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Autore: JAPAN_LOVER    28/05/2020    1 recensioni
Gregor Startseva è il giovane allenatore di 34 anni della nazionale maschile di pallavolo, con una lunga serie di successi alle spalle.
Proprio mentre è intenzionato a godersi le meritate vacanze estive, all'indomani di un trionfo che è valso ai suoi ragazzi la medaglia d'argento, viene convocato dalla Federazione sportiva per un nuovo incarico: guidare ai mondiali 12 ragazze a una settimana dagli esordi.
Tra numerosi punti oscuri e mille difficoltà, deve imparare a gestire una squadra di ragazze che non conosce. A suo modo, ognuna gli darà del filo da torcere e, in particolare una, Lucia, la capitana, rivelerà nutrire un'inspiegabile avversione nei suoi riguardi.
La medaglia è fuori dalla portata di mano, ma riuscirà Gregor a domare le sue 12 leonesse e a tornare a casa, senza rovinare molto la sua luminosa carriera?
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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HANAMI IN PIENA ESTATE
(Parte terza)
 


LUCIA

Usciti dal Ryokan, siamo di nuovo invasi dal trambusto cittadino. Anche in questa stradina piuttosto solitaria giunge caotico il rumore del traffico e della vita frenetica di Tokyo.
Sono felice che il ristorante suggerito dalla mia applicazione sia piaciuto al mio coach, abbiamo mangiato bene e tanto. Spinti dalla fame, abbiamo decisamente esagerato con le portate, non ci aspettavamo porzioni così abbondanti, ma sono sicura che la camminata che ci attende ci aiuterà a smaltire tutte le calorie in eccesso.
 Startseva recupera dallo zaino la sua inseparabile cartina, che ormai è diventata la fedelissima guida del nostro giro turistico.  Quello che abbiamo adesso in programma è la visita a un tempio, prima di concludere la giornata e rientrare nuovamente in hotel.
Lo osservo con attenzione mentre consulta scrupolosamente la mappa e mi domando come un uomo di trent’anni possa prediligere questi strumenti obsoleti e analogici alle nuove tecnologie. Certo è che Startseva si sta rivelando una continua sorpresa.
Sorrido mestamente, pensando al triste destino del suo amore perduto. Proprio mentre eravamo a tavola e Gregor mi raccontava la storia di Vittoria, mi sono tornate alla mente le enigmatiche parole che Paolo mi aveva rivolto l’ultima sera a Milano, durante la nostra amichevole insieme a Giulia e Startseva.
Non essere così severa con lui, la vita non gli ha sorriso molto!
Sono sicura che quelle parole si riferissero proprio a quel tragico incidente, alla morte di quella ragazza di cui ancora oggi Startseva si sente responsabile, questo è evidente. Nella sua voce melliflua e nei suoi occhi cupi ho percepito tutti i sensi di colpa che in questi lunghi anni devono aver dilaniato il mio allenatore. Non riesco a immaginarmi Starseva perdere il controllo, lasciarsi andare e commettere quel tipo di sciocchezze di cui mi ha lasciato soltanto intendere. Lui che è sempre così equilibrato, lui che non si sbottona mai, deve aver toccato i più cupi abissi della disperazione, un baratro da cui sembra essere riemerso solo a metà.
Mi vergogno profondamente di me stessa nel provare invidia nei confronti di una ragazza morta perché, nel tragico destino di una breve esistenza, ha avuto la fortuna di avere al suo fianco un uomo che l’amasse a tal punto da tenerne vivo l’amore e il ricordo.  Vittoria ha avuto la fortuna di incontrare lungo il suo cammino Startseva… Perché deve essersi trattato sicuramente di un grande amore se il ricordo di quella ragazza infonde ancora tanto dolore nel cuore del mio coach.
Solo un vero amore come il loro può resistere al tempo, alla distanza, alla morte…!
“Dunque, secondo me la soluzione migliore sarebbe visitare il tempio Zoji-ji, si trova qui vicino e poi sarebbe comodo anche per il ritorno nel caso volessimo prendere la metro… ehm, Lucia? Ci sei?”   
Le riflessioni ad alta voce del mi coach mi distolgono dai miei sciocchi e riprovevoli pensieri.
Sentendomi colta in fallo, sollevo timidamente gli occhi verso di lui.
 “Cosa…? Oh, sì, certo!”
“Se sei stanca non è affatto un problema, possiamo tornare direttamente in albergo” mi assicura lui.
Scuoto la testa in segno di diniego e allargo le labbra in un sorriso rassicurante, ridestandomi finalmente dal vortice di tristezza in cui stavo sprofondando.
“No, assolutamente!”
Startseva mi guarda con circospezione e soppesa con attenzione le mie parole, ma alla fine mi rivolge un sorriso sghembo ma convinto.
“Allora coraggio, proseguiamo con la nostra tabella di marcia!” 
Il mio coach mi indirizza un cenno col capo e io mi affretto a seguirlo, fiduciosa di riuscire a godere di un altro incantevole scorcio di questa splendida città.
Ci lasciamo alle nostre spalle il Ryokan e la via isolata in cui si nasconde, e torniamo nuovamente sul marciapiede della strada principale di Shinjuko, decisamente più affollata rispetto a come l’avevamo lasciata questa mattina. Proseguiamo così, l’uno accanto all’altro, ciascuno chiuso nell’intimità del proprio silenzio. Trovo impensabile che siamo riusciti a trascorrere una giornata in tutta serenità, e ancora più incredibile che siamo finiti per confidarci dettagli così intimi e privati delle nostre esistenze. Per un attimo ho avuto come la sensazione di conoscere Startseva da sempre, come se ci fossimo solo ritrovati dopo un lungo periodo di assenza. È stato difficile e al contempo naturale parlargli di Mirko e di mio padre, di quanto il loro tradimento abbia pesato sulla mia preparazione per questo mondiale, ma Startseva mi ha stupita ancora una volta. Le sue parole sono state balsamo per le mie ferite, una carezza in grado di lenire il mio dolore.
La sua vita non è stata affatto facile, ma non potevo minimamente immaginare una tragedia come quella di Vittoria. Ammiro profondamente la forza d’animo di Starseva, la saggezza con cui affronta le prove più difficili.
Lancio una fugace occhiata al suo profilo perfetto e mi sento invasa da una nuova grande consapevolezza. Gregor Startseva non è un uomo privo di scrupoli, non è il coach despota che ho condannato senza appello fin dall’inizio. Gregor è una persona meravigliosa, nonché un ottimo allenatore; ha sofferto molto ma non si è lasciato sopraffare dal dolore, è riuscito a trasformare tutto il male che la vita gli ha riservato in energia positiva.
Adesso che siamo davvero in vena di confidenze, non riesco a immaginare un momento migliore per sciogliere un dubbio che mi attanaglia da tempo. Quindi, ancora una volta, faccio ricorso a tutto il mio coraggio prima di rivolgermi nuovamente a lui.
“Coach… ehm, Gregor…” la mia voce fuoriesce malferma.
E davvero non so come comportarmi. Non mi viene spontaneo rivolgermi dandogli del tu, d’altronde si tratta pur sempre di Startseva, ma mi sembra altrettanto innaturale in questo momento rimarcare una distanza che ormai si è sgretolata, e non soltanto fisicamente.
“Sì? Dimmi pure…!” mi esorta Gregor, abbozzando un sorriso sbieco.
“L’ultima sera a Milano ho sentito che parlavi con Mirko del prossimo anno, del fatto che non ci sono certezze che possa tornare ad allenare nel suo club – sussurro – è ancora incerta la tua presenza durante la prossima stagione?”
 “Sì, è così – ammette con tutta semplicità – la dirigenza sportiva si è riservata la firma del contratto alla fine del mondiale, e automaticamente anche il club ha posticipato la firma per il prossimo triennio al termine di questa competizione. Funziona un po' così ai piani alti…!”
“Mi dispiace che tu ti sia ritrovato a gestire una situazione così difficile”
E di avertela resa ancora più complicata, con il mio sciocco comportamento…!
Startseva minimizza con uno sbuffo e un lieve cenno della mano.
“Non devi preoccuparti per me!”
Improvvisamente mi sento avvampare. Ora che lo vedo attraverso una luce diversa, gli occhi grigi di Startseva brillano ancora di più sotto il sole conciliante di fine giugno. 
Che sciocca sono stata ad aver puntato ciecamente il dito contro di lui, quando in realtà in ballo c’è qualcosa di ben più importante dei soldi e del successo, una passione a cui si è dedicato per una vita.
“Da quando ho smesso di giocare in campo, fare l’allenatore è sempre stata la mia più grande ambizione – mi confida ancora – lo ammetto, all’inizio avevo preso piuttosto male questo incarico per via della situazione così delicata, ma l’esperienza mi ha insegnato che la vita va presa come viene e che non tutto il male vien per nuocere. Farò del mio meglio come sempre, e se alla fine dovessi ripiegare su un altro lavoro non sarà una tragedia. Vorrà dire che rispolvererò dal cassetto la mia laurea in scienze motorie e mi darò all’insegnamento o chissà magari deciderò di aprire una palestra tutta mia”
Le parole di Startseva sono un misto di ottimismo e rassegnazione. Una morsa allo stomaco mi attanaglia, nel sentirlo parlare così. Sono pronta a scommettere che sarebbe un ottimo insegnante per i suoi studenti, ma il suo talento andrebbe completamente sprecato nelle palestre delle scuole. Startseva merita di continuare ad allenare nel suo club dove è molto amato, merita di continuare a dirigere dalla sua panchina la nazionale italiana. Ha ancora così tanto da offrire a questo sport ed è terribilmente ingiusto che la sua carriera debba dipendere dall’esito di una competizione che assolutamente non dipende da lui. Benché detesti ammetterlo, la nostra squadra appartiene a Pandolfi, è lui che ci ha seguite nella preparazione dall’inizio alla fine degli allenamenti. Gregor Startseva può solo continuare a fare del suo meglio, confidando nelle sue valutazioni, a quest’ultimo toccherà soltanto raccogliere i meriti e i demeriti di un lavoro non suo, di un lavoro che porta il nome del nostro vecchio allenatore.
Queste riflessioni mi accompagnano per tutto il tragitto, fin quando non giungiamo nei pressi del tempio Zoji-ji.  L’ingresso, costituito da un torii, il tradizionale portale d’accesso a un luogo sacro, è con mia grande sorpresa completamente deserto. Impugno la mia Nikon è scatto una piccola sequenza di foto a quell’imponete struttura di colore vermiglio, formata da due colonne di supporto verticali e da un palo orizzontale sulla cima. Il tempio è ancora invisibile ai nostri occhi, perché situato in un luogo nascosto del sito, proprio in cima alla lunga gradinata che si staglia davanti a noi.
Guardo un po' intimidita la scalinata, formata da ampi gradoni di pietra, non è piacevole affaticarsi così sotto questa calura estiva e con la pancia ancora piena.
“Che ti prende? – ridacchia Startseva – una campionessa come te non può tirarsi indietro davanti a due gradini!”
“Non sono due gradini!” puntualizzo, indispettita.
Gregor scrolla le spalle e si incammina lungo la scalinata, circondata da una fitta e suggestiva vegetazione. Si tiene ancora molto in forma il mio coach, sempre energico e vitale quando si tratta di mettersi in gioco.
Sospiro scoraggiata e mi affretto a seguirlo, non ho la minima intenzione di dargliela vinta. Nonostante il caldo estenuante e il cibo ancora nello stomaco, mi faccio forza e tengo il passo spedito del mio allenatore.
“Sono duecento...!” la voce di Gregor giunge un pò ansante alle mie orecchie.
“Cosa…?”
“Ho letto sulla cartina che sono duecento i gradini che conducono al tempio buddhista Zoji-ji!”
Sollevo un sopracciglio perplessa, ma non proferisco parola impegnata come sono a risparmiare fiato e ossigenazione.
Giunti finalmente in cima, veniamo travolti da un’improvvisa folata di vento, eppure lungo la gradinata non sembrava volare nemmeno una foglia. Un’incantevole pioggia di petali di ciliegio mi raggiunge in pieno viso, mentre Startseva fa appena in tempo a proteggersi con una mano.
“Wow!” esclama, divertito.
Io ridacchio ammaliata, mentre oltrepassiamo l’ennesimo torii che conduce finalmente al tempio. È davvero incredibile come all’interno di un’area metropolitana così all’avanguardia possa trovarsi un luogo così pacifico e incontaminato dalla modernità.
Ci troviamo al centro di questo luogo di culto, dove il tempio ne costituisce il cuore pulsante.  Il giardino che lo custodisce è pieno di splendidi alberi di ciliegio ancora fioriti, su alcune panchine sono adagiate ragazze in abiti tradizionali, forse delle geishe.  Tutto intorno ispira pace e silenzio. Il tempio non è molto grande, la porta di legno è spalancata agli eventuali visitatori e le pareti sembrano sottilissime, essenzialmente è il tetto la parte più visivamente suggestiva con le sue gronde lievemente ricurve.
Osservo Startseva impugnare la macchina fotografica e scattare qualche foto, completamente assorto da tanta bellezza.
“Vuoi che ti scatti qualche foto?” mi propongo, immaginando che gradirebbe molto qualche foto ricordo in questo magnifico posto.
 “Ti ringrazio moltissimo!” esclama, voltandosi pieno di gratitudine.
Gregor lascia cadere sul collo la sua Canon e si posiziona davanti al santuario, a una certa distanza da me. Mi piego su un ginocchio, in modo da avere un’inquadratura più completa del tempio alle sue spalle. Fa tenerezza Startseva mentre tenta di sorridere davanti all’obiettivo, di assumere una posa quanto più possibile naturale.
“Sorridi!” lo stuzzico un po', ma soltanto per farlo sciogliere un pò.
Lui si morde le labbra, trattenendo una risata.
“La cosa che più buffa è che io avrò foto di questa avventura più carine e centrate delle tue!” sospira, e finalmente riesco a scattare una bella sequenza.
“Su questo ho pochi dubbi!” sbuffo rassegnata, rimettendomi in piedi.
Startseva si avvicina di nuovo, incuriosito del risultato. Quando giunge al mio fianco gli mostro sul display le foto che gli ho scattato.  Nelle prime il mio coach sembra stare sulle sue, sentirsi un po' a disagio, mentre nelle ultime due sequenze sfoggia un sorriso spontaneo e a tratti divertito.
“Carine, decisamente carine – commenta lui, soddisfatto – spero solo di essere all’altezza di ricambiare il favore”
Sto per replicare con una delle mie battute pungenti, quando vediamo uscire dalle porte del tempio una coppia dai tratti chiaramente occidentali. Sorridono teneramente tenendosi per mano, si tratta sicuramente di una coppia di novelli sposi in luna di miele. Nel vederci, i due sgranano gli occhi e ci vengono incontro trasognati, come se avessero visto il miraggio di una fonte nel bel mezzo del deserto.
La donna, con un chiaro caschetto castagno e gli occhi azzurri, sia avvicina e ci sorride affabile.
“Excuse me, please! Can you take us a photo?” domanda quasi supplice.
“Yes, we can…” risponde Gregor un po' esitante, senza staccarmi gli occhi di dosso.
Decido così di togliere il mio coach dall’imbarazzo, proponendomi per gli scatti.  Rivolgendomi loro con un ampio sorriso, mi faccio consegnare dalla donna una piccola polaroid, un modello piuttosto vintage ma molto maneggevole. I due sconosciuti si stringono sorridenti in posa, mentre Startseva si posiziona al mio fianco e ne approfitta per studiarmi.
“Impara a centrare bene le foto!” stuzzicarlo è troppo divertente.
“Sono negato!” ammette lui, con rassegnazione.
Udendoci parlottare tra noi, l’uomo si lascia scappare un fischio di sorpresa:
“Com’è piccolo in mondo, anche voi siete italiani!”
Io e Gregor ci guardiamo divertiti, stupiti di quanto piccolo sia il mondo. Ultimati gli scatti, riconsegno la polaroid alla signora e rimaniamo per un po' a scambiare qualche chiacchiera con i nostri connazionali. Scopriamo, in effetti, che si tratta di una coppia appena sposata, entrambi romani di nascita e insegnanti di professione, mentre noi raccontiamo loro di trovarci in Giappone per una gara agonistica.
“Ah, quindi non state insieme? – domanda la donna, con una piccola nota di delusione – eppure a guardarvi così sembravate una coppia affiatata!”
“Cara, non metterli in imbarazzo!” sussurra il marito, costernato.
“Ma è vero, così mi è sembrato – continua lei, ostinata – non conoscete la leggenda di questo tempio, ragazzi? Si racconta che le coppie che varcano insieme i torii, posti a protezione di questo luogo sacro, rimarranno insieme per sempre!”
Io e Starteva sembreremmo una coppia? Ma quando mai!
“No, effettivamente non ne eravamo al corrente!” replica Startseva, con il solito tono conciliante.
“Dovete scusarla, è fatta così, si lascia sempre trasportare dalle sue fantasie…” minimizza il marito.
“Ma questa storia è così romantica!” enfatizza la signora, con gli occhi ancora sognanti.
Io e Gregor abbozziamo un sorriso di circostanza, per lo più al fine di placare gli animi, non vorremmo mai porci al centro di una diatriba tra sposini freschi di nozze.
Salutiamo questa bizzarra coppia, che ci ringrazia per le fotografie scattate e ci dà un caloroso in bocca al lupo per la competizione. Imboccando la discesa della lunga gradinata, il due spariscano lasciandoci addosso un leggero imbarazzo.
“Interessante questa leggenda – commenta Startseva, divertito – se non mi odiassi così tanto, potrei benissimo pensare che si tratti di un segno…!”
Per tutta risposta, mi incammino verso il tempio, senza concedergli la minima soddisfazione. È evidente che voglia indurmi a dire ciò che avrebbe voluto sentire da tempo, che in realtà io non lo odio.
Con rassegnazione, Gregor scoppia in una risata e decide di seguirmi lungo il breve sentiero che conduce al santuario. L’interno piccolo e stretto è così diverso dai nostri tradizionali luoghi di culto, protetto da una statua di Buddha a grandezza quasi umana. L’altare è sostituito da una piccola costruzione in legno, piuttosto simile a una cassetta, mentre accanto discende dal soffitto una lunga corda bianca.
Rimango sull’uscio, mentre vedo Gregor cercare nella tasca qualche spicciolo e avvicinarsi in rispettoso silenzio verso quella scatola. Il mio allenatore inserisce i soldi nella fessura, tira tre volte la corda che aziona brevemente il suono di una campana, si inchina tre volte, congiunge le mani e rimane per qualche minuto in raccoglimento a pregare. Per tutto questo tempo rimango a contemplare le sue spalle forti e larghe, avvertendo una strana sensazione. Sento riemergere qualcosa dalle profondità, qualcosa che a lungo è rimasto sopito dentro di me e che adesso si sta risvegliando, una sensazione familiare a cui ancora non riesco a dare un nome ma che porta con sé un retrogusto di felicità.
Gregor finalmente si volta e viene verso di me. I suoi occhi dal colore del mare in tempesta smuovono in me qualcosa di potente, qualcosa che cerco in ogni modo di reprimere.
“Quella davanti al Buddha è la cassetta devozionale, si chiama saisenbako – Gregor bisbiglia, portando rispetto al luogo di culto – secondo le usanze, chi fa un’offerta può esprimere una preghiera che verrà esaudita”
Sento anche io il desiderio di raccogliermi in me stessa e formulare una preghiera. Mi dirigo verso la cassetta votiva e imito quanto compiuto da Startseva poco prima, facendo tintinnare all’interno della scatola di legno tre monete, tirando la corda fino a suscitare il suono della campana e inchinandomi per tre volte. Congiungo le mani all’altezza del petto e non ho dubbi sul desiderio da esprimere.
Ti prego, fa che riusciamo ad andare in fondo a questa competizione in modo tale che Gregor non debba perdere a causa nostra il suo posto di allenatore.
La pace del tempio e la preghiera di raccoglimento riescono a placare finalmente la strana agitazione che aveva preso a vorticarmi nel petto fino a pochi istanti fa.
Quando usciamo da quel piccolo luogo, veniamo avvolti dai colori caldi del tramonto. Un arancione carico di speranza accompagna la nostra discesa nel tragitto di ritorno, mentre percorriamo a ritroso la lunga gradinata, questa volta a posso più spedito e ciascuno assorto nel proprio silenzio.
Non si tratta del solito imbarazzo, ma di un turbinio di sensazioni altrettanto complesse. Inquietudine, perplessità, aspettativa…
“Per cosa hai pregato?” mi chiede improvvisamente Startseva, una volta giunti a valle.
“Non si dice, altrimenti il desiderio non si avvera!” rispondo, tenendomi sulla difensiva.
“Non ho letto niente del genere nella mia guida” replica lui, con un malcelato sorriso.
“La tua guida deve essere incompleta – biascico – allora, se per te non è un problema, dimmi prima tu per cosa avresti pregato!”
Startseva si morde le labbra, abbozzando un sorriso. In fondo, sono curiosa anche io di sapere quale sia il desiderio che per lui valeva la pena pregare.
 “Ho pregato affinché vincessimo il mondiale” sibila, infine.
Volto il capo per poterlo scrutare meglio negli occhi, mentre varchiamo l’ultimo torii, il primo che all’inizio ci aveva accolti, ritrovandoci di nuovo nella civiltà, su una via piuttosto trafficata.
Nonostante cerchi di mantenersi impassibile, gli occhi di Startseva non riescono a mentirmi.
“Non è vero, non hai pregato per quello!”
Startseva sfoggia un sorriso sghembo adorabile, quasi enigmatico, e decido che non mi importa saperlo. Qualunque sia la preghiera che si sia sentito di volgere alle divinità pagane, riguarda soltanto lui.
“La nostra gita si conclude qui – mi annuncia infine, fermandosi sul marciapiede – da qui possiamo decidere se tornare in albergo in metro o in autobus”
Arresto anche io il mio passo spedito, allineandomi al mio coach.
Gregor fa un cenno col capo, indicandomi l’imbocco della metropolitana e la fermata dell’autobus, a poche centinaia di metri più avanti.
Sto per rispondergli che per me è una scelta del tutto indifferente, quando un urlo di donna ci fa trasalire entrambi. Non facciamo in tempo a voltarci indietro per capire cosa stia succedendo, perché qualcosa di forte e impetuoso si insinua tra me e il mio allenatore, sbalzandomi rovinosamente a terra. Grido a mia volta, completamente nel panico, mentre vedo un uomo con una borsetta in mano scappare via furiosamente e Gregor corrergli dietro.
“Gregor!! – urlo a pieni polmoni – no!!”
I due spariscono nell’imbocco poco illuminato della metropolitana, mentre un dolore lancinante alla caviglia mi tiene paralizzata a terra. Scoppio disperatamente in lacrime, assalita dai più terribili presentimenti. Il pensiero angosciante che possa accedere qualcosa a Gregor e il terrore che sia accaduto l’irreparabile al mio piede mi atterriscono e mi impediscono di ragionare con la dovuta lucidità. Presa dalla mia angoscia, non faccio nemmeno caso al pianto incessante della giovane donna derubata, con accanto un passeggino. La donna presa dallo spavento non riesce a fermare le lacrime, e cerca di consolare il suo bambino svegliato dalle sue stesse urla.
Solo quando vedo Gregor tornare indietro con la borsetta in mano riesco finalmente a calmarmi. Si avvicina alla signora con la carrozzina per restituirle borsa, la quale si asciuga le lacrime e non smette di ringraziarlo nella sua lingua incomprensibile. Gregor torna da me, con la fronte aggrottata e la preoccupazione dipinta sul volto.
“Oh, no, Lucia! Stai bene?”
Tento di alzarmi, ma la paura di compiere qualche movimento brusco mi impedisce di muovermi.
“Ce la faccio…” biascico, nel vano tentativo di rassicurare lui e me stessa.
“Riesci a muovere la gamba?” la voce di Startseva piena di apprensione ha lo strano potere di calmarmi.
“Ancora non lo so, ma ho paura…” ammetto.
Stringo con decisione la mano che Gregor mi tende, e pian piano mi tiro su. Fortunatamente non sento dolori particolarmente allarmanti, quando poggio a terra il piede offeso. Quello che avverto è piuttosto un’urticante sensazione di bruciore che si irradia dalla caviglia sinistra, nell’esatto punto da cui scorre un rivolo di sangue.
Dopo avermi esaminato la ferita, l’espressione sul volto Gregor sembra rasserenarsi. Senza proferire una parola, il mio coach mi afferra poderosamente e mi carica sulle proprie spalle, facendomi sussultare.
“Gregor, che fai? – urlo di sorpresa – Mettimi giù!”
Mi aggrappo disperatamente a lui, nel tentativo di non finire ancora una volta rovinosamente a terra.
“Ferma, non agitarti!” mi rimprovera lui, incamminandosi a passo deciso verso la fermata dell’autobus.
“Rimettimi giù, sono in grado di camminare!” gli assicuro.
“Non se ne parla, fino all’albergo ti porterò io in spalle!”
“Ma sono pesante!” piagnucolo.
“Non quanto mi sarei immaginato” osserva lui, tentando di reprimere una risata.
Mi mordo le labbra e mi dimeno, infastidita. Come sarebbe a dire che immaginava fossi più pesante?
“Hey! Hey!  Non agitarti così – sussulta Gregor, visibilmente spaventato – stavo solo scherzando!”
“Sei tu che mi accusi di essere troppo pesante!” protesto.
“Punto primo, sei stata tu la prima a sostenerlo – scherza lui divertito – punto secondo, sono abbastanza in forma da reggerti anche nel caso fossi pesata qualche altro chilo in più!”
Rassegnata, poggio la testa nell’incavo del suo collo e tengo strette le braccia attorno al suo petto. Gli occhi incuriositi dei passanti puntati su di noi mi incutono un certo imbarazzo.
“Sei stato incosciente, Gregor, quell’uomo poteva essere armato! Saresti potuto rimare ferito…avresti potuto farti del male…”
Questa giornata è davvero strana. Travolta da mille emozioni, adesso mi metto pure a rimproverarlo.
Startseva incurva le labbra in un sorriso, sembra quasi sorpreso della mia premura.
“Per fortuna non è successo!” risponde, con voce cristallina.
Per fortuna non ci tocca attendere troppo alla fermata, il 58 arriva puntualissimo come indicato dal tabellone automatico. Gregor è instancabile, non accenna neanche un attimo a volermi mettere giù. Per la prima volta mi sento come se fossi qualcosa di prezioso, qualcosa di fragile e delicato degno di essere custodito.
Quando arriviamo in hotel, Gregor rassicura frettolosamente il signore della reception precipitatosi in nostro soccorso, e si dirige a passo svelto direttamente dai nostri professionisti.
Il medico ortopedico ci lascia entrare subito nella sua camera. Già a un primo esame ci rassicura che non ci sono rotture o fratture, che possano compromettere la mia partecipazione al mondiale.
“Non ci sono lesioni importanti, si tratta solo di un lieve ematoma!” sussurra paterno l’uomo, mentre l’infermiere procede con cura a disinfettare la ferita.
Li ringrazio di cuore quando mi offrono un bicchiere d’acqua, che immediatamente contribuisce a calmare i miei nervi. Per tutto il tempo, la mia più grande preoccupazione è stata la gara, il timore di non poter più gareggiare insieme alle mie compagne.
Gregor non mi lascia neanche un attimo e, quando gli specialisti terminano con la medicazione, insiste nel volermi accompagnare in camera.
Ci dirigiamo insieme in direzione dei nostri alloggi, io con il braccio intorno alle sue spalle e Gregor con una mano impegnata a cingere il mio fianco e l’altra a trasportare la mia scarpa da ginnastica sinistra. 
Infilo le chiavi nella serratura e trovo la stanza vuota come l’ho lasciata questa mattina, Cris e le altre non sono ancora rientrate da Kyoto.  Sempre con un piede nudo e l’altro al riparo nella scarpa, raggiungo finalmente il mio letto e mi siedo comodamente. Tiro un lungo sospiro di sollievo, incredula che questa lunga giornata ricca di emozioni sia giunta alla fine, mentre Startseva richiude la porta dietro di sé e mi si avvicina. I suoi occhi apprensivi rimangono incollati a me e alla mia caviglia nuda. 
“Ci siamo presi un gran bello spavento, vero?”
Il mio coach incurva le labbra in un sorriso conciliante, ma è evidente che è ancora molto provato. Nessuno di noi ha osato fare il minimo cenno, ma è evidente che per tutto il tragitto ci ha tormentati lo stesso terribile cruccio, un timore ormai fortunatamente scongiurato anche dal dottore.
Improvvisamente, sento dentro di me la necessità di rassicurarlo e ringraziarlo per aver salvato in qualche modo me e questa disastrosa giornata. 
Il cuore prende a galopparmi forte nel petto quando lui mi si inginocchia davanti, e per un lungo attimo dimentico ogni cosa, anche di respirare.
“Posso…?”mi domanda con cautela.
Annuisco timidamente e lascio che il mio coach raccolga fra le sue mani il mio piede nudo e diafano, fino a cominciare un lento ed estenuante massaggio.
Avverto il battito del cuore accelerare all’improvviso, mentre un nodo alla bocca dello stomaco mi impedisce di respirare regolarmente. Una sensazione di assoluto piacere si irradia per tutto il mio corpo a dalla pianta del piede, dal suo delicato tocco.
“Ho imparato a fare massaggi al mio primo anno nel Milano Volley, e da allora sono diventato il massaggiatore preferito dei miei compagni di squadra” ridacchia.
“Grazie…” sussurro, e insieme alla mia gratitudine mi sfugge anche un gemito.
Sento il respiro di Gregor pericolosamente vicino. Il suo petto è massiccio e asciutto, la sua capigliatura corvina ondeggia ribelle sul viso dai lineamenti allunati e della mascella pronunciata, mentre la sua carnagione chiara gli fa da perfetto contrasto.
Per la prima volta nella mia vita mi sento vulnerabile e protetta. Non è una sensazione di paura quello che mi suscita l’uomo che ho davanti, ma un sentimento sconosciuto che mi scuote da dentro. La mia bocca socchiusa annaspa in cerca d’aria, mentre mi lascio avvolgere e inebriare dall’odore di Gregor. Cerco inutilmente di nascondergli il mio piacere, il mio irrefrenabile desiderio che parte dalle viscere e che culmina nell’intenso contato delle sue iridi nelle mie.
Annego in quei grandi occhi grigi come il mare in tempesta fino a perdere del tutto me stessa, e non so in quale esatto istante ho cominciato a desiderarlo così tanto…
È Gregor il primo a lasciarsi condurre dall’istinto, mi si avvicina con impeto e io mi protendo allo stesso modo verso di lui. Le nostre labbra si congiungono all’unisono, sugellando un incredibile e tenero bacio.
Quando invade la mia bocca, sento le gambe venire meno e mi aggrappo istintivamente alle sue forti braccia. Il suo sapore è buono e deciso, il vorticoso intrecciarsi delle nostre lingue mi stordisce fino a mozzarmi il respiro. Senza lasciare neanche un attimo la mia bocca, Gregor raccoglie dolcemente il mio viso tra le mani per poi scendere con tenere carezze lungo la mia schiena, suscitandomi piccoli brividi di piacere.
Assaporo ogni istante e mi beo di questo tenero contatto, fin quando non lo vedo spalancare gli occhi e staccarsi da me, come rimasto scottato.
“Non posso…” la sua voce è roca, il suo sguardo spaesato.
Quelle semplici parole si conficcano sotto la pelle come una miriade di aghi. Lo vedo alzarsi, con un’espressione mortificata dipinta in volto in grado di avvilirmi ancora di più.
“Perdonami, Lucia, io non…” e sconvolto com’è, non riesce neanche ad articolare una frase.
Non avrei voluto?
Una speranza di felicità che neanche immaginavo di possedere va in mille frantumi, insieme al mio cuore. Avvolta nel mio dolore, cerco di non darla vinta alla delusione e allo sconforto. Scelgo di tutelare me stessa, voltando dignitosamente il capo dall’altra parte: non riesco a guardarlo, non posso affrontarlo, almeno non in questo momento, ne uscirei soltanto distrutta.
Stento a trattenere le lacrime, ma resisto finché non sento la porta della mia camera aprirsi e richiudersi al suo passaggio. Soltanto adesso, nel silenzio assordante della mia solitudine, posso concedermi un momento di debolezza, di lasciarmi andare a un inconsolabile pianto.


 
GREGOR
 
Raggiungo la mia stanza con il cuore in gola e il respiro ancora tremante. Non ho idea di cosa mi sia preso, non posso credere di aver perso il controllo e di essermi lasciato andare così con una mia atleta, e non con una qualunque, ma proprio con lei. Proprio con Lucia.
Svuoto sul letto tutto il contenuto dello zaino che mi sono portato durante l’escursione, e avverto il bisogno di sfilare dal portafoglio due foto che mi porto dietro ormai da una vita.  La prima raffigura i miei genitori, ancora uniti e felici come quando mio padre era ancora in vita, mentre l’altra ritrae il primo piano di Vittoria. Guardo i suoi occhi celesti che non ci sono più, il suo sorriso che un tempo riusciva a rassicurarmi. Cerco disperatamente conforto in quelle foto sbiadite dal tempo, ma quello che sento è soltanto un indescrivibile nodo all’altezza dello stomaco.
Cosa mi sta succedendo…?
 
 
Siedo solitario al mio tavolo nella grande sala dell’hotel Hinata, in attesa della cena. Do una rapida occhiata
al menù e non ho dubbi su cosa ordinare dopo il consistente pranzo di oggi. Con la mente affollata da mille
pensieri, mi sforzo di sorridere affabilmente al cameriere mentre ordino una leggerissima zuppa di miso.
Poco fa, uscendo dall’ascensore, ho incontrato tutto lo staff tecnico che aveva appena finito di cenare e si
accingeva a ritornare negli alloggi al piano di sopra. Profondamente grato, ho saluto e ho ringraziato
calorosamente per l’assistenza prestata a Lucia. Fortunatamente il nostro capitano sta bene, non ha riportato
danni alla caviglia e fra tre giorni sarà pronta per scendere in campo.
Quando ho sentito urlare quella donna e ho visto quel ladro scappare con la borsetta, dopo averci bruscamente spintonati per farsi largo, non mi sono formato a riflettere. Semplicemente ho agito d’istinto e mi sono lanciato all’inseguimento del malvivente, riuscendo così a recuperare la borsa di quella signora. Ma quando sono tornato indietro e ho visto Lucia, rimasta a terra completamente immobile, il cuore mi è balzato in gola. Per fortuna non si tratta che di un piccolo ematoma, ma entrambi ci siamo presi un gran spavento.
Quello che è successo tra me e Lucia quest’oggi è stato indescrivibile, inaspettato, intenso. Mi sono lasciato trasportare da quel bacio, è stato coinvolgente, ma è stato un errore… santo cielo, sono il suo allenatore! E come se non bastasse, ci troviamo nel bel mezzo della competizione più importante. Cedere a quell’improvvisa ondata di passione è stato uno sbaglio, un errore a cui adesso devo cercare assolutamente di rimediare.
Che stupido!
Come starà in questo momento? Sarà arrabbiata, ferita, delusa o ancor peggio…spaventata?
Comincio a chiedermi se sia il caso di andare a bussare alla sua porta, ma il terrore di ritrovarmi nella stessa situazione di prima mi tiene ancorato a questo tavolo. Forse dovrei semplicemente telefonarle, sperare in qualche modo in una sua risposta.
Non faccio in tempo a maturare una decisione, che vedo la vedo spuntare dalla porta della sala. Bellissima come sempre, entra in sala con addosso una camicetta a fiori e un jeans scuro lungo fino alle caviglie. Quando i nostri occhi si incrociano sento un brivido scuotermi da dentro.  Il suo sguardo è sereno e perfettamente impassibile, ma addosso a lei, sempre diretta e cristallina, sembra così innaturale. Con mia grande sorpresa, raggiunge il mio tavolo con passi lenti e felpati.
“Posso?” mi domanda, con un filo di esitazione.
“Ma certo!”
Ancora prima che possa dire qualcosa a riguardo, Lucia mi precede.
“Va tutto bene, coach! Davvero!” la sua è una tacita preghiera a non tornare più sull’argomento.
Ma le cose non vanno affatto bene, a lei glielo leggo negli occhi mentre a me lo suggerisce il cuore. 
Una parte di me si sente più serena adesso che vedo con i miei occhi che non è arrabbiata, Lucia ha la capacità di sorprendermi ancora una volta. Una potente attrazione ci ha spinti l’uno verso l’altra, ho sentito anche da parte sua un certo coinvolgimento, altrimenti non avrei mai osato infrangere i confini del consentito.
Senza proferire altro, Lucia raccoglie fra le mani il menù e inizia a sfogliarne le pagine.
La osservo con apprensione, mentre un suono insistente accompagnato da una lunga vibrazione proveniente dalla mia tasca mi avvisa dell’arrivo di una nuova chiamata.
“Scusami…” sibilo.
Lucia solleva per un attimo gli occhi e, con noncuranza, torna a posarli nuovamente sul menù.
Estraggo il telefono dalla tasca, deciso più che mani a rifiutare la telefonata. Adesso sento solo l’impellente bisogno di parlare con lei, di chiarire la situazione, non c’è nulla in questo momento che non possa aspettare.
Leggo sul display un numero sconosciuto, il prefisso +39 mi suggerisce che si tratta di una telefonata proveniente dall’Italia. L’incommensurabile lontananza da casa e il timore che possa trattarsi di qualcuno dei miei pochi affetti rimasta, mi fanno desistere del mio intendo.
Mi mordo le labbra e attivo il collegamento.
“Pronto?”
“Buonasera, parlo con Gregor? Gregor Startseva?”
“Sì, sono io – confermo, affabilmente – posso sapere con chi sto parlando?”
“Non mi riconosci, eh? Hai ragione, ne è passata di acqua sotto i ponti da quando ci allenavamo nella Milano Powervolley – sorride l’uomo di una certa età, dall’altro capo del telefono – sono il tuo vecchio mister, Gianluigi Pandolfi”
In un attimo vengo assalito dai ricordi, e sorriso pieno di nostalgia. Mi fa un certo effetto sentire dopo tanti anni il mio primissimo allenatore, nonché l’uomo per cui mi trovo qui in questo momento.
“Mi dispiace non averla riconosciuta, coach! È davvero un piacere sentirla finalmente, spero stia bene!”
“Non c’è male, purtroppo sono stato colto da un improvviso malore che mi ha spinto ad anticipare di un anno la data del mio pensionamento”
“Sono contento che si sia ripreso, voglio che sappia che per me è stato un onore sostituirla”
“Ti ringrazio molto, per il tuo affetto e la tua stima. Come stanno le ragazze?”
“Le ragazze stanno molto bene, sono tutte in gran forma – rispondo, preso dall’entusiasmo – purtroppo in questo momento sono in gita a Kyoto, ma se le va nei prossimi giorni possiamo fare una videochiamata su Skype. Sono sicura che sentirla sarà un piacere e darà loro la giusta carica per affrontare la seconda fase!”
Improvvisamente vedo Lucia farsi più pallida e stringere con forza il menù tra le mani, fino al punto da sbiancarle le nocche.
“Sì, probabilmente sì – sento rispondere Pandolfi, con una punta di esitazione – ma sai, io sono storia vecchia, l’era di Pandolfi è ormai tramontata… non vorrei finire con il confonderle troppo, adesso il loro punto di riferimento sei tu”
Sussulto, nel momento stesso in cui Lucia getta in malo modo il tovagliolo che aveva precedentemente posto sulle gambe. Si alza bruscamente da tavola e, senza proferire parola, si avvia verso l’uscita della sala.
Per un lunghissimo attimo rimango attonito nel mio silenzio.
Ma che succede?
“Gregor…? Pronto…? Gregor, ci sei ancora…?”
“Sì, coach, mi perdoni…ci sono...””
“Non ti sentivo più!”
“Qui la linea è disturbata – biascico a mò di scuse – per quanto riguarda la videochiamata, ripensandoci, mi piacerebbe molto che le ragazze ricevano un ulteriore sprono anche da parte sua, ma solo se non le arreca troppo disturbo. Ecco, mi rendo conto che il fuso orario non aiuta…”
“No, nessun problema da parte mia… sono felice di augurare buona fortuna alle mie ex atlete. Allora nei prossimi giorni ci sentiamo, nel frattempo mi saluti caramente Nastasi e le ragazze”
Appena riaggancio la telefonata, decido che non posso lasciar correre questa situazione o finirà con lo sfuggirmi di mano. Qualcosa di troppo strano aleggia nell’aria, qualcosa di assolutamente poco chiaro a cui proprio non riesco a dare un nome.
Il cameriere lascia sul tavolo la zuppa di miso ancora fumante e rimane attonito quando vede alzarmi da tavola e lasciare la sala senza neanche aver consumato.
Mi ritrovo a bussare pacatamente alla porta di Lucia,
“Lucia, cosa succede?”
“Niente!”
“Come sarebbe a dire niente? Non mentire! – sibilo – ho visto il modo in cui sei scappata via! È per quello che è accaduto fra noi, vero?”
“No!”
“Allora parlami, dimmi cosa c’è che non va – esito per un attimo, sopraffatto dall’enormità delle mie stesse emozioni – ti prego Lucia, approfittiamone adesso finché siamo soli tu ed io. Se c’è qualcosa che non va, se ti ho fatto qualcosa, questo è il momento migliore per parlarne…”
Per un attimo la vedo esitare. Lucia si tormenta nervosamente le mani, mentre i suoi occhi combattuti guazzano alla ricerca di un appiglio che non c’è.  
“Coach, va tutto bene! – sussurra alla fine – Sto bene”
“D’accordo” dico per niente convinto.
Mi volto per andarmene, ma proprio non riesco ad andare via così, non dopo aver visto nei suoi occhi lo stesso velo di tristezza che alberga nei miei.
“Coach…”
Mi giro nuovamente, sentendomi invadere da sentimenti pieni di speranza e aspettativa.
“Quel bacio… cos’ha significato per lei?” la sua voce è un sussurro che ha il potere di spezzarmi il cuore.
Tutto.
“Mi dispiace, non avrei dovuto spingermi a tanto – riesco solo a dire – me ne scuso!”
Evito di guardarla negli occhi. Quelle parole stridono sulla mia bocca come un’enorme bugia, ma non posso, non devo, non ci riesco…!
Lascio quella stanza d’albergo quasi di corsa, come se scappando da Lucia potessi sfuggire anche dai miei sen
timenti.
   
 
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