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Autore: Soul Mancini    29/05/2020    12 recensioni
Un piccolo spaccato dell'adolescenza di Jia.
Quando si ritrova nell'unica situazione che vorrebbe evitare, l'unica in grado di farle abbassare il capo e farla sentire veramente a disagio.
DAL TESTO:
«Sono queste le cose che fanno un padre e una figlia, no? Parlano, scherzano, riescono almeno a stare serenamente nella stessa stanza.
Invece tra noi è tutto così forzato, così imbarazzante.
Questo silenzio mi sta massacrando. Proprio il silenzio, una cosa che ho sempre amato.»
- QUARTA CLASSIFICATA a "Il contest autobiografico" indetto da Ile_W sul forum di EFP.
Genere: Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ice'
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Icy silence
 

 
 
 
 
Words like violence
Break the silence
Come crashing in
Into my little world
Painful to me
Pierce right through me
[Depeche Mode – Enjoy The Silence]
 
 
 
 
Non so da quanto tempo non capitava; in genere mio padre è sempre fuori. Per lavoro, per divertirsi, per evitarmi… chissà perché.
Accavallo le gambe, poggio meglio la schiena alla spalliera del divano e cerco di concentrarmi sul libro che sto leggendo. In genere è facile immergermi tra le pagine e le parole, ma oggi c’è qualcosa che non va.
La sua presenza mi indispone, mi infastidisce.
Il silenzio pesante e teso che regna nella stanza mi mette a disagio.
Sento ogni suo minimo movimento: si alza, sistema la tenda alla finestra, si risiede, sfoglia chissà quale rivista o chissà quale fascicolo di documenti, si schiarisce la gola. Sembra irrequieto.
Provo a tenere lo sguardo basso sul libro, ma mi ritrovo a leggere mille volte la stessa frase senza veramente capirla, finché con la coda dell’occhio non lancio un’occhiata nella sua direzione.
Verso quell’uomo che dovrei conoscere meglio di chiunque altro e che dovrebbe conoscermi meglio di chiunque altro. L’uomo che mi ha dato la vita una dozzina di anni fa, con cui ho sempre convissuto e con cui non ho mai realmente parlato.
Anche lui perlopiù mi ignora, ma qualche volta lo trovo che sbircia verso di me, come se volesse dirmi qualcosa.
Ma cos’avrebbe da dirmi? Di cosa dovremmo parlare io e lui? Questa è forse la prima volta nella vita che passiamo qualche ora nella stessa stanza, siamo perfetti sconosciuti.
Ora che ci penso, a parte il cognome non abbiamo niente in comune. È una verità così ovvia, che mi ha accompagnato per tutta la vita, ma rendersene conto fa comunque male.
Fa schifo.
Volto pagina e mi prendo una ciocca di capelli, torturandola e torcendola tra le dita; sono nervosa e non dovrei esserlo, non so nemmeno perché.
Non dovrei sentirmi così inadeguata.
Eppure è come se mi sentissi in dovere di dire qualcosa, di cominciare una conversazione e rompere il ghiaccio. Sono queste le cose che fanno un padre e una figlia, no? Parlano, scherzano, riescono almeno a stare serenamente nella stessa stanza.
Invece tra noi è tutto così forzato, così imbarazzante.
Questo silenzio mi sta massacrando. Proprio il silenzio, una cosa che ho sempre amato.
Porto fuori le mie amate cuffie e il mio lettore mp3 dalla tasca della giacca e mi infilo un auricolare all’orecchio. Almeno la musica mi terrà compagnia, forse mi aiuterà a calmare questa strana agitazione che sento dentro.
Potevo semplicemente prendere il libro, alzarmi dal divano e uscire dalla stanza, sarebbe stato molto più semplice, ma c’è qualcosa che mi trattiene. Non so spiegarlo, ma mi sento in dovere di restare.
Forse spero di trovare il coraggio per rivolgere la parola a mio padre. O forse spero che sia lui a farlo, anche se non saprei cosa rispondergli.
Lo sento schiarirsi nuovamente la gola, a disagio.
È tutta colpa sua se siamo arrivati a questo punto, è colpa sua se non abbiamo uno straccio di rapporto: io sono solamente una ragazzina di dodici anni che cerca stupidamente di attirare la sua attenzione, senza mai riuscirci.
Già, non è colpa mia, ma questa sorta di vuoto all’altezza dello stomaco lo sento io. Questo senso di inadeguatezza lo sento io.
E se veramente facessi lo sforzo di parlargli? Vediamo, come potrebbe cominciare un discorso tra padre e figlia?
Potrei chiedergli come va al lavoro, ma la verità è che non me ne frega niente. Del resto lui non mi chiede mai come va agli allenamenti e alle gare di pattinaggio.
Poi, cos’altro?
Potrei chiedergli se gli va di fare qualcosa insieme, magari una passeggiata in giardino… no, è fuori discussione, non potrei mai sopportare di fare qualcosa con lui. Sarebbe troppo forzato.
Accidenti, riuscirei a essere più spigliata con un perfetto sconosciuto.
Frugo e frugo nella mia mente alla ricerca di un pretesto per cominciare un discorso, ma non mi viene in mente niente.
E anche se lo trovassi, cosa cambierebbe? Tanto non avrei il coraggio di aprir bocca, il cuore mi impenna nel petto alla sola idea. Proprio io, così sfacciata e sicura di me, all’improvviso mi sento così piccola, così timida.
È un incubo.
Allora perché non mi alzo e non esco dalla stanza? Cosa mi trattiene ancora in questo mare di imbarazzo?
Sospiro e mi concentro sulla canzone che scorre nel mio orecchio sinistro, unico diversivo a quell’opprimente silenzio pieno di aspettative e frasi in sospeso. La musica mi fa sentire un po’ meglio, anzi, mi rilassa completamente: all’improvviso nella mia mente cominciano a formarsi coreografie che potrebbero andare bene sopra questa musica, mi immagino i salti che ci starebbero meglio in questo e in quel punto.
Pensare al pattinaggio mi fa sempre stare meglio.
Il pattinaggio, quella passione che mio padre non ha mai appoggiato e che mi rinfaccia sempre.
Scuoto il capo: alla fine che interesse dovrei avere ad andare d’accordo con lui? Cosa dovrei spartire con quest’uomo dal cuore di ghiaccio che non è in grado di amarmi solo perché non sono la figlia che avrebbe voluto?
È triste da pensare, ma dovrei lasciar perdere. Se non mi vorrà lui, mi vorrà qualcun altro. Ci sono un sacco di persone che mi vorranno, non mi importa di ciò che pensa e di ciò che fa.
È uno su sette miliardi.
“Cosa stai leggendo?”
Quelle parole mi colpiscono in pieno volto come un ceffone. Mio padre le ha pronunciate in tono formale, quasi esitante, come se stesse parlando con un collega di lavoro o qualche sconosciuto uomo d’affari.
Come se mi rivolgesse la parola per la prima volta.
Tengo lo sguardo basso – io, che non lo abbasso mai, di fronte a nessuno – e giocherello nervosamente con l’auricolare destro. “Coraline” rispondo, accennando appena al libro poggiato sulle mie ginocchia.
Ed è così faticoso pronunciare quelle poche sillabe, all’improvviso mi sento la gola secca e il cuore a mille. Mi sento osservata, giudicata, nel posto sbagliato e al momento sbagliato.
Mi sta guardando? Si aspetta qualcos’altro da me? Forse sperava che sarebbe cominciata una conversazione vera?
Ma in fondo non gliene frega niente di quello che leggo: lui pensa che leggere romanzi sia una perdita di tempo, che dovrei solo studiare e studiare e ancora studiare per diventare una donna d’affari. Una sua esatta fotocopia.
Il silenzio piomba di nuovo nella stanza e io non sono per niente sorpresa. Anzi, sono sollevata: parlare è ancora più imbarazzante che ignorarci.
Mio padre si alza, recupera il telecomando e accende la tv. Probabilmente si è stufato pure lui, ha bisogno di qualcosa che gli riempia le orecchie e la mente, che lo distragga da questo patetico siparietto a cui abbiamo appena dato vita.
Bene, fine della conversazione.
Mi alzo, prendo il libro sottobraccio e, ancora con un auricolare all’orecchio, esco dal soggiorno, diretta verso il giardino. Avrei dovuto farlo molto prima.
Non appena mi allontano da mio padre, tutta quell’ansia e quell’agitazione, tutto quel senso di umiliazione, scivolano via da me e posso tirare un sospiro di sollievo.
Va bene, non fa niente, non è la fine del mondo. Non è che smetto di vivere e mi dispero se non riesco a essere simpatica a tutti.
È davvero triste che io faccia un pensiero del genere su mio padre, forse è addirittura grave che dopo dodici anni non riusciamo nemmeno a stare uno a fianco all’altra.
Ma non importa, davvero, io posso passarci sopra e infischiarmene.
Io e mio padre, oltre al cognome, abbiamo un’altra cosa in comune: il cuore di ghiaccio.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
So che è una bazzecola ma, che ci crediate o no, scriverla mi ha fatto bene… e mi ha fatto parecchio riflettere.
A parte la passione per il pattinaggio della mia protagonista (chi conosce Jia sa che poi ne farà una professione) e il lavoro di suo padre, lo scritto è praticamente autobiografico. So che non è una cosa allegra, ma ho vissuto davvero situazioni del genere sulla mia pelle e anche le sensazioni raccontate sono le mie.
Dato che, a parte alcune varianti, il rapporto di Jia con suo padre è molto simile al mio, ho deciso di donarle un pezzetto della mia vita ^^ questo mi ha permesso anche di approfondire un po’ il suo passato e presentarla quando era ancora una ragazzina – come vedete, anche se si mostra sempre dura e forte, esiste una persona in grado di metterla in difficoltà!
Anche la lettura di Coraline (chi non conosce il libro, sicuramente avrà sentito parlare del film) trae ispirazione da me, cioè l’ho letto anch’io e mi piaceva che Jia facesse le mie stesse letture! Inoltre è vero che mio padre, proprio come il suo, trovava stupidi i romanzi e tutta la letteratura “inventata” – cioè proprio io e lui viaggiavamo su due binari paralleli ahahahah XD
Per chi non conosce la serie di cui questa storia fa parte, spero vi sia ugualmente piaciuta e che sia stato tutto chiaro e comprensibile :)
Grazie mille alla giudice del contest per la carinissima idea e grazie a chiunque sia giunto fin qui :3
Alla prossima!!! ♥
 
 
   
 
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