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Autore: DarkDemon    26/05/2020    11 recensioni
[STORIA INTERATTIVA - ISCRIZIONI CHIUSE]
«Sai, girano voci, alcuni figli di Apollo dicono di aver avuto delle visioni e l’augure sembra piuttosto irrequieto.» Helen aveva abbassato lo sguardo a terra mentre giocava nervosamente con uno dei suoi boccoli dorati. Boniface non aveva mai parlato con lei nonostante facessero entrambi parte della seconda coorte e la ragazza sembrava piuttosto timida e a disagio. «Tu… voglio dire, anche tu ne sai qualcosa no? Sto ancora imparando tutti questi dei, ma tu sei figlio di Giano, no? Qualcosina riesci a vederla.»
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Il ragazzo si voltò verso di lui con sguardo preoccupato. «Amico mio, prega che non sia chi penso, altrimenti… bhe, siamo in una montagna di merda.»
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«Semidei, siete ragazzi valorosi, mi dispiace essere io il portatore di cattive notizie, ma ho bisogno del vostro aiuto, tutti noi ne abbiamo.»
[...]
«Ah, figlia di Venere, la tua domanda è in realtà legittima.» Sorrise e tornò a chiudere gli occhi. «Io sono Astreo.»
«Titano degli astri, delle costellazioni e dell’oroscopo.»
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Dei Minori, Nyx, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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   Quella mattina il cielo non era più altrettanto sereno come il giorno precedente, pesanti nuvole grige si avvicinavano da est e probabilmente entro mezzogiorno avrebbero avuto una bella piovuta. L’aria sapeva di ozono e di pioggia, facendo pizzicare il naso e il vento gelido, non più scaldato dai raggi del sole, si infiltrava nel collo e nelle maniche.
    
Cesare camminava tranquillo mentre dal campo si dirigeva verso Nuova Roma. Aveva appena avuto una veloce riunione con i dieci centurioni riguardante le attività di quella mattina. Nonostante il recente sviluppo degli eventi, non avrebbe avuto senso interrompere le normali attività, sopratutto ora che più che mai avevano bisogno di legionari pronti ed allenati.
    
Aveva le mani in tasca e camminava abbastanza rilassato, nonostante la sua mente non lo fosse altrettanto, concentrata invece su ciò di cui presto avrebbero discusso in senato.
   
«Dove vai e per che motivo?!» Tuonò una voce alla sua destra, facendolo sobbalzare leggermente. Era quasi giunto alle porte della cittadina e questo implicava l’apparizione di Terminus, una routine che non aveva comunque del tutto assimilato e che lo coglieva sempre di sorpresa, anche quando stava attento e aspettandosi da un momento all’altro il suo arrivo.
   
«Sai chi sono e anche perché sto andando in città.» Mormorò tranquillo, roteando gli occhi.
   
«Non faccio privilegi, pretore Nowak.» Continuò imperterrito il dio, facendogli sollevare un sopracciglio divertito. Non poteva dire di aver conosciuto molte divinità in vita sua, ma si augurava di cuore che non fossero tutte come Terminus, altrimenti capiva bene come mai fossero sempre i semidei a dover fare il lavoro sporco. Cercò di non soffermarsi troppo su quel pensiero, ben consapevole che gli dei conoscevano più delle parole di loro mortali.
   
«Cesare Nowak, pretore. Sto andando in Senato.» Disse tranquillo, sperando che la divinità non fosse in vena di chiacchiere: era certo Cesaria fosse già là ad aspettarlo, lo sguardo fisso sull’orologio per potergli dire i minuti esatti di ritardo. Per sua fortuna la statua sparì nel nulla e lui ebbe il permesso di entrare nella città. Non era particolarmente presto, ma le strade erano ancora mezze vuote, nonostante i negozi fossero già aperti. La strada lastricata era coperta da un leggero strato d’umidità depositata lì durante la notte e le sue timberland producevano un suono ovattato mentre procedeva verso il palazzo del senato.
   
Come previsto Cesaria era già lì, nella stanza sul retro, la toga porpora già indosso sopra la salopette di jeans sporca di tempere. Era seduta a gambe incrociate sopra una scatola di legno che conteneva probabilmente vecchie toghe e qualche documento ormai ingiallito; quando Cesare entrò i suoi occhi blu caddero dall’orologio sopra la porta a lui.
   
«Due minuti e diciassette secondi.» Il volto era poggiato alla mano mentre lo guardava annoiata. Sapevano entrambe che la figlia di Venere non era così fiscale come dava a credere e che lo faceva solo per dargli fastidio, ma al contempo anche quella era diventata una sorta di abitudine.
   
«Beh faccio progressi.» Ridacchiò, avvicinandosi alla rella dove le varie toghe erano appese. Ogni stampella aveva infilato un cartellino con su scritto il nome del proprietario e un disegnino identificativo fatto da Cesaria: Cesare aveva un panda rosso. La spiegazione della ragazza era stata che lui era un orsacchiotto, ma a causa dei suoi tratti asiatici aveva deciso di assegnargli come animale guida il panda rosso. Tutto sommato gli era anche andata bene considerato ad un senatore aveva disegnato un insettino stilizzato, si era giustificata dicendo che gli insetti sono animali essenziali per l’ecosistema. In un secondo momento aveva poi rivelato a Cesare che quella era chiaramente una zanzara: inutile e fastidiosa.
   
Cesare e Cesaria. Una coincidenza fin troppo ridicola per essere puramente casuale. Avevano scherzato più volte sull’idea di reintrodurre il saluto “ave”, tuttavia nessuno dei due aveva l’esuberanza di credere così tanto nel proprio nome.
   
«I centurioni?» Chiese la ragazza, appoggiando la schiena al muro e guardandolo mentre si avvolgeva nella toga purpurea.
   
«Sono abbastanza tranquilli, a modo loro. Alleneranno i ragazzi come sempre, se poi dovesse piovere vedremo cosa fare, magari teoria al chiuso.»
   
La ragazza roteò gli occhi sbuffando: «Lo sanno vero che i mostri li attaccano anche quando piove?» Era sempre stata una ragazza decisa e realista e spesso non concepiva che la gente avesse delle debolezze, oppure cose come il raffreddore. Per lei erano semplici problemi collaterali perfettamente risolvibili.
   
Cesare dal canto suo, per quanto la pensasse bene o male nello stesso modo, possedeva un briciolo di buon senso in più. Tra i due era quello che si occupava di più dei ragazzi, dei nuovi arrivati e delle attività. Era più predisposto a rapportarsi con piccoli gruppi di persone che non a parlare alle folle o tenere in piedi un’assemblea in senato: per quello c’era Cesaria, sicuramente lei sapeva come farsi notare.
   
Dopo aver ritmato un piccolo motivetto sulle cosce con le mani si alzò, sistemandosi la toga che nel suo sedersi scompostamente era andata completamente disfatta. Si avvicinò al ragazzo e gli sistemò meglio il tessuto sulla spalla, un sorriso divertito sulle labbra. «Tre anni di servizio e ancora non hai imparato a farlo decentemente.» In realtà non c’era nulla di sbagliato nel modo in cui Cesare metteva le toghe, Cesaria era semplicemente fissata con il bello e la precisione, in quei casi.
   
«Perdonami se non ho ancora raggiunto il livello massimo di panneggio umido.»
   
«Bagnato. Si chiama panneggio bagnato. Non farlo suonare ancora più equivoco di quanto non sia già, ti prego.» Rise e gli diede due schiaffi leggeri sul braccio. «Andiamo, abbiamo un modo da salvare.» Sospirò e si avviò verso la pesante porta in legno.

 

 

   Il senato era una stanza quadrata dal soffitto alto. Due livelli di sedute erano disposte a semicerchio lungo tre pareti di essa, affacciandosi su uno spiazzo centrale, dove una piccola sedia da pescatore era stata momentaneamente posizionata per permettere ad Astreo di sedersi. Sull’ultima parete libera c’era la piccola tribuna dei pretori e, di fianco la loro pedana, la sedia dell’augure. Le sedute in legno intagliato sembravano dei piccoli troni, ma era ormai anni che colorati cuscini dalle dubbie fantasie coprivano ogni sedia. Era stata una delle prime decisioni prese da Cesaria e uno dei suoi punti forti in quella che era stata un improvvisata campagna elettorale. Restava ancora una delle cose di cui andava più fiera.
   
Appollaiato nel suo scranno Quin succhiava un lecca-lecca mentre leggeva un libricino, la testa pigramente appoggiata alla mano. Nonostante la seduta fosse relativamente piccola, il ragazzo era talmente minuto da riuscire a rannicchiarvisi comodamente.
   
«Buongiorno.» Mormorò, senza alzare lo sguardo dal libro. I capelli colorati erano ancora più scompigliati del solito e sotto la toga aveva una maglietta oversize che gli faceva praticamente da abito.
   
I due pretori mormorarono un saluto in risposta e si sedettero ai loro posti. Cesare fece vagare lo sguardo sulle tribune che piano piano andavano riempiendosi di senatori. Alcuni di loro erano adulti, altri ragazzi ed altri ancora anziani. Un ometto secco e curvo entrò strisciando i piedi e si diresse con una lentezza snervante verso il suo sedile, facendo risuonare per tutto il senato il suono delle sue babbucce. Cesare si voltò a guardare Cesaria che seguiva con sguardo irritato quello che per lei ora si chiamava ufficialmente “Zanzara”. Il senato era illuminato sia dalla luce che entrava dalle finestre che dal lampadario che pendeva dal soffitto e forse fu per quello che solo in quel momento che se ne accorse. Mentre osservava la ragazza c’era qualcosa di diverso sul suo viso che non riusciva bene a collocare. Era… riposata? Tutto sul suo viso sembrava rilassato e persino le occhiaie profonde sembravano quasi essersi sbiadite leggermente. Sbatté le palpebre perplesso. «Cesaria..?» La chiamò. La ragazza si girò verso di lui alzando un sopracciglio chiaro. «Hai dormito?» Chiese stupito: non era la prima volta che la vedeva in quello stato, ma di solito avveniva solo di lunedì, dopo che aveva passato un week-end a dormire e recuperare tutte le notti insonni della settimana.
   
«Può essere.» Disse sbrigativa, un sorrisetto divertito sul volto. Cesare allungò una mano per toccarle la fronte. «Oh dei, non avrai la febbre vero? Oggi è giovedì.» Disse, lo sguardo fintamente preoccupato.
   
«Ho solo pensato che data la situazione fosse meglio riposare.» Sbottò.
   
«Cazzate, ieri Angelika è andata da lei.» Disse dal suo angolino Quentin, gli occhi verdi ancora abbassati sul libro, anche se sul volto da folletto aveva un sorriso divertito.
   
«Stronzo.» Borbottò la ragazza.
   
«Ah ecco, ora ha più senso. Quindi, ti sei divertita.» Cesare appoggiò il mento alla mano, sporgendosi verso di lei.
   
«No.» Roteò gli occhi. Non era del tutto una bugia, la serata non era di certo iniziata nel migliore dei modi. Non aveva ancora incontrato Angelika, ma sapeva che appena si fossero viste, l’aspettava una bella sfuriata, probabilmente anche meritata.
   
«Oh certo. Una noia mortale scommetto.»
   
«Senti, lo sai che non ho il minimo imbarazzo ad ammettere se ho fatto qualcosa, se non ti dico nulla è perché non c’è niente da raccontare.» Terminò. Era effettivamente vero, non era successo nulla quella sera, solo baci e nulla più, poi un po’ per l’alcool e un po’ per la stanchezza si era addormentata, non senza che Angelika l’obbligasse ad andare a letto e la coccolasse fino a che non era stata certa dormisse davvero. Quando al mattino s’era svegliata, la figlia di Luna era sparita, probabilmente se n’era andata già da parecchie ore, per non far chiacchierare troppo la coorte.
   
Cesare si appoggiò allo schienale nel momento in cui la porta si aprì ed entrò un vecchio accompagnato da un robusto figlio di Esculapio. Era secco e dai capelli bianchi, ma i suoi occhi erano svegli e vigili, allontanò gentilmente il semidio e si diresse da solo verso la sedia, sedendosi pesantemente. Tutti nel Senato s’erano alzati e il vecchio sorrise e con un cenno fece segno di sedersi. A guardarlo in faccia Cesare capiva come mai il figlio di Giano lo avesse portato dentro senza esitazione: era tutto meno che mortale.
   
«Divino Astreo, benvenuto. Spero si sia riposato.» Disse cordialmente Cesaria, osservandolo come a tentare di capire se fosse cambiato qualcosa nella figura dell’uomo, tuttavia nulla era diverso dalla sera precedente.
   
Il titano chinò il capo cordialmente in risposta, un sorriso tranquillo sul volto. «La ringrazio Pretore.» Si guardò attorno e nel vedere che tutte le sedute erano ormai occupate prese parola, saltando di netto tutti le varie formalità che solitamente precedevano l’inizio di una seduta. Cesare si voltò verso un uomo di circa quarant’anni che sedeva in uno scranno laterale, davanti ad un piccolo banchetto con una macchina da scrivere. L’uomo guardava prima lui, poi il macchinario e poi il dio, smarrito. Con un cenno il pretore gli disse di iniziare a scrivere.
   
Il ticchettio della macchina da scrivere iniziò a risuonare per la stanza, interrompendo il dio che guardò l’uomo un po’ confuso per poi ritornare a parlare. Erano tutti ben consapevoli che era un oggetto antiquato e scomodo, ma era l’unico mezzo che non interferiva minimamente con barriere, divinità e foschia.
   
«Dunque, dicevo come Ofiuco stia tentando di sovvertire l’ordine delle cose. Secondo alcuni mortali che auspicano la sua presenza nello zodiaco, il suo dominio dovrebbe iniziare il 30 Novembre.» Fece vagare lo sguardo sui presenti come in attesa di una domanda, che tuttavia non arrivò. Trasse un respiro stanco e riprese a parlare: «Quest’anno inoltre il 30 novembre è Luna nuova. Per questo ha atteso così tanto: in assenza della luna le stelle hanno il loro massimo potere. E’ il momento in cui è più potente ma anche quello in cui tutte le altre stelle lo sono, la nostra possibilità.»
   
Il senato era immerso nel silenzio quando Cesaria si alzò, stiracchiandosi per frugare nelle tasche della salopette nascoste tra le pieghe della toga per estrarre un pacchetto di sigarette spiegazzato e un accendino. La accese con calma, ben consapevole degli occhi posati su di lei. «Scusate, non volevo interrompere. Quindi, abbiamo trentacinque giorni per liberare dodici costellazioni, trovarne una tredicesima che sta cercando di distruggere l’ordine cosmico e salvare il mondo, corretto?» Chiese tornandosi a sedere sullo scranno e portandosi la sigaretta alle labbra. In una frase era riuscita a rendere tutto ancora più complesso di quanto già non sembrasse.
   
«Come sapremo chi verrà scelto dai segni?» Questa volta fu Cesare a parlare. Non era un grande oratore e tendeva a lasciare che fosse la figlia di Venere a portare avanti le sedute in Senato, tuttavia quella era una domanda diretta al solo titano, che ora lo guardava attentamente. Si sistemò sulla sedia leggermente a disagio nel sentire il peso di quello sguardo millenario su di se.
   
«Domanda più che legittima, pretore. Sta notte, incanalerò la già debole energia dello Zodiaco e la rilascerò tra di voi. Questa energia si legherà a dodici persone, conferendo loro una frazione di potere.» Astreo sospirò rilassandosi contro lo schienale della propria sedia. «Mi costerà molta fatica: dopo di ciò, non sarò in grado di mantenere la mia forma mortale qui sulla terra. Se avete domande, è questo il momento.» La risposta non aveva minimamente soddisfatto Cesare, che continuava a non capire esattamente in che modo la scelta si sarebbe svolta, ma non se la sentiva di chiedere nuovamente spiegazioni. Dopo tutto gli stava andando anche troppo bene: nessuna profezia e nessuna scommessa nel mandare semidei in missione, sperando che fossero effettivamente quelli prescelti. Si passò una mano sul mento, osservando il resto del Senato, cercando di capire se qualcuno avesse effettivamente qualcosa da chiedere. Un movimento alla sua sinistra attrasse il suo sguardo: Quentin aveva alzato il braccio per aria, fissando Astreo in attesa di ricevere la parola come uno scolaretto. Il titano sorrise divertito al gesto dell’augure e con un cenno delle mani lo invitò a parlare.
   
«Spero di non sembrare indelicato, ma perché si trova qui e non al Campo Mezzosangue? Dopotutto lei non è… una nostra divinità.» Chiese abbassando il braccio e sistemandosi a gambe incrociate sul proprio scranno. Con la toga sarebbe potuto sembrare quasi un qualche monaco eremita, compostamente appollaiato sulla cima di una montagna, se non fosse stato per i capelli colorati e le stelline verde evidenziatore che si era disegnato quella mattina sugli zigomi. Un leggero mormorio si levò nella stanza, unito allo scricchiolare delle sedie di legno. L’augure aveva appena dato voce ad una domanda più che legittima a cui nessuno però aveva davvero pensato. Il sospiro di Astreo richiamò l’attenzione facendo tornare il silenzio.
   
«Sei un ragazzo sveglio, augure. Non ti sbagli, io appartengo infatti al pantheon greco, tuttavia, paradossalmente, il dominio è legato più a voi romani. I pianeti portano tutti nomi romani, essi sono essenziali nell’astrologia e nella lettura del cielo. Inoltre so per certo che la maggior parte dei semidei che lo zodiaco sceglierà verrà da questo campo, è tutto quello che sono riusciti a dirmi.»
   
Cesare si ritrovò stranamente sorpreso, non aveva minimamente considerato i colleghi di Long Island e non sapeva se fosse sollevato o no all’idea che alcuni di loro avrebbero dovuto unirsi a quella missione. Sicuramente significava meno eventuali perdite da parte loro, ma al contempo temeva che la differenza di addestramento potesse risultare in eventuali problemi organizzativi.
   
«Ha avuto modo di informarli di quanto accadrà?» Chiese. Si umettò le labbra e si voltò verso Cesaria che proprio in quel momento faceva cadere un po’ di cenere della sigaretta in un posacenere posto in precario equilibrio sul bracciolo del suo scranno. Le picchiettò il braccio ed allungò la mano per farsi passare la sigaretta. La ragazza mimò con una smorfia seccata un ‘no’ muto, mentre faceva un tiro, non volendo disturbare il titano che stava rispondendo ora ad un’altra domanda dell’augure.
   
«Solo un tiro, non voglio accenderne una nuova.» Bisbigliò. La figlia di Venere cedette finalmente allungandogli la sigaretta e lasciandogli fare un tiro. Quella di fumare era un abitudine che non aveva prima di diventare pretore, glie era in fatti stata passata d Cesaria, anche se paragonato a lei era pressoché un fumatore occasionale. Oltre al nome e alle sigarette avevano in comune un particolare di cui non tutti erano a conoscenza, avevano entrambi un piercing sulla lingua. Questa buffa coincidenza era stato uno dei loro primi argomenti di discussione. Il risultato era una coppia di pretori improbabili, dai nomi buffamente pretenziosi ed accurati per quel ruolo accomunati da linee sottili ma ben diversi caratterialmente; cosa che alla fin fine creava una coppia valida per il comando.
   
«...quindi si, consiglio una chiamata con il Campo Mezzosangue in preparazione a questa sera» Terminò Astreo. Cesare fece un lungo tiro e ignorò la mano di Cesaria, tenendosi la sigaretta ancora per un po, intenzionato a farne un secondo.
   
«Li chiameremo dopo pranzo, lei potrà riposarsi in infermeria, penso avrà bisogno di quante più forze possibili per sta sera.» Disse pacatamente Cesaria, il braccio ancora teso verso il figlio di Aurora. «Se nessuno ha altre domande, ritengo la seduta conclusa.» Continuò guardandosi attorno. Aspettò qualche secondo in cui osservò lo sguardo dei senatori, chi impassibile e chi faceva piccoli cenni per confermare alla ragazza che poteva concludere li la seduta.
   
«Molto bene.» Si alzò, seguita da Cesare, il quale gli restituì velocemente la sigaretta.. «Divino Astreo, la ringraziamo del suo tempo. Senatore Jones, confido che le copie dei rapporti siano fatti avere alle coorti entro pranzo.» Disse con un piccolo cenno all’ometto alla macchina da scrivere, che annuì vigorosamente. «Buona giornata a tutti.» Con un ultimo cenno del capo al Titano scese dalla pedana avviandosi fuori dalla stanza, portandosi la sigaretta ormai quasi terminata alle labbra.

 

 

   Verso est il cielo aveva iniziato ad appesantirsi di pesanti nuvole scure che minacciavano di abbattersi pesantemente sul campo da un momento all’altro. Fino a una decina di anni prima questo non avrebbe minimamente preoccupato i semidei del Campo Giove, tuttavia da qualche anno ormai si era deciso di lasciare che le barriere di entrambi i campi non filtrassero completamente gli eventi atmosferici, in quanto l’ambiente tutelato in cui si allenavano non rispecchiava ciò che li attendeva una volta superate queste ultime. Agli occhi di Hercules, sembrava proprio che nel giro di poche ore avrebbero avuto un bell’acquazzone, poteva già sentire il pungente odore della pioggia solleticargli le narici mentre osservava la massa scura avanzare.
   
Un grido soffocato attirò la sua attenzione, costringendolo a spostare gli occhi verdi dal cielo ai propri legionari, intenti ad ad allenarsi a duello sparsi per il campo. Ad una trentina di metri da lui un ragazzino aveva una mano sul naso sanguinante mentre una ragazza dalla pelle olivastra era chinata su di lui con sguardo preoccupato.
   
«Oddio scusami! Non avevo visto che mi eri venuto dietro! Però è stata una gran bella mossa!» Sorrise, sperando di sollevare un po’ il morale del poverino che aveva gettato la testa all’indietro nel tentativo di non sgocciolare tutto il sangue sull’armatura e la maglia, anche se ormai era troppo tardi.
   
«Barton! Tutto bene?» Accorse il figlio di Cerere, la mano destra che frugava disperatamente in una delle numerose tasche dei pantaloni color kaki, tirandone fuori un pacchetto di fazzoletti un po’ stropicciato. «Nice, cosa ti ho detto riguardo l’usare il martello con i nuovi arrivati?» Chiese canzonatorio mentre si chinava sul ragazzino allungandogli un fazzoletto e gli dava indicazioni base per evitare che il sangue andasse al cervello.
   
«Lo so benissimo, a mia discolpa posso dire che gli ho dato una gomitata e non una martellata?» Sorrise angelica la figlia di Venere che lo guardava sorridente, le braccia toniche incrociate sul petto, il fidato martello da guerra poggiato ai piedi come un fedele animale da caccia. «Però ehi, è stato bravo, me lo sono trovata dietro in mezzo secondo, peccato che mentre caricavo il colpo l’ho colpito con il gomito.» Si strinse nelle spalle accennando un sorrisetto colpevole.
   
«Va bene, ho capito… Mason vai in infermeria a farti fermare l’emorragia, poi torna qui, non sei ferito a morte.» Sospirò il centurione rialzandosi, spazzolando con una mano il ginocchio che aveva posato a terra, più per abitudine che non per un vero interesse nel pulirli.
   
«Hanno intenzione di farci allenare anche se piove, vero?» Domandò un po’ sconsolata Bernice, lo sguardo verde perso verso l’orizzonte scuro. Hercules annuì piano sospirando, capiva benissimo il pensiero dei pretori e lo condivideva, ma teneva ai propri ragazzi probabilmente più di loro e non era mai divertente trovarsi mezza coorte con il raffreddore e la tosse, sopratutto di notte quando dormire diventava quasi impossibile, con il silenzio interrotto puntualmente da un colpo di tosse o da qualcuno che si soffiava il naso. «Già, ma Cesare ci ha detto che se piove forte faremo qualcosa di teorico.» Sul volto della ragazza si allargò un sorriso soddisfatto e dal luccichio nei suoi occhi sapeva già cosa stava per chiedergli: «Posso finire quel corso di cucito dell’altro giorno?» Un espressione implorante dipinta sul bel volto.
   
«Per me va bene, ma è tua sorella quella che devi convincere.» Si strinse nelle spalle il figlio di Cerere. Sapeva che tra i due pretori la figlia di Venere era quella più difficile da convincere, anche se ormai aveva capito che la metà delle volte si opponeva alle cose solo per il gusto di farlo, cedendo poi all’ultimo, quando ormai stavi per gettare la spugna.
   
«Cesaria si attacca, quando in una missione le si staccherà un bottone di una delle sue salopette e non saprà come ricucirlo mi penserà.» Liquidò la faccenda con un gesto della mano.
   
Bernice aveva sempre dimostrato una grande attenzione per i nuovi arrivati al campo tant’è che era diventata un aiuto prezioso nell’organizzazione pur non avendo alcun ruolo reale. Si occupava di fare tour alle nuove reclute e organizzava corsi per imparare cose basilari ma per nulla scontate, come cucito o cucina. Se in un primo momento avere il permesso di organizzare queste attività non si fosse dimostrato semplicissimo, quando la voce aveva iniziato a girare aveva finito per trovare l’appoggio di diverse persone, sopratutto tra i più anziani, che ormai erano stufi di sentire raccontare la mitologia romana ogni estate da capo durante i giorni di brutto tempo.
   
«Sicuramente la conosci meglio di me, parlane tu con lei.»
   
«Ehi ehi, fate salotto senza invitarmi?» Proruppe una voce alle spalle della figlia di Venere, facendola voltare con un sorriso. Maia era decisamente bassa, ma non per questo era da sottovalutare. Teneva il proprio giavellotto ben piantato per terra, appoggiandovisi leggermente. La mano libera era poggiata sul fianco e dal braccio pendeva una felpa decisamente troppo grande per il suo corpicino. Il viso da folletto era lucido vicino ai capelli color grano per il sudore che le copriva le braccia lasciate scoperte dalla maglia a maniche corte, mettendo in mostra gli innumerevoli tatuaggi che le ricoprivano.
   
«Niente salotto, la tua morosa qui ha quasi rotto il naso ad uno dei ragazzini arrivati la scorsa estate.» Spiegò Hercules sospirando, le braccia incrociate al petto.
   
«Non ho fatto apposta! E non è la mia morosa, lo sai.» Protestò Bernice, avvolgendo però un braccio attorno alle spalle dell’altra ragazza.
   
«Magari, Herc caro, magari.» Sospirò la figlia di Marte, appoggiandosi all’amica con un sorrisetto divertito. «Mi ammazzi i novellini? Pensavo tu fossi quella che se ne prendeva cura.» Aggiunse alzando lo sguardo su di lei.
   
«Me lo rinfaccerete per sempre vero?»
   
«Molto probabile.» Rise e in quel momento una goccia le cadde sulla punta del naso, portandola ad incrociare gli occhi azzurri. «Uh uh, temo stia iniziando.» Canticchio, ancora prima di finire la frase un rombo lontano le rispose e poco dopo una sottile pioggerellina cadeva su di loro, quasi minimamente percepibile. Si accorse che buona parte dei ragazzi si erano fermati, tra chi guardava il cielo e chi cercava con lo sguardo i due centurioni della propria corte per capire cosa fare. Con un sospiro Maia si staccò dall’amica e allontanandosi un poco sventolò la lancia per aria, attirando l’attenzione dei ragazzi.
   
«Amori sono tre gocce d’acqua, fin tanto che è così andate avanti ad allenarvi e non pressate l’anima.» Gridò, poté sentire chiaramente un significativo numero di persone lamentarsi e brontolare, ma non se ne curò minimamente. Osservò Hercules allontanarsi con una corsa leggera verso una ragazza alta e dai lunghi capelli biondi che la stava osservando da una ventina di metri, le braccia conserte il viso un po’ imbronciato. La figlia di Apollo doveva chiamarsi qualcosa tipo Virginia ed era, tecnicamente, la sua compagna di allenamento, peccato che l’avesse piantata in asso appena a questa era caduto il gladio. Le mostrò la lingua con un sorrisetto colpevole per poi voltarsi verso Bernice.
   
«Beh che dire, mi concedi questo ballo?» Disse, aggiustando la presa sul giavellotto.

 

 

   Nonostante l’effetto fosse decisamente scenico e bello, Ansel non amava particolarmente le strade lastricate di Nuove Roma. Erano curate, pulite e senza dubbio particolari, tuttavia erano scomode per girarvici in skateboard. Non che per lui fosse un particolare problema, ma una strada asfaltata era sempre decisamente più comoda. Il figlio di Nettuno amava tutto ciò che prevedesse una tavola, che fosse surf, snowboard o lo skateboard, con cui si muoveva per andare praticamente ovunque.
   
La seduta in senato si era appena conclusa e onestamente non sapeva cosa pensarne. Gli sembrava una storia decisamente ridicola, non vedeva e non capiva come l’aggiunta di un segno zodiacale potesse portare ad una cosa come la distruzione dell’ordine di tutte le cose. Era davvero un dramma così grosso? Gli sembrava davvero che tutti stessero esagerando, tuttavia non aveva interesse o ragione di esprimere la sua opinione.
   
Quando la sera prima gli era arrivata la lettera dei pretori per la seduta dell’indomani, non lo negava, aveva roteato gli occhi. Il suo ruolo in senato era qualcosa di indeterminato, era quasi più li a far numero che non a collaborare effettivamente. Veniva convocato solo quando ce ne era assoluta necessità, non per ogni minima sciocchezza, ma anche in quelle occasioni si limitava ad ascoltare in modo passivo.
   
I palazzi di Nuova Roma scorrevano veloci ai suoi fianchi mentre usciva dalla città, diretto al campo. Ormai aveva concluso i propri anni di servizio da tempo e le numerose tacche sul suo avambraccio non facevano che confermarlo, tuttavia era rimasto ingiro per dare una mano, insegnare qualche tecnica base di combattimento e gestire un po’ i ragazzi, che sembravano moltiplicarsi di anno in anno. Non che Ansel fosse un ragazzo particolarmente laborioso o altruista, ma non avrebbe comunque avuto niente di meglio da fare. Era sempre stato un po’ atipico, cresciuto in un ambiente dalle poche regole, queste erano a lui piuttosto estranee anche come concetto stesso. Al campo finiva per insegnare di più quella che alcuni ragazzi avevano soprannominato “l’arte dell’improvvisazione”. La dove il Campo Giove imponeva regole, formazioni rigide e disciplina militare, lui trovava spazio per uno stile di combattimento più istintivo e libero: se l’affondo ti viene scomodo in un certo modo, non è necessario ammazzarsi di allenamento per impararlo, scartalo e trova un modo tuo che non ti risulti scomodo. Unica regola: non morire.
   
Aveva sempre trovato divertente come, dopo le sedute in senato, lui fosse sempre il primo ad arrivare al campo. Inizialmente i ragazzini gli correvano incontro per chiedergli novità e informazioni, ma avevano presto imparato che non gli avrebbero estorto una parola in quanto non era esattamente un ragazzo loquace. Si fermò pochi secondi quando la statua di Terminus gli apparve di fianco con fare minaccioso, tuttavia, dopo tredici anni, era una cosa che il dio stesso quasi sorvolava, volatilizzandosi pochi secondi dopo. Raggiunse velocemente il Campo Marzio dove i ragazzi erano sparsi ad allenarsi a duello. Gli abiti erano scuriti dalla pioggerellina e i capelli di tutti quanti iniziavano ad inumidirsi ed attaccarsi fastidiosamente al corpo. Strinse gli occhi chiari alla ricerca di un centurione e lo trovò quando finalmente vide la possente figura di Hercules allenarsi poco lontano da lui. Lasciò lo skateboard fuori dal campo e si incamminò verso il figlio di Cerere, le mani nelle tasche dei jeans.
   
«Ehi, Herc.» Lo chiamò piano e se non fosse che il ragazzo era ormai abituato ad individuare la sua voce bassa avrebbe dovuto richiamarlo più volte. Si girò piano, alzano una mano per fermare la sua compagna che non sembrava entusiasta all’idea di non poter finire neppure quel duello.
   
«Ansel. Già finito?» Chiese, quasi più per gentilezza che non per avere una vera e propria risposta. Hercules era probabilmente tra i ragazzi più responsabili al campo e quindi quello con cui il figlio di Nettuno si era trovato ad interagire maggiormente. Non che lo considerasse un amico, ma non erano nemmeno completi sconosciuti. Herc poteva dire di conoscerlo abbastanza bene, almeno quanto bastava per poterci interagire umanamente e sapeva altrettanto bene che non avrebbe risposto a quell’ovvia domanda e che nemmeno avrebbe aggiunto altro se avesse lasciato cadere la discussione in quel momento. «Quindi, ci alleniamo fino a che non piove tanto e poi facciamo cose teoriche al coperto. Probabilmente Bernice finirà il corso di cucito che ha iniziato l’altro giorno. Ti andrebbe di prendere un gruppo per un po’ di mitologia?»
   
Ansel non era una cima, la sua educazione era disseminata di terribili lacune riguardante anche le cose più basilari, ma l’essere stato adottato e cresciuto da due semidei gli aveva assicurato un’infanzia ricca di miti e racconti che lo rendevano ora decisamente esperto in materia. Non sapeva fare uno studio di funzione, ma trovava decisamente più utile sapere di non tagliare le testa ad un idra.
   
Annuì piano, un sorriso di cortesia dipinto sul viso come al solito. «Se c’è qualche ragazzino da solo mi alleno io con lui, altrimenti vi aspetto al coperto.» Non che la pioggia gli desse fastidio, anzi, gli piaceva, tuttavia era abbastanza pigro da non voler aspettare in piedi sotto la pioggia aspettando che questa aumentasse.
   
Hercules scosse la testa. «No grazie, non ce n’è bisogno.» Alzò lo sguardo verso il cielo, stringendo gli occhi verdi nella pioggia. «Tanto penso che aumenterà tra poco.»
   
Con un cenno del capo Ansel si congedò, andando a recuperare il proprio skate. Si diresse verso i cinque padiglioni che avevano costruito appena fuori dal Campo Marzio, dopo la modifica alla barriera pochi anni prima, non avere un posto coperto dove fare attività era presto diventato un problema, quindi per qualche mese i ragazzi avevano lavorato a gruppi per costruire cinque padiglioni che potessero ospitarli in giornate come quelle. Erano decisamente imperfetti e solo da qualche anno avevano colato del cemento per livellare ed alzare un po’ il terreno. Il figlio di Nettuno ricordava chiaramente i suoi giorni di servizio in cui l’acqua colava nei dislivelli del terreno, creando pozzanghere ben peggiori e più fastidiose di qualche goccia in testa.
   
Si sedette su uno dei tavoli da picnic, i piedi sulla panca, guardando i ragazzi allenarsi.

 

 

   Quando Boniface aveva visto i pretori arrivare al Campo Marzio era subito corso da loro, i capelli ricci umidi e appiccicati alla fronte. Prima di raggiungerli aveva provato a pulirsi gli spessi occhiali, accorgendosi troppo tardi che si trattava di una cosa pressoché impossibile. Sbuffò leggermente e chiamò piano l’attenzione di Cesare, che si era allontanato da Cesaria e procedeva verso la sua metà di campo.
   
«Ehi, scusa, posso andare da Astreo?» Chiese sbrigativo giochicchiando nervosamente con le dita sulla lancia. Si rendeva conto che la domanda potesse sembrare strana ed era quasi completamente certo che il figlio di Aurora non lo avrebbe lasciato scappare dalla pioggia tanto facilmente. Tuttavia aveva davvero bisogno di parlare con il titano e non era esattamente propenso all’idea di dirlo al pretore. Non si conoscevano molto se non di vista e per questo l’intera situazione lo metteva ancora più a disagio.
   
Cesare lo guardò pensieroso, non sapeva se stesse cercando di ricordarsi il suo nome o se cercasse di capire quali fossero davvero le sue intenzioni. Si guardò alle spalle per vedere dove fosse Cesaria per poi tornare a posare lo sguardo su di lui con un sospiro. «Okay, sei tu che lo hai trovato no? Cerca di non metterci troppo, o tra mezzora vengo a prenderti di peso.» Il suo sguardo era serio ma il suo tono era abbastanza ironico. «In infermeria, dovrebbe essere li con lo gnomo arcobaleno.» Disse ridendo, indicando con il mento verso la struttura bianca poco lontana.
   
«Grazie mille, prometto che non serviranno sequestri di persona.» Sorrise riconoscente e si avviò a passo veloce verso l’infermeria.
   
Quella notte aveva dormito poco e rigirandosi nel letto si era chiesto se Astreo sapesse qualcosa dei suoi sogni e del perché non funzionassero più come una volta. Non aveva il dono della profezia, che gli dei lo scampassero, ma gli capitava di avere il visioni, di solito di pochi secondi, sul futuro, anche se era capitato di averne anche sul passato. Aveva imparato a distinguerle dai sogni normali perché quando si svegliava piangeva, ma sempre solo da un occhio. Non sapeva se ci fosse una correlazione effettiva tra la sua eterocromia e la sua discendenza divina, ma sospettava di sì. Quando aveva visioni del futuro gli lacrimava l’occhio destro, quello azzurro, quando invece sognava il passato era quello sinistro e castano ad essere umido al risveglio. Non era un grosso problema per lui, gli piaceva avere l’eterocromia e di sicuro era meglio che avere due teste, quello si che sarebbe stato scomodo. Tuttavia aveva impiegato anni prima di capire come le cose erano concatenate e aveva avuto la conferma effettiva solo la sera prima, grazie ad Astreo. Sperava solo che le discendenze divine venissero con tanto di libretto delle istruzioni.
   
L’infermeria era quasi del tutto vuota eccezion fatta per un ragazzo con uno stantuffo di cotone in una narice, una figlia di Esculapio che lo stava aiutando e Astreo, che stava avendo una fitta discussione con l’augure. Il titano gli dava le spalle quindi fu quest’ultimo il primo a notarlo.
   
«Bonny!» Chiamò allegro, facendo voltare anche la divinità che lo accolse con un sorriso gentile. Entrò un po’ titubante, richiudendosi la porta alle spalle nonostante fosse stata aperta al suo arrivo, se ne accorse solo a metà del gesto ma ormai era troppo tardi per fermarsi a metà o riaprirla.
   
«Spero di non disturbare.» Iniziò piano avvicinandosi ai due, Astreo scosse il capo e gli indicò la sedia posta vicino al letto su cui era seduto, invitandolo ad accomodarsi. Si sedette piano, cercando di ignorare il sorriso sghembo di Quentin. Era quasi tentato di invitarlo a lasciarli soli, ma poi avrebbe dovuto mandare via anche gli altri due ragazzi e in generale non era una faccenda privata, non più di tanto. Appena si sedette il più piccolo prese posto senza troppi complimenti su una delle sue gambe, con la stessa faccia soddisfatta di un gatto quando si siede sulla tastiera del computer. Un tempo forse la cosa lo avrebbe infastidito o messo in imbarazzo, ma ormai lo conosceva a sufficienza e si era arreso al suo essere profondamente e terribilmente molesto.
   
«Stavamo chiacchierando di Saint Seiya, finalmente qualcuno con un po’ di cultura!» Quentin rise allo sguardo vagamente divertito, ma profondamente confuso, del figlio di Giano e con un sorriso tranquillo gli staccò una ciocca che si era appiccicata alla stanghetta degli occhiali.
   
«Allora, cosa ti serviva?» Chiese, anche se sapeva che probabilmente non era lui l’oggetto della sua ricerca, lo sguardo che si spostava prima sul dio e poi sul ragazzo.
   
«Uhn… si ecco, mi chiedevo se sapesse qualcosa delle mie visioni, del perché non funzionano più.» Boniface non si riteneva una persona timida, per nulla, era solo tranquilla, almeno la maggior parte delle volte. Non era il tipo di ragazzo che si approcciava con leggerezza al primo sconosciuto che incontrava, ma nemmeno il genere di persona da andare in panico nel presentarsi. Tendeva a parlare quando interpellato, quindi iniziare una discussione era semplicemente più complesso per lui.
   
«Oh ragazzo, in realtà è piuttosto semplice.» Il sorriso del titano era caldo e la sua voce rassicurante mentre lo osservava con i suoi strani occhi blu. Boniface poteva capire che anche Quentin era interessato ed attento alla loro discussione senza guardarlo poiché aveva smesso di muoversi e giochicchiare con qualsiasi filo od orlo gli capitasse tra le dita.
   
«Tu non hai il potere della profezia, non del tutto.» Iniziò a spiegare con calma. Il figlio di Giano aveva la netta sensazione che la spiegazione sarebbe stata decisamente poco semplice se non contraddittoria, o altrimenti Astreo non l’avrebbe presa così larga.
   
«A differenza di questo giovanotto tu non prevedi il futuro, tu lo vedi.» Strinse le labbra, cercando un modo per spiegarsi meglio. «Chi ha il dono della profezia vede appunto profezie, futuri ipotetici, indicazioni che possono manipolare gli eventi che verranno, se ben interpretate.» Non aveva mai pensato all’effettiva distinzione tra il suo potere e quello di Quentin, pensava solo si trattasse dello stesso ma molto più debole.
   
«Di conseguenza fai molti meno sogni perché non molte cose sono certe nel futuro, ben poche in realtà.» Inclinò la testa per osservarlo, come se stesse ascoltando il filo di pensieri che stava elaborando.
   
«Ho sempre sognato cose vicine nel tempo.» Ammise piano, il discorso del dio stava piano a piano acquistando senso, non aveva mai sognato eventi chiave, che gli suggerissero come fare o non fare qualcosa. Sognava un evento senza sapere quando sarebbe accaduto, e questo finiva poi per avverarsi, effettivamente, nell’arco massimo di qualche settimana, massimo un mese o due. Si lasciò scappare una risatina, doveva proprio dire addio alla nevicata di conigli.
   
«Esatto. Nel momento in cui qualcosa minaccia il futuro il tuo potere va in tilt, almeno metà.» Disse con tono eloquente, lo sguardo chiaramente posato sul suo occhio sinistro. «Quello funziona ancora, dico bene?» Boniface annuì piano, cercando di ignorare Quentin che, accigliato, si era avvicinato a fissare il suo occhio, non capendo.
   
«Non puoi più vedere il futuro perché la situazione è così delicata che potrebbe influire pesantemente su anche i gesti più piccoli di chiunque. Come hai capito ieri, tu hai visto il futuro, ne hai visti molti, ma non puoi ricordarli.»
   
«Il suo potere entra in contrasto con le profezie, conoscere il futuro quando è certo è una cosa, ma conoscerne molti, sapere tutti i possibili scenari, renderebbe una profezia completamente inutile.» Disse Quentin, realizzando con sorpresa. Guardò stupito prima Boniface e poi la divinità.
   
«Mi sta dicendo che i poteri di Bonny non funzionano perché gli dei preferiscono vederci dannare con le profezie?» Il suo tono era sorpreso e divertito ma terribilmente serio.
   
Astreo rise scuotendo la testa: «No ragazzo, assolutamente. Le ragioni principali sono due. Prima di tutto, il Destino è potentissimo, nemmeno noi divinità possiamo sottrarci ad esso. Le profezie sono più potenti perché… diciamo che combaciano meglio con le regole del Destino.» Ridacchiò piano ritrovandosi a fare qualche colpo di tosse. Quentin fece per prendere il bicchiere d’acqua dal comodino e passarglielo ma Astreo lo fermò prima ancora che si fosse alzato del tutto.
   
«E in secondo luogo, non esistono due futuri, ma nemmeno due passati o due presenti, il tempo è una retta. Così come non possono esserci due futuri tu non puoi ricordarne più di uno.» Sorrise. «Diciamo che il tuo potere si auto-censura nel momento in cui il futuro cambia e in questa occasione, è un cambiamento costante, quindi dimentichi tutto immediatamente.»
   
Boniface sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di elaborare tutto ciò che aveva appreso.
   
Si, avrebbe decisamente voluto un libretto delle istruzioni.

 

 

   Avevano resistito forse un ora e mezzo prima che un tuono scuotesse l’intera vallata e la pioggia iniziasse a riversarsi scrosciante su di loro. I ragazzi erano presto corsi ai padiglioni; chi era fortunato si trovava vicino ad essi, chi meno aveva dovuto correre attraverso l’intero Campo Marzio. Serafim ringraziò mentalmente il se stesso del passato per aver guardato il cielo quella mattina ed aver deciso di posizionarsi a pochi metri dalle strutture o in quel momento sarebbe stato ancora in mezzo al campo ad arrancare nel fango.
   
Osservava i ragazzi da un angolo, vicino al bordo del padiglione, i centurioni stavano cercando di farli calmare e di dividerli in cinque gruppi, cercando di capire cosa volessero fare. Serafim non stava più ascoltando da un po’ ormai, si era fermato alle prime due opzioni: cucito con Bernice o mitologia con Ansel, poi la sua attenzione era caduta e si era spostata altrove. Il figlio di Melainia non soffriva in modo particolare di iperattività, anzi quasi per nulla, tuttavia era la sua attenzione a dargli tutti i problemi, non sapendo rimanere su una cosa per più di un secondo. Nell’arco di pochi minuti aveva già osservato la pozzanghera che si stava forando appena accanto la pedana di cemento su cui erano, il ritmo in cui la pioggia cadeva e i suoni che produceva, la pesantezza dei suoi abiti bagnati. Strinse le labbra scostandosi una ciocca bionda dal volto, sempre la solita che nonostante i suoi sforzi non voleva saperne di starsene assieme alle altre nella coda bassa. Sospirò guardando con occhio critico il proprio gilet, fradicio sotto la lunga giacca che aveva dovuto posare durante l’allenamento. Serafim aveva uno stile decisamente eccentrico, portava abiti gotici ed eleganti, e per quanto lui li trovasse comodi, non negava a se stesso che una maglia cinquanta percento cotone e cinquanta percento poliestere avrebbe reagito molto meglio a cose come sudore, acqua e fango, che erano purtroppo all’ordine del giorno.
   
Il suo sguardo si spostò ancora, posandosi questa volta sulla collina dei templi. Sul lato dell’altura un piccolo tempio circolare era animato di vita: una figura faceva avanti e indietro spostando qualcosa da fuori a dentro, o viceversa. Sorrise impercettibilmente sapendo bene cosa stava guardando. Quella era la prima vera pioggia di quella stagione e questo gli ricordò che pure lui, quella sera, avrebbe dovuto dare un occhio alle sue preziose piante.
   
«Cos’hai deciso di fare?» Chiese una voce alle sua sinistra, richiamando la sua attenzione. Cesare lo guardava con le mani nelle tasche della felpa bagnata, i corti capelli scuri lucidi di umidità.
   
«Non ho ascoltato.» Rispose tranquillamente, abbassando lo sguardo sul proprio bastone. «Opzioni?» Chiese, tornando a guardare il pretore. Si conoscevano relativamente da poco, o meglio, parlavano da poco. Cesare lo aveva trovato una sera che si era attardato particolarmente ad annaffiare le sue piante notturne e in qualche modo erano finiti a chiacchierare. Non era certo se la loro si potesse definire un’amicizia, ma era anche vero che non aveva mai visto il biondo parlare con molte altre persone.
   
«Cucito, mitologia, sopravvivenza base, approfondimento sui mostri e teoria del combattimento.» Elencò con calma il figlio di Aurora, osservandolo sbattere le palpebre piano, meditando sulle opzioni.
   
Serafim tornò a guardare la collina dei templi. «Sembra che la abbiano bisogno d’aiuto.» Disse tranquillo, decidendo di ignorare del tutto le opzioni che gli erano state proposte. «Potrei andare a dare una mano, che ne dici?» Quando tornò a guardare Cesare che stava osservando vagamente accigliato, nonostante il sorriso divertito, il piccolo tempio circolare a sua volta.
   
«Penso possa andare bene.» Disse stringendosi nelle spalle. «Magari aspetta che la pioggia diminuisca un po’.» Fece per andarsene ma si bloccò, guardando Serafim leggermente preoccupato, lo sguardo che andava da lui al suo bastone. «Riesci o ti serve una mano?» Chiese a disagio. Non lo riteneva più uno sconosciuto, tuttavia non sapeva ancora come approcciarsi alla sua lieve disabilità. Non sapeva esattamente a cosa fosse dovuto, ma aveva capito che doveva trattarsi di un qualche dolore non persistente poiché lo aveva visto allenarsi ed era anzi un buon spadaccino.
   
«Sto bene, grazie.» Il figlio di Melainia sorrise cortesemente e Cesare se ne andò con un cenno del capo.
   
Aveva dovuto aspettare almeno dieci minuti prima che la pioggia diminuisse, probabilmente sarebbe andata avanti ad intermittenza in quel modo per tutta la giornata. Di positivo c’era che aveva avuto modo di riposare almeno un poco la sua anca che iniziava ad essere indolenzita in seguito all’allenamento di quella mattina. Non sapeva quanto tempo avrebbe avuto prima che l’acqua tornasse a scrosciare quindi si era affrettato il più possibile, venti minuti dopo era al tempio di Vesta.
   
La piccola struttura circolare era bianca e costellata di colonne lungo il perimetro, il basso tetto a due livelli era ricoperto di tegole rosse, che brillavano lucide sotto la pioggia. Serafim quasi corse su per i pochi gradini spinto dall’acqua che aveva ripreso a precipitare poco prima. Trasse un piccolo sospiro di sollievo e si appoggiò al muro del tempio, sentendo l’anca rilassarsi un poco. Aveva iniziato a dargli fastidio già da diversi minuti ma si era imposto di ignorare il dolore, non poteva di certo fermarsi a metà strada e tornare indietro sarebbe stato ancora più inutile e stupido.
   
Dopo essersi concesso qualche minuto per riprendere fiato si staccò dalla parete ed entrò piano nel tempio, sperava solo di non essere arrivato troppo tardi per poter effettivamente aiutare.
   
L’interno del tempio era illuminato dalle calde fiamme di un braciere posto al centro della stanza. Le fiamme non erano particolarmente alte eppure brillavano luminose e scaldavano l’ambiente. Nonostante il caldo non fosse per nulla fastidioso, anzi era un piacevole tepore, Serafim poté sentire l’acqua iniziare ad asciugarsi dai suoi abiti ed evaporare dai suoi capelli. Una ragazzina di forse quattordici anni con un velo posato morbidamente sul capo, un estremità posta sulla spalla, stava vicino al braciere, attizzandolo di tanto in tanto con un asta in ferro. Vicino alla porta un ragazzo stava chinato su una serie di vasi, sparpagliati tutt’attorno, come lui era fradicio.
   
Reidarr era un ragazzo dalla pelle abbastanza scura e il fisico robusto, al campo da appena un annetto, era un mortale con la Vista. Aveva trovato il suo posto al Campo Giove presso il tempio delle Vestali, di cui era una sorta di guardiano, mentre le sacerdotesse si prendevano cura della fiamma, lui si occupava principalmente di badare al tempio e alle sue piante. Faceva ufficialmente parte della quinta coorte, non era quindi esonerato dagli allenamenti, ma le regole erano per lui meno rigide. Giusto il giorno prima aveva innaffiato diversi vasi attorno al tempio e sapeva che con quella pioggia il terriccio sarebbe stato troppo bagnato, così appena era iniziato il diluvio era accorso per portare le piante al coperto.
   
«Posso essere utile?» Chiese gentilmente Serafim. Non si conoscevano molto, ma si erano trovati più volte ai Giardini di Bacco ad occuparsi delle piante e qualche parola era scappata, seppur nessuno dei due fosse particolarmente propenso alle chiacchiere. Reidarr si voltò quasi di scatto, non avendolo notato. Lo osservò con la sua perenne espressione corrucciata e poi tornò a concentrarsi sul proprio lavoro. «Faccio bene da solo, grazie.» Faticava ad accettare l’aiuto offerto degli altri e tendeva più che altro a voler far tutto da sé, questo sommato al suo parlare in modo impulsivo lo facevano apparire facilmente come una persona scontrosa e un po’ burbera, cosa che in realtà non era.
   
Serafim trasse un sospiro sconsolato, osservando dalla porta aperta del tempio i padiglioni in lontananza, per un attimo quasi gli parve di vedere Cesare appoggiato ad uno dei pilastri, ma sarebbe potuto essere chiunque. «Vorrà dire che dovrò tornare indietro, spero Nowak non mi riprenda troppo.» Disse piano, quasi tra sé e sé, anche se chiaramente con un tono abbastanza alto da farsi sentire.
   
«Ho portato dentro le piante più delicate prima che ho potuto, ma a molte sono cadute molte foglie. Pulisci i vasi e svuota i sottovasi se sono pieni d’acqua… grazie» Disse dopo qualche minuto di silenzio senza alzare lo sguardo. Segretamente gli era abbastanza grato per essersi offerto di dargli una mano, non aveva avuto il cuore di chiedere a qualche sua sorella di aiutarlo, essendo tutte abbastanza piccole e minute. Serafim a differenza sua aveva un fisico sottile e sembrava piuttosto secco, ma lo aveva visto più di una volta sollevare vasi abbastanza pesanti senza troppa fatica, sapeva quindi che sotto quei vestiti strambi c’erano almeno un po’ di muscoli.
   
Lavorarono in silenzio a lungo, Reidarr a disporre i vasi lungo le pareti, svuotando i sottovasi pieni d’acqua e Serafim a rimuovere delicatamente il più delle foglie e rimasugli di fiore che erano caduti a causa della violenta pioggia, riponendoli in un sacco che il ragazzo gli aveva dato poco prima. Il silenzio ovattato era interrotto solo dal suono del loro lavoro e dallo scoppiettare delle fiamme, che stavano pian piano asciugando i loro abiti. All’interno del tempio di Vesta si respirava un aria calda e tranquilla, quella di un calore familiare che nessuno dei due ragazzi aveva avuto modo di conoscere del tutto. Il fuoco era sempre della temperatura perfetta, sia in estate che in inverno, e asciugava in tempo record gli abiti bagnati pur lasciando la stanza piacevolmente tiepida.
   
Reidarr aveva trovato nelle vestali una sorta di famiglia: le sacerdotesse erano le sue sorelline e quel tempio la cosa più simile ad una casa che avesse mai conosciuto. Non era una Vestale, il suo genere non glielo consentiva, ma la dea aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per farlo sentire accettato all’interno di quel piccolo gruppo, dandogli il ruolo di guardiano del tempio. Non sapeva se fosse qualcosa di storicamente accurato o se Vesta se lo fosse un po’ inventato sul momento, ma non si era mai posto il problema, stava bene.
   
«Ci sarà una grande impresa?» Chiese una voce sottile alle loro spalle. La ragazzina che stava accanto al falò stringeva l’attizzatoio con eccessiva forza e il viso era acceso di rosso, non avrebbero saputo dire se per l’imbarazzo o per il calore della fiamma.
   
«Si vedrà.» Disse monotono Serafim dopo averla scrutata per un attimo, voltandosi di nuovo a lavorare, infastidito dalla brillantezza del fuoco. Reidarr dal canto suo dedicò un po’ più di attenzione alla sorella, increspando in modo quasi invisibile le labbra in quello lei sapeva essere un sorriso.
   
«Non si sa ancora nulla, ma noi non abbiamo ragione di preoccuparci.» Disse tranquillo, alzandosi per stiracchiare le gambe. Non aveva mai assistito a nessuna missione e in generale l’idea di grande impresa gli era ancora un po’ estranea. Sembrava quel genere di cose che non capitano più, che sono relegate al passato, come le grandi guerre o le pestilenze, ma questo era anche quello che pensavano tutti nel duemilaventi, quando scoppiò l’epidemia di coronavirus.
   
Reidarr era tuttavia tranquillo, almeno per i limiti di una persona che sa che il mondo potrebbe potenzialmente finire. Si sentiva molto uno spettatore di tutto quello che stava accadendo, in quanto mortale, il fatto che si trovasse al campo non cambiava nulla, era un mortale tanto quanto le persone all’infuori di esso, non aveva potere in quella situazione. Tutto ciò che doveva fare era aspettare, che il mondo finisse, o che venisse salvato, non lo sapeva, ma sapeva che non avrebbe potuto farci nulla.

 


 
Angolo Autore
 
Yo yo yo!
Se nello scorso capitolo aprivo l'angolo del disagio esprimendo la mia sorpresa nell'essere stata puntuale, questa volta lo faccio non sorprendendomi minimamente del mio ritardo.
Un mese e mezzo per una selezione, tra l'altro nemmeno completa, è alquanto imbarazzante. Ho pensato più volte di mettere magari una lista degli oc selezionati, ma non vi avevo chiesto cose carucce come "frasi che lo caratterizzano" e io non so riassumere i miei OCs, figuratevi quelli altrui. Tra l'altro alcuni manco hanno un prestavolto. Sarebbe stato un triste elenco di nomi.
Ho preferito evitare ecco.
Dunque, questo capitolo è stato un parto e penso si noti. Alcuni paragrafi mi piacciono, altri... meh
Non succede quasi nulla, ma ho cercato di introdurre al meglio i personaggi, dandovi già qualche notizia chiave di ognuno di loro per cercare di farli rimanere impressi al meglio nei vostri bei cervellini gelatinosi.
Ci sarò riuscita? Probabilmente no, spero solo che il capitolo vi abbia almeno intrattenuti.
Come avrete notato, questi non sono tutti gli OCs. Questo primo capitolo sarà diviso in due, probabilmente tre, parti:
I romani, che abbiamo appena visto
I greci
Il rituale (both greci&romani)
In questo capitolo ho anche voluto chiarire cose come i poteri di Bonny, ho visto dai commenti che molti si erano giustamente interessati alla cosa, tuttavia non sono parte della trama principale. Ho voluto chiarire subito per evitare distrazioni, spero vi sia tutto chiaro.
Ma passiamo alle formalità. Maggio è... un mese di merda. Siamo tutti sommersi di roba ed è per questo che ho tardato tanto, i problemi con le schede han fatto si che iniziassi a scrivere tardi e questo mi ha portato a fronteggiare questo infausto mese. 
Quest'anno ho l'esame di maturità e per questo sono un pelino sommersa di roba. No davvero, uccidetemi. Ne approfitto quindi per dirvi che non mi vedrete fino probabilmente a luglio, se vi va bene fine giugno. Quindi ecco, non è che mollo, ho solo altre priorità. 
Dopo gli esami dovrei essere più tranquilla, certo, poi sarà il turno della certificazione di inglese e gli esami per le università, ma EHI, sono certa sarà meno stressante, almeno non avrò lezioni o compiti.
Detto questo, fagiolini, vi lascio, come sempre vi invito a farmi sapere, se vi va, cosa ne pensate, segnalarmi errori, se ho ben rappresentato i vostri oc e cazzi e mazzi che sapete tutti.
Alla prossima
Peace out ✌🏼
Ebe

 





 
   
 
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