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Autore: Exentia_dream2    03/06/2020    13 recensioni
Storia partecipante al contest “Ogni amore ha la sua pietra preziosa” indetto da Zukiworld sul forum di Efp.
Draco scappa dopo la cattura del Trio Miracoli e dopo aver finto di non riconoscere Harry Potter.
Trova rifugio nell'ultimo posto in cui avrebbe mai pensato di mettere piede, quel posto che poi sarà rifugio anche per Hermione.
In quell'inverno rigido e nevoso, la ricerca degli Horcrux procede: Harry ha deciso di continuare da solo e l'intera famiglia Weasley si è trasferita a Grimmauld Place per pianificare al meglio gli attacchi contro Voldemort ed i suoi seguaci.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Nickname: Exentia_dream2
Pacchetto: Ossidiana
                         
Coppia: Draco Malfoy/ Hermione Granger
Bonus: SI
Titolo: Storia d'inverno. 

 Storia partecipante al contest “Cosa sarebbe successo se…” indetto da Freya_Melyor sul forum di Efp.

Storia partecipante al contest “Ogni amore ha la sua pietra preziosa” indetto da Zukiworld sul forum di Efp.

Storia partecipante al contest “The one about Slytherins” indetto da Soficoifiocchi (DeaPotteriana) sul forum di EFP.

 
Note: Draco scappa dopo la cattura del Trio Miracoli e dopo aver finto di non riconoscere Harry Potter. 
Trova rifugio nell'ultimo posto in cui avrebbe mai pensato di mettere piede, quel posto che poi sarà rifugio anche per Hermione. 
In quell'inverno rigido e nevoso, la ricerca degli Horcrux procede: Harry ha deciso di continuare da solo e l'intera famiglia Weasley si è trasferita a Grimmauld Place per pianificare al meglio gli attacchi contro Voldemort e i suoi seguaci.

 
Storia d'inverno
 
Si era nascosto tra i lunghi fili di erba incolta, piegato sulle ginocchia e guardava quella casa come se fosse il suo ultimo rifugio, unica isola in un mare mai navigato e sconosciuto. 
Si stagliava in bilico in quello sfondo di cielo nero, squarciato soltanto da un quarto di luna illuminata di timidezze e paure. 
E lui sentiva quel timore bloccargli i nervi, le ossa, l'udito pronto a cogliere anche il più debole fruscio, lo sguardo sempre attento al legno e ai mattoni immobili di fronte ai suoi occhi. 
Sembrava essere disabitata, con le imposte storte e le luci spente; un silenzio innaturale tutto intorno, il Marchio Nero ardeva come fuoco vivo e il buio riluceva delle sue migliori sfumature di tenebra. 
Si mosse a passi piccoli, cauti, sfioramenti di terra che lasciavano il proprio segno. 
I graffi sulla pelle dolevano di fallimento, di coraggio mancato e delusione e d’infido incanto per non aver avuto scelta nella trappola di quei principi che gli segnavano il corpo di odio puro. 
Aprì la porta, lasciando che il cigolio dei cardini aleggiasse nell'ambiente e si protese in avanti: l'immobilità pesante di quella che doveva essere stata un'allegria di vita vissuta e l'assenza di anime a riempire quelle stanze gli fecero tornare un rantolo di aria nei polmoni.
Mosse un piede verso l'interno, spingendo subito dopo anche il corpo, lasciando dietro di sé il nero di quella notte infinita. 
 

Un leggero alito di vento, un rumore impercettibile e si ritrovò con gli occhi aperti, falci d’iridi abituate a guardare nell'oscurità.
Le ombre senza forma e senza colore riempivano ogni anfratto di quelle mura, disegni astratti dei suoi desideri mai avverati, nodi di parole impossibili da esprimere. 
Tornò a chiudere gli occhi, muovendoli dietro lo strato sottile delle palpebre e di nuovo si fece pervadere dal nero dei suoi terrori; il corpo posato sul pavimento come fosse un mucchio di cenere di stelle e abissi di fango. 
Poi, il calore dei primi raggi del giorno, in un cielo pastello splendente di lieve chiarore. 
Posò le mani sulle mensole impolverare e le pentole che parevano ancora profumare di cene calde e genuine per combattere il freddo inverno che avanzava sul mondo. 
Avvertì farsi pesanti le responsabilità del suo cognome come anelli di catene che gli legavano i polsi, ricordi di punizioni davanti alla sua inettitudine e al suo rifiuto di sporcarsi le mani con sangue di mago: lo aveva avuto di fronte, a una manciata di centimetri, con la schiena rivolta al vuoto. "Draco, tu non sei un assassino" e aveva sentito quel legno di biancospino custode di crine di unicorno tremare, infondere in lui la verità di quella frase e quel corpo esanime scivolare nel baratro degli addii sempre taciuti. 
In quell'alba rosa che sembrava dilatare il tempo, si soffermò a studiare ogni particolare di quella casa fetida di chiuso e muffa per non precludersi la possibilità di salvarsi ancora che, se fosse rimasto esposto, avrebbe sfiorato il limite dell'impossibilità. 
Era stato richiamato nel salone per riconoscere Harry Potter e riusciva a distinguere nettamente i contorni del suo viso, nonostante fosse deformato da un incantesimo che non riusciva a ricordare; fermo, quasi fosse una statua di sale, Draco aveva risposto che no, non era quello il Bambino Sopravvissuto, mentre alle sue spalle Bellatrix urlava e quelle grida di pazzia erano state ricoperte subito dopo dalle urla di dolore di una ragazza che si stava ribellando al marchio di una lama affilata, intrisa di disprezzo e abusi. 
Dopo, mentre la follia diventava mani agitate e lamenti di frustrazione, era scappato dalla porta principale facendo di se stesso un bersaglio troppo importante, ma forse anche un bersaglio da mancare volontariamente e lasciare in vita per le sue abilità di pozionista e stratega. 
E, come se avesse perso la cognizione del passare dei minuti, si era ritrovato avvolto in un'altra notte senza stelle. 
 

Quando aveva sentito la porta chiudersi in un flebile urto, aveva eseguito un incantesimo di disillusione sul suo corpo, poi l'aveva vista annusare l'aria, in un fruscio di capelli disordinati e occhi accesi come torce. 
“Homenum Revelio.” 
Si era lasciato scoprire da quella voce spaventata, spogliato di tutte le magie e di quella bellezza infantile diventata polvere di marmo bianco.
Aveva sentito quello sguardo inerpicarsi nell'animo, scavare a fondo con la delicatezza e la forza di un battito d'ali di farfalla; incatenato, senza opporre resistenza alcuna.
“Dove sono tutti?” le aveva chiesto in un sussurro. 
“Non qui.” 
Le aveva accarezzato il corpo con le ciglia a nascondere le pupille, nel buio più nero che la rendeva quasi eterea, unica forza a vibrare tra quelle pareti.  “Lo vedo.”
“Perché?” e in quel fiato di voce l'insinuazione, la minaccia velata di non violare nessun confine. 
“Ho bisogno di riparo.”
“Non qui” gli aveva ripetuto, poi si era allontanata in un refolo d'aria e d'orgoglio che gli aveva scompigliato i capelli; la porta spalancata, un muto invito ad andar via. 
Percepì le assi di legno piegarsi sul corpo, incapace ancora di muovere un solo muscolo. 
 

Lei non era più tornata e lui non si era lasciato incuriosire dai riflessi di luce che si dipingevano sui gradini leggermente inclinati, ma aveva saggiato con le unghie il legno massiccio del tavolo da pranzo e con i palmi delle mani la morbidezza candida della prima neve d'inverno, quei fiocchi di ghiaccio che si scioglievano sotto il tocco più delicato e, dopo sette lune, il giardino si era coperto di bianco. 
La sua figura appena celata dietro i vetri delle finestre, il capo inclinato sul collo sgualcito della camicia, gli occhi a vagare oltre quella linea d'orizzonte. 
E, d'un tratto, sentì il suono dei suoi passi avvicinarsi, melodia irrisoria e bagnata. 
“Ancora?” una domanda che avvertiva scivolare sulla schiena. 
“Per un po'.”
Si era seduto sul pavimento, la bacchetta poco distante da lui, impercettibile resa.
E lei aveva sospirato d’impazienza, poi lo aveva seguito in quel cedere di ginocchia. 
Il silenzio li aveva fasciati di abissi e insulti tanto lontani da essere appena ricordati e, in quel vestirsi quasi a vicenda del proprio buio, Hermione aveva tenuto stretta la bacchetta tra le mani senza timore di esprimere con i gesti i suoi dubbi. 
L'aveva guardata furtivo, accennando un sorriso triste. “C'è freddo qui.”
Aveva sentito la saliva che le scendeva nella gola chiara ed elegante, la mascella dura, le labbra dritte, severe. 
 

Quel sedersi accanto era diventato lo scandire di quelle notti in cui lo raggiungeva e lui sentiva che il vuoto nero che aveva dentro si puntellava a mano a mano di colori più caldi. 
Lei stringeva le gambe al petto, le braccia ad avvolgerle in un lieve dondolio che aveva il potere di far muovere le stelle, di farle vorticare in costellazioni di catene d'oro e frammenti di cielo al tramonto. 
Non si salutavano mai e lei aveva smesso di chiedergli ogni volta cosa ci facesse lì, si era arresa di fronte all’ovvia freddezza delle sue risposte e la vedeva cambiare in stagioni di guerra che sembravano scucirla a poco a poco. 
Hermione guardava sempre un punto fisso davanti ai suoi occhi che a ogni battito di ciglia si perdevano e si spegnevano in refoli di battaglie perse e corpi distesi al suolo privi di vita, di bene e male che si contendevano il diritto di prevalere l'uno sull'altro. 
La guardava mentre si abbelliva di quel mistero radicato e profondo delle sue cellule, tale da lasciarlo quasi esterrefatto. 
In quegli aloni di isolamento e silenzio, Draco si chiese con striature di meraviglia dove finiva la notte e dove cominciava lei, trame di capelli e dita intrecciate, granelli di ossidiana trasparente che si chiudevano su loro stessi e non lasciavano entrare nessun altro nelle sue sfumature più complesse. 
 

“Non abbiamo più notizie di Harry, non sappiamo a che punto sia con la ricerca degli Horcrux né se sia ancora vivo. L'Ordine è in subbuglio e io ho così tanta paura… Torno qui perché mi sento al sicuro” gli aveva confessato una notte, quando la neve aveva cominciato a ghiacciare. 
La sua voce come un soffio di primavera devastata dalla lunga durata dell'inverno, nota sconosciuta di una melodia d'amore dolce, intervallata da gocce di pianto che si perdevano annegando nel suo mare. 
E lui vide scivolare sulle guance quelle tracce nere di mascara invecchiato sulle ciglia e tremò al desiderio di toccarle, prenderle tra le dita e cancellarle; tremò davanti all'irrazionalità dei suoi pensieri. 
 “Vai via” aveva fatto forza sulle ginocchia, si era allontanato con passi pesanti ed echi di catene arrugginite e si regalò al gelo della notte. Fragile, crepato. Bruciato. 
Si spogliò della camicia, i bottoni bianchi mimetizzati in quell'acqua di ghiaccio in cui immerse le braccia e il sollievo di quelle fiamme che si spegnevano sulla pelle gli permise di dilatare i polmoni e respirare. 
Si chiese come sarebbe stato spegnere quel fuoco con il suo pianto, con quel dolore liquido che non le aveva sciupato i lineamenti nemmeno per una frazione di secondo; la sentì grattare i segni delle ferite invisibili che aveva nell'anima, giù, sempre più giù ed ebbe paura di quel mostro dai contorni indefiniti che gli incollava il cuore allo sterno. 
Lei non c'era più, aveva lasciato soltanto il segno astratto del suo corpo sul pavimento. 
Lo aveva raggiunto e toccato con mani rispettose, nude dei pregiudizi di cui era andato fiero in un passato che sembrava appartenere ad altre epoche, ad altre persone. 
 

Quando tornò, la Tana era avvolta nell'abbraccio di un tramonto dorato, la porta chiusa, la neve fangosa lungo il vialetto di pietra, la sensazione di abbandono in ogni trave, in ogni chiodo che la reggeva. 
Entrò silenziosa, accolta dal crepitio del camino: guardò la legna ardere, diventare cenere grigia. 
Pensò agli occhi di Draco, a come non li avesse mai guardati davvero, al desiderio che sentiva di farlo anche solo per un po'. 
"C'è freddo qui" le aveva detto una notte, mentre lei sentiva crescere dentro il desiderio di avere sulla pelle un raggio di calore umano, 
di un abbraccio necessario per sopravvivere alle tormente d'inverno che si posavano sulle spalle. 
Camminò piano tra quelle pareti che sembravano non più avere memoria della voce di Ron, degli sguardi che l'avevano accarezzata in quegli anni. 
Tutto, adesso, appariva pieno di lui. 
Di lui che, però, non era lì e faceva avvertire tutta la sua assenza con un silenzio crudele, che faceva torcere l'anima dal profondo e tremare le mani di un incontrollabile timore: immaginare quella stanza vuota non fu niente davanti alla sua reale mancanza. 
Salì le scale e, quando vide il letto intatto, i cuscini morbidi, sentì la stanchezza salire nei muscoli, ammantare ogni nervo e si lasciò andare a quelle carezze di lenzuola impolverate, consunte, gelide. Chiuse gli occhi e affondò la coscienza nell'universo in cui la magia non esisteva, gli incantesimi erano soltanto formule scritte sulle pagine di un libro e lei era soltanto una ragazzina che si affacciava incerta alla vita. 
Al ritorno da quel viaggio di un'esistenza che non le apparteneva, Hermione si chiese perché tutto intorno a lei sembrava essere baciato dal chiarore del mattino e capì che l'alba fuori stava nascendo, che lui non era tornato e si sentì avvolgere dal freddo di mille aghi conficcati nel petto, in tutto il corpo. 
 

Le forze sembravano fluire fuori dal corpo come un fiume in piena che straripava e distruggeva le sue rive. 
Lo avevano costretto a sedersi, lo avevano legato con metri di corda e chili di catene; lo avevano torturato con quelle maledizioni senza luce e senza suono per giorni; gli occhi sempre più pesanti, il capo sempre più basso.
Poi il Signore Oscuro lo aveva fatto trascinare al suo cospetto, lo aveva guardato per un solo secondo e gli era entrato nella testa, barriere crollate su cui era quasi facile camminare e vivere quei giorni di silenzi ed emozioni e, con le ultime scie di fiato, Draco aveva edificato attorno a lei mura di ferro e pareti di diamante. 
Non l'aveva vista. Era salva, non l'aveva vista. 
“Mio signore, uccidiamolo”  la voce di Bellatrix gli penetrava dentro come pioggia nella terra, sale sulle ferite. “Lo uccido io! Lo uccido io!”
“Non merita una morte veloce. Abbandonatelo nei giardini” lo guardò un'ultima volta, il viso viscido deformato dalla rabbia. “Così debole, così… vulnerabile.”
La camicia a contatto con l'erba, gli alberi spogli a fare da soffitto. Sorrise: lei era salva. 
 

Era di nuovo una notte di cielo nero quella che lo aveva riportato alla porta della Tana. 
Aveva riconosciuto il suo profilo fermo nel buio, il respiro pesante d'angoscia: la testa piegata sulle ginocchia, le mani a stringere i capelli in una lenta disperazione. 
Non lo aveva sentito e fu accolto dal dolore che sembrava specchiarsi dentro di lui. 
“Quanti Horcrux esistono?”
Le spalle arcuate, strette in un ansito di sollievo, Hermione era rimasta seduta. “Sei. Sei pezzi d'anima.”
Quando cadde nei suoi occhi, Draco si sorprese incerto, fragile, cristallo crepato. 
La osservò mentre lambiva il suo corpo con carezze d'aria; le mani a coprire le labbra, le ciglia tremanti d’incredulità e uno sguardo lucido. “Perché?”
“Ho abbassato le difese. Non sanno niente di te.”
Si allontanò in un sussurrare di parole incomprensibili e tornò da lui con un ritaglio di tessuto e una boccetta di liquido trasparente. 
La vide avanzare, muoversi in quel cumulo di macerie di cemento, stelo di fiore troppo sottile a sostenere una corolla di petali graffiati. 
Cominciò dal viso a lenire quei tagli sporchi, a guarirli dall'interno con la potenza d’intarsi di gentilezza impressi sotto la pelle: lo toccava come se quei gesti che compiva con estrema dolcezza potessero contenere tutte le parole che non si erano mai detti, come se potessero oltrepassare i confini dei loro silenzi solo diventando più decisi. 
A quel tocco di stoffa Draco spostò il viso e lei strinse le labbra. “Brucia un po', ma passerà.”
Imitò la sua bocca, chiuse gli occhi. La sentì respirare insicura, troppo vicina. “Lo so.”
“Dammi le mani.”
Gliele concesse come fossero vecchie reliquie, assi segnate dal passare del tempo, deboli, marce e lei le strinse, dita candide e sottili come rami di salice intente a curare le sue ferite di sangue e timore. 
Si sedettero entrambi sul pavimento, l'uno di fronte all'altra per la prima volta in quei mesi d'inverno ed estrasse la bacchetta. 
La vide scattare in piedi, allontanarsi carica di delusione e terrore e la terra sotto i suoi piedi non ebbe tempo di crollare quando si rese conto che lei si stava difendendo puntandogli la sua bacchetta alla gola. 
“Quanti prezzi d'anima hai?” le chiese, un sorriso amaro a deformargli il viso.
“Non ho ancora ucciso nessuno.”
“Hai ucciso me” aggiunse, senza mai spostare lo sguardo e spezzò la bacchetta di biancospino, lasciando cadere i suoi resti nella voragine che lei aveva appena scavato. 
 

Nel silenzio di alcuni giorni dopo, Hermione riconobbe spettri nascosti troppo a lungo per non distruggere in un ansito tutte le sue certezze: si erano nutriti di quell'emozione che le muoveva il cuore da quella notte in cui gli aveva parlato. 
Guardò ancora quel legno spezzato rimasto sul pavimento e si abbandonò alle lacrime con la resa di chi per troppo tempo aveva dovuto fingere di poter sopravvivere senza mai scivolare nei fondali del passato. 
E si tese come corde di violino quando lui prese posto di nuovo di fronte a lei e si sporse quasi a sfiorarle il naso; vide in quegli occhi spume di cavalloni e tempeste potenti, fulmini caduti su ghiacciai lontani: capì di averlo ferito, di avergli fatto più male di quanto avesse mai fatto lui. 
Lo osservò con cautela e riconobbe nel suo sguardo lo stesso Draco che aveva cercato riparo dal freddo e sentì crescere nel petto la fretta di scorticare il resto di quella corazza. 
Lui le concesse il permesso con un movimento della testa e lei poggiò la fronte alla sua, sudata di dolore, calda. “Legilimens.”
Fermi così, in un tempo che sembrava aver dimenticato l'avanzare della propria corsa, in immagini di giorni che lei aveva vissuto da altre prospettive, con altri colori. 
Sentì la sua bocca umida sul collo, un bacio timido, frammento ardente di attesa. 
Si allontanò ancora qualche passo indietro. 
Lo vide stringere i pugni. “Resta.”
La lotta contro se stessa durò tutti i minuti che aveva impiegato a scoprirlo con lo sguardo, come la notte in cui era tornata in quella casa. 
In quel momento aveva iniziato a concedergli e a dargli tutto di sé, senza remore. 
Con l'emozione incastrata nella gola, s’inginocchiò senza fretta a posare la bacchetta accanto a quella di Draco. 
 

Nell'incedere delicato verso lei sentì quelle ali di astio e rancore spezzarsi e cadere ai suoi piedi come se fossero state strappate dalla più potente delle magie. Senza dolore, senza rumore. 
E trovò la sua bocca a un respiro da quella di Hermione, già schiusa, quasi come se non aspettasse altro che smettere di respirare, che fermarsi su quei tagli che esistevano ormai soltanto nella sua mente. Si appoggiò a lei, gli occhi chiusi, le mani intorno al suo viso pronte a lasciarla se lei avesse chiesto di andar via. 
Non lo fece. Gli posò una mano sul cuore, mescolò il suo battito a quello di Draco e si lasciò toccare da quelle dita calde e le riconobbe con un’inaudita spudoratezza, come se le avesse sempre avuto addosso: le spinse a insinuarsi sotto i vestiti pesanti, carezze di brividi anelati a lungo. 
Lì, sospesi in quella storia d'inverno, si resero conto di avere l'anima nuda immersa nelle profondità di quel sentimento che nessuno dei due aveva sognato. 
 

Poi, Harry era tornato. “Sono io l'ultimo Horcrux, il settimo.”
E la battaglia finale era esplosa intorno, tra le mura distrutte di Hogwarts che li guardava combattere fianco a fianco, proteggendosi a vicenda per mantenere la promessa di tornare sani e salvi, quando i contorni dei tatuaggi che avevano sulle braccia sembravano aver perso consistenza fino a sparire, a non esistere più, con le bacchette rubate dalle mani di chi aveva perso la vita e giaceva immobile sulle pietre fredde di Hogwarts.
I lampi verdi della morte illuminavano i corridoi, le lacrime che le rigavano il viso ogni volta che non lo sentiva accanto. 
“Vai via da qui” le aveva urlato. “Va’ via. Ora.”
Hermione aveva cominciato a correre, i passi dei Mangiamorte che la colpivano dietro la nuca, nel punto in cui per giorni aveva avuto la mano di Draco a impigliarsi dolcemente nelle ciocche e si nascose dietro una colonna. 
La calma scese come una calda trapunta autunnale e i lamenti di chi era stato ferito divennero sempre più flebili; mosse un passo e poi un altro e sentì il sole ferirle gli occhi e i graffi. 
Tutto sembrava muto, immobile, irreale. 
Fu il suo urlo disumano a rompere quella finta quiete e un attimo dopo si trovò in ginocchio: lo vide steso, la supplicava con gli occhi di non toccarlo, di ricordare il calore del suo corpo, di non dimenticare i giorni trascorsi insieme. 
“No, non mi lasciare” ripeteva in una cantilena disperata. “Draco no, no. Non mi lasciare.”
“Grazie” le disse in quel penultimo battito di cuore. Le sorrise per la prima volta un attimo prima di chiudere gli occhi, scoprendo la leggerezza di sentirsi libero da tutte le sue catene e il nero della sua anima trasformato in colori d'arcobaleno. 

   
 
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