambino. Sorridente. Una vita prima.
Un grugnito alle sue spalle la fece sussultare e la cornice le cadde di mano. Voltandosi, sbatté contro un petto marmoreo, e due lunghe braccia si precipitarono ad afferrare sia la cornice che lei, prima che cadesse nel camino, finendo arrostita.
Thorn la guardò con espressione leggermente esasperata, per quanto sopportasse sempre di buon grado la sua scoordinazione.
- Ti ho chiamata due volte prima di avvicinarmi. Ho anche bussato.
- Sc-scusa – mormorò lei, con il cuore che le batteva nelle orecchie. Le girava la testa.
Thorn rimise la foto a posto senza nemmeno guardarla e continuò a tenere stretta Ofelia, temendo che cadesse.
- C’è una tua foto – disse lei intelligentemente, come se la cosa non fosse ovvia.
- Già.
- Chi te l’ha fatta?
- Mia zia ha voluto che me la facessero. All’epoca mi sembrava… divertente. Le altre sono state tutte bruciate, quella è l’unica che mia zia sia riuscita a conservare.
Sentire quelle parole le fece male. Non si sarebbe dovuta stupire, però: una famiglia che ti sfregia il viso e il corpo non può certo intenerirsi di fronte alla foto di un bimbo.
Ofelia la riafferrò per guardarla di nuovo, conscia del fatto che Thorn la stava ancora toccando. Era così vicino che poteva sentire il suo respiro, lì su, sopra la sua testa. Non poteva dirgli che era adorabile.
- Posso tenerla?
Thorn aggrottò le sopracciglia, chiedendosi evidentemente a cosa potesse mai tornare utile una foto.
- Non credo che mia zia ricordi nemmeno che esiste, né che abbia intenzione di tornare qui. Fa come vuoi.
Ofelia lo sentì rigido contro di sé. Evidentemente quella cornice scatenava brutti ricordi. Come biasimarlo, del resto? Lei si scostò da lui per posare di nuovo la foto sul caminetto. Non aveva la Memoria di Thorn, ma non l’avrebbe sicuramente dimenticata lì prima di partire.
 Quando alzò lo sguardo per osservargli il volto, si chiese distrattamente se quella fossetta ci fosse ancora, lì da qualche parte, sul suo mento. Poi si rese conto che per scoprirlo avrebbe dovuto far sorridere Thorn, e non con una delle minuscole incurvature delle labbra che ogni tanto le riservava. Ogni tanto… raramente, più che altro. Sarebbe stato impossibile.
- Andiamo? – lo incalzò dopo un lungo silenzio, passato da entrambi a scrutarsi a vicenda.
Gli occhi da falco di Thorn sembravano volerle scavare dentro più del solito.
La tempesta si era placata, anche se i fiocchi di neve continuavano a piovere come piume. Si incamminarono senza parlare nel silenzio ovattato della foresta, che spingeva Ofelia a chiedersi se avesse perso l’udito. Ogni tanto il verso di qualche animaletto o le foglie sotto i piedi le facevano capire che in realtà ci sentiva benissimo. Thorn qualche volta le lanciava un’occhiata da sopra la spalla, senza però aprire bocca o farle intuire cosa gli passasse per la testa.
Ofelia fu immensamente grata quando il calore della casa del guardacaccia la investì. La moglie le prese la giacca (alla fine aveva optato per indossare quella di Thorn, che la faceva sembrare ancora più piccola), lanciandole un’occhiata confusa per via della taglia dell’indumento, ma non fece domande. La trattava con riguardo decisamente maggiore rispetto alla prima volta che si erano viste, anche se non con la stessa deferenza che usava con Thorn. Qualcosa le suggeriva che il marito le incutesse un certo timore. La casa era piccola, ben lontana da quelle fastose e opulente di Chiardiluna. Era evidente che servisse loro più praticità che senso estetico, era una versione comoda e priva di orpelli della casa in cui era cresciuta su Anima.
Mangiarono su un piccolo tavolo rettangolare, Ofelia di fronte alla moglie del guardacaccia, con Thorn al fianco, seduto davanti a Jan. Fortunatamente i due coniugi chiacchieravano per sei, così tolsero Ofelia dall’impaccio di non sapere di cosa conversare. Thorn, che non si smentiva mai, non fece nessun tentativo di partecipare ai discorsi. Lanciava solo qualche commento quando si parlava di politica o di argomenti strettamente connessi al suo ruolo di intendente. Ofelia non apriva bocca per timidezza, e perché si sentiva estremamente scrutata dallo sguardo inquisitore della moglie del guardacaccia. Inoltre, si rese conto solo a cena di non aver toccato cibo per un giorno intero, e si scoprì molto affamata.
In ogni caso, quella signora sapeva decisamente cucinare.
Quando i due uomini si accomodarono in soggiorno per un caffè corretto, Ofelia fece per unirsi a loro, più attratta dal caffè che dalla conversazione, ma la padrona di casa la trattenne.
- Allora, signora moglie del buon signore, avete puntato in alto eh? Ottimo partito, avete fatto bene ad accalappiarlo.
Ofelia batté le palpebre diverse volte, mentre la sciarpa si agitava. La sua interlocutrice la adocchiò con curiosità, ma non commentò.
- Come?
- Parlo di vostro marito. Siete venuta qui come dama di compagnia e siete finita sposata con l’intendente. Questa sì che si chiama scalata sociale.
Ofelia non sapeva come sentirsi riguardo a quei commenti. Di sicuro non erano lusinghieri. Alla fine capì che la signora era solo sincera e, passando tanto tempo da sola col marito, senza nessun’altro con cui parlare, aveva perso la capacità di discernere cosa fosse lecito dire in un dialogo e cosa fosse meglio tacere.
Le fece domande sui suoi guanti particolari, sulla sciarpa, le chiese dimostrazioni di Animismo, che l’affascinarono, e la interrogò su come si fossero innamorati.
- Vi ha messa incinta, vero?
Ofelia stava sorbendo un bicchierino di grappa molto forte, aggrappandosi ad esso perché le sciogliesse la lingua e l’aiutasse a sostenere quella conversazione, ma quasi si strozzò di fronte alla domanda impertinente e terribilmente diretta. Se Thorn l’aveva sposata perché si era fatta mettere incinta? Se solo avesse saputo…
Il silenzio che proveniva dalla stanza accanto le fece capire che Thorn aveva fermato le chiacchiere di Jan. Stava valutando se fosse il caso di intervenire o se quello di Ofelia fosse solo l’ennesimo caso di saliva di traverso. Quando sentì che lei stava bene e che aveva ricominciato a parlare, invitò Jan a fare lo stesso.
Erano quelle piccole attenzioni da parte sua che le facevano comprendere quanto Thorn ci tenesse a lei, a modo suo.
- No, vi sbagliate. Non mi ha… io non… non è successo nulla del genere – balbettò, mentre gli occhiali le facevano vedere tutto rosso.
Lo sguardo della moglie del guardacaccia era scettico.
Il matrimonio non era nemmeno stato consumato subito, ma questo evitò di dirglielo. E, sebbene avessero deciso di provare ad avere un bambino, i figli tardavano ad arrivare.
- Be’, dovete averlo stregato in qualche modo. Non siete proprio quella che definirei una dama di corte. Non avete il fascino della zia del buon padrone, se capite cosa intendo. Ma io cosa ne capisco, del resto?
Se possibile, il commento fece arrossire Ofelia ancora di più. Sentiva caldo dappertutto, in un misto di alcol, caminetto e imbarazzo.
La moglie però tornò alla riscossa, imperterrita. – Davvero non è stato un matrimonio riparatore?
- No! – rispose Ofelia, con più voce del solito.
Finalmente la padrona di casa rimase in silenzio. Però non era per nulla scoraggiata o mortificata. Era proprio senza pudore.
- Oh be’, meglio per voi. I matrimoni riparatori non sono mai una soluzione. Mia sorella è rimasta fregata e ha dovuto sposare quel buono a nulla che l’ha messa incinta. Ancora oggi mi chiedo come faccia a sopportare quell’ubriacone, ma dev’essere decisamente bravo sotto certi ambiti. Le ha dato otto figli, non so se mi spiego.
Ofelia deglutì, sempre più a disagio. Lanciò un’occhiata disperata a Thorn, che la stava fissando a sua volta e sembrava insofferente quanto lei. Capendo l’antifona, si alzò dal divano.
- Mi dispiace – rispose alla padrona di casa, incerta se mostrarsi dispiaciuta per la sorte della sorella.
Ofelia sentì il suo sguardo scrutatore addosso, gli occhi piccoli e chiari della donna che le scavano dentro, e seppe senza ombra di dubbio che la domanda che stava arrivando era inopportuna e non morigerata.
- Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Forse capite cosa intendo dire, comunque. Sapete cosa si dice degli uomini con il naso importante, no? Quello del vostro buon marito è sicuramente un naso di tutto rispetto, decisamente gros…
Ofelia scattò in piedi e si girò proprio mentre Thorn le si avvicinava da dietro. Si sbatterono contro, e Ofelia si massaggiò automaticamente la fronte che aveva cozzato contro qualcosa di ossuto. Un gomito, forse?
- È ora di tornare – annunciò lui seccamente.
Che avesse sentito il tenore dei discorsi di quella pia donna di casa? La zia Roseline si sarebbe scandalizzata come un cucchiaio in un cesto di mutande sporche.
Quasi in trance, Ofelia si vestì con il cappotto di Thorn, che lui stesso le allungò, e si diresse in fretta verso l’uscita. Passando davanti al guardacaccia non poté fare a meno di guardargli il naso a patata, sicuramente non elegante e raffinato, e avvampò ripensando alle parole di sua moglie.
- Siete molto accaldata, buona padrona, fate attenzione a non prendere freddo all’esterno – le raccomandò Jan, confondendo il suo rossore.
- Aspettate – li fermò sua moglie, trafelata.
Ofelia si augurava vivamente che non facesse qualche domanda inopportuna come chi stava sopra e chi stava sotto o che posizione… Le mancò il respiro. Che razza di pensieri stava facendo? La grappa, era sicuramente colpa della grappa. Sentì il bisogno di togliersi il cappotto per respirare. L’aria era soffocante.
Fortunatamente la signora non disse nulla di procace o sfrontato: le piazzò tra le braccia un cesto pesantissimo che Ofelia faticò a reggere. Le mani di Thorn furono leste a toglierglielo di dosso, prima che cadesse sotto il suo peso. Lo tenne con una mano sola, senza nessuno sforzo. Nonostante il fisico asciutto e ossuto, Thorn era forte; non aveva muscoli pompati e non era robusto, ma… be’, forse il suo corpo magro era sottovalutato. Ofelia non lo disdegnava di sicuro.
- Le provviste che mi avete richiesto, padrone. Saranno sufficienti per la vostra permanenza.
Thorn borbottò qualcosa che non assomigliava né a un ringraziamento né ad un saluto, e si allontanò fuori.
Ofelia ringraziò profusamente e disordinatamente per l’ottima cena, la generosità e la compagnia, cercando di non pensare all’ultima parte della conversazione per risultare sincera. Poi si incamminò nella neve tentando di raggiungere Thorn. Il freddo la investì come una carrozza lanciata a tutta velocità, e fu felice di non essersi tolta il cappotto all’interno, quando moriva di caldo e imbarazzo.
- Sono brave persone – disse Thorn, prendendola in contro piede, rallentando un poco l’andatura. – Un po’ troppo semplici, forse, ma pensano ai fatti loro.
- Insomma… - borbottò Ofelia.
- Come?
- No, nulla. Mi chiedevo per quale motivo ti portassero così tanto rispetto e soprattutto perché ti sei intrattenuto così tanto con il guardacaccia, alla fine della cena. Non ti ho mai visto parlare così tanto.
Thorn continuava a precederla di poco, ma il sibilo del vento ne portava via la voce, così Ofelia allungò il passo come poté e gli si affiancò.
- Portano rispetto al clan dei Draghi, sono una specie di mito per loro, li tengono in gran considerazione. Io personalmente ho fatto da portavoce per alcune loro richieste, che sono state accettate e varate come leggi. Ecco il perché di tanta esagerata devozione.
- Credo sia il loro modo per mostrare gratitudine.
- Non è necessaria. Quanto alla seconda domanda, il guardacaccia ha monologato da solo, io ero solo uno spettatore.
Ofelia represse un sorriso. – Mi pareva strano che d’un tratto fossi diventato loquace. Perché ti sei intrattenuto tanto, allora?
Thorn guardò dritto di fronte a sé mentre rispondeva, senza traccia di affetto o calore nel suo tono. – Per te. Pensavo ti facesse piacere trascorrere del tempo con sua moglie. Mi pareva andaste d’accordo.
Ofelia era sbigottita. Farle un piacere? Andare d’accordo? La moglie di Jan non era molesta, aveva conosciuto gente molto più pericolosa o antipatica, ma si sarebbe risparmiata buona parte dei suoi discorsi. I suoi occhi corsero al naso… importante di Thorn, e si sentì arrossire.
- Non era necessario. Grazie per il pensiero, comunque – si sentì costretta a dire, cercando di pulire gli occhiali dalla neve. Tra il colore rosa che lo cospargeva e i fiocchi che le si scioglievano sulle lenti, era sicura che sarebbe caduta.
Invece arrivarono indenni e illesi, soprattutto lei. Su Thorn non c’erano dubbi. La chiacchierata aveva fatto trascorrere il tempo più velocemente. Ofelia si tolse subito gli stivali, ma tenne il cappotto, e corse a ravvivare il fuoco morente. Animata dalla sua impazienza, la fiamma divampò violentemente, facendola sorridere.
Voltando la testa Ofelia vide Thorn chiudere la porta e scrutarla, per nulla turbato dalla sua capacità di infondere vita anche al fuoco. O, se lo era, non lo diede a vedere.
Si tolse la giacca per rimanere in camicia, si liberò anche lui degli stivali da neve e posò la valigetta da lavoro a fianco della porta d’entrata. Mise invece il cesto con le provviste sul bancone. Nel mentre, continuò a tenere d’occhio Ofelia, che rispose agli sguardi, finché le si accostò.
Le tolse gentilmente il giaccone immensamente lungo e ingombrante dalle spalle e lo sistemò sull’appendiabiti. Poi si sedette sul divano, alle sue spalle. La turbava sapere di averlo dietro di sé, soprattutto perché sentiva i suoi occhi metallici scavarle un buco nella schiena. L’alcol le stava facendo crescere una sonnolenza non richiesta, nonostante avesse dormito per gran parte del pomeriggio. Aveva altri progetti per quella sera, e tra questi rientravano un po’ di risposte ad un altrettanto po’ di domande.
Prese posto accanto a Thorn, con le ginocchia ripiegate sotto al corpo, e si appoggiò a lui per scaldarsi. Non temeva il freddo ed era inspiegabilmente caldo, Ofelia lo invidiava. Lui si allungò per prendere una coperta così ben ripiegata che Ofelia l’aveva scambiata per un cuscino, e la drappeggiò su di loro. Poi le passò un braccio dietro al collo, sulle spalle, e si chinò con il lungo corpo per baciarla.
Non incontrò resistenza, ma nemmeno partecipazione. Scostandosi, con la fronte aggrottata, gli occhi che scintillavano al fuoco come metallo fuso, le rivolse un’occhiata interrogativa. Ofelia non gli si era mai rifiutata. Anzi…
- Ho alcune domande da farti – biascicò, sorniona. – Prima di dimenticarle o di addormentarmi.
Thorn non sembrò deluso o irritato quando si riappoggiò al divano, fissando il fuoco. Non tolse il braccio dalle spalle di Ofelia, comunque, e per scusarsi lei appoggiò la testa al suo petto, stringendosi a lui. Lo sentì rilassarsi contro di lei, segno che non era arrabbiato.
Non si aspettava certo un invito, così partì con la prima.
- Perché la casa è così pulita? Non sembra un alloggio abbandonato ad anni di incuria, non c’è nemmeno un granello di polvere in tutte le superfici.
- Ho mandato dei domestici a rassettarla l’altro ieri. Vengono ogni mese a dare una rinfrescata, cambiare le vettovaglie e pulire. Un posto che non viene curato rischia di crollare o, alla lunga, di avere bisogno di ristrutturazioni, che sono una perdita di tempo e denaro.
La pausa che seguì fece capire ad Ofelia che il discorso era chiuso.
- Hai chiesto tu alla moglie del guardacaccia di darci tutto quel cibo?
- Le ho chiesto di prepararci delle provviste per un giorno. Uova, latte, pane, qualche affettato, un po’ di verdura. Non pretendo che tu ti metta a cucinare, è giusto l’essenziale per due giorni.
Ofelia approvò la scelta degli ingredienti, anche se sapeva che a Thorn non facevano né caldo né freddo. Mangiare per lui era necessario ma non gratificante. Un po’ come andare al bagno. Le venne da ridere al pensiero. Sì, la grappa le giocava decisamente brutti scherzi.
- Cos’è la costruzione che c’è sul retro?
Thorn aggrottò le sopracciglia, poi comprese. – Gli alloggi della servitù. Ho già detto che quando il clan era in auge spesso trascorreva qui le vacanze o il periodo pre e post caccia. Credi che mia zia si sarebbe mai fatta da mangiare o messa a pulire durante la permanenza? Si portava dietro tutto il corteo, e con lei anche le sue sorelle e i suoi fratelli.
- Non ci avevo pensato.
In effetti immaginarsi Berenilde che spignattava era antitetico quanto Thorn che rideva di gusto.
Si rabbuiò un po’ al pensiero. Thorn però la strinse di più a sé, accarezzandole piano un braccio, e Ofelia se ne fregò della sua poca propensione ai sorrisi e all’ilarità. Le piacevano così tanto le sue mani…
Cercò di riscuotersi dal torpore di quei pensieri incontrollati, ma aveva dimenticato la domanda successiva. Ci mise un po’ per ripescarla.
- Ti sei divertito quando sei venuto qui con tua zia e i tuoi… fratellastri?
Thorn si irrigidì leggermente, ma non si ritrasse. – Sì, anche se sono rimasto solo tutto il giorno. Non che la cosa mi abbia dato fastidio. Nella mia visione infantile era una cosa diversa, una vera vacanza, con tutto il fascino che questo comportava.
Il tono sempre monocorde e duro lasciò trapelare qualcosa, e Ofelia capì due cose: nella sua mente quel soggiorno di quando era bambino aveva rappresentato molto, e le vacanze non lo attiravano per lo stesso motivo. Se si fosse concesso una pausa da qualche parte, avrebbe sempre ripensato un pochino a quei giorni passati. Cosa provava? Nostalgia? Rabbia?
Ofelia moriva dalla voglia di saperlo, ma non poteva calcare la mano.
- Posso chiederti una cosa io?
La richiesta la prese alla sprovvista. – Sì.
- Cos’hai programmato per domani?
Programmato. Era una vacanza, santi dizionari!
- Giusto, non te l’ho ancora detto. Non voglio vincoli orari, ci svegliamo quando ci svegliamo.
Thorn grugnì e prese l’orologio da taschino, come se esprimere il desiderio di non volere vincoli orari potesse averne offeso i meccanismi. Non era molto nelle corde del marito non avere orari, ma le aveva dato carta bianca, quindi…
- Poi avevo intenzione di preparare un pranzo al sacco. Vorrei fare un giro in slitta.
Questa volta Thorn si irrigidì sul serio, bloccando la mano che indugiava sul braccio di Ofelia.
- Un giro in slitta?
- Sì. Avrei dovuto chiedertelo prima? Pensi che il guardacaccia potrebbe darcela insieme ai cani?
Thorn aveva uno sguardo indecifrabile, e stava osservando lei, non le fiamme.
- Sono perplesso. Ero certo che non ti piacessero i giri in slitta.
- Non è che non mi piacciano, è che… ci sono poco avvezza.
Thorn inarcò un sopracciglio. – Non capisco se mi stai prendendo in giro.
- No, sono seria. Vorrei che mi portassi a vedere qualcosa qui attorno, qualcosa di non contaminato dall’uomo. Le Bestie sono in letargo, no?
Thorn parve rifletterci, oppure si era semplicemente immobilizzato, fatto sta che non mollava Ofelia. Anzi, i loro visi si stavano pure avvicinando.
- Thorn? – lo incalzò lei.
Lui si allontanò di nuovo, tornando a fissare il caminetto, ma con gli occhi chiusi. La cicatrice sulla guancia risaltava come la scia di una lacrima.
- Sì, non dovrebbero esserci pericoli, anche se dirlo è un azzardo. Conosco un posto. Non credo che ci saranno problemi per Jan, ci darà una slitta, andrò a prenderla domattina presto.
Ofelia si rilassò nell’apprendere le notizie, soddisfatta.
- Come mai eri così rossa dopo aver parlato con la moglie del guardacaccia?
La domanda la prese decisamente in contropiede, tanto che la sciarpa si agitò e gli mollò pure uno schiaffo, che però passò per una carezza. La stava fissando con il suo sguardo affilato e severo.
- Cosa?
- Hai bevuto?
- No! Cioè, sì, un bicchierino di grappa. Non sono ubriaca!
Era stizzita, non ubriaca. E imbarazzata.
Thorn borbottò qualcosa. – Allora? – la incalzò.
Non aveva intenzione di demordere.
Ofelia chiuse gli occhi. Glielo doveva, lui aveva risposto a tutte le sue domande senza lamentarsi. Però...
- Ha… insinuato delle cose.
Lo sguardo di Thorn divenne gelido, Ofelia rabbrividì. Scambiando il suo brivido per freddo, Thorn la strinse ancora di più, facendo scendere il braccio verso la sua schiena e la sua vita. La cosa non le dispiaceva.
- Insinuato cosa?
- Che… mi avessi sposato perché ero incinta. E… il tuo naso. Che sua sorella ha avuto otto figli per quello.
Thorn spalancò gli occhi. Erano poche le volte in cui mostrava il suo stupore in quel modo. – Ha insinuato questo? Sono persone senza filtri, purtroppo, buone ma, come ho detto prima, sempliciotte. Non ricevono un’educazione che insegni loro che certi argomenti sono privati.
Non era arrabbiato, solo… Ofelia non avrebbe saputo dirlo. Non irritato. Rassegnato, forse? Era abituato a ricevere giudizi da tutta una vita, in fin dei conti, questo doveva essere addirittura meno maligno del solito. La cosa le metteva tristezza.
- Il mio naso cosa c’entra con gli otto figli di sua sorella?
La tristezza passò. Perché aveva quella Memoria portentosa? E perché lei diceva quello che non doveva e taceva ciò che doveva esprimere davvero?
Percependo la sua esitazione, Thorn la incalzò, perentorio. – Dimmelo.
Ofelia sospirò. – Ha detto che gli uomini con un certo naso sono anche… hanno una certa cosa, ecco.
- Non capisco.
Figurarsi, come avrebbe potuto capire? Nessuno dei due era pratico di simili conversazioni e doppi sensi. L’alcol le diede una mezza idea.
- Te la metto come una proporzione, d’accordo? Naso grosso uguale… ehm… appendice grossa.
Lì per lì Thorn sembrò brancolare nel buio, forse pensando all’appendice vera, quella che se si infiamma deve essere urgentemente operata. Poi parve capire e sollevò le sopracciglia, stupito.
- Intanto è un’equazione, non una proporzione. O un’equivalenza dato che si tratta di due misure diverse – la corresse poco dopo, riassumendo la naturale espressione neutra. – Una proporzione prevede che i termini vengano…
- Thorn…
La voce le uscì supplice, gli occhiali le scivolarono sulla punta del naso. Le stava venendo mal di testa.
Lui si zittì, leggermente risentito. – Quella della misura del naso per valutare la dotazione di un uomo è una vecchia diceria. Non ci sono fondamenti scientifici appurati per stabilirlo. Come il canone dell’altezza.
Ofelia lo fissò, stranita. – Cosa si dice dell’altezza?
Thorn strinse le labbra. Sembrava pentito. – Non importa.
- Io però ti ho detto cosa mi ha riferito la moglie di Jan.
- Non c’entra. Non sono argomenti di cui mi diletti a parlare.
- Nemmeno io, ma hai iniziato tu!
Thorn evitava di guardarla in tutti i modi, non imbarazzato, ma nemmeno a suo agio.
- Cosa si dice dell’altezza? Che è proporzionale? Le proporzioni matematiche mi sembrano azzeccate, in questo caso – osservò piccata. Le sembrava di parlare il linguaggio di Thorn infarcendo le frasi di nozioni algebriche.
Lui mugugnò qualcosa che non sembrava un assenso prima di rispondere in maniera più chiara. – Il contrario.
- L’altezza è inversamente proporzionale a… all’altezza di… del… della…
- Sì.
- Ma non è vero! – esclamò Ofelia.
Poi si tappò la bocca con una mano inguantata, e cominciò a mordere la cucitura del mignolo. Guardava Thorn di sottecchi: la stava fissando con un’espressione così intensa da poter essere confusa per rabbia al calor bianco, sembrava in procinto di divorarla. Non aveva mai avuto paura di lui, però con quella faccia era un po’ terrificante.
La risposta le era uscita involontariamente. Thorn era altissimo, ma aveva anche un naso importante. Le cose si scontravano. Eppure le dimensioni in lui sembravano rapportate in tutto. Era una scala perfetta. Anche sotto quell’aspetto. Non che avesse molti termini di paragone a dire il vero. Lui era l’unico uomo che avesse mai visto nudo. A parte Renard, ma cercò di non pensarci. Non lo aveva nemmeno fissato abbastanza a lungo da poterlo considerare nel confronto, quella volta.
La sonnolenza causata dalla grappa e il grado alcolico della stessa le stavano facendo correre i pensieri a briglia sciolta. Si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi, sentendo lo sguardo di Thorn sempre puntato su di sé. Percepiva però che il discorso era chiuso, e ne fu grata.
Decise di non rimetterseli. Non doveva guardare niente, in fin dei conti, e gli occhi intensi di Thorn la mandavano in confusione.
- Berenilde non viene mai qui? – chiese dopo un po’, per rompere il silenzio.
- Non ne avrebbe motivo.
Il tono era quello distaccato di sempre; Ofelia si calmò, lieta che l’argomento precedente fosse chiuso.
- Come hai conosciuto il guardacaccia? Ti ha insegnato lui ad usare la slitta?
Thorn si passò una mano tra i capelli prima di rispondere.
Quella era una delle conversazioni più lunghe che avessero mai avuto, forse una delle più lunghe dell’intera vita di Thorn. Era naturale che accusasse la stanchezza. Nonostante tutto le rispose, in modo pratico e distaccato, spiegandole prima come avesse conosciuto Jan e poi come si fosse trovato a guidare una slitta.
Cullata dal suono profondo della sua voce, che le arrivava come il rimbombo di un’eco in una caverna nell’orecchio posato sul suo petto, Ofelia scivolò lentamente nel sonno.
Non si rese conto che Thorn l’aveva portata in camera in braccio, o che l’aveva spogliata lasciandole addosso solo la sottoveste e la sciarpa. Non percepì nemmeno l’aria gelida della stanza, dove non avevano riattizzato il fuoco, o il fatto che Thorn la strinse a sé, avvolgendola con il suo lungo corpo per non farle sentire freddo.
Dormì un sonno ristoratore come non ne aveva più provati da un bel po’ di tempo.
 
La mattina successiva Ofelia si svegliò per via di un raggio di sole dispettoso che le solleticava gli occhi. Ci mise diverso tempo per riuscire a mettere insieme dei pensieri coerenti e capire dove si trovasse, anche se non ricordava come ci si fosse trovata. In ogni caso, gli occhiali erano sul comodino, e tanto le bastava.
Il letto era terribilmente freddo, ma l’aria della camera era tiepida grazie al fuoco scoppiettante che si agitava nel camino. Le sembrava di avere l’ovatta nel cervello.
Si diresse al bagno padronale per darsi una sciacquata al viso, ma rinunciò a pettinarsi i capelli aggrovigliati e sparati da tutte le parti. Li legò come poté e si rese conto solo in un secondo momento di essere in sottoveste. Tornando in camera trovò il vestito della sera prima accuratamente ripiegato sulla sua borsa da viaggio. Doveva essere stato Thorn, a giudicare dalla perfetta simmetria della piega e della posizione sulla valigia. E a proposito di Thorn, dov’era?
Si vestì già per uscire e scese al piano di sotto dopo aver cambiato l’aria e rifatto il letto. La brezza pungente del mattino aveva cacciato anche i più piccoli residui di sonno, gelandole i polmoni e gli occhiali, facendo dimenare la sciarpa in protesta. E sì che era fatta di lana, lei…
Il paesaggio, doveva riconoscerlo, era mozzafiato. Ovunque girasse lo sguardo c’era neve bianca e immacolata, picchi così alti che era certa che nessuno sarebbe mai riuscito a scalarli e alberi verdi carichi di pigne e ghiaccio. Ogni tanto si sentiva il verso di qualche animale, ma per il resto regnava il silenzio.
Quando scese, provando a chiamare Thorn, Ofelia ottenne solo il silenzio in risposta. Nessun messaggio, nessuna prova del suo passaggio. Diede una sbirciata fuori ma non vide nulla. Certe vecchie abitudini non cambiavano mai: lui era bravo a vivere da solo e non rendere conto a nessuno.
Cercò di non guastarsi l’umore e, serrandosi la sciarpa al collo perché non la intralciasse, decise almeno di preparare la colazione e il pranzo da portare via. Si rese conto solo allora che gli alimenti deperibili come burro e latte erano rimasti al caldo tutta la notte. Tolse il canovaccio che copriva il grande cesto e tirò fuori tutto quello che c’era dentro: pane appena sfornato, uova, salumi, maionese fatta in casa, un po’ di lattuga e qualche verdura come zucchine, cipolle e carote, una confettura di fragole di bosco, un estratto di mandragore da usare come crema spalmabile e dei biscotti al cioccolato fatti in casa. Non male come spesa, anche se non si poteva dire che fosse una gran cuoca. Anzi. In casa si nascondevano tutti quando si metteva ai fornelli, quelle rare volte in cui ci si cimentava nell’arte culinaria. Hector la prendeva ancora in giro per quella volta che aveva rischiato di cucinare la sciarpa.
Mancavano all’appello, però, latte e burro, quelli che sarebbero dovuti rimanere al fresco.
Tirando fuori tutti gli alimenti si rese conto che nel vasetto di vetro dell’estratto di mandragore c’era attaccato un bigliettino. “Utile per la fertilità”.
Ofelia avvampò. Dubitava che la moglie del guardacaccia attaccasse etichette del genere ad ogni suo composto. Quel messaggio era chiaramente indirizzato a loro.
Thorn fece la sua comparsa proprio in quel momento. Ofelia fortunatamente lo sentì, invece di farsi cogliere di sorpresa alle spalle come sempre. Thorn si tolse gli stivaloni, ovviamente era senza cappotto, e fece un cenno di saluto a Ofelia con la testa.
- Buongiorno. Mi hai portata tu a letto ieri?
Thorn aggrottò la fronte, come se la domanda fosse complicata. - Sì. Ti eri addormentata sul divano.
Ofelia annuì. - Dove sei stato?
- A prendere slitta e cani. Te lo avevo detto.
Nella mente di Ofelia riaffiorarono le frasi della sera prima, in modo sparpagliato e spizzicato. - Avresti almeno potuto lasciare un messaggio.
- Non ne vedevo la necessità - disse accigliato.
Ofelia non capiva se fosse di pessimo umore o indifferente come al solito.
- Per caso hai visto latte e burro? Non ci sono nel cesto.
Thorn si avvicinò ad un mobile e lo aprì. Era liscio all’interno, conteneva il latte, il burro e anche del formaggio. Nella parte superiore aveva un grande scomparto ghiacciato. Ofelia non l’aveva mai visto.
- Che cos’è?
- Uno stipo per conservare al fresco il cibo senza lasciare che si congeli all’esterno. È un po’ macchinoso da mantenere perché bisogna sempre cambiare il ghiaccio prima che si sciolga, ma per due giorni terrà.
Ofelia la trovò un’invenzione davvero utile, anche se in effetti lo sgocciolio del ghiaccio doveva essere una gran perdita di tempo.
- Vado a dare da mangiare alle Bestie - annunciò Thorn, uscendo nuovamente.
Ofelia intanto scaldò il latte in un pentolino, almeno quello sapeva farlo, e preparò i panini con maionese e salumi insieme a qualche foglia di lattuga e formaggio. Non sapeva bene quali fossero i gusti di Thorn, ma lui non si era mai sperticato in complimenti o critiche sul cibo, quindi pensò che gli sarebbe andato bene tutto.
Prima di chiuderli si rese conto che il vasetto con le mandragore la stava fissando. Intuendo i suoi pensieri, la sciarpa avvicinò il vasetto. Thorn rientrò proprio in quel momento.
- Quanto manca? - chiese.
- Quasi pronto. Che dici, - aggiunse poi lei, un po’ scherzando e un po’ no, mostrandogli il vasetto e la relativa etichetta, - te ne metto un po’ nel panino?
Thorn si accigliò e bofonchiò qualcosa a proposito dei fatti altrui. Aprì il vasetto e lo passò di nuovo ad Ofelia. - Dovresti prenderne anche tu, non è detto che il problema sia mio.
Si era aspettata tutto fuorché quella reazione. Innanzitutto, non pensava che Thorn l’avrebbe presa sul serio, spronandola addirittura ad usare quella crema. Stavano cercando di avere un figlio da svariati mesi, era vero, ma non le piaceva pensarlo come un problema, il suo ritardato arrivo. Moltissime donne aspettavano parecchio tempo prima di rimanere incinte. Si disse che Thorn parlava di problema solo perché nel suo mondo calcolato ad una causa corrisponde un effetto, quindi se loro stavano cercando un bambino da tempo e questo non arrivava, per lui qualcosa non tornava. Ma in natura non era sempre così.
In ogni caso, decise che un aiutino non guastava, e spalmò i panini di crema di mandragora sotto lo sguardo attento e indagatore di Thorn.
- Devo fare qualcosa? - chiese dopo un po’, poco avvezzo a starsene senza far nulla.
- Potresti apparecchiare, per favore?
Mentre Ofelia metteva in tavola la colazione si mossero con impaccio e circospezione per la cucina, poco inclini a quello stile di vita collaborativo e privo di domestici. Non se la cavarono male, e alla fine si trovarono davanti una tazza di latte caldo, fette di pane con la marmellata e biscotti.
Parlarono poco, più che altro di come avessero dormito e del viaggio di Thorn fino alla casa di Jan. Lui le assicurò che ci sarebbero stati il sole e poco vento, quel giorno.
Sparecchiarono in fretta e Ofelia finì di prepararsi. A malincuore guardò il suo pellicciotto appeso in ingresso, ignorandolo e indossando invece il cappotto di Thorn. Sapeva che non avrebbe sorriso o infierito, ma il suo sguardo vittorioso era palese. Lasciò che Thorn la precedesse per mettere sulla slitta acqua e provviste, e Ofelia si bloccò. Aveva visto i cani da tiro solo il giorno prima, ma ora che ci faceva caso erano davvero grossi. Se ne stavano buoni, però erano bestie grosse quanto dei cavalli adulti e molto più robuste, piene di pelo, zanne e occhi grandi e terrificanti. Erano due in tutto, una grigia e una bianca, che quasi si confondeva con la neve. Thorn non si mostrò minimamente impressionato, ovviamente. Ofelia prese posto dietro di lui e si attaccò ai sostegni come la prima volta che aveva conosciuto Thorn, e come il giorno prima.
Questa volta, però, mentre lui indossava i guanti e prendeva le redini, sicuro di sé come se guidare una slitta fosse un po’ come riordinare scartoffie all’intendenza, fu più premuroso.
- Pronta? – le chiese, voltandosi verso di lei.
La sciarpa le si strinse al collo, sotto al cappotto, e Thorn le sfiorò la mano per sistemargliela meglio sull’appiglio.
- Pronta.
Le diede di nuovo le spalle, forse interrogandosi sul perché di quella scelta. Tra tutte le cose che potevano fare quel giorno, proprio un giro in slitta? Poi però impartì l’ordine e i cani partirono a tutta velocità.
Ofelia sentì il viso pizzicarle per il freddo, che ben presto si tramutò in calore. Gli alberi scorrevano ai loro lati ad un ritmo folle, mentre il silenzio li avvolgeva. Si rese conto che il viaggio non era così male come aveva immaginato, anzi: le piaceva. I cani non erano costretti a scattare come dei forsennati per prendere la velocità necessaria ad involarsi, come quando avevano raggiunto Città-cielo. Correvano forte, ma non ad un’andatura da vertigine. Piano piano Ofelia si rilassò, guardandosi attorno.
Poi si concentrò su quello che le interessava davvero, il motivo della sua presenza lì, della vacanza: Thorn che guidava la slitta.
Dopo il loro matrimonio, dopo un po’ di pratica di vita coniugale e dopo averlo conosciuto meglio, si era resa conto che Thorn qualche volta aveva negli occhi uno strano luccichio, un lampo di vita che lo rendeva estremamente… umano. La maggior parte delle volte glielo notava addosso quando la scrutava, a letto, durante i loro amplessi, un po’ meno spesso quando la baciava, a meno che non fosse uno di quei baci divoranti che seguivano solitamente un lungo distacco.
Erano occhi pieni di vita, che trasformavano quasi il volto di Thorn. Ofelia lo amava profondamente in quei momenti, e cercava sempre di fare in modo che il marito avesse soventemente quello sguardo.
Qualche tempo prima si era messa a cercare di capire cosa potesse interessare Thorn, qualcosa di particolare per fargli scattare quella scintilla, e nello stesso momento, nel salotto di casa, la zia se n’era venuta fuori con un ricordo sulla loro ridicola e terrificante traversata sulla slitta per giungere al Polo. Ofelia ci aveva ripensato e si era resa conto che quella era stata la prima volta che aveva visto quello sguardo in Thorn. All’epoca non ci aveva fatto troppo caso, presa com’era dalle novità e dal tentativo di mantenere le distanze da quel fidanzato indesiderato e scontroso.
In ogni caso, la sua proposta aveva centrato il segno. Thorn si voltò a guardarla un po’ di volte, per assicurarsi che stesse bene, e le sembrò un uomo completamente diverso. Quando si fermarono perché lui potesse togliersi il cappotto, nonostante facesse un freddo da ipotermia, Ofelia lo sentì vivo, vide i suoi occhi da falco vivaci; la sua espressione non era mutata, ma percepiva in Thorn qualcosa di diverso. Era come se fosse un leone ricondotto all’habitat naturale dopo la cattività. Si era adattato alle gabbie, ma la sua vera natura era quella, selvaggia.
Ofelia si perse quasi tutto il paesaggio, per guardare lui. Si soffermava su ciò che la circondava solo quando Thorn allungava un braccio senza rallentare per indicarle qualcosa, come un branco di animali che sembravano cervi, poco più piccoli dei lupi da traino, che fuggivano via. Era uno spettacolo mozzafiato, e nonostante la mascella congelata e la temperatura impervia, Ofelia sorrise, felice. Certa che fosse uno dei momenti più emozionanti della sua vita, prese dei profondi respiri, come a volersi imprimere nei polmoni quell’atmosfera, trattenerla nei bronchi.
- Siamo quasi arrivati – le disse Thorn dopo un tempo che Ofelia non avrebbe saputo calcolare. Minuti, ore?
Non le interessava, potevano andare avanti così all’infinito, per quanto la riguardava.
Capì cosa Thorn intendeva dopo una curva stretta presa alla perfezione. Lui si stirò la schiena e rilassò la postura, e Ofelia fu certa che era soddisfatto del suo modo di guidare. Non le capitava mai di vederlo così, quasi indulgente con se stesso. E quando distolse l’attenzione da lui, lo vide.
Talmente rosso da sembrare un’immensa pozza di sangue, così limpido e sconfinato da farle credere che fosse la linea di giunzione tra terra e cielo. Un lago rosso, perfettamente circolare, immenso e incastonato tra una lunga pianura e due montagne così alte da toccare il cielo. Ofelia rimase senza fiato.
Thorn fermò la slitta poco più avanti, vicino ad alcuni massi piatti che avrebbero potuto fungere da appoggio. Scese con sicurezza togliendosi i guanti da guida, si diresse verso il fianco della slitta e prese una grossa bistecca che lanciò alle Bestie affamate. Quando passò loro vicino, quella bianca lo annusò, come riconoscendolo, e piegò la testa quasi lo stesse ringraziando. Ofelia rimase in silenzio al suo posto, senza fiatare o muovere un passo, godendosi la vista di quel Thorn così lontano da quello cui era abituata. Eppure così vero, così reale.
Lo osservò mentre prendeva una grossa scodella, sempre dal lato della slitta, e si avvicinava al lago. Per prima cosa si lavò le mani con cura. A causa del colore dell’acqua, Ofelia temeva che avrebbe sgocciolato liquido carminio ovunque, invece quando riempì la bacinella e si avvicinò ai cani vide che l’acqua all’interno era cristallina come quella che usciva dai tubi del Polo e di Anima. I cani bevvero avidamente e solo allora Thorn si riavvicinò alla slitta, rivolgendole uno sguardo.
Aggrottò le sopracciglia. – Non scendi?
Ofelia si sentiva imbambolata. Thorn le si fece più vicino, poggiandole la guancia fredda conto la fronte. Lo vide fare una smorfia. – Hai la pelle gelida, o forse è la mia, non capisco se stai male o no.
Le prese il mento tra le dita per scrutarle gli occhi con fare medico, e Ofelia si ritrasse. – Sto bene, sono solo…
Non concluse la frase. Thorn rimase in paziente attesa, all’erta. La slitta era rialzata quindi, per una volta, Ofelia non era più bassa di lui. Cioè, non tanto più bassa.
- Hai fame? Ti senti debole? Capogiri?
Ofelia trovò la forza di sorridere e scuotere la testa. – Mai stata meglio.
- Allora cos…?
Lo zittì con un bacio. Gli gettò letteralmente le braccia al collo e lo attirò a sé, contro la slitta. Thorn spalancò gli occhi e rimase immobile, senza nemmeno rispondere, ma quando Ofelia stava per allontanarsi lo sentì reagire. La sua bocca la scaldò dentro, le sue mani la confortarono attraverso tutti quegli indumenti. La zona si riempì del rumore dei loro respiri affannati e pesanti, tanto che anche i cani da slitta interruppero per un momento il loro pasto per guardarli.
Ofelia scavalcò il parapetto della slitta con l’aiuto di Thorn, che le impedì di rompersi l’osso del collo con una perdita di equilibrio fatale, ma la discesa non fu delle migliori. Gli cadde addosso e i due finirono distesi per terra, coperti dalla neve.
Thorn si rialzò così velocemente che Ofelia quasi non lo sentì spostarsi da sotto di lei, e a malapena vide le braccia tese che la rimisero in piedi.
Rimasero a fissarsi con il fiato corto, e Ofelia desiderò rimanere così a vita. Il metallo negli occhi di Thorn era vivo. Si agitava, luminoso. Non sapeva se fosse per la corsa in slitta o per il bacio. Se possibile, capì di essersi innamorata di lui una seconda volta.
Lui increspò la fronte, ma così poco che quasi Ofelia non percepì il movimento. – Che ti prende?
- Sono felice – rispose lei, cercando di mascherare il sorriso.
Si tolse gli occhiali, rendendosi conto solo in quel momento che erano storti e coperti di neve. Le lenti si autopulirono in un secondo e quando la nebbia della miopia di dissolse Ofelia vide che Thorn la stava ancora scrutando.
- La mandragora ha un effetto afrodisiaco. Dipende da quello, forse – le disse lui, cercando una spiegazione a quel comportamento.
Non che non si fossero mai saltati addosso a vicenda, però quella volta era stato diverso.
Ofelia scosse la testa. – No, te lo assicuro. E tu?
Thorn rilassò le sopracciglia, la bocca, tutto il viso. Per un attimo Ofelia lo vide senza tensione, e pensò che fosse a suo modo bello. Affascinante. – Non lo devo a quello.
Lui si chinò di nuovo per rubarle un bacio breve ma profondo, con cui le accarezzò lingua e labbra. Poi si ritrasse e tirò fuori dalla slitta il pranzo.
- Vieni – la sollecitò, allungando la mano.
Ofelia ci mise un po’ a capire che le stava tendendo la mano perché lei gliel’afferrasse. Si emozionò come una giovincella alla prima cotta. Thorn non l’aveva mai, mai, mai presa per mano. Sapeva che la sua reazione era esagerata, con la sciarpa che si attorcigliava e gli occhiali che si tingevano di rosa, ma non poteva farci nulla.
La grande mano di Thorn inglobò la sua, conducendola verso un masso piatto e libero dalla neve. Si sedettero a contemplare il lago mangiando i panini, cercando di non pensare alla crema di mandragore che c’era dentro, o al suo scopo. Masticarono in silenzio, immersi in quella quiete. Il fianco di Thorn era premuto contro quello di Ofelia, grata del contatto, e non c’erano spazi tra di loro.
Quando ebbero finito Ofelia partì con le domande. Si sentiva stranamente simile a Hector con i suoi infiniti “perché”.
- Il lago… come mai è rosso?
- Alghe. C’è un’elevata concentrazione di alghe rosse di cui è ghiotta una rara specie di pesci. In realtà l’acqua, come hai potuto vedere, è limpida, ma il bagliore del sole sulla superficie del lago accende i riflessi delle alghe e l’acqua assume questa tonalità.
Ofelia stava per chiedergli di che specie di pesci parlasse, quando vide un essere squamoso e di un rosso brillante emergere per poi rimmergersi. Era grosso quanto i lupi attaccati alla slitta. Evitò di fare domande o chiedere spiegazioni su quello.
Osservò invece le nuvole riflettersi sulla superficie. Sembrava che il lago fosse in realtà uno specchio rosso, e che immergendocisi lo si potesse attraversare, finendo in un mondo parallelo tinto di cremisi. Ofelia si chiese se tuffandosi nel suo riflesso avrebbe potuto sfruttare il lago come uno specchio vero e proprio. Non aveva comunque intenzione di fare una prova, si sarebbe solo ritrovata congelata fin nelle ossa.
- Perché hai voluto fare un giro in slitta?
La voce sommessa di Thorn risuonò lo stesso troppo forte nel silenzio di quel luogo. Sembrava di essere in una di quelle camere perfettamente isolate di Chiardiluna. Una camera sterminata però, e priva di illusioni.
- Te l’ho detto – rispose lei, con la voce bassa e fragile come le prime volte che avevano parlato. – Volevo fare un giro qui attorno.
Thorn non se la bevve. – Un giro lo potevi fare anche al Polo. Ci sono molti luoghi che non hai visitato. Tu volevi fare una gita in slitta, che ti terrorizza e che non rientra nelle tue abitudini. Perché?
Non avrebbe demorso, Ofelia lo sapeva. Decise di essere onesta.
- Ogni tanto hai… uno sguardo più morbido del solito. Solo in certe circostanze. Credo sia quando ti senti particolarmente bene, o… non saprei spiegartelo.
Thorn la scrutò in silenzio, come se non stesse parlando di lui.
- La prima volta che ti ho visto quello sguardo addosso è stato quando ci siamo conosciuti e tu ci hai portate con la slitta fino alla casa del guardacaccia. All’epoca non me n’ero resa conto perché non ti conoscevo, ma era uno sguardo così vivo. È come se tu fossi nato qui, per questo.
- Un eremita in una baita immersa nella neve, da solo con le slitte e le Bestie addomesticate?
Thorn era capace di uccidere delle semplici ovvietà in una conversazione, figuriamoci un po’ di romanticismo.
Leggermente risentita, Ofelia ribatté: - Non intendevo dire questo. Pensavo solo di voler verificare la mia teoria. Andare in slitta ti piace Thorn, non puoi negarlo.
Amava andare in slitta, lui che non amava nulla e nessuno, se non lei e la matematica, forse. Era parte di lui, come il freddo, con cui si trovava così a suo agio.
Ofelia si rese conto che quel paesaggio era Thorn. Gelido, duro, impenetrabile, desolato, completamente privo di vita o quasi, con un immenso cuore rosso come il lago al centro, dentro cui ogni tanto guizzava qualche pesce. Era un paesaggio triste, malinconico, ma con un così grande potenziale.
Era malinconico, sì, e le cose malinconiche hanno un fascino che pochi sono in grado di comprendere. Sono meravigliosi se si riesce ad andare oltre, oltre la superficie, oltre gli alberi ghiacciati, fino al suo pulsante cuore rosso.
La consapevolezza di ciò le fece girare la testa. Era bizzarro pensare di essere dentro Thorn, perché era una metafora, ma in qualche modo le sembrava anche una cosa letterale. Lei che ruolo aveva in tutto quello? Dove rientrava? Era il pesce che guizzava nel lago? O era la slitta? La baita immersa nella neve?
- Sì – ammise lui dopo un silenzio lunghissimo.
Ofelia sentì il bisogno di misurare il tempo, e si rese conto che Thorn non aveva quasi mai guardato il suo orologio da taschino. Era come se l’arca in cui esercitava le sue funzioni e ricopriva il ruolo da intendente fosse una malattia, e l’orologio diagnosticava, emetteva verdetti, dettava legge su tutto. Lì fuori Thorn non ne aveva bisogno. Era sempre nella tasca della sua giacca, non c’erano dubbi in merito, ma non aveva nessuno da curare. Thorn era a casa.
- Non intendevo essere brusco – disse poi, a mo’ di scusa, cosa che soprese Ofelia. – Solo che… erano pensieri su cui non mi ero mai soffermato. Mi ha sorpreso rendermi conto che hai… ragione. Però io ho te.
Ofelia sentì inspiegabilmente gli occhi pungerle. Doveva essere il freddo.
Lei era decisamente la slitta. Non il pesce che ogni tanto guizzava nel lago del suo cuore, un’emozione improvvisa e non richiesta, non la baita nella sua mente, in cui risiedevano i ricordi, il dolore, il passato. Lei era la slitta che gli scorreva nelle vene, la sua scintilla di vita, la sua ragione per tornare a casa la sera. La sua famiglia.
Le sue scuse, il suo ammettere che aveva ragione, erano davvero troppo per lei. Anche Thorn sembrò pensarla così, perché la sommerse in un abbraccio e le rese nera la visuale.
- Mi piace questo posto.
- C’è tanto da scoprire – rispose Ofelia, con la voce soffocata da lui.
Non si riferiva solo a quel posto. Thorn era se stesso lì, lontano da giudizi, etichette, vincoli sanguigni.
- Andare in slitta comunque è divertente.
Quello proprio non se lo aspettava. Mai in vita sua Ofelia avrebbe pensato che Thorn avrebbe pronunciato quella parola, “divertente”. Era un ossimoro bello e buono.
Le venne da ridere, inducendo Thorn a liberarla. – Che c’è?
Niente da fare, il tono rimaneva quello inflessibile di sempre, cavernoso e senza intonazione, il cipiglio era onnipresente.
- Niente, anche io penso che sia divertente.
Non specificò cosa, ma Thorn intuì che non parlava della slitta.
- C’è un motivo per cui ti piace?
Lui si volse a guardare i cani, e poi il lago. Non traspariva nulla dalla sua espressione
- Non nello specifico. Ispira solo un senso di libertà. È il mio atto di ribellione. Qui non ci sono leggi, regole, orari, scadenze. È anarchia completa.
Ofelia capì cosa voleva dire. Lì erano liberi, da tutto e tutti, isolati dal mondo. Thorn si sentiva semplicemente vivo. Emergeva la sua vera personalità, e Ofelia era davvero felice di poterla vedere e di essere forse l’unica a conoscerla.
- Vuoi tornare? Inizia a fare freddo, qui il sole tramonta prima.
La scelta era sua, ma Thorn si era già alzato. Accettò la mano che le porgeva, di nuovo, e lo seguì alla slitta. Lo guardò caricare tutto con estrema cura, dando persino una pacca sul fianco di uno dei cani-cavallo, prima di rimettersi al comando. D’un tratto Ofelia si sentì invadere dal calore, il suo stomaco fece una capriola, e non vide l’ora di tornare a casa. A giudicare dallo sguardo di Thorn, acceso di una piccola fiammella quasi famelica, Ofelia capì che erano sulla stessa lunghezza d’onda.



Ed eccoci arrivati al cuore del capitolo, in due sensi.
Prima di tutto, perché qui è presente l'approfondimento che volevo fare: dei semplici "occhi più vivaci del solito", per citare il libro. Non so perché ma questo dettaglio mi ha ossessionata per molto tempo e sono riuscita a trattarlo solo girandoci intorno dannatamente tanto ahahaha. Spero che si sia capito ciò che intendevo dire.
Secondo, il cuore di Thorn. Vi assicuro che nulla di tutto questo era architettato, io volevo solo parlare degli occhi di Thorn e sono finita con decine di pagine Word che nemmeno avevo pensato. Possessione della letteratura. Dovrei farmi visitare. Non era premeditato niente, nemmeno il paesaggio. Il lago rosso esiste, è ai piedi di una catena montuosa in Trentino, ci ho fatto una ferrata due anni fa, si chiama T qualcosa ma non mi ricordo bene scusate. In passato, negli anni '80/90 era davvero rosso per via di queste alghe particolari. Ora è solo un meraviglioso lago classico, perchè le alghe hanno perso la pigmentazione o non so cosa sia successo. Il fatto è che non doveva esserci nel capitolo. Mentre Thorn e Ofelia erano in slitta il paesaggio si creava da solo, ed era come se io fossi lì con loro. Girato l'angolo ho visto il lago, semplicemente. Quando loro si sono seduti a mangiare, mi sono resa conto con lo stesso stupore di Ofelia che il paesaggio era proprio Thorn. Sono rimasta colpita anche io. E preoccupata. O ho mangiato del funghetti allucinogeni oppure devo smetterla di mangiarmi il gelato con latte e biscotti prima di dormire.
In ogni caso, spero che vi sia piaciuto il capitolo. Il prossimo, la conclusione, ve lo anticipo, sarà ricco di...spoiler!! No scherzo, non flagellatemi. Ci saranno diversi spoiler, ma talmente velati che non capirete nemmeno quali sono. Ve lo assicuro al cento per cento.
Il primo capitolo era un'immersione nel passato di Thorn, questo capitolo è il presente, e il prossimo lo vedo un po' come il futuro. Di loro due insieme, però.
Scusate la lunghissima digressione O.O Sorry.
Spero davvero che vi sia piaciuto perché ci tengo tanto tanto a questo piccolo esperimento non voluto. E vi avviso anche che nel prossimo i nostri amati fidanzati dell'inverno sfrutteranno per bene quella cremina di mandragore xD
Sporcaccioni...
Grazie per essere arrivati fin qui ;) ♥

P.S. Il lago si chiama Tovel, l'ho cercato xD Dateci un'occhiata su Google immagini, se potete, è meraviglioso.
  
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