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Autore: Cassidy_Redwyne    26/05/2020    1 recensioni
Quattro amiche diversissime fra loro, eppure inseparabili, vengono a conoscenza del prestigioso liceo di St. Elizabeth. In cerca di una nuova sistemazione scolastica, le ragazze decidono di iscriversi, del tutto ignare di ciò che le attende all’interno dell’istituto.
L’aspetto e il comportamento degli studenti, infatti, sono davvero bizzarri, per non parlare di quei quattro affascinanti ragazzi in cui le protagoniste si imbattono durante i primi giorni di scuola… si tratta di un colpo di fulmine o di un piano magistralmente architettato alle loro spalle?
Tra drammi adolescenziali e primi batticuori, le quattro sono pronte a smascherare una volta per tutte il segreto che si cela fra le mura del misterioso istituto.
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Quando Beth riemerse dallo svenimento, scattò a sedere sul letto e boccheggiò come se si fosse appena risvegliata da un orribile incubo. E un incubo c'era stato davvero, la ragazza se lo ricordava benissimo: l'incendio dell'anno prima, la morte di Lucy... nel sogno, persino la sua scuola veniva avvolta dalle fiamme e lei sarebbe stata spacciata, se solo non fosse sopraggiunto John.

Beth voltò appena la testa di lato e quasi le venne un colpo quando vide che, seduto accanto a lei, c'era proprio il suo salvatore, intento a fissarla come se fosse stata una specie rara allo zoo.

«John?» esclamò, sgranando gli occhi.

Dietro di lui, una mobilia che non era quella della sua camera da letto. Un pensiero fece capolino nella mente di Beth, mentre il suo sguardo correva alla lunga fila di letti vuoti che aveva accanto, tutti accomunati dalle stesse lenzuola bianche e dalle aste per flebo. Il pensiero che forse non si era trattato di un sogno.

«Ti sei svegliata, finalmente» sentì che diceva lui.

«Sono in ospedale?» chiese Beth con una sottile ansia, tornando a guardarlo.

John annuì. «Ma solo perché hai perso i sensi, sta' tranquilla. Sei illesa.»

Illesa? Beth evitò accuratamente il suo sguardo, perché non le leggesse in faccia la confusione che stava provando in quel momento. Mentre osservava l'asettica stanza di ospedale in cui era stata portata, l'occhio le cadde per un attimo sulla chitarra che il ragazzo teneva poggiata contro la sedia.

A John dovette seguire il suo sguardo perché, dopo un momento, esclamò: «Be', che c'è? Non potevo non salvarla dalle fiamme.»

Fu allora che i ricordi colpirono Beth come pioggia. Henry. Il fuoco. La paura cieca che aveva provato. No, non era stato affatto un sogno.

«Oddio» bofonchiò, coprendosi la bocca con una mano, travolta da un'improvvisa ondata di nausea. «L'incendio.»

John abbassò gli occhi sul pavimento. «Già. È da ieri che i pompieri lavorano senza sosta.»

Ieri.

Quindi si trovava lì dal giorno prima, realizzò Beth. Ma dov'erano tutti?

«Le mie amiche come stanno?» chiese di getto, il cuore che iniziava a batterle forte. «Hai qualche notizia?»

«Sono qui fuori» si affrettò a dire lui. «Stanno bene.»

Beth sospirò di sollievo. Era da quando si erano lasciate in camera, con il proposito di ritrovarsi in presidenza, che non le aveva più viste. A dire il vero, da allora aveva incontrato solo John. E, nel pensare a lui, Beth ricordò anche un'altra cosa. E anche quella, come l'incendio, non aveva niente a che fare con i sogni.

«Mi hai salvata» bisbigliò Beth, e sentì che la voce le si incrinava.

«Già.» John aveva distolto un attimo lo sguardo, ma Beth riuscì comunque a cogliere un vago luccichio negli occhi di lui.

«E sono stato anche fortunato, secondo i medici.» Il ragazzo tornò a guardarla e assunse un'espressione furbetta. «Ne sono uscito incolume.»

Beth non riuscì a trattenersi dal sorridere a sua volta.

«Bene» mormorò, cercando di controllare il tremito che aveva nella voce, per poi indicare la chitarra con lo sguardo. «Anche perché mi devi ancora suonare qualcosa, o sbaglio?»

Gli occhi di John si illuminarono. «Posso?»

Beth annuì, vagamente divertita dall'emozione di lui.

Adagiata sulle coperte, la ragazza osservò John afferrare la chitarra da terra con aria solenne e porsela in grembo, per poi iniziare a pizzicare le corde con dita tremanti.

Dallo strumento si levò una melodia che Beth non aveva mai sentito prima. E, per un'esperta di musica qual'era lei, era molto raro.

Con gli occhi fissi in quelli di lei, John iniziò a cantare.

Hey Lucy, I remember your name
I left a dozen roses on your grave today
I'm in the grass on my knees, wipe the leaves away
I just came to talk for a while
I got some things I need to say

Now that it's over
I just wanna hold her
I'd give up all the world to see
That little piece of heaven looking back at me

Now that it's over
I just wanna hold her
I've gotta live with the choices I made
And I can't live with myself today

Here we are
Now you're in my arms
I never wanted anything so bad
Here we are
For a brand new start
Living the life that we could've had*

Beth era senza parole. Lacrime calde le scorrevano lungo le guance.

John continuava a lanciarle degli sguardi di sottecchi, come cercando di capire le sue impressioni.

Beth non poté fare a meno di notare che il ragazzo sembrava un'altra persona: la fissava con aria visibilmente nervosa, torturandosi il labbro e aggrottando le sopracciglia. L'aria sprezzante e sicura di sé che possedeva di solito era scomparsa.

«John...» mormorò infine lei, tirando su col naso, e il ragazzo si protese nella sua direzione, lo sguardo colmo d'aspettativa. «È bellissima» farfugliò.

Beth vide il corpo di John allentare la tensione, ma di colpo il ragazzo le lanciò un'occhiata sospettosa.

«Dici sul serio?» fece lui nervosamente. «Non me lo dici tanto per dire?»

«Ti sembra che stia fingendo?» borbottò, asciugandosi le lacrime dagli occhi.

A quel punto John fece un sospiro di sollievo e a Beth sfuggì una risatina. Malgrado tutto, le veniva da sorridere. Non aveva idea di come John fosse venuto a sapere di Lucy, ma il modo in cui aveva intrecciato la vicenda di lei e quella di lui nella canzone era così bello da toglierle il fiato.

«L'hai scritta davvero tu?»

«Sì. È quello che penso» mormorò John, alzando le spalle.

Beth notò divertita che quei complimenti lo stavano mettendo un po' a disagio. Si vedeva da lontano un miglio che non ci era proprio abituato.

«Sai di Lucy, quindi?» domando, il cuore che le batteva un po' più forte al suo ricordo.

John alzò gli occhi su di lei.

«No» rispose dopo un momento, scuotendo la testa. «So solo il suo nome.»

Il silenzio tornò ad aleggiare fra di loro. Un silenzio trepidante, che pose a Beth la domanda che John avrebbe tanto voluto farle.

La ragazza sospirò piano. Dopo tutto quello che aveva fatto per lei, era giusto che sapesse.

«Sai che andavo a cavallo?» proruppe, come se nulla fosse.

John la fissò, senza riuscire a mascherare del tutto il suo stupore. Era lo sguardo di chi si aspettava che lei attaccasse a parlare dell'amica.

Una cosa alla volta, caro mio.

«No, non lo sapevo» disse infine lui, forse capendo che Beth non avrebbe aggiunto altro, per il momento. «Non era alla tua amica che piacevano tanto?»

Beth sorrise. Faceva tanto l'indifferente ma, a quanto pare, non gli sfuggiva nulla. Se si escludevano le faccende amorose, ovviamente.

«Be', Kia ed io siamo amiche per un motivo» disse. «Avevo un bellissimo cavallo nero, di nome Rayblack.»

Gli occhi di Beth si fecero velati per un attimo, al ricordo del suo meraviglioso animale.

«Avevi?»

Il sorriso di Beth si spense. «L'ho venduto a Kia. Non monto più, sai, da quando...» Beth si bloccò e fece appello a tutta la sua forza di volontà per portare a termine la frase. «Da quando ho avuto un brutto incidente.»

John attese in silenzio. La sua battaglia interiore non doveva essergli sfuggita.

«Accadde l'anno scorso. Durante le vacanze di Natale» sputò fuori Beth a fatica. «Una passeggiata a cavallo. Eravamo io, Kia... e Lucy.»

La sua voce le si incrinò. Contro ogni previsione, John le venne in aiuto.

«Anche Lucy andava a cavallo?» domandò.

Beth apprezzò il suo sforzo nel mostrarsi interessato.

«Poco» rispose, sorridendo al ricordo. «Veniva dal centro di Londra, come te, e penso non avesse mai visto un cavallo prima di trasferirsi ad Enfield. Le stavamo insegnando noi.»

John inarcò un sopracciglio. «Le facevi da insegnante?»

A Beth non sfuggì il suo tono sfacciatamente ironico e, malgrado il ricordo della morte di Lucy che le premeva contro le palpebre, rise.

«Una pessima insegnante» fu costretta ad ammettere, ricordando tutte le imprecazioni che l'amica le lanciava durante le loro lezioni improvvisate.

«Comunque, dicevo... quel giorno il tempo era bruttissimo.» La voce di Beth si fece di colpo meno salda. «C'era un temporale in arrivo. Kia e Lucy erano incerte, ma...» Si interruppe e strinse convulsamente le lenzuola del suo letto. «...io insistetti. Alla fine partimmo.»

John attendeva in silenzio che lei trovasse la forza di continuare. Man mano che si avvicinava a quel momento, proseguire era sempre più difficile.

«Ovviamente beccammo il temporale» mormorò, dopo un lungo silenzio. «Mai vista un'acquata come quella. Eravamo fradice di pioggia, i lampi cadevano vicinissimi e i cavalli erano terrorizzati dai tuoni. Tornammo subito indietro ma, per fare prima, decidemmo di tagliare attraverso il bosco.»

L'espressione sul volto di John cambiò. Forse stava iniziando ad intuire qualcosa. Fece per aprire bocca, ma Beth lo anticipò. Sapeva già cosa stava per rimproverarle.

«Lo, lo so. Non avremmo dovuto farlo» disse, abbassando lo sguardo sulle lenzuola. «Sapevamo che era rischioso. Ma dopotutto era la strada più veloce, e pensavamo che non sarebbe successo nulla. Ma ci sbagliavamo.»

Beth si bloccò e rivolse uno sguardo esitante a John. Le costava davvero tanto mettere una parola in fila dietro l'altra.

«Lucy voleva scendere da cavallo» mormorò con voce flebile. «Le dicemmo di rimanere su, perché in sella avremmo fatto ancora più in fretta.» Beth fece un respiro profondo. «Poi il fulmine ci cadde addosso.»

«Gesù.» John si coprì la bocca con una mano. Il silenzio si protrasse per un lungo attimo, espandendosi tra di loro come un baratro. «Lucy...» esitò. «Lucy fu colpita dal fulmine?»

Beth scosse piano la testa. «Colpì me. E l'albero che avevo accanto.»

Gli occhi di John si sgranarono per l'orrore.

«Caddi da cavallo e rimasi ai piedi dell'albero... che nel frattempo, però, aveva preso fuoco.»

«E Kia? E Lucy?»

«Anche Lucy fu disarcionata» disse Beth, che si premette le dita sulle palpebre, facendo uno sforzo per ricacciare le lacrime dietro agli occhi. «Ma non fu altrettanto fortunata. Cadde dritta su un masso che le aprì la testa in due.»

John spalancò la bocca.

«Ricordo tutto, prima del fuoco» proseguì Beth, lo sguardo lontano. «Kia che urlava e piangeva, cercando di trattenere i cavalli, e poi si chinava sul corpo di Lucy. Cercò di rianimarla, ma lei non c'era già più. Aveva tanto di quel sangue intorno alla sua testa...» Beth si bloccò. «Ricordo il suo sguardo vitreo. E ricordo il dolore quando presi fuoco.»

«Oh, Beth...»

La ragazza scosse la testa, cercando di non farsi prendere dal panico. «Ecco perché il fuoco mi fa così paura.»

«Mi dispiace tanto» mormorò lui, visibilmente turbato.

Beth fece un sorriso triste. «È dura. Ma immagino che tu sappia cosa significhi perdere una persona a cui tieni.»

La ragazza ripensò alle parole che John le aveva rivolto nella pineta, ma una fastidiosa vocina le ricordò che, spostando abilmente la conversazione su di lui, stava solo evitando di concludere la vicenda di Lucy. La parte, oltretutto, che John aveva più diritto di sapere.

Si affrettò a far tacere quell'odiosa vocina ed esitò, lanciando un'occhiata al ragazzo, che non aveva ancora proferito parola. «Giusto..?»

John sospirò rumorosamente. «Sì. Amy.»

«Amy?»

Quel nome le riportò alla mente il ricordo della sera della festa, quando aveva trovato il coraggio di lasciare il suo numero a John.

«È la bambina sul tuo telefono» disse in un soffio.

John annuì piano. «È lei.» Dopo un attimo, aggiunse: «Per me era come una sorellina. Mi dava la forza di andare avanti in quel postaccio.»

Beth gli rivolse uno sguardo confuso.

«Scusa» si affrettò a dire lui. «Vedi... la mia situazione a casa non è delle migliori. Mia madre se n'è andata, io vivo con mio padre e lui... lui è un cazzo di idiota. È il principale motivo per cui frequento una scuola così lontana da Londra.» John parve riscuotersi di colpo dalle sue riflessioni e le piantò gli occhi in faccia. «Vivevamo tutti nello stesso condominio, sai? Un posto fatiscente, nella zona est della città. Amy, Annie ed io.»

Beth sgranò gli occhi. «Anche Annie?» esclamò fin troppo precipitosamente.

John fece un sorrisino storto. «Anche lei. Ma non la poteva vedere, Amy. Diceva che era una bambina insopportabile... una zecca, ecco, così la chiamava.»

A Beth, malgrado tutto, sfuggì un risolino. Le riusciva difficile immaginare una situazione del genere: Annie, sempre così esageratamente allegra ed amichevole, che detestava una bambina, mentre il torvo e taciturno John le faceva da fratello maggiore.

«Tu invece andavi d'accordo con lei?»

Gli occhi di John si illuminarono. «Sì. Certo, all'inizio anche io la evitavo come la peste. Ma lei non si arrendeva mai e finivo per ritrovarmela sempre appiccicata. Era adorabile. Così... innocente.»

Beth si ritrovò a fissarlo con occhi diversi, il cuore che le batteva forte nel petto. Il modo dolce con cui John parlava di Amy la destabilizzava. Di quel passo sentiva che avrebbe avuto presto un'altra delle sue overdose di romanticismo.

«Amy guardava il mondo con gli occhi di una bambina, com'era giusto che fosse.» John fissava la finestra della stanza, lo sguardo immerso nei ricordi. «Non l'avevano ancora guastata. Non si rendeva conto della realtà in cui viveva.» Abbassò di colpo lo sguardo. «La sua famiglia, se possibile, era peggio della mia.»

Il suo tono si era incrinato improvvisamente e, esattamente com'era stato poco prima per lei, Beth capì che John stava facendo un enorme sforzo per continuare a parlare.

«Immigrati irlandesi, senza un soldo. Pieni di figli. Penso che il padre li picchiasse.» John fece una pausa e sorrise amaramente. «Un'altra delle cose che avevamo in comune.»

Beth ammutolì, coprendosi la bocca con una mano.

«Quei deficienti non si accorsero della sua malattia.» John scrollò le spalle. Malgrado quell'atteggiamento indifferente, il suo tono diceva tutt'altro. «Fui io a portarla all'ospedale. Di lì a poco, la situazione precipitò.»

Gli occhi di John si erano fatti di colpo lucidi e a Beth la cosa non sfuggì.

«La leucemia se la portò via tre anni fa.»

«Mi dispiace da morire, John» mormorò Beth, ancora scossa da tutte quelle rivelazioni.

John si asciugò le lacrime con un gesto rabbioso. «Fa niente.»

«Dev'essere stata dura» bisbigliò lei.

John annuì piano, tenendo gli occhi bassi. «Anche se Annie mi è stata molto vicino. Non so come avrei fatto, senza di lei. Anche Kia ti è stata accanto?»

«...già.»

Beth tentennò. John aveva involontariamente toccato il tasto dolente della questione e capì era l'occasione per dirgli la verità sul conto di Lucy una volta per tutte. Fece un respiro profondo.

«Anche se... vedi, Kia era un po' arrabbiata con me.»

John alzò di colpo gli occhi. «Perché?»

Beth evitò il suo sguardo e si morse il labbro, il cuore che le martellava nel petto. «Vedi, Lucy ed io eravamo diventate molto amiche...»

John inarcò un sopracciglio. «Kia era gelosa della vostra amicizia?» domandò, come se non riuscisse a credere alle sue orecchie.

«Non proprio» rispose Beth, a disagio. «Kia era arrabbiata perché non le avevo detto una cosa.»

Sapeva di dover parlare chiaro con John. Fece un grosso respiro e tirò fuori la verità tutta d'un fiato.

«Non le avevo detto di essermi innamorata di Lucy.»

La chitarra sfuggì dalle mani di John e mancò poco che si sfracellasse in terra.

«T-tu...» balbettò, sbattendo le palpebre. «Tu quindi sei...?»

«Bisessuale?» fece lei, vagamente divertita dalla reticenza di lui. Si immaginava che avrebbe reagito in quel modo, anche se sperava che non si rivelasse un tipo retrogrado. «No. Non credo, almeno.»

«Ma...» protestò John, paonazzo, ma Beth lo anticipò.

«Non mi sono mai sentita attratta da una ragazza, prima di Lucy» spiegò la ragazza in tono pratico. Si era più volte interrogata sulle sue pulsioni, in quel periodo, e ormai aveva le idee piuttosto chiare al riguardo. «E, in realtà, non credo di aver mai desiderato neanche lei... sessualmente.»

Si bloccò per lanciare un'occhiata a John, il cui volto rasentava lo shock.

«Ti serve una pausa?»

John deglutì rumorosamente. «No, no, continua pure.» Lì per lì evitò il suo sguardo, ma poi le lanciò un'occhiata esitante. «Non fraintendere. Non mi danno fastidio queste cose. È che... non me l'aspettavo.»

«Bene» rispose Beth, vagamente divertita. «Semplicemente, l'amavo. Amavo tutto di Lucy.» Al ricordo della gioia contagiosa di lei, Beth si ritrovò a sorridere. «Sono arrivata alla conclusione che, a volte, una persona ti piace e basta. Ti piace perché ti fa sentire speciale, perché ogni cosa di lei ti fa girare la testa, e non t'importa se è un maschio o una femmina. Quello è veramente l'ultimo dei tuoi pensieri. È un amore che va... oltre, oltre l'attrazione fisica.»

John la fissava senza parlare. «Grazie... grazie per avermelo detto» bofonchiò infine, aggrottando le sopracciglia.

Era un po' turbato e Beth si allungò sul letto per potergli afferrare una mano.

«Dei sentimenti così forti li ho provati solo un'altra volta» disse, fissandolo dritto negli occhi.

John continuava a guardarla con la stessa espressione turbata di prima e Beth sospirò, scuotendo leggermente la testa.

«Per te, John» borbottò poi, dandogli un colpetto sulla fronte con la propria.

Il ragazzo s'illuminò in volto e Beth ridacchiò, sporgendosi ancora un po' per poterlo baciare.

Di colpo, si ritrovò a pensare che a Lucy quel ragazzo improbabile sarebbe davvero piaciuto.

****

«Voi siete quelli di Henry?»

Angie alzò gli occhi stanchi sul nuovo arrivato, che torreggiava su di loro, le mani nelle tasche della divisa. Era un poliziotto giovane, all'incirca dell'età di Nathan, con i capelli brizzolati e un'espressione gasata dipinta sul volto, come se trovarsi lì facesse parte di un emozionante gioco.

«Sì» borbottò infine Night, accanto a lei, agitandosi leggermente sulla sedia.

«Ehm, ecco...» fece lui, abbassando la voce con fare cospiratorio, per poi lanciare un'occhiata al suo superiore, seduto alla scrivania di fronte. «Non dovrei dirvelo, perché si tratta di un'informazione confidenziale...»

«TIM!» berciò il poliziotto più anziano. «Piantala!»

Il giovane si voltò un momento verso di lui e poi tornò a fronteggiarli con lo stesso scintillio curioso nello sguardo. Sembrava che le minacce del collega non avessero sortito alcun effetto.

«Ecco, stavo dicendo...»

«TIM!»

«Dovete sapere che eravamo sulla tracce di Henry Jefferson da un po'» spiegò, elettrizzato. «Da quando è fuggito dall'istituto, per l'esattezza. E poi, tutti hanno visto che era armato e che tu hai agito per legittima difesa. Puoi stare tranquillo, amico.»

Si allungò per dare un'amichevole pacca sulla spalla a Night, che si irrigidì di colpo, e ad Angie non sfuggì il titanico sforzo che fece per non saltare direttamente al collo del poliziotto.

«TIM, PER DIO!»

«Ora devo andare» concluse lui, ammiccando verso di loro, prima di tornare a capo chino verso la scrivania. «Eccomi, eccomi» borbottò, rivolto al collega.

Senza la fastidiosa presenza di quell'individuo, il silenzio tornò ben presto ad aleggiare fra di loro ed Angie lanciò a Night un'occhiata di sottecchi. Lo avevano medicato, prima di portarlo in commissariato, e le ferite che Henry gli aveva inferto con il coltello fortunatamente si erano rivelate tutte superficiali, ma il ragazzo, con il volto pallido e pesanti borse sotto gli occhi, sembrava comunque sul punto di svenire da un momento all'altro.

Angie sospirò, spostando lo sguardo sui due poliziotti, che in quel momento stavano parlando fitto fitto tra loro. A giudicare dall'espressione contrita di Tim, il suo superiore gli stava facendo una lavata di capo.

Li incenerì con lo sguardo, anche se nessuno dei due le stava prestando alcuna attenzione. Non avevano ancora interrogato Night, malgrado fossero lì da ore, a marcire su quelle seggiole, e la ragazza si chiese quando quelli stronzi si sarebbero degnati di farlo.

Angie aveva insistito per accompagnare Night a fare la sua deposizione, sperando di tirarlo un po' su di morale e di distrarlo da ciò che era successo, ma non si era rivelata un'idea poi così brillante, dato che in due ore la ragazza non aveva ancora spiccicato una sola parola.

«È una buona notizia» disse infine, ponendo fine a quel silenzio interminabile. «No..?»

«Dipingeranno Henry come un mostro» mormorò Night cupamente, lo sguardo fisso davanti a sé.

Angie si voltò a guardarlo di scatto, senza riuscire a mascherare il suo stupore. Non si aspettava una sua replica.

«Be'...» Angie esitò. «In un certo senso lo è. Pensa ai ragazzi della scuola, a Kyle.»

Faceva uno strano effetto pensare che l'istituto in cui aveva vissuto fino al giorno prima di colpo non esistesse più. Divorato dalle fiamme, così la descrivevano i telegiornali che erano stati costretti a sorbirsi durante quell'interminabile attesa.

Angie, nonostante tutto, si sentiva stranamente tranquilla, come se la questione la riguardasse fino ad un certo punto. Lei e le sue amiche, in fin dei conti, erano sane e salve. Le avevano raccontato di John che usciva di corsa dalla scuola in fiamme, con Beth tra le braccia, scortato dai pompieri. Vivi per un soffio. Certo, aveva il cuore gonfio di tristezza per Brook, per Adam, per tutti gli altri studenti che non aveva avuto occasione di conoscere, ma c'era qualcosa che le premeva di più, in quell'istante, più dei ragazzi morti nell'incendio. Ed erano gli effetti che esso avrebbe avuto su uno di loro in particolare.

Si voltò di nuovo verso Night che, forse percependo il suo sguardo addosso, si decise a risponderle.

«Lo è diventato, un mostro» disse, sospirando. «Per colpa nostra. Prima di essere un mostro, era una vittima.»

Angie fece per aprire bocca, ma Night non aveva ancora finito.

«Ho intenzione di dire la verità ai poliziotti.» Dopo un momento, aggiunse: «Quando quegli idioti si decideranno ad interrogarmi.»

La ragazza sgranò gli occhi, incredula. «Intendi... la verità sull'incidente delle docce? Sui vostri atti di bullismo?»

Night si voltò a fissarla per la prima volta, gli occhi verdi colmi di tristezza, e annuì.

Malgrado tutto, Angie percepì gli angoli delle sue labbra piegarsi all'insù. «È la cosa giusta da fare.»

Anche se la più difficile, fu sul punto di aggiungere, ma si morse la lingua. Non era il momento di rigirare il coltello nella piaga.

«Ma pensaci bene. Dovrai parlare anche di Kyle e di ciò che ha fatto. Tutti cambieranno idea su di lui.»

Night sospirò rumorosamente, evitando il suo sguardo. «Lo so.»

«Forse è giusto così, però.» Angie si bloccò, incerta su come proseguire. Non sapeva bene fin dove potesse spingersi a parlare del ragazzo, perché Night cambiava atteggiamento solo a nominarlo. «Alla fine... non è poi l'eroe che tutti credono. Non è l'eroe che tu credevi che fosse.»

Scoccò a Night un'occhiata, temendo la sua reazione. Forse aveva esagerato.

«È strano...» fece lui, apparentemente non turbato dalle sue parole dure. «...me ne sto rendendo conto solo adesso. Ora lo vedo chiaramente. Kyle si è approfittato di me.»

Non c'era amarezza nelle parole di Night. Parlava in tono neutro, come se stesse semplicemente prendendo atto della cosa.

«Eppure, in quel momento, io non ho avuto un attimo di esitazione. Mai avuto un dubbio, neanche negli anni successivi. Kyle era tutto per me. Non l'ho mai messo in discussione... e non ho mai fatto caso alle sue ombre.»

«L'amore ci fa apparire le persone in modo diverso» mormorò Angie in tono solenne, stiracchiandosi sulla sedia. A forza di stare seduta, non si sentiva più le chiappe.

Night le scoccò un'occhiata strana. «Ah, adesso si spiega tutto» mormorò.

Il suo tono velatamente ironico non sfuggì alla ragazza, che si voltò di scatto a guardarlo. Night stava sogghignando, gli occhi fissi su di lei.

«Ti consiglio di approfittarne, prima che torni in me.»

«DEFICIENTE!» strillò lei, rifilandogli un pugno sul braccio.

Tim e collega si voltarono a fissarli, gli occhi fuori dalle orbite, ed Angie rivolse loro un sorrisino innocente.

«Prima che torni in te, eh?» borbottò poi, rivolta a Night, quando i due colleghi ebbero smesso di fissarli come avvoltoi. «Che significa? Quando tornerai gay?»

L'aveva detto in tono scherzoso, ma in realtà dentro era in subbuglio, da quando Night le aveva rivelato ciò che provava per Kyle. Moriva dalla voglia di sapere cosa passasse nella testa del ragazzo.

Night la fissò, colto alla sprovvista. «Pensi che io sia gay?»

-Non lo so... vorrei solo capire se devo iniziare a considerare Shadow un potenziale rivale.»

Night sbuffò divertito, ma la sua espressione ben presto divenne incerta. «Non...» esitò. «Non mi piacciono i ragazzi. Credo.»

Angie gli piantò gli occhi in faccia. «Ma ti piaceva Kyle» gli fece notare, inarcando un sopracciglio.

Night si morse il labbro. «Sì» disse. «Mi piaceva. Ma in modo diverso.»

«Non capisco» ammise Angie, grattandosi la nuca.

«A volte...» Night sospirò. Sembrava stare lottando con le parole. «A volte una persona ti piace e basta. Non pensi al resto. Non pensi a cos'ha in mezzo alle gambe.»

Angie sgranò gli occhi, sprofondando nella sedia. Quelle parole l'avevano lasciata di stucco. Non immaginava che Night fosse in grado di fare certi discorsi e il suo animo burrascoso sembrava quasi essersi calmato. Di colpo, però, il ricordo del compleanno di Arianna e delle parole che Night le aveva rivolto tornarono ad agitarla e drizzò improvvisamente la schiena.

«E tutti quei bei discorsi sull'avere sempre saputo cosa volevi da un rapporto? Stronzate!» obbiettò lei. «Non sai nemmeno se ti piace il cazzo o no!»

Aveva di nuovo parlato a voce un po' troppo alta. Le espressioni di Tim e collega, fisse su di loro, rasentavano lo shock.

«Ops» bofonchiò.

Ehi, come aveva fatto a non notare la bellezza delle piastrelle del commissariato? Davvero, davvero artistiche. Al punto che ci avrebbe volentieri infilato la testa, come uno struzzo.

Stavolta toccò a Night rivolgere ai poliziotti un sorrisino storto.

«Non erano stronzate» ribatté poi lui, a voce bassa. «So cosa volevo, perché non mi sono mai interessate certe cose. Te l'ho detto, neanche Kyle mi...» si bloccò, deglutendo. «...eccitava. Tu, in compenso, sì» concluse come se nulla fosse, scrollando le spalle.

Colta alla sprovvista, Angie divenne paonazza.

«Puoi metterti l'animo in pace, quindi» mormorò Night, ghignando. Doveva aver notato l'espressione sul volto di lei, che divenne ancora più rossa.

«Ma...» Lungi dal volergliela lasciare vinta, Angie annaspò alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi. «Come mi spieghi gli unicorni, allora? Eh? EHH?»

«Gli unicorni?» ripeté Night, fissandola come se fosse impazzita. «Che c'entrano gli unicorni?»

«Già. Quei cosi cornuti e sbrilluccicanti per cui sembri avere un'adorazione» mugugnò, guardandolo storto.

Angie non si considerava attaccata agli stereotipi ma, andiamo, tutta quella passione sfrenata per gli unicorni gridava "Gay!" da ogni poro. In falsetto.

Night incrociò le braccia sul petto e le lanciò un'occhiataccia. «Non c'entra un cazzo.» Dopo un attimo aggiunse, piccato: «Gli unicorni sono bellissimi.»

Angie avrebbe voluto tenere il punto, ma il tono convinto e l'espressione corrucciata di lui la fecero scoppiare a ridere senza che riuscisse a trattenersi.

«È vero» ammise Angie, ridendo a tutto spiano e guadagnandosi un'altra occhiata dubbiosa da parte dei due poliziotti. «Gli unicorni sono bellissimi.»

Night stava ridendo a sua volta e, in soffio, la ragazza realizzò che era finalmente riuscita nel suo intento di distrarlo. Scosse appena la testa e si domandò quand'era successo.

Quando si era affezionata così tanto a quel dannato idiota.

****

Brook era morto.

Morto.

Non riuscivo a pensare a nient'altro.

Ricordavo di aver provato anche qualcos'altro.

Gioia, sì, nel momento in cui John e Beth erano riemersi dalle fiamme, quando ormai piangevo senza ritegno e credevo che la mia migliore amica e il ragazzo di cui si era innamorata fossero morti nell'incendio, ma poi li avevo visti uscire dalla scuola.

Gérard e Brook, però, non l'avevano fatto.

Avevo continuato ad aspettare, gli occhi fissi sull'edificio che si scioglieva tra le fiamme, aspettandomi di vederli comparire da un momento all'altro, i miei occhi che cercavano disperati i loro volti nella folla, nel caso in cui i due fossero usciti senza che me ne accorgessi, mentre la speranza si affievoliva sempre di più. E poi i pompieri avevano portato fuori il corpo di Gérard.

Non riuscivo a credere ai miei occhi. Mi ero fatta avanti a spintoni, urlando disperata, chiedendo notizie di lui e di Brook, ma i pompieri mi avevano detto che non c'era nessuno accanto a lui, quando avevano trovato il bidello in fin di vita.

Solo un cadavere.

Il cadavere di un ragazzino con il braccio steccato.

«È stazionario» mi informò Arianna, sedendosi vicino a me e lanciandomi un'occhiata preoccupata.

«Bene» udii me stessa dire, senza ricambiare il suo sguardo.

Gérard si trovava in terapia intensiva da quando era arrivato in ospedale. Le sue condizioni erano critiche ma, a quanto pareva, non stavano peggiorando. Anche Beth era stata portata in ospedale, dato che aveva perso conoscenza, e anche io mi ero ritrovata lì, insieme ad Arianna, anche se non ricordavo bene come.

Mi pareva di essere ubriaca. La testa mi girava e mi sentivo stanca ed intontita. Avevo un nome sulle labbra, volevo urlarlo a squarciagola, ma qualcosa mi tratteneva.

Brook.

Mi avevano detto che non era morto bruciato. Le fiamme lo avevano raggiunto dopo, ma era stato il monossido di carbonio ad ucciderlo. Quelle parole continuavano a rimbombarmi in testa. Me le aveva dette un pompiere dal volto stanco e gentile, probabilmente troppo provato da quella tragedia per far caso ai dettagli che avrebbe potuto omettere di fronte ad una ragazzina.

Un verso strozzato, che avrebbe potuto essere un singhiozzo soffocato, mi sfuggì dalle labbra. Oh, Brook. Chissà se se n'era accorto. Chissà se si era accorto che stava morendo.

Le lacrime mi sgorgarono dagli occhi senza che riuscissi a fermarle. Arianna mi passò goffamente un braccio intorno alla spalla, ma a malapena me ne resi conto. Poggiata contro di lei, continuai a piangere.

Perché non mi ero assicurata che Brook fosse con noi? Perché non lo avevo preso per mano? Ero stata trascinata via dalla presidenza da Gérard così in fretta che non ne avevo avuto il tempo. Ma era stato un errore imperdonabile. Un errore che non mi sarei mai perdonata.

«Aveva sventato il mistero» singhiozzai. «Stava per incastrare la preside.»

«Non ci pensare, Kia» sentii Arianna sussurrare. «Non ci pensare.»

Ma come potevo non pensarci? Allo sguardo che la preside ci aveva rivolto quando l'avevamo incrociata in ospedale, privo del dolore che la morte del proprio figlio avrebbe suscitato in chiunque. Quello sguardo di sfida, che ci diceva di provare pure ad incastrarla, adesso che tutte le prove dei suoi esperimenti degli studenti erano finite carbonizzate. Quanto a noi, senza gli ormoni che ci venivano somministrati quotidianamente, era solo questione di tempo prima che tornassimo alla normalità.

«È stato tutto inutile» dissi fra le lacrime.

Tutti gli sforzi che Brook aveva fatto erano morti con lui in quell'incendio. Voleva disperatamente portare alla luce la verità e non sarebbe mai successo, adesso che le prove di quegli esperimenti erano andati perduti tra le fiamme. Quella scuola si era portata via i suoi oscuri segreti e, con loro, anche il mio amico.

Contro di me, udii Arianna irrigidirsi e cercai di seguire il suo sguardo, malgrado la mia vista appannata per via delle lacrime.

Vicino alle macchinette automatiche, intravidi Lucas con in mano un bicchierino di caffè, lo sguardo incerto fisso su di noi, come se non sapesse se avvicinarsi oppure no. Arianna lo stava fissando a sua volta.

«Vai pure» mormorai, inghiottendo le lacrime.

Arianna si voltò verso di me e i suoi lunghi capelli mi solleticarono il volto. «Non importa» minimizzò lei. «Posso andarci dopo.»

«No» insistetti. «Vai, Ari.»

Forse Arianna intuì che quella di lasciarmi da sola non era una cortesia che le stavo facendo, ma una necessità, perché ricambiò il mio sguardo annuendo lentamente, e poi si alzò in piedi e si incamminò verso Lucas.

Rimasi a fissare la schiena della mia amica che attraversava il corridoio, sgombro ad eccezione di qualche studente che, come noi, stava aspettando notizie di un amico ricoverato, seduto su quelle scomode seggiole di plastica.

Era un'ala piuttosto tranquilla dell'ospedale e, fino ad allora, avevamo visto passare solo un medico e qualche infermiere. Avevo qualche vago ricordo di essere passata attraverso il pronto soccorso insieme ad Arianna, prima di arrivare lì, attraverso le urla, il caos e gli ordini perentori dei dottori, ma forse me l'ero solo immaginato. Avevo una gran confusione in testa.

In quel momento udii una musichetta esotica, che mi parve vagamente familiare. Rimasi immobile, intontita, finché i ragazzi seduti nelle vicinanze non si voltarono a fissarmi con aria piuttosto seccata. Solo allora realizzai che si trattava del mio cellulare.

Mi affrettai ad estrarlo dalla tasca e, quando vidi chi mi stava chiamando, pensai sul serio di stare sognando e per un attimo fui tentata di buttare giù. Non ero psicologicamente pronta per far fronte ai suoi commenti cinici ma, alla fine, spinta da un sentimento indefinibile che mi si allargava nel petto, mi portai il telefono all'orecchio.

«Luke?» domandai, incerta. Sapevo che, dal mio tono, lui avrebbe sicuramente capito che stavo piangendo e sospirai, pronta a ricevere una cascata di insulti.

«Stai bene?»

Rimasi con il cellulare a mezz'aria, non certa di aver capito bene. Era stato Luke a farmi quella domanda? E cos'era quel tono accalorato? Che fine aveva fatto la sua voce priva di qualsivoglia emozione?

«Kia?» ripeté lui.

«Io... Luke, sei davvero tu?»

Il telefono gracchiò. Luke stava sospirando. «Chi vuoi che sia, deficiente?»

Ora sì che lo riconosco.

«In che senso, se sto bene?» chiesi. «Hai saputo dell'incendio?»

«Certo» fece lui. «Tutti ne stanno parlando.»

Quella notizia mi lasciò vagamente inquieta. Tutti sarebbero venuti a conoscenza dell'incendio che aveva distrutto il liceo di St. Elizabeth, ma nessuno avrebbe scoperto il segreto che nascondeva. L'inquietudine lasciò ben presto il posto alla rabbia.

«Sto bene» mormorai, e fui sul punto di aggiungere qualcos'altro, ma poi mi zittii, mordendomi la lingua. Dopotutto non stavo mentendo: fisicamente stavo benone.

«Dove sei adesso?»

Un'altra domanda preoccupata, nessun altro insulto. Ventilai l'idea di chiedere a lui se stesse bene.

«Sono in ospedale.»

«Ma...»

«Arianna ed io stiamo aspettando che Beth si svegli» mi affrettai a spiegare. «Sta bene, ma ha perso i sensi. Ha il terrore del fuoco, non so se ti ricordi.»

«Menomale. Be'...» Luke, dall'altra parte, esitò. Era chiaro che quella nuova versione di se stesso mettesse a disagio tanto me quanto lui. «Volevo dirti che sto venendo ad Alnwick.»

«CHE COSA?» non riuscii a trattenermi dall'urlare, mentre tutti i ragazzi si voltavano all'unisono verso di me, fulminandomi con lo sguardo. Abbassai gli occhi a terra, rossa di vergogna.

«Sì, sono già sulla strada» rispose lui, apparentemente non troppo turbato dalla mia reazione scomposta. «I miei stanno preparando un servizio sulla scuola e sto venendo con loro.»

Mi diedi una manata in fronte. Avevo del tutto rimosso il fatto che i genitori di Luke fossero entrambi giornalisti. Era piuttosto naturale che si interessassero di una vicenda che, in quel momento, stava facendo il giro di tutta l'Inghilterra.

«Mi faccio lasciare all'ospedale, va bene?» fece lui. Senza attendere risposta, aggiunse: «Tanto immagino che ce ne sia solo uno. Ma sì, potrei giurarci. In quello sputo di cittadina...»

Non replicai, mentre lui continuava a lanciare improperi contro Alnwick. Scossi leggermente la testa, sconsolata. Non sarebbe mai cambiato.

«Luke?»

Lui si interruppe bruscamente, forse percependo la mia voce incrinarsi.

«Che c'è?» chiese, stupito.

E pensare che, giusto qualche minuto prima, non volevo neanche rispondergli. Mi ritrovai a sorridere impercettibilmente all'idea di vederlo, di gettarmi tra le sue braccia, di dimenticare per un attimo gli orrori che mi si agitavano dietro le palpebre.

«Grazie» dissi in un soffio, le lacrime che mi rigavano le guance.

 

Arianna si affrettò a raggiungere Lucas, che l'aspettava di fronte alle macchinette.

«Mi dispiace» mormorò lui, fissando un punto oltre la sua spalla. Kia, intuì Arianna. «Non volevo disturbarvi...»

«Non c'è problema» mormorò lei, abbozzando un sorriso. Si voltò a sua volta verso l'amica, che fissava come in trance un punto fisso davanti a sé. «Penso che voglia stare un po' da sola.»

«Era così amica di Brook?» domandò il biondo, dopo un momento di esitazione. Arianna gli aveva raccontato a grandi linee la causa del suo malessere.

«Si conoscevano da poco, però... sì» rispose lei, corrugando la fronte con aria pensierosa. Aveva avuto il vago sospetto che tra i due fosse nato qualcos'altro, oltre all'amicizia, ma non era certo il momento di approfondire la questione.

«Ti ho portato il caffè» fece lui, riscuotendosi, allungandole il bicchierino.

«Grazie» mormorò lei, soffiando sopra il liquido, che aveva l'aria a dir poco bollente.

«Gérard invece come sta?» proruppe Lucas, appoggiandosi contro una delle macchinette, che si piegò con uno scricchiolio sinistro sotto il suo peso.

Arianna affrettò ad allontanare Lucas da lì e, al pensiero del bidello, sorrise con affetto. Non era un segreto che la ragazza andasse a controllarlo regolarmente ogni due ore: gli si era sinceramente affezionata, dopo aver scoperto che aveva protetto Night per tutti quegli anni, dopo che aveva aiutato lei e Kia a fuggire dall'incendio e dopo che aveva messo a repentaglio la sua vita per tentare di salvare quella di Brook. Sotto la scorza dell'uomo duro e sprezzante, Gérard nascondeva un animo davvero nobile.

«Stabile» rispose, ripensando alle parole che le avevano rivolto i dottori.

La prognosi del custode a dire il vero sarebbe stata riservata, ma i medici che l'avevano in cura alla fine avevano avuto compassione della gracile ragazzina che faceva instancabilmente la spola dal corridoio alla stanza dov'era stato ricoverato. A dirla tutta, dopo tutte quelle ore passate sveglia, Arianna cominciava a sentire gli effetti della stanchezza.

«Il caffè è zuccherato?» chiese.

«No, no» si affrettò a dire Lucas. «Tranquilla.»

Arianna inarcò le sopracciglia e gli rifilò il bicchierino senza averlo minimamente toccato.

«Fila a metterci lo zucchero» borbottò poi, guardandolo storto.

Lui la fissò come se avesse completamente perso il senno. «C-che cosa?»

La ragazza sbuffò, vagamente divertita da quella reazione che, dopotutto, era più che immaginabile. «Lucas, sono in piedi da venti ore e non ho alcuna intenzione di mettermi a dormire. Ho bisogno di un po' di zuccheri nel sangue, oltre alla caffeina. Sbaglio?»

Essendo un appassionato di sport ed alimentazione, Lucas aveva il pallino della biochimica, malgrado il suo impegno scolastico lasciasse molto a desiderare. Dovette intuire che il discorso di Arianna aveva perfettamente senso, perché drizzò le spalle come un soldatino, si scolò il suo caffè e si mise obbedientemente a farne un altro.

In quel momento, un acuto risolino attirò l'attenzione di Arianna, che si sporse oltre Lucas, in direzione della voce, e quello che vide la lasciò di stucco.

Davanti a loro, nascosti dalla massiccia figura del biondo, c'erano Shadow e Annie.

Li aveva incrociati qualche ora prima e sapeva che entrambi erano stati portati in ospedale per aver riportato delle ustioni superficiali, ma dovevano sentirsi molto meglio, pensò la ragazza inarcando un sopracciglio, a giudicare da come stavano ridendo.

Dei due, solo Shadow aveva delle bende visibili, intorno alle braccia. Annie, in compenso, aveva ancora quella ridicola fasciatura sul naso, dopo la rissa di cui era stata vittima. Arianna sorrise vagamente tra sé e sé, ripensando a quanto aveva goduto nel vedere Angie prenderla a pugni. Anche se non gliel'avrebbe mai detto, ovviamente.

Doveva essere proprio la fasciatura il motivo della loro ilarità, perché lui gliela stava indicando con il dito e stava dicendo qualcosa che Arianna non uscì a udire, dato che la risata squillante di Annie copriva ogni rumore circostante.

Quando nel corridoio risuonò all'improvviso una vivace suoneria – che, voltandosi, Arianna scoprì provenire dal cellulare di Kia – persino più acuta del riso di Annie, Shadow si mise ad ondeggiare al ritmo di musica e a quel punto entrambi ridevano così tanto che si dovettero appoggiare alle macchinette per non cadere.

Arianna si scoprì a sorridere impercettibilmente: erano una boccata d'aria fresca, in mezzo a tutto quel dolore. E non poteva negare che tra i due ci fosse una certa intesa.

«Arianna, il caffè!»

La voce di Lucas la riportò bruscamente alla realtà ed Arianna distolse lo sguardo, affrettandosi ad afferrare il bicchierino che il ragazzo le stava porgendo. «Grazie mille.»

Dopo aver aspettato che il liquido si facesse un po' meno ustionante, Arianna se lo portò alle labbra e sorrise nel constatare che, dopo tutto quello che era successo, l'idea di stare ingerendo dello zucchero non la disturbava poi così tanto.

Non lo bevve tutto d'un fiato, come se fosse in preda ai sensi di colpa e volesse cancellare al più presto le prove di ciò che aveva fatto; non lo bevve a piccoli sorsi, come se ne avesse paura.

Si gustò il suo caffè, inebriandosi del suo aroma e apprezzandone la dolcezza, pensando poi a come avesse potuto berlo nero fino a quel momento, dato che senza zucchero faceva veramente schifo.

«Cosa stanno facendo?» udì Lucas chiedere.

Arianna alzò gli occhi sul ragazzo, che stava fissando dritto davanti a sé, verso Shadow ed Annie, con le sopracciglia aggrottate.

«Niente, Lucas» tagliò corto lei, un sorriso d'affetto che tradiva il suo tono di sufficienza. «Te lo spiegherò quando sarai più grande.»

 

«Li hai visti?»

Alzai stancamente gli occhi verso Arianna, che mi stava venendo incontro. Come faceva a essere così pimpante, dopo che eravamo entrambe sveglie da almeno venti ore?

«Visto cosa?» mormorai, aggrottando le sopracciglia.

Lei liquidò la domanda con un gesto della mano. «Niente, niente.»

Si sedette accanto a me e indicò con lo sguardo il cellulare che avevo in grembo. «Chi era?» chiese poi. «Credo abbiano sentito la tua suoneria anche al decimo piano.»

Mi sforzai almeno di sorridere alla sua battuta, ma le mie labbra parevano incollate all'ingiù e, in un soffio, mi resi conto di essere davvero spossata. Volevo solo accasciarmi da qualche parte. Dormire, magari. Qualsiasi cosa che allontanasse da me il pensiero di Brook almeno per un istante.

Arianna, nel frattempo, continuava a guardarmi e realizzai che stava ancora aspettando una risposta.

«Luke» risposi allora, riscuotendomi.

I suoi occhi bruni si sgranarono per lo stupore.

«Sì» mormorai, sospirando. «Anche io devo sempre riprendermi.»

«Che cosa voleva?» domandò, inclinando il capo. «Pensavo fosse Angie. A proposito, hai sue notizie?»

Osservai Arianna, scuotendo appena la testa. Nonostante nessuna delle due l'avrebbe mai ammesso neanche sotto tortura, erano davvero affezionate l'una all'altra.

«Angie mi ha mandato un messaggio poco fa» risposi, tenendo il cellulare sott'occhio e lottando per tenere le palpebre aperte. «Sembra che Night non rischi il carcere per quel che è successo. Anche se ha raccontato ciò che ha fatto ad Henry durante gli anni di scuola. E poi...» mi bloccai, stringendo gli occhi. «Mi ha scritto qualcosa sugli unicorni. Non capisco.»

«Night ha detto la verità, quindi...» mormorò Arianna, pensierosa.

«Luke invece sta venendo qui.» Notando lo sguardo perplesso della ragazza, aggiunsi: «Accompagna i suoi. Sono giornalisti.»

Arianna mi afferrò un braccio con uno scatto così repentino che quasi mi venne un colpo.

«Che c'è?» bofonchiai, drizzandomi sulla sedia.

Lei aprì la bocca e la richiuse, come se non riuscisse a dare frase a ciò che le passava per la mente. «Kia, ma...» si bloccò, scuotendo vigorosamente la testa. «Ma non te ne rendi conto?»

Ricambiai il suo sguardo emozionato – emozione? Arianna? Stavo forse sognando? – con espressione stanca. «Rendermi conto di cosa

«Kia, hai decisamente bisogno di dormire» decretò lei, scrutandomi con aria comprensiva. «Hai appena detto che i genitori di Luke sono dei giornalisti. Possiamo raccontare a loro la verità sui segreti della scuola!»

La fissai, travolta dal peso di quell'idea, ma dopo un attimo il mio sguardo era già a terra, il mio morale sotto i tacchi.

«È tutto inutile» borbottai. Come faceva Arianna a non capire? «È andato tutto perso. Tutto.»

Con lui.

«Non è vero.»

Il tono di voce di Arianna era così perentorio da costringermi a voltarmi verso di lei, che mi fissava, scuotendo impercettibilmente la testa.

«Non è tutto perduto» affermò decisa. «Non me lo hai detto tu? Night ha raccontato la verità ai poliziotti. Lui, che ha tenuto dentro di sé quel segreto per tutti questi anni, pur di non esporre Kyle. Abbiamo la sua testimonianza. E quella di Gérard.»

Si bloccò un momento e pensai si fosse resa conto che non c'era certezza del fatto che il custode sopravvivesse, ma mi sbagliavo.

«Avanti, è quasi morto per questa storia. Non appena si sveglierà, collaborerà senz'altro.»

«Forse...» borbottai, trascinata mio malgrado dal suo entusiasmo.

«E poi, anche noi abbiamo vissuto in prima persona certe vicende. Abbiamo provato la macchina sulla nostra pelle, abbiamo visto come si comportavano i ragazzi.» Si accigliò all'improvviso. «Lo sai? Ho una teoria. Ho una teoria sul perché gli ormoni si siano manifestati in noi in modo così disomogeneo.»

La fissai come se mi avesse appena spiegato la terza legge della termodinamica in cinese mandarino. «Eh?»

«Per esempio, Lucas è pieno di energie, ma non è violento. Secondo me è perché riesce a sfogarsi nello sport e, be'... in altre attività.» Le sue gote si colorarono leggermente e cambiò agilmente argomento prima che potessi aggiungere altro. «Invece, prendi John. Era considerato dalla preside uno degli elementi peggiori, ad esclusione di Night, ma lui non conta, perché non è mai passato dalla macchina. John era un emarginato, a scuola: non faceva parte della squadra, non frequentava altri ragazzi. E altre ragazze. In pratica, non si sfogava né con lo sport né con... altre attività. Ecco perché era così violento!»

«Ed ecco perché la preside teneva tanto al fatto che Beth lo avvicinasse» mi ritrovai a dire senza neanche rendermene conto.

«Esatto!» esclamò lei. «Kia, stai tornando in te.»

«Forse potremmo parlarne davvero con i genitori di Luke» mormorai, infine. «Basta che la finisci di parlare. Ma che ti hanno fatto, ti hanno dopata?»

Arianna soffocò un risolino. «Penso sia lo zucchero.»

«Lo zucchero..?»

Prima che Arianna potesse degnarmi di una spiegazione, una dottoressa ci si parò davanti. Aveva gli occhi fissi su Arianna e, nel rivolgersi a lei, un sorriso le sfuggì dalle labbra.

«Signorina...» mormorò, l'emozione che trapelava dalla sua voce. «Penso che le faccia piacere sapere che il paziente di cui chiedeva notizie si è appena svegliato.»

A quella notizia, Arianna sgranò gli occhi e scattò in piedi come una molla, affrettandosi a seguire la dottoressa lungo il corridoio, che si era avviata verso il reparto rianimazione.

Mi sentii sinceramente felice per Gérard. Ma il pensiero del custode, malgrado tutto, mi riportava prepotentemente con la mente a Brook.

E il pensiero di Brook, adesso che Luke mi aveva telefonato, mi portava ad altro. Ad un foglietto di carta che avevo nella tasca dei jeans e che di colpo mi parve pesante come un macigno. Me l'ero fatto dare dagli amici di Brook, che mi avevano guardata con espressione strana, sgranando gli occhi come se si fossero resi conto in quell'istante che nessuno di loro ci aveva pensato, o forse avevano evitato accuratamente di farlo.

Era una cosa da fare, per quanto difficile. Mi dissi che magari, in quel lasso di tempo, gliel'avevano già detto. Ma se invece non l'avevano fatto? Non mi erano parsi granché affidabili e tenevo al fatto che lo venisse a sapere da un'amica.

Decisi che era meglio approfittarne, ora che Arianna si era allontanata per un po'. Deglutendo, estrassi il bigliettino dalla tasca. Sopra, scritto a matita, c'era un numero di telefono.

Digitai le cifre con dita tremanti e mi portai il telefono all'orecchio. Il cuore mi batteva prepotentemente nel petto, al ritmo dei tuu-tuu-tuu del cellulare.

«Pronto?»

Aveva risposto.

Aveva risposto sul serio.

In un soffio, mi ritrovai a pensare che la sua voce sembrava simpatica.

«Ciao, Lacey» mi sforzai di dire. «Sono... sono un'amica di Brook.»

«Sì. Cosa c'è?»

Cazzo.

No, non l'avevano ancora avvertita.

Con una fitta al petto, mormorai: «C'è una cosa che devo dirti.»

 

*In un universo parallelo:

Beth: «L'hai scritta davvero tu?»

John: «Assolutamente no.»

 

La canzone non appartiene né a me né a John. È "Lucy" degli Skillet. Se non la conoscete ascoltatela perché non è bella, di più! <3

Hey Lucy, mi ricordo il tuo nome

Oggi ho lasciato una dozzina di rose sulla tua tomba

Sono in ginocchio sull'erba, spazzo via le foglie

Sono solo venuto per parlare un po'

Ho un po' di cose che ho bisogno di dire
 

Ora che è finita

Voglio solo stringerla

Rinuncerei a tutto il mondo per vedere

Quel piccolo pezzo di paradiso guardando dietro di me

 

Ora che è finita

Voglio solo stringerla

Devo vivere con le scelte che ho fatto

E oggi non riesco a vivere con me stesso

 

Eccoci qui

Ora sei tra le mie braccia

Non ho mai voluto così tanto qualcosa

 

Eccoci qui

Per un nuovo inizio

Vivendo la vita che avremmo potuto avere

 

Ebbene sì. Love School finisce così.

Un finale che credo lasci un po' di amarezza nei vostri animi fantasma, ma anche un po' di speranza. Sembra che ogni cosa per le protagoniste in futuro volgerà per il meglio... anche se non ci si può liberare del tutto dall'impressione che la preside l'abbia un po' fatta franca. Per non parlare di Brook! Oh, Brook! (Adam non se lo incula nessuno, a parte Angie).

Spero che abbiate colto il parallelismo delle situazioni sentimentali di Beth e Night. Mi sarebbe piaciuto sovrapporre in qualche modo le loro confessioni, ma insomma, non è un lungometraggio e probabilmente sarebbe venuto un caos, quindi beccateveli così. Adoro l'idea che abbiano scoperto la loro pansessualità in questo modo. Adoro la pansessualità e basta. Dio, se esisti (*si morde la lingua per non fare qualche commento osceno/ateo/blasfemo temendo la presenza di qualche lettore fantasma cristiano*) nella prossima vita fammi rinascere pansessuale, grazie.

Tornando al nostro Strinatino, che dire? Fin dall'inizio avevamo "decretato la sentenza" di Brook (povera stella), ma mi sarebbe piaciuto dargli un po' più di spessore e presenza nella storia, anziché farlo comparire a quattro capitoli dalla conclusione. Come il mistero, del resto. Ehh lo so. Fa un po' schifo, così. Ma ho deciso che Love School, in quanto frutto dei nostri deliri adolescenziali, non potrà mai essere un capolavoro. È una storia senza pretese, che non si prende sul serio, nata per strappare due risate e magari anche una lacrimuccia (dai, per Brook! No, scherzo). Ma a noi, insomma, alla fine piace così. Spero sia piaciuta anche a voi <3

Spero di riuscire a caricare un non-capitolo nei prossimi giorni, per qualche ringraziamento random e qualche curiosità sulla storia e su come abbiamo collaborato per la sua creazione, cosa che magari, non so, vi può far piacere :) Oltre a qualche info pratica su prequel e sequel (Love School è una vera saga, mica pizza e fichi, fantasmi miei!)

Un bacio. Ci vediamo presto,

Cassidy.

PS: Confesso che non è un caso. Mi piace troppo inserire il cantautorato italiano nei miei dialoghi trash. Scusami Rino!

Kia che urlava e piangeva E LA GENTE DICEVA: ANVEDI CHE SANTO, VESTITO D'AMIANTO!

 

  
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