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Autore: MaxB    26/05/2020    4 recensioni
Questa è una storia che ho iniziato a scrivere dopo aver finito di leggere il secondo volume, quando ancora doveva uscire il terzo.
La considero una prosecuzione della storia originale come se il terzo libro non esistesse, e narra quindi delle vicende familiari che si sono succedute dopo la fine de Gli scomparsi di Chiardiluna, con leggere modifiche alla trama.
Sostanzialmente, Thorn e Ofelia saranno alle prese con la vita quotidiana da coppia sposata, cercando di capirsi, vivere insieme e prendere confidenza l'uno con l'altra.
E con un inaspettato desiderio di Ofelia...
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ed ecco un raro esemplare di Thorn alle prese con il parto, signori e signore!
Buona lettura e grazie mille in anticipo^^


Capitolo 10

Sbattuto fuori dalla sua stessa camera, Thorn aveva trascinato una sedia di fianco alla porta e vi si era seduto, scarmigliato, in vestaglia, come una guardia, come aveva fatto durante la nascita di Vittoria. Questa volta però era una situazione del tutto diversa. Diametralmente opposta. Al di là del muro c’era sua moglie, che stava per dare alla luce sua figlia. Mai al mondo avrebbe immaginato che una circostanza simile potesse verificarsi.
Per anni aveva vissuto nella convinzione che sarebbe morto solo, che non avrebbe mai avuto una moglie, e si era abituato al pensiero. Provando repulsione per la quasi totalità degli esseri umani, uomini o donne che fossero, l’idea di non avere nessuno accanto non lo aveva spaventato, semmai il contrario. Quando poi aveva ceduto alle insistenti richieste di sua zia, aveva deciso che il matrimonio si sarebbe celebrato alle sue condizioni e per i suoi scopi. E lui uno scopo ce l’aveva.
Era stato per interesse che aveva cercato un’Animista, oltre al fatto che nessuna al Polo sarebbe stata disposta a prenderlo come marito. Una moglie per convenienza, ecco cosa gli serviva. Avrebbero magari condiviso le notti, una volta che lui si fosse abituato alla presenza di quest’ultima; avrebbe potuto trarre qualche vantaggio dagli obblighi coniugali, per quanto fosse cinico all’idea, inizialmente. Ma i figli erano fuori discussione, anche se non lo avrebbe mai ammesso apertamente con sua zia, che non desiderava altro che vederlo mettere al mondo una nidiata di pargoli urlanti e disturbanti.
Invece era lì, dopo anni era seduto fuori dalla camera della donna che amava più di qualsiasi altra cosa, per cui avrebbe venduto tutto, barattato la sua stessa vita. Che non solo gli aveva proposto di avere un figlio insieme, una piccola creatura nata dall’incrocio scientifico dei loro geni e delle loro caratteristiche, ma che lo aveva convinto del fatto che sarebbe stato bello. Che lui sarebbe stato un bravo padre.
Scattò in piedi sulla sedia e cominciò a passeggiare avanti e indietro di fronte alla porta, e poco dopo arrivò sua zia Berenilde, eccitata, con il volto roseo e Vittoria al seguito, sorridente.
- Caro nipote, in quale stato ti trovi? È pur vero che ci troviamo alle prime ore dell’alba, ma non mi sembra così consono che tu giri in vestaglia.
Senza attendere risposta affidò Vittoria alla domestica che le aveva seguite, ordinandole di metterla ancora un po’ a letto e poi di provvedere alle sue necessità. Mentre le due si allontanavano, appena prima di entrare nella stanza, Berenilde sorrise a Thorn, entusiasta.
- Dovrai ammetterlo prima o poi, Thorn. Ci ho visto molto bene, molto molto bene, quando ti ho scelto la sposa. Non avrei mai immaginato di vederti ammogliato. A dire il vero, ti ho sempre figurato come un marito, era naturale, ma mai come un uomo innamorato. Ora sei un uomo innamorato e quasi padre. Vai a vestirti, sciò, renditi presentabile! Vorranno tutti l’esclusiva sulla foto della famiglia dell’intendente! Che emozione.
Urlò di gioia prima di entrare nella stanza, ma Thorn non riuscì a rubare nemmeno una fugace visione di ciò che accadeva al suo interno. Cercando di non pensare troppo alle parole della zia, si avventurò verso la stanza degli ospiti che occupava prima che Ofelia gli consentisse di dormire insieme. Si concesse una doccia veloce, si rasò e pettinò, indosso una camicia e un paio di pantaloni puliti e tornò a fare la posta davanti alla porta della sua camera. Per due ore.
 
- Signor intendente!
Thorn alzò la testa con una smorfia. Era rimasto così immobile che la schiena aveva cominciato a dolergli ed era sicuro di avere qualche articolazione addormentata. Si era lasciato rapire dai suoni ovattati che giungevano all’interno della camera: gridolini, per lo più di sua zia, rimproveri, della signora Roseline, ordini, della levatrice. Ofelia invece non fiatava. Era in travaglio da più di cinque ore ormai, avrebbe già dovuto urlare e maledirlo? Avrebbe dovuto essere lì dentro con lei, non su quella sedia in mezzo al corridoio del loro castello. Era ridicolo.
E poi quella voce che lo chiamava. Del consigliere di Ofelia, Renold. Si stava avvicinando velocemente, perciò Thorn non vedeva la necessità di urlare la sua presenza come stava facendo lui. Era bastato quel richiamo ad infastidirlo: Ofelia aveva bisogno di pace, non di strepiti.
- Signor intendente! – lo chiamò di nuovo, esaltato.
A Thorn non andava particolarmente a genio quell’uomo, non perché avesse fatto qualcosa di sbagliato, quanto per ciò che rappresentava: una fonte di pettegolezzi. A corte si era scoperto che Ofelia conosceva Renard da prima che lo assumesse. E lo aveva adoperato come consigliere personale. Che bisogno può avere una donna maritata di un consigliere? Per quelle cose c’è il coniuge, soprattutto visto che, nella mentalità ristretta degli arroganti aristocratici, le donne non sono tenute ad avere opinioni personali. Oltretutto, Ofelia e Renard lavoravano insieme al suo studio, con molto tempo libero e da soli, lontano da sguardi indiscreti.
Thorn non dubitava della fedeltà di Ofelia, la sua gelosia non intaccava la sua fiducia, ma le voci che circolavano erano di tutt’altro avviso. Alcuni mormorii addirittura mettevano in dubbio la legalità del matrimonio o l’identità del padre. Thorn non avrebbe mai messo a tacere quelle voci per il solo fatto che erano foriere di calunnie, ma questo non impediva loro di urtare sensibilmente i suoi nervi.
E l’uomo imponente che si stava avvicinando a lui urlando e con il viso rosso come il pelo che lo ricopriva era la causa di tutto quel chiacchiericcio. E stava molto tempo con sua moglie.
Thorn cercò di dominare il nervosismo meglio che poté.
- Signor intendente, allora è vero? Ofelia sta… cioè, la vostra signora sta partorendo?
Era difficile non badare alla facilità con cui Renard si era lasciato sfuggire il nome della moglie, come due intimi amici con un rapporto stretto e aperto, ma Thorn si consolò con il fatto che evidentemente quell’uomo così vicino a sua moglie non sapeva nemmeno a che punto fosse il travaglio.
- Sì – rispose laconicamente.
Sul volto dell’uomo passarono in un istante gioia e timore, vergogna per la reazione esagerata e poi esultanza. Possibile che non fosse in grado di controllare le sue emozioni? Thorn fece una smorfia e aggrottò le sopracciglia, già increspate al massimo.
- Congratulazioni signor intendente, congratulazioni! Desiderate che avverta qualcuno? I genitori di vostra moglie, il padrino e la madrina…? È in anticipo rispetto alla scadenza, chiamo un medico? Oppure devo…?
- Fate silenzio – borbottò Thorn, con una voce così bassa eppure stentorea che Renard ammutolì e valutò addirittura se fosse il caso di fare una riverenza.
Non è che l’intendente gli ispirasse antipatia, ma nemmeno simpatia. Il problema era che la maggior parte del tempo non riusciva a decifrarlo, e si chiedeva spesso come riuscisse a farlo Ofelia. Li aveva visti, ogni tanto, per errore, quando erano in soggiorno da soli. Il modo in cui l’intendente la guardava o la toccava lo aveva impressionato: quell’uomo non aveva mai contatti con nessuno, non si interessava al parere altrui e rifuggiva la compagnia di chiunque. Ofelia invece lo teneva in pugno. Se fosse stata più arrivista e manipolatrice avrebbe potuto renderlo il suo burattino personale. Invece lo rispettava quanto lui la ammirava. Il loro era un legame così intenso e misterioso che Renard non avrebbe mai potuto capirlo, lo percepiva, ed era felice che finalmente quell’uomo burbero e solitario avesse trovato qualcuno con cui dividere gioie e dolori dell’esistenza.
- In effetti, non sarebbe una cattiva idea quella di avvertire i genitori di Ofelia. Il piano era quello che arrivassero due settimane prima del parto e si trattenessero per le due successive, ma ora c’è la possibilità che ripartano dopo essere stati qui per soli quattordici giorni. La bambina sarà già nata, del resto, e la loro presenza non sarà più indispensabile.
Quando Thorn si zittì, dopo quei borbottii da monologo, Renard rimase in silenzio, senza capire cosa dovesse fare.
Alla fine si schiarì la voce, a disagio. – Dunque contatto la famiglia della signora?
- Sì, contattateli e metteteli a parte del fatto che Ofelia sta partorendo. Chiedete loro come intendono procedere.
- Agisco, signor intendente. Scusi se ho l’ardire di chiedere nuovamente, ma volete che contatti anche la madrina e il padrino? Di norma loro dovrebbero essere presenti al parto. A meno che non siano entrambi stati scelti tra i membri della famiglia della signora. In tal caso…
Era sempre così chiacchierone quel consigliere, o era solo l’eccitazione del momento a renderlo tanto loquace?
Thorn lo zittì con un gesto, rendendosi conto che Ofelia non aveva fatto in tempo ad avvisarlo che sarebbe stato lui a ricoprire quell’incarico. Toccava a lui sbrigare quell’incombenza, allora.
- Sarà necessario chiamare solo la madrina. Si tratta di Gaela, la vostra conoscente, la meccanica sotto la protezione di madre Ildegarda.
Sconvolto, Renard lo guardò con gli occhi spalancati. – Gaela?! Ma… non per mettere in discussione le vostre scelte, però siete sicuri della scelta di Gaela? Si solleverà un polverone quando i giornali diffonderanno in ogni angolo la notizia che la madrina della figlia del più importante funzionario del Polo non è niente meno che una meccanica.
Thorn non mostrò alcuna reazione. – Così ha deciso Ofelia. So bene quanto l’aristocrazia ambisca a questo ruolo, abbiamo ricevuto duecentotrentadue lettere da parte di nobili che chiedevano di poter assumere quella carica, in cambio di favori o altri generi di compensi. Ofelia non ne ha voluta aprire nemmeno una, io ne ho lette due e ho bruciato il resto senza aprirlo. Le quisquilie di corte non ci riguardano, chiamate la meccanica. Assicuratevi solo che non si presenti con una tuta coperta di morchia.
Renard deglutì. Gaela gli avrebbe fatto una scenata, ne era sicuro.
- Il padrino siete voi, quindi vedete di arrivare puntuali, non so quanto ancora ci vorrà prima che la bambina nasca.
Renard si sentì mancare. Il padrino? Lui? Sapeva che Ofelia era una pazza che non prestava attenzione ai codici di comportamento e alla gerarchia del Polo. Aveva visto in che ambiente era cresciuta, un ambiente sano, dove regnavano equità e legami famigliari, dove nessuno era più importante di un altro e i domestici non sapevano nemmeno cosa fossero. Ma non credeva che Ofelia volesse onorare le tradizioni Animiste, scegliendo le persone che amava tra coloro che potevano ricoprire l’incarico, a dispetto del lignaggio.
Aveva gli occhi lucidi quando annuì e rispose: - Vi ringrazio per la fiducia, signor intendente. Vi ringrazio davvero per questo onore.
Thorn grugnì, incapace di ammorbidirsi, e lo liquidò con un gesto secco.
Renard si allontanò barcollando, mentre una gioia incontrollabile gli esplodeva in petto. Ofelia aveva coraggio da vendere. E suo marito era una bella persona. Per quanto fosse austero e inflessibile, per quanto lo desse costantemente a vedere a tutti, si era reso conto in quel momento che era solo una facciata. Appena prima di girarsi per andarsene infatti, aveva visto il lampo di sollievo e gratitudine che aveva attraversato quegli occhi metallici e gelidi.
E Thorn si era reso conto che Renard era un brav’uomo, perché Ofelia non si sarebbe mai circondata di persone che non fossero sincere e d’animo puro. Se gliene avesse data l’occasione, forse sarebbe riuscita a sovvertire completamente le leggi del Polo.
Divertito all’idea, venne attraversato da una scarica di fastidio quando arrivò Archibald.
 
Era passato da poco mezzogiorno e davanti alla porta della camera da letto padronale si era radunato un gruppetto di persone che sembravano pronte a litigare da un momento all’altro: Archibald canticchiava e danzava da solo urtando i nervi di Thorn, che se ne stava seduto immobile sulla stessa sedia da troppe ore, mentre il consigliere cercava di fare il galante con la meccanica che, da parte sua, non lo considerava nemmeno, presa com’era dall’angoscia.
Infatti stava borbottando da sola da quando era arrivata lì, mezz’ora scarsa prima. – Cosa le salta in mente! Le avevo detto non lasciarsi infettare dall’ipocrisia di quest’arca, ma, per tutti i motori scassati e fumanti, non volevo che sovvertisse le leggi implicite della buona creanza!
Smadonnò un po’ prima di dirigersi al bagno per la terza volta, cercando di lavarsi via dalle dita le macchie nerastre che ormai sembravano essere diventate il colore naturale della sua pelle. Per l’occasione aveva indossato l’unico vestito che aveva, regalatole anni prima da Madre Ildegarda, con la promessa che un giorno le sarebbe servito. La vecchia signora era stata lungimirante, e aveva fortunatamente pregato Gaela di non buttarlo e di tenere da conto quel pezzo di stoffa. Alla meccanica erano serviti pazienza e una buona dose di imprecazioni che avevano fatto arrossire persino Renard e Salame, che viveva con lei ormai stabilmente, per poter riesumare quel vecchio regalo abbastanza sgradito.
Renard si era messo in ghingheri di tutto punto per essere presentabile, non solo alla nascita della figlioccia, ma anche per convocare la sua bella meccanica. Si era preparato agli insulti di circostanza e alle smorfie di disappunto che Gaela avrebbe sicuramente fatto vedendolo, ma non si era aspettato che lei andasse nel pallone. Cercava di mascherare l’emozione e la gratitudine dietro il turpiloquio e l’agitazione della ricerca dell’abito, ma Renard la conosceva troppo bene: Ofelia, con la sua richiesta inusitata ed eccentrica, aveva commosso quella donna con gli ingranaggi al posto del cuore. Quando l’aveva vista asciugarsi una lacrima di nascosto aveva sorriso sotto i baffi, fingendo di non aver notato nulla. Quella meccanica così ostica lo sorprendeva sempre.
Aveva trattenuto il fiato quando, dopo averlo cacciato dalla sua stanza, lo aveva raggiunto, nervosa e irrequieta, vestita come una signora e con i ricci capelli neri acconciati alla bell’e meglio in un morbido chignon. Aveva tentato di sperticarsi in complimenti, ma lei gli aveva subito tarpato le ali.
- Risparmia il fiato, pelo fulvo. Questa è l’ultima volta che mi vedi così – lo aveva apostrofato, precedendolo.
Renard aveva faticato a trattenersi dal ridere quando aveva notato gli stivali malconci da lavoro che spuntavano da sotto la gonna ad ogni passo.
Amava quella donna.
- Ma è regolamentare questa roba? – chiese Gaela tornando dal bagno, asciugandosi selvaticamente le mani sul vestito, rivolgendosi a Thorn come ad un suo pari.
- Vi ho fatto la cortesia di rispondervi tre volte quando ne bastava una. Gradirei un po’ silenzio, se non vi dispiace. E questa è una richiesta rivolta a tutti – rispose Thorn, senza guardare in faccia nessuno, concentrandosi sulle linee geometriche del tessuto del tappeto.
Archibald ridacchiò e interruppe il suo balletto improvvisato di fronte a Gaela. – Meravigliosa signorina meccanica al servizio della compianta e defunta Madre Ildegarda, certo che è regolamentare. I genitori del nascituro sono liberi di scegliere la madrina e il padrino anche tra i nullatenenti e i topi di fogna, se lo desiderano. Non mi guardate in questo modo così violento, vi prego, mi fate battere forte il cuore. Non mi stavo mica riferendo a voi!
Infastidito, Renard si frappose tra Archibald e Gaela, alla quale l’ambasciatore aveva tentato di prendere la mano. – Ciò che il signor ambasciatore cerca di dire con tanti giri di parole, Gaela, è che non c’è nessuna legge che vieta ai genitori di scegliere qualcuno che non sia di nobile lignaggio. Solitamente non accade perché gli aristocratici fanno carte false per accaparrarsi un posto di preminenza in vista delle nascite importanti. Ma ovviamente Ofelia non è una donna corruttibile o alla ricerca di introiti.
- Ripeto: è la terza volta che ve lo dico – intervenne Thorn.
L’allegra compagnia sul piede di guerra si zittì quando si aprì la porta e ne uscì madama Berenilde, accaldata e raggiante. Il nipote scattò in piedi come una molla, come se la comparsa della donna avesse attivato un qualche meccanismo di eiezione sulla sedia su cui si era abbarbicato.
- Sta bene, sta bene, procede tutto per il meglio – lo anticipò Berenilde notando la reazione del quasi padre. – Che piacere Archibald, non pensavo foste arrivato. Qualcosa vi lega inesorabilmente alla nostra famiglia, a quanto pare.
Archibald ammiccò, ma non poté ribattere nulla perché Thorn non gliene diede il tempo. – Come procede? Ofelia sta male? Se potessi entrare per un solo istante…
- Mi dispiace caro nipote, sai bene che non è possibile. Ofelia se la sta cavando bene, è più forte di quanto potessi immaginare. Fisicamente intendo. Mingherlina e bassina com’è pensavo che il suo fisico fosse più fragile del suo spirito, invece ti ho trovato una moglie più tosta del previsto. Del resto, per poter passare la vita con te…
- Ha male?
- Ma certo che ha male, Thorn! È un parto, non un bagno rilassante o uno spettacolo teatrale. Ma tiene duro. Tu non potresti fare nulla per alleviare il suo dolore. Con permesso, vado a vedere come sta la mia adorata Vittoria e a prendere un po’ di respiro. Ho faticato così tanto lì dentro…
La madama si allontanò in un fruscio di gonne vaporose, lasciando Thorn impietrito in mezzo al corridoio. Non si era mai sentito così inutile in vita sua, e il reso conto della zia non lo aveva aiutato a placare l’ansia che gli aveva attanagliato il petto come un’artigliata.
Fu Archibald a rompere il silenzio. – Se non fossimo in una situazione così delicata, mia cara signorina meccanica, sappia che la corteggerei profusamente. Non mi è mai capitato di trovarmi in presenza di due donne così piene di grazia e bellezza e non di non averne sedotta nemmeno una. Spero che in futuro la cara signora Thorn mi cerchi di persona, ma voi, mia adorata, prevedo che cederete molto prima.
Gaela alzò la mano con il chiaro intento di tirargli un manrovescio o un pugno, ma Renard la bloccò afferrandole il polso e allontanandola di qualche passo, mentre lei si dimenava. Archibald ridacchiava impunemente, lanciandole un languido bacio con la mano.
- Non accetto di essere trattata come una sciacquetta da sottobordo! – sbraitò lei, infuriata come poche volte.
Renard non faticava a trattenerla grazie alla sua mole imponente e atletica, ma i calci che riceveva come effetto collaterale non erano molto piacevoli. Se avesse potuto, avrebbe rifilato lui stesso uno schiaffo all’ambasciatore: erano anni che si lavorava Gaela, non avrebbe permesso a nessuno di vanificare i suoi sforzi.
- Tratta tutte le donne in questo modo, non datevi pena – la informò Thorn con voce scricchiolante come ghiaccio in procinto di rompersi. – Spero solo che voi, come Ofelia, non cediate alle sue avances come le altre centinaia.
Gaela sputò ai piedi di Archibald. – Ci puoi contare, intendente. Ho bisogno di una sigaretta per calmarmi, altrimenti picchio il nobilastro.
Thorn, in circostanze normali, avrebbe perso la pazienza mezz’ora prima. Ma quella non era una situazione normale, e la preoccupazione per Ofelia prevaleva su tutto. La sua attenzione, per una volta nella vita, non operava su più fronti, rendendolo terribilmente acuto e percettivo, ma gli rodeva il cervello con un unico pensiero: il logorio dell’attesa.
Si risedette, sconsolato, irrigidendosi. E subito dopo udirono tutti chiaramente un gemito provenire dalla stanza dietro di loro e un vocio concitato.
Persino Archibald se ne rimase zitto per un po’, capendo che Ofelia era entrata nella fase finale del parto, quella peggiore.
Fu Renard a rompere il silenzio quando il tempo passò e non accadde nulla di eclatante o diverso rispetto a prima. – Scusate l’ardire, signor intendente, ma dovrei scegliere un nome per la nascitura? Spetta al padrino solitamente questo compito, se non erro.
- Se per voi fa lo stesso, avremmo già deciso. Spetterà a voi annunciarlo, però.
- Ohibò, che sollievo. Ammetto di non essere pratico di queste cerimonie, mi avete sgravato di un peso. Come si chiamerà dunque la piccola Thorn?
- Serena – rispose laconicamente lui. E spero che non sia una piccola Thorn, avrebbe voluto aggiungere.
Poco più tardi Renard portò Gaela in cucina per farle mangiare qualcosa, con il pretesto di aiutarla a calmarsi con un goccio di vino e l’intento di provarci spudoratamente. Archibald invece, trovando l’attesa monotona e invariabile, si allontanò alla ricerca della figlioccia, Vittoria, che aveva un debole per lui. La cosa non lo sorprendeva per nulla.
Thorn rimase fermo immobile, contando secondi, minuti, un’ora, cercando di carpire gemiti o urla, maledizioni, imprecazioni, qualsiasi cosa.
Ma dalla camera da letto non giungeva nessun rumore insolito. E la cosa lo metteva in uno stato di agitazione mai sperimentata prima. Era normale quel silenzio?
Quando, all’una e un quarto, si decise che avrebbe sfondato la porta pur di sapere cosa stava succedendo, gli comparve di fronte la levatrice, che si stava pulendo le mani sul grembiule.
C’erano tracce di sangue e la donna aveva il viso pallido, stremato.
- Signor intendente… - annunciò con voce stanca e spezzata.
Thorn non attese oltre e la scansò, varcando la soglia della camera.
 
Udì il primo vagito quando mise un piede oltre la porta.
Ofelia era sdraiata a letto, con la schiena appoggiata ad un mucchio di cuscini, il petto che si alzava e abbassava ritmicamente, i capelli scarmigliati. Era affannata, ma era contenta. Sul volto esangue faceva capolino un sorriso timido ma orgoglioso, trionfante. La zia Roseline era accanto al letto e osservava con commozione un piccolo essere roseo maculato, a chiazze rosse di sangue e bianchicce di residui uterini, souvenir della dimora che aveva abitato per quasi nove mesi e che era stata pronta a lasciare prematuramente, desiderosa di conoscere il mondo e i genitori. La neonata gemeva piano, come se stesse soffocando, e la cosa avrebbe preoccupato Thorn se non avesse visto sorrisi spuntare sul volto di tutte le donne in quella stanza: sua moglie in primis, la domestica più giovane che teneva sua figlia in braccio e la stava ripulendo come poteva, la zia Roseline, persino Berenilde, che annuiva contenta e stava, stranamente in silenzio. Erano tutte protese verso quel minuscolo miracolo della natura che si dimenava con movimenti rallentati, come se fosse immerso nell’acqua. Sembravano tutte in procinto di ascoltarla come se avesse qualcosa di importante da dire.
Thorn si sarebbe voluto avvicinare ad Ofelia e stringerle la mano, abbracciarla, inglobarla con la sua altezza fino a farla sparire dentro di sé. Faticava a rendersi conto che era tutto finito, che Ofelia lo aveva sorpreso ancora una volta: non solo non lo aveva maledetto e non aveva urlato come un’ossessa, ma non sembrava nemmeno stanca. Diceva a lui di essere alimentato da una corrente elettrica di nervosismo che lo teneva sempre all’erta, ma lei, vigile e arzilla dopo quasi dieci ore di travaglio, non era da meno.
La levatrice, di fianco a Thorn, stava osservando meticolosamente la reazione del suo padrone, soddisfatta di ciò che vedeva: lui non parlava, quasi non respirava, non piangeva, non si muoveva. Eppure i suoi occhi, che svettavano lì in alto come lampi di metallo, esprimevano una piacevole sorpresa, ammirazione, e una paura autentica che solo i genitori responsabili dimostravano alla nascita. Il parto era un momento magnifico, ma la levatrice ne aveva viste troppe in vita sua per lasciarsi incantare dalle illusioni che provocava l’eccitazione del momento: diffidava di coloro che avevano reazioni parossistiche, apprezzava invece chi mostrava timore reverenziale verso quel piccolo atto creazionistico e unico, e chi dava prova di portare sulle spalle un nuovo peso. Il peso della responsabilità genitoriale.
In pace con se stessa, si avvicinò alla neonata e alla domestica più giovane, che avrebbe sicuramente addestrato come levatrice dato il sangue freddo e l’utilità che aveva dimostrato, e diede delle piccole pacche alla bambina, facendola scoppiare in un pianto a dirotto.
Thorn sussultò e si avvicinò alle donne, sentendosi trainato da un impulso sconosciuto che lo induceva a voler a tutti i costi proteggere quel piccolo esserino rumoroso. Il suo sguardo freddo e minaccioso era stato intercettato da Ofelia, e tradotto in parole: come si permettevano quelle donne di schiaffeggiare la nascitura? Sua figlia?
- Va tutto bene, Thorn, è una cosa che va fatta per far piangere la bambina, così che possa iniziare a far funzionare bene i polmoni e il cuore stesso.
Thorn si bloccò così in mezzo alla stanza, chiedendosi come facesse la moglie a sapere quelle cose, e rendendosi conto che in dieci ore di attesa gli argomenti relativi al parto di cui parlare potevano essere trattati minuziosamente e in modo esaustivo.
- La prima poppata – annunciò la levatrice, porgendo la bambina alla legittima madre. – Vi lasciamo un po’ soli, signora. Torneremo tra circa mezz’ora per pulire bene la neonata e la stanza. Dovremo far uscire un attimo anche vostro marito per assicurarci che nel vostro utero non sia rimasto nulla, e poi riposerete meritatamente. Congratulazioni, è una sana e meravigliosa femminuccia.
Ofelia cercò di mettersi seduta per poter guardare e prendere bene la piccola meraviglia avvolta in un asciugamanino morbido che le veniva porta. Piangeva come una disperata, reclamando il cibo di cui aveva bisogno, sperimentando per la prima volta, senza saperlo, cosa fosse la fame. Ofelia si sentiva sporca e sudata, ma non badò minimamente a quelle impressioni quando guardò in faccia la piccola per la prima volta, tenendo tra le braccia il frutto dell’amore suo e di Thorn, che aveva portato in grembo per lunghi mesi.
Non avrebbe mai immaginato, quando le avevano annunciato il matrimonio combinato con un abitante del Polo, che sarebbe arrivata lì, in quel momento, in quel luogo, tenendo in braccio sua figlia, con Thorn ancora fermo in mezzo alla camera. Ofelia alzò lo sguardo su di lui, rendendosi conto di essere stata così presa dalla piccola urlatrice da non essersi nemmeno accorta che la levatrice aveva spintonato fuori dalla camera zie e domestiche, chiudendo la porta con modi bruschi dietro di sé, affinché padrini, madrine, ambasciatori e domestici curiosi non sbirciassero dentro la stanza.
- Cosa fai lì impalato? – chiese Ofelia a Thorn, con aria divertita. – Vieni a vedere tua figlia. Ora smetterà anche di piangere.
Come un automa, Thorn si avvicinò al lato del letto dove c’era Ofelia, contornata da asciugamani e sepolta sotto una camicia da notte bianca e un’ampia coperta che le arrivava oltre i piedi, per mantenere il decoro. Si sedette su una sedia lì accanto e allungò l’interminabile colonna vertebrale per sbirciare quella piccola creatura che più che piangere borbottava, stizzita. Aveva un bel caratterino…
Ofelia ridacchiò. – Vieni più vicino, non ti morde mica.
Obbediente, muto e arcigno, Thorn si alzò goffamente e mise la sedia attaccata al letto, in modo da sfiorare con il braccio quello di Ofelia. E vide sua figlia per la prima volta.
La piccola aveva dei minuscoli pugni che si agitavano nell’aria, la pelle rosea e il volto paonazzo, abbastanza corrucciato e indispettito. Aveva dei caldi occhi marroni, grandi come bottoni, che sembravano sproporzionati per il viso paffuto, e una delicata peluria chiara come l’alba sulla sommità della testina.
Thorn se ne innamorò a prima vista, in modo ancora più violento e immediato di quando si era reso conto di essersi innamorato della moglie. Quel piccolo miracolo era sua figlia, la loro figlia, sua e di Ofelia, generata da loro. Da lui.
Lui, un bastardo, un reietto, un’aberrazione che non sarebbe dovuta nascere, un errore, una macchinazione di una mente ambiziosa e calcolatrice, sua madre, nato dall’inganno e dalla seduzione, lui che era marchiato, che non aveva mai avuto contatti con le persone, che si era tenuto alla larga dai legami affettivi, che era sempre stato solo, aveva generato una figlia.
Thorn non era un tipo di molte parole, spesso non sapeva usare formule di cortesia elementari o capire come intrattenere dei rapporti sociali, ma non era mai stato così a corto di parole. Qualsiasi suono che non fosse il vagito della piccola o la voce rassicurante di Ofelia gli sembrava superfluo, e niente valeva la pena di essere guardato se non lei.
Le sue paure non si erano dissolte come neve al sole, erano decuplicate come se fosse arrivata una tempesta di neve. Amava quella neonata, in modo viscerale, non sapeva spiegarsi come, e il timore di sbagliare divenne terrore assoluto. Non sarebbe stato all’altezza…
- Ora l’allatto – annunciò Ofelia, reggendo la bambina mentre cercava un’apertura nella camicia da notte per poterla attaccare al seno.
Il problema era che la stoffa della vestaglia era tirata e schiacciata sotto il suo corpo e Ofelia non poteva né levarla, né abbassarla.
- Devo sollevarmi un secondo per sistemare questa veste, che è più rigida di una camicia durante un giorno di festa. Puoi reggerla tu per un istante?
Thorn si bloccò, non respirò, non batté ciglio, eppure sembrò rimpicciolirsi sulla sedia.
Tenerla in braccio?
- Non credo di…
- Prendila così come faccio io, vedi? – lo incitò Ofelia senza nemmeno lasciargli il tempo di ribattere. – Non lamentarti, è tua figlia – gli disse sorridendo, - dobbiamo dividerci il carico. E non voglio sentirti dire che non ti piacciono i bambini, perché non è più una scusa utilizzabile, questa.
Senza sapere come, Thorn si ritrovò Serena tra le braccia. E come una magia, come se il tempo si fosse fermato, fedele al suo nome la neonata si rasserenò, smettendo di piangere. Incastrò gli occhi in quelli del papà, cioccolato contro metallo, e sembrò scavargli dentro.
Sono arrivata, vedi di non commettere sciocchezze e di essere un bravo padre, sembrava intimargli.
Era così piccola che riusciva a reggerla con un braccio e con la mano libera, con il polpastrello del mignolo, le sfiorò la guancia morbida e rosea.
Era la seconda eccezione alla sua repulsione per i contatti fisici. Con Ofelia se n’era reso conto poco a poco, del suo desiderio, del suo bisogno di toccarla, ma con la piccola era stato istintivo. Lei gli apparteneva come nessuno gli era mai appartenuto, neanche Ofelia stessa. Era una possessività di tipo diverso quella che sentiva dentro, ma imperversava già con forza. E il suo cuore freddo sembrava essersi ingrandito per ospitare quella nuova arrivata da cui si sentiva attratto, anziché respinto, come era sempre successo con qualsiasi marmocchio.
Serena allungò un pugnetto e gli afferrò il mignolo con forza inaudita, scoprendo le gengive rosse in una smorfia che poteva essere un sorriso. Le sue piccole dita grassocce erano così minuscole da non poter contenere nemmeno metà della lunghezza del mignolo di Thorn. Una morsa di tenerezza gli straziò il cuore e, sebbene dentro fosse commosso, stupito, ammaliato, felice, all’esterno non batteva ciglio, aveva la fronte corrugata e i tratti del viso tesi, e fissava la figlia come se stesse fissando il suo orologio da taschino.
Ad Ofelia però non sfuggì lo sguardo di Thorn, specchio della sua anima, da cui traspariva solo struggimento. Serena aveva già conquistato il papà.
- Dopo te la restituisco Thorn, concedimela solo il tempo di allattarla.
La voce pacata della mamma fece tornare in mente alla bimba che effettivamente aveva fame, così lasciò il dito del padre e agitò i pugni, scontenta.
Thorn bofonchiò qualcosa di incomprensibile e ridiede la neonata ad Ofelia, che aveva sistemato la camicia da notte in modo tale da poterla abbassare sul seno per allattarla.
Serena si attaccò avidamente al petto della madre, succhiando con forza e ingordigia, placando finalmente il suo pianto disperato. Thorn osservò la scena con curiosità e sorpresa. Non aveva mai assistito a nulla del genere e per la prima volta da quando aveva varcato la soglia di rese conto che ora erano in tre. Era stato solo per quasi ventiquattro anni. Poi aveva sposato Ofelia e l’idea di rimanere solo di nuovo, dopo aver scoperto cosa lei fosse in grado di dargli, era un tipo di terrore che non aveva mai provato e che ogni tanto lo teneva sveglio di notte. E in quel momento erano in tre, lui, sua moglie e sua figlia, e capì che la sua folle e oscura paura sarebbe raddoppiata. Ma l’amore che provava per Ofelia si era moltiplicato, se possibile, mentre nel suo cuore era entrato un altro piccolo essere umano, che gli ispirava un diverso seppur innegabilmente profondo tipo di amore: l’amore di un padre, responsabile della propria famiglia, dei propri figli, la roccia su cui appoggiarsi, la torre di vedetta. Non sapeva se sarebbe stato all’altezza di quel compito, ma guardare il viso calmo ed estatico di Ofelia e gli occhi pieni di sonno di Serena gli dava la forza di provarci, quantomeno.
Avrebbe dato quello che non aveva, per loro.
Thorn allungò una mano e con il lungo dito accarezzò delicatamente la guancia morbida della piccola, attirandosi da Ofelia un’occhiata che non avrebbe saputo interpretare. Orgoglio? Soddisfazione? La neonata invece continuò a poppare, un po’ meno avidamente, ma girò gli occhi verso di lui, scrutandolo. Quegli occhi gli sembravano fin troppo intelligenti, e dietro la maschera impassibile Thorn si augurò che la piccola non fosse battagliera quanto la madre. Per lui sarebbe stato un grosso problema.
Per quale motivo, nonostante fosse insofferente nei confronti dei bambini, esseri che proprio non capiva e non aveva né il tempo né la voglia di capire, quella minuscola bambina lo intrigava tanto? Forse perché era parte di sé? Non sapeva spiegarselo, purtroppo, lui che voleva sempre il controllo di ogni cosa, ma ne fu grato: sarebbe stato un problema odiare la propria figlia, o aspettare che diventasse adulta per tentare di instaurare un rapporto con lei.
Ofelia appoggiò la testa sulla sua spalla, distogliendolo dalle sue elucubrazioni. – Sono un po’ stanca.
Dal canto suo, il cuore di Ofelia scoppiava di gioia. Vedere Thorn con quell’espressione rapita in volto ripagava di ogni singola spinta e ogni ora di dolore che aveva dovuto patire. Per non parlare del fatto che stringeva fra le braccia sua figlia, la loro figlia, che aveva i suoi stessi occhi e i capelli del padre, a quanto poteva giudicare. Più volte si era immaginata la faccia che avrebbe fatto Thorn alla vista della neonata, oppure la reazione che avrebbe avuto durante il parto, ma ciò che era accaduto, il modo in cui le cose erano state condotte, aveva superato le sue più rosee aspettative. Era orgogliosa che Thorn fosse il padre dei suoi figli. Be’, di quella prima figlia, intanto.
Si era aspettata di peggio dal parto, ad essere sincera, e la presenza tranquillante della zia Roseline l’aveva rassicurata tanto quanto quella di Berenilde l’aveva distratta dal lungo periodo di travaglio.
Thorn e Ofelia si osservarono a vicenda, scrutandosi, finché Thorn annullò la distanza fra loro e la baciò languidamente, in un modo morbido a cui poche volte aveva fatto ricorso. Lui non era dolce di natura, non aveva mai avuto gesti gentili o parole e azioni romantici, ma del resto non erano nemmeno ciò a cui Ofelia anelava o di cui sentiva il bisogno. Quando però Thorn imprimeva quella dolcezza alle carezze che le faceva nei loro momenti intimi o nei suoi abbracci, Ofelia si abbandonava a lui con trasporto, grata al destino che l’aveva condotta fino a lui, tra le sue braccia, a ricevere quell’amore che Thorn non le aveva mai negato.
Di solito i baci di Thorn erano esigenti e pieni di urgenza, quasi una necessità piuttosto che un’effusione amena, addirittura bruschi e autoritari ogni tanto. Ma in quel bacio Ofelia desiderò perdersi, addormentarsi, e quando sentì la grande mano fredda di lui accarezzarle leggermente il collo capì che se non fosse stata così stanca, provata, sporca e impegnata a reggere la piccola, si sarebbe concessa senza pudore o limitazioni. Magari non proprio in quel momento, visto il leggero fastidio che ancora provava in seguito al parto.
Fu Thorn il primo ad allontanarsi, distogliendo lo sguardo. Ofelia, come sempre, non sarebbe stata in grado di interpretarne i pensieri, così ben trattenuti dietro il volto rigido, ma capì dalla tensione che gli faceva stringere la mascella che anche lui desiderava qualcosa in più di un bacio. Era da così tanto che non stavano insieme in quel senso...
Thorn interruppe il filone dei suoi desideri alzandosi in piedi di scatto e dirigendosi verso la porta. - Sarebbe il caso che riposassi, ora. Chiamo la levatrice perché si occupi dell’infa... della piccola.
- Di nostra figlia – accorse in aiuto Ofelia, aiutandolo a trovare le parole.
Thorn annuì laconicamente, ma Ofelia lo trattenne prima che potesse uscire.
- Dovresti prima chiamare Renold e Gaela, sono il padrino e la madrina e dovrebbero vedere la piccola. Anche madama Berenilde e la zia Roseline sono impazienti di poterla vedere.
Thorn pensò che anche Archibald stava bighellonando fuori dalla camera, ma non aveva alcuna voglia che anche lui entrasse a prendere visione della nascitura.
- Devi riposare – le intimò, ordinandoglielo più che suggerendoglielo.
Ofelia alzò il mento; negli occhi aveva la tipica espressione risoluta che adottava quando non aveva intenzione di seguire i consigli o le raccomandazioni imposte. - Dopo riposerò, ora falli entrare per cortesia. Sarebbe un’immane scortesia negar loro di poter vedere Serena.
Thorn strinse i denti e si accinse ad obbedire, ma non era disposto a cedere su tutti i fronti. Sapeva che Ofelia sarebbe stata pronta addirittura ad alzarsi dal letto per andare loro incontro di persona, se lui si fosse rifiutato di farli entrare, e non voleva assolutamente che uno scenario del genere si verificasse. Così pose un limite: - Quindici minuti, non uno di più.
- Venti - patteggiò Ofelia, combattiva.
Thorn trattenne una smorfia e prese l’orologio da taschino. Venti minuti, non un attimo di più. Non si prese nemmeno la briga di risponderle prima di uscire dalla stanza per richiamare i visitatori in paziente attesa fuori dalla camera. Si scostò velocemente prima che lo travolgessero nella foga di entrare. Poi scosse la testa: la sua dimora era diventata caotica e frequentata da una moltitudine di gente sfaccettata con cui non si sarebbe intrattenuto neanche per dieci secondi qualche anno prima. Cercò di non pensare a come la sua vita fosse cambiata in seguito all’entrata in scena di Ofelia, e si accinse a raggiungere la moglie chiudendosi la porta alle spalle.
  
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