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Autore: paige95    29/05/2020    10 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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Notizie che risuonano da lontano
 


 
San Diego, 21 agosto 2018
 
 
Erano trascorsi già due giorni di silenzio totale e non era ciò che Christian le aveva assicurato. Katherine viveva nel vuoto cosmico da troppe ore; ciò le fece perdere il sonno dal momento in cui il cellulare di suo marito iniziò a risultare staccato, gli ultimi squilli rimasero nell’oblio e lei non sentì la sua voce nemmeno in occasione dei loro appuntamenti quotidiani. Persino i numerosi messaggi che la donna aveva spedito al Navy SEAL erano rimasti senza risposta, si erano trasformati in una sorta di sfogo all’ansia che opprimeva la mente, ne aveva inviati decine, quasi uno all’ora. Le sarebbero state sufficienti due parole per alleggerire il suo cuore tormentato; un semplice sto bene e Katherine avrebbe ricominciato a sperare in un lieto fine e di ritornare presto alla serenità che condividevano. Non era tipico di Christian rendersi irraggiungibile; era un marito attento e un padre fin troppo apprensivo, non avrebbe mai perso l’opportunità di avere notizie della moglie e della figlia se non ci fosse stata una forza maggiore della sua volontà ad impedirglielo. Non riusciva ad ignorare l’insolito comportamento dell’uomo, la guerra non era un motivo sufficiente per dimenticarsi della California e dei cuori che aveva lasciato in sospeso tra le onde alte dell’oceano. Era la seconda notte che trascorreva in un profondo stato di insonnia, senza avere la minima idea di cosa fare per tranquillizzarsi; non aveva altra scelta che rassegnarsi alla triste incertezza che incombeva come un’ombra sulle compagne dei soldati impegnati nel conflitto, con l’augurio che stavolta non fosse un pessimo presagio.
Non era facile per lei vivere tra quelle mura senza Christian; ogni angolo di quella casa le ricordava lui, le pareti erano tappezzate di foto di famiglia, in cui loro tre erano ritratti nei momenti più felici della loro vita insieme. Una fotografia in particolare le faceva fare un tuffo nel passato di quasi dieci anni, più intensamente da quando sopportava l’assenza del marito. Era un fotogramma che risaliva al loro matrimonio, il giorno più bello e strano della vita di Katherine. Pochi intimi nel loro caso era un eufemismo, alle loro nozze presenziarono solo gli sposi e un paio di testimoni, uno dei quali era William. Le era sembrato nella notte di Natale del 2008 di essersi immersa tra le pagine dei Promessi Sposi[1], con l’unica differenza che loro, diversamente da Renzo e Lucia, non avevano organizzato alcun matrimonio improvvisato e segreto, erano riusciti a programmare la data e il padre spirituale di certo non remava loro contro. Fu una notte magica – la più magica dell’anno per antonomasia –, indossavano abiti da cerimonia, ma nulla paragonabile ad un matrimonio in grande stile e godevano felici della semplicità del lieto evento che li vedeva protagonisti. I genitori di entrambi gli sposi erano assenti, ma solo quelli di Christian erano giustificabili; i signori Scott erano stati invitati da Katherine, con l’illusione che il matrimonio dell’unica figlia avesse potuto appianare ogni incomprensione, invece suo padre si era categoricamente rifiutato di consentire a quell’unione e così lei aveva solcato la navata centrale della chiesa da sola. Non si era mai pentita delle proprie scelte, le avrebbe prese e riprese ad ogni occasione; i suoi genitori non capivano che stavano odiando l’unico uomo che lei avesse mai amato, per il quale nutriva un amore corrisposto.
Un intenso temporale si stava abbattendo sulla città devastando la vegetazione; l’oceano, che Katherine e Christian amavano contemplare insieme, era in turbolenza proprio come la loro vita da una manciata di giorni. Mezzanotte era passata da tre ore, non era importante che non riuscisse a riposare, il giorno successivo non le era stato assegnato alcun turno in spiaggia. Il volume del televisore era al minimo per non disturbare i sogni di Alisia e l’unico sottofondo era il vento che sbatteva l’acqua contro le mura esterne della villa; la donna si stava augurando che l’antenna non attirasse i fulmini, l’assenza di tuoni la faceva ben sperare sia per lei che per la figlia. Lo sguardo smeraldino di Katherine era perso tra i servizi che i corrispondenti della CNN giravano in territorio afghano e la sua mente stanca era in balìa delle prospettive più nefaste.
Katherine maneggiava di continuo il telefono con la speranza che lo schermo si illuminasse. Le sporadiche notizie sulla guerra in Medio Oriente le offrivano la flebile certezza che nessun attentato grave avesse di recente colpito quelle terre. Più volte ebbe la tentazione di chiamare l’ambasciata, solo Dio sapeva quanto si fosse sforzata per resistere; l’esperienza passata con la rappresentanza americana a Kabul non era stata confortante, all’epoca non erano stati in grado di comunicare le condizioni di suo marito senza prima piegarla in due dal dolore; avevano esordito con parole che avrebbero spezzato la corteccia più robusta: ci rincresce, signora Richardson, comunicarle che suo marito risulti tra il numero dei dispersi, era la signora Richardson da poco più di sei mesi e aveva rischiato di diventare la vedova Richardson nel giro di una manciata di secondi. Christian ovviamente non era mai stato disperso, ma nel concitamento dello scampato attacco di nove anni prima non avevano ricevuto sue notizie per ore; ore in cui Katherine, sola tra le mura della casa che era diventata presto di entrambi, perdeva un anno di vita ad ogni minuto che trascorreva nell’angoscia.
Seguiva la programmazione dei canali americani senza alcun tipo di interesse, attendeva solo i tg con le notizie delle ultime ore, forse erano più rassicuranti e puntuali della stessa ambasciata; alle tre la CNN mandò in onda l’edizione notturna e fu in quel momento che la televisione conquistò la massima attenzione di Katherine. La rincuorò scoprire che non fosse in programma alcuna edizione speciale e che la guerra non fosse in primo piano, ma solo un corollario, quasi un aggiornamento di routine per tutti gli americani che seguivano con dedizione le vicende dalla patria. I riflettori si erano accesi su Kabul; in quelle terre d’Oriente era una giornata di sole qualunque, un giovane inviato si trovava sotto un cielo sereno che infondeva una finta pace; il ragazzo tentò persino un timido sorriso, Katherine non faticava ad immaginare quanta poca voglia avesse di simulare serenità. La voce del giornalista giungeva ovattata dall’altro capo del mondo e nemmeno le immagini risultavano essere particolarmente nitide; sullo schermo la CNN rendeva noto il nome del ragazzo, il quale secondo Katherine non poteva avere più di venticinque anni: si chiamava Samuel Clark e lavorava per il Los Angeles Times. La donna lo stava ascoltando con attenzione, non stava riportando nulla di diverso dalla sua testimonianza personale, in particolare si stava soffermando sui problemi sociali della popolazione che si trovava in mezzo a due fuochi e non sapeva come sopravvivere un giorno di più. Con tutto il rispetto, sussurrò Katherine, io non me la sto passando meglio; nessuno sembrava pensare alle famiglie dei soldati che combattevano al fronte. La guerra aveva conseguenze devastanti, sia fisiche che morali, su molti, di qualunque nazionalità essi fossero. Il reporter proseguiva sottolineando le condizioni del tutto inumane in cui i fanciulli trascorrevano la loro infanzia, tra bombe, mitragliatrici – per difesa e offensiva – e campi minati; era toccante il suo racconto, era nettamente in contrasto con il sole limpido che gli illuminava il viso contratto dal dispiacere, come se avesse vissuto sulla propria pelle i segni tangibili delle sofferenze di cui narrava. In condizioni normali a Katherine sarebbe scorsa qualche lacrima per il triste destino di quelle creature che non avevano meno dignità della sua bambina, ma quella notte l’angoscia che provava era dedicata solo a Christian. La donna afferrò il telecomando; lasciò il giovane al triste resoconto delle problematiche sociali che si stavano abbattendo sull’Afghanistan, infauste tanto quanto le sette piaghe d’Egitto. Anche quel Samuel stava rischiando la vita, Katherine premette il pulsante di spegnimento augurando buona fortuna a quello sconosciuto che si stava avventurando su terreni paragonabili alle sabbie mobili; la CNN stava trasmettendo il suo racconto da una steppa incolta devastata dalle bombe, l’atmosfera da cui era circondato il giornalista era tristemente suggestiva. Furono le ultime immagini che rimasero impresse negli occhi della donna, con il suo gesto non si spense solo la luce del televisore, il soggiorno rimase avvolto nelle tenebre, così come il resto dell’abitazione. Un tuono potente e inaspettato fece vibrare i vetri delle finestre, mentre Katherine accendeva la torcia del telefono. Si avvolse meglio nella vestaglia di cotone, un brivido di freddo l’aveva percorsa, e si premurò di cercare in qualche cassetto una candela e dei fiammiferi per illuminare almeno un angolo della casa in attesa che il temporale placasse la sua furia. Non la spaventavano i rovesci climatici, per quanto potessero essere intensi, desiderava solo che i forti boati non svegliassero Alisia e inquietassero il suo riposo; la piccola sentiva accentuata la mancanza del padre da quando le comunicazioni con lui erano state inspiegabilmente interrotte. La donna posò la candela già mezza consumata – non erano così rari i blackouts sulla costa – su un porta lumini di vetro, lo appoggiò sul tavolino e si accomodò sul divano; accostò i gomiti alle ginocchia unite, si stropicciò le palpebre pesanti con pollice e indice ed infine puntò le iridi sullo schermo scuro del cellulare. Un ennesimo tentativo non avrebbe causato danno ad alcuno, ma avrebbe dato a lei la percezione di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per risentirlo; in ogni caso sarebbe rimasta impotente a qualunque destino sarebbe spettato al marito. Compose il numero di Christian e attese che la comunicazione venisse stabilita; il telefono non squillò, proprio come nelle ultime ore, il cliente da lei chiamato era come di consueto irraggiungibile. Katherine interruppe la mancata chiamata prima che scattasse la segreteria e la voce cordiale dell’uomo la annunciasse. Era rimasta sola con una bambina di sei anni e le era stato tolto l’unico sollievo di cui potesse beneficiare nell’arco della giornata; così era esagerato, era un silenzio surreale e preoccupante che proseguiva da troppo. Di norma non avrebbe fatto suonare in piena notte il telefono di William che viveva in uno dei tanti grattacieli di San Diego, quindi a pochi chilometri da lei; poteva vantare di avere con quell’uomo un’amicizia lunga più di dieci anni, ma, per quanto lui fosse restio a qualunque relazione stabile, lei non era certa che non si trovasse in dolce compagnia. L’amico le ispirava sempre affabilità, ora ne necessitava più che mai, inoltre, ragione non trascurabile, in quanto testimone di nozze, si era impegnato a vegliare sui coniugi Richardson, nel bene ma soprattutto nel male; fu piacevolmente sorpresa di scoprire che non avesse spento il telefono, lo lasciò squillare una manciata di volte, finché la voce assonnata dell’uomo consentì alla donna di colmare la bolla d’aria in cui era entrata e che era inondata soltanto dallo sfogo del cielo.
«Katherine»
Quando la voce di William la raggiunse però, riscoprì il pudore che aveva perso affidandosi a lui ad un’ora così tarda; non le uscirono le parole che si era ripromessa di proferire non appena lo avesse sentito pronunciare il suo nome.
«Kathe. Mi senti?»
L’uomo possedeva una nota di preoccupazione nel tono; sentiva che lei era dall’altro capo della linea, percepiva nitido il suo respiro pesante, chiaro sintomo che il suo cuore fosse affannato.
«Katherine, mi stai spaventando. È successo qualcosa a Christian?»
«Lo hai sentito? Non mi risponde da giorni»
Al nome del marito, sentì la necessità impellente di domandare ansiosa, senza sapere se effettivamente lui avesse qualche notizia in più, anzi quasi certamente non l’aveva, lui per primo stava indugiando.
«William»
«Fino a Kabul un temporale potrebbe rendere difficili le comunicazioni. Non sono trascurabili le condizioni metereologiche»
«No, Will, non è colpa del temporale. Il telefono di Chris risulta staccato da due giorni. Sono in pensiero»
Katherine lo aveva chiamato per ricevere una parola di conforto, non certezze che non sapeva offrirle; tentò di farle percepire la sua vicinanza con un sorriso, rendendo la sua voce meno assonnata e più dolce.
«Christian sta bene. Non mi intendo di guerra o di forze militari, ma da quello che so è il migliore nel suo campo. Lo sa il mondo intero e non può essere che proprio sua moglie non lo ricordi. Abbi fede, Kathe, lui torna a casa, metterei la mano sul fuoco e non avrei affatto paura di scottarmi. Prima di andare in ufficio più tardi passo da voi. Prova a dormire qualche ora»
«Ti ho disturbato, mi dispiace»
«Stavo solo dormendo, nulla di importante»
William sminuì il suo bisogno di riposo, come solo un vero amico sapeva fare.
 

 
 
Los Angeles, 21 agosto 2018
 
 
La radio sulla stazione della CNN stava tenendo compagnia al direttore Clark dall’alba, da quando aveva ricominciato a chiudersi nel suo ufficio in redazione. Più il tempo trascorreva e più Daniel era certo che quelle quattro mura spesse insieme ad un buon sigaro fossero la soluzione migliore all’infinità di problemi che lo circondavano, dentro e fuori la sua famiglia. Casa sua non poteva definirsi luogo tranquillo dalla partenza del figlio; la rabbia della moglie incombeva da giorni su di lui e spesse volte l’atteggiamento rancoroso della compagna aveva spinto Daniel a pensare che forse sarebbe stato più sano chiudere anni prima con il genere femminile.
Buona parte dei conoscenti lo accusava di essere un pessimo padre, i più ardimentosi si arrogavano addirittura il diritto di puntargli apertamente il dito contro. Nessuno di loro però si trovava nei suoi panni, aveva percorso i suoi stessi passi o vissuto la sua vita. Nessuno di loro era il direttore di una testata giornalistica e aveva nelle mani la gestione di uno dei quotidiani più influenti negli Stati Uniti d’America.
La bufera che si era sfogata la notte appena trascorsa nei cieli di Los Angeles, e su mezzo suolo americano, gli aveva causato una persistente emicrania; in assenza del dolore fisico avrebbe riposato senza alcun impedimento, a differenza della moglie in ansia per le sorti del figlio. Daniel si augurava che quella donna avesse avuto modo di sentire il servizio di Samuel da Kabul; il ragazzo era in piena forma, la sua voce era squillante, il direttore era certo che avrebbe portato alto l’onore del Los Angeles Times tra le fila dei giornalisti più illustri di cui l’America potesse beneficiare. Daniel aveva ascoltato con interesse le parole del figlio; era rimasto piacevolmente sorpreso, aveva una buona predisposizione anche come telecronista e non era così frequente per un neolaureato che sperimentava come primo viaggio estero zone di guerra. La voce di Samuel era calma, si incrinava solo fomentata dalla passione con cui avvalorava le condizioni di vita degli afghani. Era sempre stato un ragazzo sentimentale, fin troppo, ma Daniel era certo che il pubblico avrebbe apprezzato e con esso i dirigenti della CNN che avrebbero riscontrato una buona audience.
Da giorni ormai il Los Angeles Times non pubblicava articoli interessanti sulle vicende al fronte. L’ultima notizia riguardava il rientro in patria di una decina di militari che, dopo un lungo periodo in Afghanistan, si apprestavano a vivere un meritato congedo; erano notizie liete, facevano bene al cuore degli americani, ma settembre era alle porte, il mese più difficile per la Nazione era dietro l’angolo, specie per i connazionali che combattevano e consentivano ai civili sul suolo americano di risollevare la testa dalle macerie e ricostruire così la dignità nazionale.
Non era rimasto affatto indifferente al servizio televisivo e radiofonico del figlio riproposto dalla CNN ad ogni edizione informativa sull’attualità; anche durante il lavoro, la voce del ragazzo, attraverso la radiolina posta a pochi centimetri dalle sue mani, gli teneva compagnia. Daniel era impegnato a scrivere l’ennesima e quotidiana lettera del direttore che dedicava a tutti i suoi lettori, assidui e non; ispirato dalla presenza effimera del figlio, ebbe la forte tentazione di spendere qualche parola a riguardo. Davanti al direttore erano posti un semplice foglio bianco A4 e una penna a sfera nera il cui inchiostro era quasi terminato.
 
Cari lettori,
gli ultimi giorni sono stati ricchi di speranza per la nostra Nazione, dal fronte non risuonano canti di morte per i nostri connazionali. Mi auguro insieme a voi che questo stato di quiete possa perdurare il più a lungo possibile.
La guerra sta strappando uomini, donne e bambini alla vita in ogni parte del mondo. I nostri soldati, medici, volontari e corrispondenti rappresentano la patria, portano l’orgoglio americano in Afghanistan e l’America è con loro. Affidiamo a Dio la loro anima, affinché possano fare ritorno presso le loro famiglie.
Daniel Clark
Direttore Los Angeles Times
 
Era raro che impiegasse il cuore con sincero rammarico e non per opportunismo, forse perché ne era personalmente toccato e il discorso in stile Winston Churchill era la prova tangibile. Senza rendersene conto aveva lasciato che il cuore si esprimesse al suo posto, era stata una sensazione strana, dolce e dolorosa nel medesimo angolo del petto. Sentire per la prima volta la voce del figlio risuonare così lontana gli infondeva angoscia, come se lo avesse sempre dato per scontato.
Un colpo secco contro la maniglia della porta lo riscosse dal momento di raccoglimento in cui era immerso e d’impulso avvertì la premura di abbassare il volume della radio, onde evitare che Delilah lo sorprendesse in un peccaminoso stato di debolezza. La figlia si era avventata verso di lui con il suo solito passo da paladina della giustizia; stava per ergersi in difesa di qualcosa o qualcuno e lui avrebbe scoperto presto l’oggetto occasionale delle loro regolari discussioni. La donna aveva occhiaia scure sotto le ciglia inferiori, frutto sicuramente di un lungo turno notturno al St. Vincent Medical Center; il suo nervosismo doveva essere dovuto in buona parte alla mancanza di riposo, prima ancora che all’insofferenza che provava nei confronti del padre, perciò Daniel non si scompose, non ritenne necessario alzare i toni.
«Tu e tuo fratello avete gli stessi pessimi vizi»
Delilah aveva posato i palmi sulla scrivania e sul foglio su cui stava lavorando Daniel per interromperlo con irruenza; non fece neppure caso alle parole che l’inchiostro della penna nera aveva inciso.
«Per vizi in comune intendi un padre come te? O forse più che un vizio tu sei una calamità»
«Sei ancora arrabbiata per Nathan?»
L’uomo persisteva a risponderle con voce calma e non la degnava di uno sguardo, come se stesse parlando con chiunque altro. L’indifferenza agli insulti irritava parecchio Delilah, più di un qualsiasi rimprovero; in quel modo non le offriva la possibilità di sfogare il rancore che provava, non era capace di concederle nemmeno quella soddisfazione. Lo fissava con disgusto e delusione mentre era impegnato a cercare in ogni angolo della scrivania l’accendino, i cerini e qualsiasi cosa gli avesse consentito di accendere il sigaro nuovo che teneva ben saldo tra le dita. Quando finalmente Daniel trovò con compiacimento l’agognato oggetto del suo desiderio, ben nascosto sotto l’angolo di cartoncino appartenente ad un fascicolo da visionare, la figlia repentina vi posò sopra il palmo. Il direttore aveva alzato gli occhi castani su di lei infastidito; Delilah avrebbe giurato di aver letto una punta di sfida nelle sue iridi.
«Ripeto, sei ancora arrabbiata con me per quello che ti ho detto riguardo a tuo marito?»
«No, stavolta no. Hai il dono di seminare distruzione ovunque, non sono la tua unica vittima. Ad esempio, hai venduto Samuel come giornalista alla CNN??»
Daniel riscoprì la sua solita grinta per difendere il lavoro che agli occhi di molti amava più del proprio sangue. Con le dita l’uomo forzò la presa della figlia, le sfiorò il palmo e recuperò l’accendino; solo dopo essersi occupato del suo sigaro, tornò a concentrarsi su Delilah.
«La redazione non vive d’aria. Samuel lavora sempre per me, ma siccome attualmente si trova laggiù, non cambia nulla se realizza qualche servizio per i tg nazionali»
Cercò di riscoprire nel sigaro un calmante per lui diventato naturale, il posacenere veniva in suo soccorso ogni qualvolta ne avesse avuto necessità e nel corso di quella conversazione fu vitale, il tabacco veniva consumato con una certa celerità. Era troppo preso dalle sue abitudini per accorgersi che il fumo intenso provocava reazioni fisiologiche alla figlia: colpi di tosse e un’evidente – ma non per tutti – irritazione agli occhi che si sfogava in un’eccessiva lacrimazione. Non la conosceva nemmeno un po’ dopo trentaquattro anni di vita, non la osservava quando le era un palmo dal naso, ergo non gli importava nulla di lei; non avevano mai condiviso lo stesso tetto, ma era piuttosto certa che in caso contrario la convivenza non avrebbe mutato in positivo il loro rapporto.
«Quindi il Los Angeles Times campa sulle spalle di tuo figlio?»
«Non rischia di più con i nuovi incarichi, se è questo che ti preoccupa tanto»
Era allibita per l’indifferenza del padre, non era affatto normale il suo atteggiamento e il fatto che lui tentasse di spacciarlo per una buona norma era ancora più grave.
«Sai, papà, a volte mi chiedo seriamente con c'entri io con te, siamo troppo diversi»
«Hai finito il turno in ospedale, sei stanca e hai deciso di prendere la strada della redazione piuttosto che imboccare quella di casa e sfogarti su tua madre?»
Daniel si riaccese il sigaro che nel frattempo si era spento, lo lasciò tra le labbra e si occupò di riordinare i documenti sparsi sulla scrivania, invitando la figlia ad alzare le mani ancora posate sul foglio appena stilato.
«Venire da te è stato assolutamente intenzionale, come farsi sei piani a piedi solo per rivedere la tua faccia di bronzo. Non te ne frega nulla di me e di Samuel»
Le dita dell’uomo recuperarono il sigaro, ma non si lasciò distrarre da quello che stava svolgendo con meticolosità.
«Tuo fratello non la pensa così»
«Mio fratello ha un disperato bisogno di sentirsi amato da te. Per questa ragione ti basta schioccare le dita per manipolarlo come un burattino. Tu lo sai bene e questo non ti fa onore»
Era stata lei a sbattergli rassegnata in faccia la verità, la calma con cui aveva proferito le parole era stata inquietante.
«Delilah, non ti permettere più di parlarmi in questo modo. Hai lo stesso carattere orribile di tua madre. Nathan probabilmente se n'è accorto, per fortuna in tempo»
Suo padre stava facendo congetture insensate e senza logica puntandole irritato il dito contro e a lei venne quasi da ridere; non sapeva nulla riguardo a come si fossero lasciati lei e il suo ex marito, non si era mai interessato a lei, non poteva sapere, come non capiva che l’unico problema era stato lui nella sua separazione dalla madre della figlia. Come una punizione divina, Daniel fu costretto a ritirare il braccio con il qualche stava accusando la giovane donna, una fitta lo aveva colto alla sprovvista e la smorfia di dolore che mascherava il suo volto mise in allarme Delilah.
«Papà, cos'hai?»
La figlia si placò istintivamente, la mente e il cuore la protendevano all’aiuto incondizionato a beneficio del prossimo, anche dopo una lite ai ferri corti con il padre; era una dottoressa, aveva scelto di esserlo per vocazione e la sofferenza altrui la spingeva ad agire. Delilah non osò sfiorare l’arto dolorante solo per il timore della reazione dell’uomo, pensò lui a massaggiarsi la parte dolorante.
«Niente, mi fa male da un po'»
I pensieri della donna furono poco rassicuranti.
«Devi fare degli accertamenti. Non mi piace per nulla quel dolore»
Daniel scoppiò a ridere sarcastico, distendendo in parte la contrazione del suo viso.
«E a te cosa importa? Se crepo puoi finalmente stare più serena»
«Papà, non è un dolore trascurabile. Mi viene in mente un’ipotesi più terribile dell'altra, ma ho bisogno che ti sottoponga a qualche visita prima di esserne sicura»
«Non sei il mio medico»
«Ma sono tua figlia con una laurea in medicina e questo è il mio lavoro. Chiama il tuo medico e chiedi di farti prescrivere queste analisi»
Delilah recuperò un post-it colorato e la biro con la quale il padre stava scrivendo poco prima; l’inchiostro stava per esaurire, ma lei riuscì a terminare cercando di scrivere in una calligrafia comprensibile in favore della vista del suo vecchio.
«Dimmi quando avrai i risultati, li leggiamo insieme»
«E se non volessi farle?»
«Ti vuoi troppo bene per lasciarti morire. Papà, non trascurare i segnali che ti sta dando l’organismo. Conosco bene le tue abitudini e l'eccesso di fumo potrebbe essere una causa»
Daniel era convinto di non meritare una figlia così attenta.
«Posso chiederti di non dirlo ad alcuno? Per esempio alla mamma o a chiunque altro che sia mio familiare»
«Non sono il tuo medico, con te non vale il segreto professionale»
Gli sorrise con furbizia. Era orgoglioso di sua figlia, della sua professionalità e di ciò che era diventata negli ultimi anni, ma non era in grado di condividerlo con lei.
«Vado a casa a riposare»
Delilah si alzò e gli posizionò davanti il blocchetto di post-it su cui aveva scritto, indicandolo con la punta dell’indice e alludendo con convinzione al fatto che fosse davvero importante seguire il suo consiglio. L’uomo la seguì nei suoi gesti, in una rara occasione di trasporto emotivo verso la figlia.
«Hai avuto occasione di parlare con Samuel?»
La donna si limitò a negare con la testa ostentando malinconia.
«Aspetto mi chiami lui, non voglio disturbarlo. Non gli hai nemmeno parlato tu della CNN, hai lasciato che altri lo facessero al tuo posto?»
«Tipico di me, vero?»
La figlia si riaccomodò lentamente stupita, non era sicura di ciò a cui aveva appena assistito; il padre aveva un velo di mortificazione in volto, forse però era solo un’illusione ottica per quanto risultasse strano quel fenomeno.
«Intendi tipico di te fare lo stronzo?»
Il direttore Clark le rivolse un sorriso rassegnato e sincero mentre spegneva del tutto il sigaro nel posacenere servendosi di qualche colpetto deciso.
«Sai, quando sei nata ho avuto il sentore che fossi tale e quale a tua madre, ho sperato fino in ultimo che fossi diversa da lei e che di quella donna avessi ereditato solo la bellezza. Mi tocca ricredere, sei intelligente almeno tanto quanto lei»


 
Ciao ragazzi!
Sono tornata con l’immaginazione in California, ma non ho perso di vista le vicende di Samuel. Nel mio intento c’era infatti la volontà di prendere tre piccioni con una fava, spero di esserci riuscita ^^.
Se siete giunti fin qui nonostante le mille disgrazie che semino ovunque, vi ringrazio di cuore! <3
Alla prossima
Un grande abbraccio
-Vale
 

[1] Riferimento al capitolo VIII dei Promessi Sposi.

 

   
 
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