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Autore: LionConway    24/05/2020    2 recensioni
New York, estate 1977. Il Bronx è in fiamme, le imminenti elezioni del prossimo sindaco prevedono guerra aperta contro i graffiti. Central Park è la casa di eroinomani e spacciatori, Times Square non è un posto per famiglie.
A ventun anni, Leo, un giovane ebreo omosessuale, giunge nella Grande Mela dal Canada con un taccuino su cui scrivere poesie e una valigia piena di sogni e ambizioni artistiche.
Il suo cammino si incontra con quello di Johnny, un ex Marine che ha servito in Vietnam, impulsivo e piantagrane, ma con il fantasma della guerra che ancora grava su di lui. Con Suzy, attivista politica e giornalista del Village, dove gli artisti occupano appartamenti sgangherati e tentano di vivere dei loro sogni. Con Michael, il migliore amico di Johnny che cerca costantemente di tenere fuori dai guai e, nel mentre, progetta l'apertura del proprio ristorante.
E tra quattro peculiari personalità, che non potrebbero essere più differenti tra loro, sboccia un genuino sentimento di amicizia e solidarietà: ben presto si renderanno conto di come ognuno di loro abbia bisogno degli altri per fronteggiare le difficoltà di tutti i giorni, in una metropoli dura e crudele, ma che affascina e fa innamorare.
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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II. 
Leo 

 

When I left my home and my family
I was no more than a boy
In the company of strangers
In the quiet of the railway station
Running scared,
Laying low, seeking out the poorer quarters
Where the ragged people go
Looking for the places
Only they would know

Simon & Garfunkel - The Boxer )


 

 

Il Talmud suggeriva che, nell'educare i propri figli, un genitore dovesse lasciare che la mano sinistra rigettasse, mentre la destra accogliesse. Detto in parole povere, l'amore, simboleggiato dalla mano destra (la più forte, la dominante), avrebbe dovuto comunque sempre seguire la punizione (data con la sinistra) ed essere maggiormente adoperato rispetto alla severità.

Il padre di Leo era mancino.

Non che i suoi fossero mai stati particolarmente rimproveranti con lui, nemmeno dopo il fattaccio accaduto con Pierre Mabeuf dietro la palestra della scuola superiore. A ben pensarci, non ricordava nemmeno una sculacciata in seguito ai capricci e alle marachelle tipiche dell'infanzia, quelle che l'istinto imponeva a un bambino vivace di compiere con il solo fine di esplorare la propria formazione. O forse, un test di Madre Natura rivolto proprio alle persone incaricate di crescerti una volta venuto al mondo. Forse era stata proprio l'assenza di botte a rendere Leo un ragazzo pacato. Non aveva mai risentito della dittatura patriarcale che veleggiava all'interno delle altre abitazioni nel quartiere e, di conseguenza, non aveva mai avvertito il bisogno di sfidarla.

Eppure, i suoi genitori erano comunque riusciti a farlo sanguinare. Perché non vi era sempre bisogno di schiaffi o di cinghiate affinché le ossa dolessero sotto la pelle: a volte, uno sguardo o un silenzio trafiggevano il cuore più facilmente di cento lame affilate e ne ricavava gli stessi risultati.

Pierre Mabeuf aveva testimoniato che Leo gli era saltato addosso. Che gli avesse teso una trappola per adescarlo, che fosse da tempo ossessionato da lui. Non era vero, ovviamente. Lo sapeva il preside del liceo e lo sapevano i coniugi Joselewicz. Per tutta la seduta all'interno dell'ufficio, mamma aveva tenuto il naso immerso in un fazzoletto, come per proteggersi da un'allergia; papà, invece, si era limitato ad ascoltare quella serie di panzane con i palmi delle mani ben aperti sopra le ginocchia, senza dire una parola. Il suo silenzio colmo di vergogna era stato complice delle bugie di Pierre e, forse, se il suo sguardo si fosse degnato di sollevarsi sul figlio, anche solo per mezzo secondo, Leo avrebbe potuto trovare il coraggio di ribattere. Proprio come durante gli incontri di boxe, quando, in preda al dolore e alla fatica, si aggrappava al tifo di Norman dall'angolo del ring e continuare a combattere risultava più semplice.

Ma Bernard Joselewicz non lo aveva guardato. Si era limitato a congedarsi con una stretta di mano al preside e a trasferire il figlio in una scuola ebraica. D'altronde, all'epoca, Leo era solo una matricola di quindici anni che amava frequentare gli incontri del club di poesia. Pierre era una promettente stella dell'hockey: era stato abbastanza semplice decretare chi dei due dovesse essere cacciato.

Sei anni erano poi trascorsi e mai più un accenno era stato fatto. Né da loro, né da sua sorella. Ogni tanto, Leo si domandava se Myriam ne fosse mai venuta a conoscenza. Norman, dal canto suo, gli aveva fatto anche fin troppe domande e di certo non aveva smesso quando Leo lo aveva raggiunto all'università. Quello era stato il periodo in cui aveva finalmente potuto fare un po' di esperienza con il mondo e con i ragazzi. Anche uomini più maturi lo avevano puntato, quando bazzicava giù per Dominion Square. Ci aveva anche provato ad appartarsi con sconosciuti, ma presto si era reso conto che non era qualcosa che faceva per lui: preferiva sedersi su una panchina e osservare ciò che gli accadeva intorno. Preferiva incontrare lo sguardo complice di un coetaneo in libreria e sperare di essere invitato fuori per un caffè e un confronto letterario su poeti e scrittori. Si era messo in testa che l'uomo della sua vita avrebbe dovuto amare Burroughs.

«Mazel tov

Ancora sentiva nelle orecchie il rumore del bicchiere infranto sotto il piede dello sposo, nonché le conseguenti congratulazioni da parte dei famigliari. Di lui e di lei, il ramo della famiglia di Leo.

Myriam era stata la seconda, in casa, a sposarsi, dopo Norman, e sarebbe stata anche l'ultima, contro ogni previsione dei loro genitori che, già fin da quando Leo era piccolo, sognavano la sua futura unione con Sophie Bernstein o qualunque altra brava ragazza ebrea la cui famiglia frequentava la sinagoga di Bernard. Leo, con l'ingenuità dell'infanzia, sognava di poter sposare Barnabé Paquette. Col passare degli anni, si rendeva sempre più conto di quanto quell'innocente consapevolezza gli avrebbe reso la vita complicata: non ti sposerai mai, non avrai mai figli; se accadrà, invece, prometterai eterno amore e fedeltà a un'ignara ragazza di fronte all'altare, cercherai di convincerti che è la persona giusta per te, combatterai sempre l'impulso di mancarle di rispetto ma, prima o poi, cederai. Lo sai perfettamente. Perché il cuore non può essere fermato e il cuore ti porterà sempre verso luoghi peccaminosi, dove, in seguito a un gioco di sguardi sensuali, ti arrenderai al sollazzarti con altri uomini nella stanza di un motel. E nel pieno dell'adrenalina non penserai al peccato che stai compiendo, alla promessa venuta a mancare nonostante i tuoi mille sforzi per convincerti che no, tu ami tua moglie, forse non ami le donne, ma senz'altro ami lei. Mentre quell'altro uomo - forse libero, forse una puttana che hai pagato o forse sposato e peccatore quanto te - fa scorrere le sue mani sul tuo corpo bisognoso di quel contatto e le sue labbra roventi ti accompagnano nell'estasi.

No, Leo si era giurato che non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Non avrebbe mai mancato di rispetto a nessuna ragazza, tantomeno a sé stesso, una promessa che si era fatto baciando il ciondolo Chai un tempo appartenuto al suo saba e salvatosi dall'OlocaustoQuella collana aveva visto Cracovia, aveva visto Auschwitz e aveva visto Montreal. Ora, grazie a una cospicua somma prestatagli da Norman, avrebbe visto New York.

Era una città strana. Gigantesca. Caleidoscopica. Spaventosa. Erano tanti gli aggettivi con cui la si poteva definire, troppi, e più Leo tentava di sfoltire la lista di definizioni più quella sembrava allungarsi. Prima che l'autobus sul quale viaggiava attraversasse il fiume Hudson, con la vista che gli si era aperta sulla linea di grattacieli che costellava l'orizzonte, Leo ebbe come la sensazione di trovarsi dinanzi a un colosso, un titano. Qualcosa di ipnotico davanti a cui prostrarsi, ma che al tempo stesso incuteva un certo timore reverenziale. O forse solo il timore di sentirsi un piccolo pesce che sguazzava nell'infinità dell'oceano.

Non gli ci volle molto per scoprire che le proprie paure, le proprie ansie, erano del tutto giustificate. Era una città troppo grande per non fare paura, abitata da persone troppo disperate e terrorizzate a loro volta, che si aggrappavano a qualunque cosa pur di sopravvivere. E quella disperazione dilagante nelle strade, a cui Leo assistette dal finestrino di un tassì che sfrecciava in piena Midtown, trasportandolo verso un alloggio conveniente, gli fece afflosciare un poco le spalle. Disillusione pura. Dov'era la città dei poeti, degli idealisti, dei pensatori? Tutto ciò che vedeva intorno a sé erano mendicanti, tossici, prostitute e insegne oscene al neon, intervallate qua e là da caffetterie aperte anche tutta la notte.

Eppure, c'era vita. Tanta vita. Le centinaia di persone che si muovevano sul marciapiede erano vita, un insieme di storie che nessuno avrebbe mai raccontato ma che esistevano, che ognuno viveva ogni giorno sulla propria pelle. Storie di tentata rivalsa e fallimenti, storie d'amore e cuori infranti, storie di occhi che avevano visto troppo o ancora troppo poco. Il tassista che lo traghettava nel bel mezzo di quelle anime, come un moderno Caronte, aveva una propria storia. La donna dagli abiti succinti che ammiccava da un portone aveva una storia. Perfino il portinaio che gli consegnò le chiavi della propria stanza d'albergo ne aveva una, probabilmente inquietante vista la condizione dei suoi denti storti, della palpebra sinistra calante, dei capelli stopposi ai lati della testa altrimenti pelata.

Era l'hotel più sudicio e squallido in cui avesse messo piede. Il pavimento a scacchi su cui camminava, percorrendo lo stretto corridoio, era così pastoso che gli sembrava di affondare i piedi in un tappeto. Le pareti erano claustrofobiche, grigie e asettiche. Attraverso di esse, mentre avanzava su per le scale verso il terzo piano, Leo poteva chiaramente sentire lo zampettare di una colonia di topi, forse addirittura ratti. Al primo piano, tuttavia, il suono andò a mischiarsi con un'imbarazzante serie di gemiti e colpi che provenivano oltre le porte di ogni stanza.

La sua camera non era certamente migliore. Tutto ciò che aveva in dotazione era un letto singolo, un comodino e un minuscolo lavandino con uno specchio appoggiato dietro i rubinetti. La porta era troppo piccola per il vano: chiudendola, restavano almeno due pollici di distanza rispetto allo stipite, lasciando filtrare una linea di luce bianca lungo la moquette che, probabilmente, non era mai stata pulita. [1]

Quello non era di certo un hotel per turisti, men che mai quelli che visitavano la città in compagnia della famiglia. Eppure, vi era qualcosa di consolatorio nell'avere un tetto sopra la testa e un letto su cui sdraiarsi, per quanto alta fosse la possibilità di beccarsi le piattole dormendovi sopra (perché Leo non si sarebbe azzardato a infilarsi sotto le coperte). Era sceso a Port Authority da un'ora al massimo e già aveva compreso quanto non fosse una cosa così scontata, almeno in quella parte della città.

La prima cosa che fece fu aprire la finestra per arieggiare l'ambiente, contrastando il caldo di quella minuscola stanza e il tanfo di uova marce che vi aleggiava. Era come se qualcuno avesse invocato una presenza demoniaca. Poi si mise a controllare minuziosamente che non vi fosse alcuna presenza di topi. Trovò un buco sotto il termosifone, abbastanza grande perché vi passasse un lesto topolino, e si adoperò a coprirlo con il libro più pesante che si era portato dal Canada.

Alla fine della propria missione, Leo chiuse le tende, si tolse le scarpe di tela e, senza nemmeno svestirsi, si buttò a volo d'angelo sul letto. Le molle cigolarono sotto la caduta a peso morto e un odore di umido proveniente dalle coperte gli punse le narici. Ma si sentiva così stanco, così provato dal viaggio che non vi fece troppo caso. Si addormentò in fretta, cullato dai rumori di una città che, invece, non avrebbe mai trovato riposo. 

 


 

 

30 Giugno 1977 


 

Caro Norman,

spero che l'assenza di telefonate dal mio arrivo a New York non ti abbia fatto preoccupare, ma ho pensato che sarebbe stato meglio lasciar passare qualche giorno prima di scriverti, elaborare meglio le mie prime impressioni.

La sera del mio arrivo ero così stanco che non ho perso neanche il tempo a cercare quale fosse la più dignitosa sistemazione vicino alla stazione degli autobus. Mi sono fidato del consiglio di un tassista, ho dato troppo ascolto al mio bisogno di risparmiare e quindi eccomi in una bettola in piena Manhattan con stanze a ore!

La mia prima intenzione era quella di restare una notte soltanto e poi via, a cercare qualcosa di meglio al Village. Presto mi sono accorto che, molto probabilmente, non c'è poi molto che possa considerarsi "meglio". Non so cosa mi aspettassi prima di venire qui, ma tutto ciò che pensavo, guardandomi intorno, era che questa è una città terrificante. Caotica, ma non nel senso di trafficata, bensì nel senso di puro e reale caos dilagante. Una città che vive  attraverso le sue strade, dove i cani mangiano la testa ad altri cani. Sono salito sul tetto dell'albergo, la seconda notte che ero qua, e in lontananza ho visto le fiamme di un incendio. Più di uno, e una pesante coltre di nuvoloni solcava prepotentemente quella parte di cielo. Ho pianto, quella notte. E quella dopo ancora. Il giorno seguente, invece, mi sono accorto che cominciavo a camminare allo stesso passo dei newyorchesi, sospinto verso la metropolitana. Forse è azzardato dire di star diventando abitudinario dopo appena una settimana trascorsa a girovagare per Manhattan: magari sono solo camaleontico, chi può dirlo? Fatto sta che, dopo lo spaesamento iniziale, dopo le vertigini provocate dalla vista dei grattacieli, credo di aver cominciato a guardare le cose con un'attitudine diversa ed è tornata a farsi sentire quella sensazione di positività che avevo quando sognavo di trasferirmi qui.

I negozianti da cui mi rifornisco cominciano a riconoscermi, a salutarmi con familiarità. Ho anche cominciato a conoscere un poco gli altri inquilini dell'hotel, una bizzarra e variegata comunità.

Per esempio, c'è un ragazzo che avrà al massimo un paio d'anni più di me, con i capelli rossicci. Lavora di notte al cinema gay qua di fronte, lo so perché quando ci passo davanti, alle volte, lo vedo alla biglietteria. Eppure, alla fine del suo turno, lo sento sempre sgusciare dentro una delle stanze a ore con una donna diversa. Una notte, l'ho incontrato in bagno (sono condivisi) e ci siamo salutati. Ha una faccia da schiaffi, con un sorriso che pare un ghigno, gli incisivi sporgenti. Era senza camicia, quella notte, e gli ho chiaramente visto una cicatrice orrenda, un'enorme bruciatura che gli lascia la pelle aggrinzita sul bicipite sinistro, la spalla, fin sotto la scapola. Credo fosse un soldato, ma non gliel'ho domandato, non era il caso. Non so nemmeno il suo nome.

Accanto alla mia stanza c'è Pops, un vecchietto storpio senza gambe che non ho idea di come abbia raggiunto il terzo piano. Pops può andare solo avanti e indietro da camera sua fino ai bagni del pianerottolo, così noi inquilini facciamo a turno per fargli la spesa e portargli ciò di cui ha bisogno: caffè e sandwich, solitamente.

C'è Coo-Coo, che abita sopra di me ed è matto, ma nel vero senso della parola. Gira per i corridoi indossando mutande sporche e rovista sempre nella spazzatura che alla sera viene ammonticchiata davanti al portone dell'albergo. Non cerca neanche da mangiare, solamente oggetti che raccoglie per aggiungere alla sua collezione di schifezze abbandonate in un angolo. "Nido" lo chiama lui; le scatole di tonno sono la cosa che preferisce. Lo so perché ieri sera gli ho bussato per regalargli un pacchetto di sigarette, così non veniva più a svegliarmi alle due del mattino per chiedermi se ne avessi una da dargli.

E poi c'è LaFleur, un travestito che è un po' il capogruppo delle prostitute al primo piano. Doris, un donnone con la parrucca rosa che si paga la stanza facendo l'elemosina giù a Port Authority. Philip, che ha addomesticato un ratto e se lo porta in giro per Times Square imbastendo spettacolini con barattoli e facendogli fare le acrobazie.

È tutto un po' meno terrificante, alla luce del giorno. Le passeggiatrici si ritirano dalla strada, insieme ai loro protettori che sono quelli che davvero fanno paura, che magari nascondono pistole sotto le giacche e non esiterebbero a usarla al primo sguardo storto. I drogati non mi preoccupano perché a qualunque ora della giornata rimangono accasciati per terra: impossibile dire se siano strafatti o morti. In realtà mi fanno solo pena. I matti che borbottano sul marciapiede sembrano meno minacciosi quando puoi vederli in faccia e noti che semplicemente avrebbero bisogno di un aiuto che non arriverà. E l'altra mattina, mentre entravo in una caffetteria, un pappone mi ha salutato alzandosi il cappello, e per mezzo secondo mi sono dimenticato che fosse uno che sfrutta le donne per il proprio tornaconto.

Ma c'è molto altro, in giro: studenti, lavoratori, persone che come me sperano di fare dell'arte il proprio pane quotidiano. Scendo in metropolitana e un uomo d'affari vestito in giacca e cravatta è seduto accanto a un hippie con i capelli lunghi e i sandali. Un negozio cinese è aperto vicino a un ristorante italiano. New York è i suoi abitanti ed essi non sono altro che uno squisito carnevale di contrasti. La città del mondo.

Ecco perché non penso che tornerò a Montreal tanto presto. Ho appena cominciato ad assaporarlo, questo posto così grande e così terribile da essere magnifico. Sì, penso che sia magnifico, che mi appartenga, in un certo senso. Non avevo mai sentito così tanto una connessione con un luogo esistente su questa Terra. Non mi sono mai sentito appartenere a niente, eppure qui è così: sono a mio agio, forse perché apro la porta di questa stanzetta squallida e trovo qualcuno che, probabilmente, è più danneggiato di me. E mi rendo conto che, forse, non l'ho avuta così brutta, che poteva andare peggio. Potevo avere una malattia mentale, potevo rischiare di morire in guerra e portarne ancora le cicatrici, potevo perdere le gambe.

Ho ventun anni, Norman, e da quando sono qui mi sono reso conto di aver sempre vissuto in una bolla. Non sono sciocco: ho sempre saputo che esistono realtà molto più tristi di quella a cui siamo stati abituati (della mia), ma un conto è saperlo, un conto è averci a che fare. Vederlo, respirarlo sulla tua pelle.

Ammetto che, inizialmente, avevo paura. Il portinaio notturno è un tipo con una faccia inquietantissima, ma è sempre stato molto gentile e disponibile con me. Coo-Coo, in particolare, un po' mi spaventava perché ha gli occhi sempre spiritati e molto spesso parla da solo in un sibilo incomprensibile. Poi però, una mattina, mi ha messo in mano il tappo di una bottiglia che penso abbia preso dal suo "nido" e allora ho capito che era una specie di proposta di amicizia. E mi sono chiesto, ma perché si parla sempre male dei tipi come Coo-Coo? "Quello è pazzo, stagli alla larga". Non credo che debba andare così, il mondo. Credo che le persone dovrebbero cercare di avvicinarsi alle altre, soprattutto a quelle più sfortunate perché è proprio in loro che è possibile trovare una genuinità unica. Che cos'hai da proteggere, quando il tuo più grande tesoro è un ammasso di coperte e cianfrusaglie trovate nella spazzatura?

E poi, sabato è successo qualcosa.

Era un po' che, al pomeriggio, passeggiavo nei pressi di Central Park perché sapevo cosa ci sarebbe stato in questi giorni, e ieri l'ho vista: la parata del Gay Pride. Centinaia di persone vestite a festa e, al tempo stesso, impegnate a marciare, a protestare, a far sentire la propria voce per il diritto di esistere. Musica disco rallegrava l'aria da un carro e tutti sventolavano ghirlande colorate, cartelloni divertenti o slogan di protesta. Per un po' sono rimasto a guardarli sfilare sotto i miei occhi. Avrei voluto scendere dal marciapiede e buttarmi in mezzo alla folla, camminare con loro a testa alta. Rendere concreto uno dei motivi per cui volevo così tanto venire qui: perché questa è la città da dove è iniziato tutto questo movimento, otto anni fa. Perché quelle erano le persone che hanno lanciato mattoni e scarpe col tacco contro i poliziotti per fare in modo che una nuova generazione di omosessuali potesse vivere più tranquillamente, senza bisogno di mentire o di nascondersi. Invece, qualcosa mi ha fermato. Una vocina nella mia testa diceva che non era ancora il momento, che non ero ancora pronto. Che dovevo capire qualcosa in più di me stesso, prima di urlare al mondo chi sono. Che ci sono ancora delle crepe aperte, in tutto questo, e devo prima mettere l'intonaco al muro. Intanto, ho sorriso a una drag queen nera che portava un cappello completamente ornato di fiori; e lei (lui? Credo che sia lei) ha sorriso a me. Ha tolto un fiore blu dal suo cappello e me l'ha messo in mano. "Buon Pride, tesoro" mi ha detto, esuberante, e ha continuato la sua strada. Adesso ho quel fiore in mezzo alle pagine de I vagabondi del Dharma. Mi piace pensare che significhi qualcosa. [2]

Adesso devo andare. È ancora presto, ma lo stomaco comincia a borbottare per la fame e c'è un diner qua vicino che fa le migliori colazioni kosher del pianeta. Beh, forse non buone quanto quelle della nostra safta, ma ci si avvicina.

Come mi hai chiesto al telefono, ti lascio l'indirizzo dell'hotel sul davanti della busta. Non hai idea di quanto ti sia grato per l'aiuto economico che tu e Rachel mi state dando. Salutala da parte mia, ti prego. E salutami anche mamma e papà. Chissà, forse, un giorno capiranno.

Con amore,

Leo

 

✰ ✰ 
 

 

Rilesse la lettera più e più volte, controllando che non vi fossero errori, come se poi suo fratello si sarebbe mai sognato di bacchettarlo per delle sviste grammaticali. No, era una cosa tipica di Leo, o forse di chiunque aspirasse a diventare uno scrittore. Infine, ripiegò i fogli in una busta su cui scrisse l'indirizzo di casa di Norman e sua moglie, nonché quello dell'albergo. Si sentiva un po' in colpa a pesare economicamente su suo fratello. Lui sosteneva che non vi fosse alcun problema, di non preoccuparsi, ma come poteva non essere apprensivo riguardo ai propri soldi? Prima o poi avrebbe dovuto cercarsi un lavoro, ma ancora non aveva idea di come risolvere la situazione del visto. Più si guardava intorno, più era certo che la legalità non fosse esattamente di casa, a New York. D'altra parte, l'idea di infrangere la legge e mettere a rischio un papabile datore di lavoro non era una prospettiva che lo entusiasmava.

Si rinfrescò con sapone e con l'acqua del lavandino che aveva in stanza. Non si azzardava a mettere piede nei bagni, faceva eccezione solo quando si svegliava di notte con la vescica piena e tanto gli bastava per farsi salire lo schifo. Rotolare in mezzo agli escrementi sarebbe stato più igienico che entrare in una delle docce, oltre al fatto che qualcuno andava spesso a bucarcisi e lasciava lì le siringhe. Indossò un paio di pantaloni di lino azzurri, una t-shirt a righe e le solite All Star (le uniche scarpe che si era portato dietro). Prima di uscire, comunque, scavalcò il davanzale della finestra e si sedette sulla scala antincendio, intenzionato a fumare una sigaretta. 

Una calma irreale pervadeva la fresca aria mattutina. Sotto di lui, nel vicolo, un addetto alle consegne stava scaricando la merce destinata al ristorante lì di fianco. La sua figura venne offuscata dalla nuvola di fumo che fuoriuscì dalle sottili labbra di Leo, per poi scomparire del tutto dietro una porta.

«Ehi!»

Il ragazzo sobbalzò, colto alla sprovvista. Il giovane con i capelli rossicci era uscito anche lui sulla scala antincendio e ora si trovava a metà strada tra il proprio piano e il suo, come se aspettasse il permesso di salire. Indossava una canottiera bianca sopra un paio di calzoncini blu elettrico e teneva una sigaretta tra pollice e indice.

«Hai da accendere, amico?»

Leo estrasse l'accendino da una tasca e glielo passò.

«Un investimento, eh?» commentò l'altro, una volta che si fu acceso la sigaretta. «Dovrei pensarci pure io. Di solito, vado a fiammiferi, ma finiscono anche prima delle gioie.»

Fu come se l'accendino fosse stato il suo permesso scritto di arrampicarsi sulla scala e sederglisi accanto. Leo lo lasciò fare: quel tipo lo incuriosiva moltissimo. Era certo che non abitasse lì, perché prendeva solo le stanze a ore, e tutto ciò che faceva era scopare. Con donne. Però lavorava al Gaynymedes, un cinema a qualche passo da lì, a cui Leo aveva lanciato fin troppi sguardi incuriositi perché l'altro, seduto dietro il vetro della biglietteria, non lo avesse notato.

«Mi chiamo Leo» si presentò, non sapendo bene cosa dire. Gli porse la mano e il ragazzo si affrettò a stringerla.

«Johnny» disse, «fammi indovinare: non sei di New York, vero?»

«Si nota così tanto?»

«I newyorchesi di nascita li riconosci. Sono quelli che non si stupiscono più davanti a niente. Tu, invece, guardi l'insegna di un cinema porno come se fosse la settima meraviglia del mondo.»

Johnny ghignò, mettendo in mostra gli incisivi, e una serie di minuscole rughe andò a formarsi intorno ai suoi occhietti vispi. Aveva proprio la faccia di uno da prendere a schiaffi per tutto il giorno. «Puzzi di provincia da qui all'infinito.»

«Non così provinciale» fece Leo. «Vengo da Montreal.»

«Gesù, mi correggo! Proprio un mondo a parte!»

Non aveva tutti i torti. Esteticamente, New York e Montreal potevano anche somigliarsi, ma quest'ultima non aveva intorno a sé l'alone di fascino che attraeva ingenui viandanti per poi masticarli e ingoiarli come il lupo delle fiabe.

Johnny tirò un'altra lunga boccata alla propria sigaretta. «Fatti offrire una colazione» propose.

A Leo parve un'ottima idea.

Davanti a un piatto pieno e una tazza di caffè fumante, seduti accanto a una vetrata che dava sulla Nona Avenue, il ragazzo gli chiese cosa facesse mai nella vita.

«Scrivo» rispose Leo, spalmando una generosa quantità di marmellata di fragole su un pezzo di pane tostato. «Poesie, più che altro, ma vorrei lavorare su un libro. Al momento, però, è come se mi mancasse l'esperienza, come se non riuscissi a scrivere di qualcosa che non ho visto con i miei occhi.»

«Per questo sei venuto qui?»

Leo annuì e addentò la propria colazione. «Sono arrivato da appena una settimana e già mi rendo conto di quante storie e vissuti esistono solo nel nostro piccolo hotel.»

«Scrivi di me, allora» ridacchiò Johnny. Bevve un sorso di caffè e si mise in posa, allargando le braccia. «Italiano, orfano del Bronx, cresciuto per le strade di Little Italy. A diciassette anni mi sono arruolato nei Marines e via, cinque anni di servizio in Vietnam!»

Leo deglutì. Era intensa. Gli sembrava che Johnny, così giovane e apparentemente pieno di vita, gli avesse semplificato una realtà che, in fondo, doveva essere molto più cupa e complicata. Glielo leggeva negli occhi, molto più vecchi dell'età che dimostrava, contornati da profonde occhiaie violacee che narravano di sonni tormentati. Lavorare di notte avrebbe dovuto sfinirlo, lasciarlo devastato dalla stanchezza a vegetare nel proprio letto. Invece, sembrava iperattivo, scattante.

«Non è una cattiva idea» borbottò Leo, più a sé stesso che a lui.

Per qualche minuto rimasero in silenzio, ognuno concentrato sulla propria colazione. O forse, Johnny si aspettava che quello fosse il suo turno di parlare. Con quella consapevolezza, Leo cercò velocemente qualcosa da dire ma, ancora una volta, Johnny lo precedette: «Quindi non stai lavorando, al momento?»

Leo scosse la testa. Ingenuamente, non si domandò neppure perché Johnny glielo avesse domandato, ma le ragioni furono più chiare quando lui lo mise al corrente del fatto che stesse aprendo un ristorante insieme ad un amico.

«Abbiamo ancora un paio di pratiche da sbrigare» spiegò Johnny, finendo il proprio caffè. «Ma non sarebbe male portarci avanti nella ricerca di personale. Ti interessa?»

Non lo sapeva, a dirla tutta.  Aveva altre ambizioni, piuttosto che lavorare come cameriere in un ristorante. «Non ho un visto lavorativo» provò a dire, ma Johnny fece spallucce.

«Vieni con me e fatti presentare questo mio amico» disse. «Suo zio è un importante avvocato, un gran pezzo grosso. Sono certo possa farti avere qualunque documento di cui tu abbia bisogno. Chiaro, dobbiamo prima aprire il ristorante. Cerchi una stanza decente, immagino, uh?»

Leo sogghignò: «Mi stai dicendo che hai una stanza libera a casa tua?»

«Io e la mia coinquilina cerchiamo un terzo con cui condividere l'affitto. Quello che avevamo prima è scomparso nel nulla, ha fatto su tutte le sue cose e se ne è andato senza dire niente.» 

Pensieroso, Leo bevve un lungo e lento sorso di caffè. «Quanto sarebbe la quota?» domandò.

«Settanta dollari al mese.» Johnny si sporse in avanti sul tavolo e abbassò il tono di voce: «E non paghiamo l'allaccio dell'acqua!»

Fantastico, un abusivo. Proprio ciò di cui avesse bisogno. Eppure, Leo si ritrovò ad accettare almeno di vedere la proprietà, sperando che non fosse come quel dannato hotel infestato dai ratti che, a lungo andare, gli sarebbe costato maggiormente rispetto a un affitto condiviso.

Così, decise di seguire Johnny nella metropolitana, tentando di nascondere il più possibile l'entusiasmo che lo pervase quando il ragazzo gli disse che l'appartamento in cui viveva si trovava al Village.

«Hai mai saputo se, magari, fosse lo stesso appartamento in cui viveva un tempo William Burroughs?» chiese Leo, appendendosi alla sbarra di metallo.

Johnny gli lanciò uno sguardo, un sopracciglio alzato: «Chi?»

«Niente, niente.» Leo scosse la testa, trattenendo un sorrisetto divertito. Avrebbe dovuto capire subito che Johnny non era la sua anima gemella, né gli sembrava poi questo gran pozzo di scienza. Peccato, comunque: non era mica brutto.

 

 

[1] - L'albergo dove soggiorna Leo è ispirato all'Elk Hotel: all'epoca era uno dei numerosi luoghi che facevano di Times Square una zona infamante, dove le prostitute si intrattenevano con la clientela e dove alloggiavano tranquillamente persone di ogni tipo che bazzicavano nella zona. La particolarità dell'Elk è che è rimasto aperto fino al 2016, nonostante l'attività fosse cessata nel 2012: i proprietari dell'immobile si sono sempre rifiutati di vendere e questo ha fatto dell'Elk l'unico sito della zona sopravvissuto alla riqualificazione urbana iniziata negli anni Novanta. Anche quando era ancora attivo, l'hotel è sempre stato incredibilmente sporco e fatiscente, tuttavia era ancora casa per molti senzatetto, malati mentali, prostitute ecc. che hanno finito per occupare abusivamente le stanze. Tutti i personaggi che Leo descrive in questa lettera sono ispirati alla testimonianza di un giornalista che ha vissuto all'Elk per un certo periodo di tempo, quando l'edificio era ormai destinato alla demolizione. Si trova sul blog Ephemeral New York (che è la mia principale fonte di informazioni) ed è confermata da un utente Facebook nel gruppo dedicato all'Elk Hotel. Perché sì, esiste un gruppo di fan! 

 

[2] - La drag queen di cui parla Leo è Marsha P. Johnson in persona, uno dei simboli di Stonewall. Vi ho già parlato di lei in passato, su questa storia: è stata una delle figure chiave della storia e dell'attivismo LGBT, morta misteriosamente negli anni Novanta. Il suo caso è stato archiviato come suicidio ma un'attivista transgender, negli anni, è riuscita a farlo riaprire grazie a una serie di informazioni sospette. Consiglio sempre il documentario Netflix The Death and Life of Marsha P. Johnson per maggiori informazioni. 
 


 

✨ Angolo Autrice 
 

BUON COMPLEANNO, LEO!! Il nostro poeta preferito è nato proprio il 24 Maggio, perciò ci tenevo davvero molto ad aggiornare su EFP in questa data! Dunque, i lettori affezionati si saranno senz'altro accorti che vi è un major cambiamento nella storyline di Leo ovvero che, grazie al cielo, non finisce per andare a fare il barbone. Mi sembrava la scelta più adatta, in particolare perché Leo è un ragazzo che vive un po' tra le nuvole e voglio lasciargli una percentuale di sogno svampito anziché metterlo subito di fronte alle crudeltà del mondo: ne sarà più esterno, quindi. Inoltre, credo che sia più realistico che Johnny chieda a un ragazzo di essere il suo coinquilino piuttosto che portarsi a casa un vagabondo raccattato dalla strada: certo, quella era una scelta che non stonava con la personalità impulsiva ed altruista di Johnny, ma va bene così. 

Un'altra cosa che ho deciso di cambiare è stato spostare gli eventi della storia dopo il Pride (che all'epoca si chiamava ancora solo Gay Pride: apro questa parentesi per ricordare che negli anni '70 "Gay" era usato come termine ombrello per quasi tutte le identità sessuali e di genere, l'acronimo LGBT sarebbe apparso solamente negli anni '90). Questo perché il capitolo del Pride mi aveva messo in difficoltà, la scorsa volta, perciò, a malincuore, ho deciso di toglierlo, anche se non del tutto. Questo perché vorrei scrivere il prima possibile di un evento storico in particolare accaduto a Luglio 1977, ma non dico altro per non fare spoiler. 

Come al solito, voglio ringraziare di cuore chiunque abbia lasciato una recensione al capitolo precedente, sia che arriviate dagli Scambi (CHE DEVO FINIRE!!) o che siate giunti qui di vostra spontanea volontà. Le vostre parole mi scaldano sinceramente il cuore, mi leggo e rileggo le vostre recensioni e sono davvero sempre molto felice che la storia vi piaccia. Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento. Alla prossima!

 

  
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