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Autore: _EverAfter_    03/06/2020    5 recensioni
Nei dintorni del Foggiano, v'è un bar con la scritta impolverata.
Ci va spesso Nicola, un bambino come tanti. Ma ci vanno anche sottufficiali, signore cinesi, funamboli, sbirri, violoncellisti, ipocondriaci, postini, folletti e cabarettisti. Nessuno va d'accordo con l'altro, passano il tempo a consumare il proprio caffè prendendosi in giro o mandandosi al diavolo.
Il bar Sottocasa è un posto davvero divertente. Certo, se si è abbastanza folli per entrarci.
✦ Terza classificata al contest “This is our place, we make the rules” indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP.
Genere: Commedia, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un-palco-chiamato-vita

Something give you the nerve

to touch my hand.
- T. S.



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    Il bar Sottocasa era uno di quegli squallidi locali con l’insegna tutt’altro che luminosa – le cui lettere erano ormai fagocitate da anni di polvere – e con il piccolo neon lampeggiante con su scritto Aperto, che il proprietario doveva aver sgraffignato a qualche negozio di articoli cinesi.
     Per quanto apparisse degno d’uno dei peggiori sobborghi di Caracas, sua madre si recava spesso lì per un caffè veloce prima di accompagnarlo a scuola, oppure di ritorno dal lavoro, per una tisana di quelle in bustina che avrebbe tranquillamente potuto bere a casa, ma che preferiva farsi servire, spendendo duemila lire per qualcosa che al supermercato ne valeva mille. Non che lui avesse percezione della cosa, la pecunia era ancora un business molto lontano dalla sua realtà, che si basava sui pochi spicci che la genitrice gli dava quando si trattava d’andare al tabacchino per comprare un nuovo pacchetto di figurine.
    Capitava sovente che il bambino – Nicola – le facesse compagnia durante quei momenti in cui sostava civettuola sulle sedie rialzate del bar, cianciando allegramente con la barista. Non aveva mai saputo il nome della giovane ragazza che s’affaticava dietro al bancone: aveva un grembiulino che un tempo doveva esser stato bianco, i capelli sempre legati con un elastico dalle discutibili tonalità pastello e un tic nervoso al sopracciglio sinistro che rasentava un principio di blefarospasmo. Correva avanti e indietro per il bar, aggiustando le bottigliette d’acqua naturale dentro al piccolo frigorifero e andando nel panico quando l’estrattore per le spremute s’inceppava. Ma la cosa che più affascinava Nicola era la velocità con la quale sbatteva via i rimasugli del caffè dall’erogatore per riempirlo nuovamente con la polvere dei chicchi già macinati, azionando poi la rumorosissima Cimbali[¹] che il proprietario si ostinava a non voler cambiare – nonostante avesse ormai il doppio dei suoi anni.
    Quella ragazza, per chiunque si fosse trovato a passare per il bar, non aveva un nome; era semplicemente la Barista[²], e tutti la chiamavano così. A Nicola accadeva spesso di rimanere lì per ore intere, quando sua madre non poteva occuparsi di lui e lo lasciava alle cure della giovane donna, dove studiava silenziosamente sull’abbecedario per evitare d’infastidirla più del necessario – ché di problemi ne aveva già tanti, anche senza la sua presenza.
    Per quanto quel posto fosse una bettola e dimenticato ormai dalla stragrande maggioranza di chi ci viveva attorno, v’erano dei clienti ormai abituali che persino Iddio si sarebbe fatto una risata a pensare che fossero creati a sua immagine e somiglianza: il primo, tra i tanti, era il Capitano Pucci.
    Il Capitano Pucci – ben attenti a designarlo con la c maiuscola – era un sottufficiale della marina militare in congedo per stress post-traumatico da quarant’anni. Cos’avesse passato durante i tempi della guerra, nessuno lo sapeva; la storia cambiava sempre a seconda della persona a cui si rivolgeva. Una volta era scampato ad un missile lanciato dai tedeschi sul sottomarino dove era di stallo, un’altra s’era infiltrato in un avamposto austriaco, l’altra ancora s’era ritrovato da solo a salvare una famiglia ebrea dal plotone d’esecuzione. La cosa più interessante nel sentirlo parlare era che non si riusciva mai a comprendere da quale parte stesse: se la prendeva spesso coi tedeschi, di rado con gli italiani, sempre coi francesi. Non che ne indicasse mai le ragioni, questo era palese a tutti. Borbottava tra sé e sé le classiche frasi dei vecchi, salvo però sbraitare nevrotico un “Tu sai chi sono io?” a chiunque provasse a ridere delle sue allucinanti considerazioni su quanto si stesse meglio quando si stava peggio.
    Di fianco a lui, la mattina presto, era possibile incontrare la signora Fa, una veneranda donna cinese che aveva aperto un negozio lì vicino – probabilmente lo stesso dove il proprietario del bar aveva comprato lo squallido cartello con su scritto Aperto. Della signora Fa solamente una cosa era certa: godeva del privilegio d’essere una gran lavoratrice. Lavorava così tanto e così assiduamente che a volte era necessario che i figli le chiudessero in testa la saracinesca per farla andare a casa. Nel piccolo negozio vendeva di tutto: bigiotteria, scarpe, abiti, pellicole per cibi pronti, ricambi di DynaTAC[³], fiori finti, cappelli, smalti, articoli per animali domestici, radioline a manovella. Il bambino era certo che, se avesse potuto, avrebbe venduto anche i suoi stessi reni, giusto per aggiungere malloppo a quell’impilata d’oggetti messi un po’ a caso. Di lei, eccetto quella sua incrollabile aura rigorosa e intimidatoria, non si sapeva null’altro, tranne forse che andava matta per il latte freddo macchiato.
    Non appena la signora Fa usciva dal bar, faceva il suo ingresso Jackie il Rosso, ch’era chiamato così non per i capelli – che ricordavano più il terrificante colore della ruggine sulla chiglia delle barche – bensì per la graziosa tutina ch’era avvezzo ad indossare durante le sue performance di funambolismo. Sua madre gli disse un giorno che quell’omino baffuto e un po’ tarchiato era un acrobata che si guadagnava da vivere andando in giro a destreggiarsi su una corda. Il suo vero nome, in realtà, non era affatto Jackie, ma Giacomo, ch’era abbastanza comune tra le parti di Massafra e nel Tarantino. Tuttavia, se qualche ignaro passante si fosse incautamente preso la confidenza di chiamarlo col suo vero nome, ciò che avrebbe ottenuto sarebbe stata un’illogica lavata di capo su come non ci si dovesse mai rivolgere a un artista col suo epiteto anagrafico.
    Sul tavolo posto nelle immediate vicinanze del bancone sul quale Jackie il Rosso consumava il suo caffè ristretto, v’erano le gambe incrociate del signor Noncorrorischi – di cui nessuno conosceva il nome, neppure quello d’arte. Lo chiamavano così perché era appassionato di cronaca e si dilettava nel concedersi sempre alla solita locuzione: per non correre rischi.
    Così, se fosse accaduto un incidente aereo, a lui sarebbe venuto spontaneo dire: «Lo sapevo, per non correre rischi io prendo il treno». Oppure, di fronte ad un episodio di terrorismo: «Avete visto? Per non correre rischi io non vado mai in zone troppo trafficate». E la cosa più divertente era che consumava sempre il suo caffelatte con una cannuccia, qualora il caso si dilettasse a giocargli il brutto scherzo di farlo strafogare.
    Per i suddetti motivi, risultava abbastanza chiaro a tutti che Jackie il Rosso e il signor Noncorrorischi non fossero amici propriamente detti. Alla peggio, si sarebbe potuto assistere ad uno dei loro eterni litigi che avvenivano ogni giovedì, quando Jackie il Rosso distribuiva ai clienti del bar i biglietti per il suo spettacolo pomeridiano. Durante il loro ormai doveroso battibeccare, v’era sempre un giovane piemontese in doppiopetto gessato che li fissava con la puzza sotto al naso, mentre si gustava il suo caffè shakerato, consumando ogni volta due bustine di Dietor, perché “lo zucchero raffinato fa male”. Il ragazzo si chiamava Giovanni Bricco ed era famoso in tutto il vicinato per la sua molesta abitudine di suonare il violoncello durante le ore serali, quando in tv davano le repliche della Carrà che deliziava il pubblico a suon di Tuca tuca. Per il suo cognome e per il fastidioso ronzio che si avvertiva intorno alle otto del crepuscolo, veniva chiamato da tutti il Bricconcello e a nessuno importava quanto a lui desse fastidio: era una sorta d’implicito contrappasso per essere considerato un seccante snob con gli illustri natali piemontesi – nonostante chiunque fosse già al corrente che col Conte di Cavour avesse in comune solo il luogo di nascita.
    L’unico che gli rivolgeva la parola senza prenderlo in giro era Posta, un signore alto e dall’evidente riporto che gli toccava sistemare ogni volta che scendeva dal Liberty 125 che gli era stato dato in comodato d’uso dal Gruppo Poste Italiane. Entrava nel piccolo bar e – imbranato com’era – finiva sempre per incastrarsi nella tenda a fili di plastica, facendo cadere casco, penna e una serie indefinita di lettere. Posta era un tipo sui generis: non diceva mai niente di particolare, si limitava a pronunciare ad alta voce il nome e cognome dei destinatari delle buste, le consegnava senza troppe cerimonie e si concedeva un veloce caffè amaro come la vita – o almeno così era solito dire alla Barista. Non che a quel buffo uomo troppo cresciuto la vita non piacesse; era che lui ci stava davvero troppo scomodo su quel cinquantino.
    Nicola, che non s’angustiava granché per tutte le beghe degli adulti, un giorno gli chiese come mai le lettere che avrebbe dovuto consegnare la mattina finissero irrimediabilmente per arrivare di pomeriggio, quando tutti avevano di meglio da fare che starsene lì ad aspettarlo al bar Sottocasa. E Posta, sorprendentemente serio, gli aveva risposto che non aveva voglia di andare lì la mattina presto per colpa di Piedipiatti.
    Piedipiatti – qualora il soprannome lo rendesse poco noto – era un poliziotto in borghese che tutti sapevano essere sbirro per via di quelle manette nascoste tra i passanti del jeans liso, all’ombra d’un giacchetto di pelle color cammello che le rendeva evidenti come un anello di fidanzamento. Nonostante gli fosse stato ribadito più volte che quei due cerchi scintillanti d’acciaio tirato a lucido dessero troppo nell’occhio  mandando al diavolo la sua perfetta copertura , lui scrollava le spalle, dicendo che quelli non erano argomenti di competenza della gente normale. E la cosa era ovvia, perché lui di normale non aveva proprio niente, se si eccettuavano i baffi ch’egli stesso considerava davvero originali, sebbene a tutti apparissero più come la brutta copia di un Magnum P.I.[⁴] in pensione.
    Ma chi si dilettava a prenderlo per i fondelli – l’unico che ne aveva davvero il coraggio – era Mangiafuoco: lo chiamavano così per la sua schifosa somiglianza al personaggio di Collodi[⁵], con quella sua barba lunghissima e incolta, gli occhi grandi e le pupille decisamente troppo dilatate per poter essere normali, la bocca piena di graffi per via di tutte le pellicine che si strappava e il sorriso storto di chi non aveva mai visto un dentista neanche da lontano. Eppure, quando Mangiafuoco faceva una battuta, tutti ridevano; perché lui non le preparava, gli uscivano proprio così, senza troppo pensarci – per la cronaca, Magnum P.I. era una delle sue storiche. Era un omone sì, ma di buon cuore, di quelli che ogni volta che incontravano qualche conoscente gli offrivano il caffè. Non piaceva a nessuno, ma gli volevano bene tutti.
    Come il bambino, anche lui sembrava aver messo radici al Sottocasa, ch’era più casa che bar. C’era chi s’era addirittura premurato di comprendere che lavoro facesse, ma senza successo. Mangiafuoco, così simpatico e burlone, raccontava sempre tante storie sugli altri, e questo perché una storia tutta sua non ce l’aveva. Forse per questo amava tanto la gente.
    Ma il più curioso tra tutti, che sovente se ne stava vicino a quel muscoloso di Mangiafuoco solo per il gusto di non farsi vedere, era u’ Scazzamurried.
   U’ Scazzamurried era un tipo alquanto singolare, con un cappello a punta in testa – che chiunque denominava con l'espressione più rigorosa di “lu cappiddhuzzu, delle scarpe logore e rattoppate, bassino tanto da poter essere scambiato per un banale gnomo da giardino e un gilet color tabacco con una piuma di piccione all’occhiello, ché di aquile lì non ce n’erano. Era così rassomigliante al leggendario folletto, che chiunque fosse capitato in quel bar a quell’ora, sarebbe stato convinto di trovarsi di fronte al mitico spiritello di cui si cicalava spesso nelle zone da Roma in giù: in Salento l’avrebbero chiamato Laurieddhu, a Napoli Munaciello, in Abruzzo Mazzemarill, a Bari Tummà e nelle zone limitrofe a Taranto Avurje. In realtà, il suo nome non aveva molta importanza. Forse ci sarebbe stato persino qualcuno che avrebbe provato a regalargli un paio di scarpe nella speranza di ricevere qualche moneta d’oro o la mappa d’un tesoro, oppure chi – più malizioso – avrebbe provato a strappargli dalla testa il copricapo a punta[⁶].
    Nicola vi pensava spesso e se la rideva: tutti sapevano che quel signore peloso e piccolino non potesse essere davvero u’ Scazzamurried. D’altronde, il dispettoso folletto appariva di sera, e lui al bar si presentava solo la mattina, consumava silenzioso il suo cappuccino, si asciugava i baffi inumiditi dalla schiuma del latte, pagava sempre con due monete da cinquecento lire, due da duecento e una da cento. Perché u’ Scazzamurried era un tipo preciso e non voleva mai il resto. Era così strapieno di spicci nelle tasche consunte del gilet, che quando camminava si sentiva sempre un bizzarro tintinnio e allora tutti al bar gli chiedevano di cambiargli le banconote, ma lui rispondeva di no, che quegli spicci gli servivano e che non aveva alcuna intenzione di barattarli con dei pezzi di carta con i quali – secondo la sua esperienza – ci si poteva solo soffiare il naso.
    A detta di molti, il bar Sottocasa non era un posto raccomandabile, perché era frequentato da gente insolitamente stravagante e sopra le righe. Il bambino, in realtà, non capiva tutto quel vociare: cosa c’era poi di così strano in una barista distrutta da un esaurimento nervoso, in un capitano dal dubbio passato, in una signora cinese col complesso del lavoro, in un funambolo con la passione per le tute, in un signore ipocondriaco e ansiogeno, in un lord piemontese e violoncellista molesto, in un postino pigro che consegnava le missive di pomeriggio, in un poliziotto convinto d’essere in borghese, in un omone cabarettista senza lavoro e in un nano dalle fattezze d’un leprecauno?
    La gente che aveva l’arroganza di definirsi normale li considerava alla stregua di anomalie, senza un posto da poter riempire degnamente nella società. Erano sbagliati, perché erano nati originali – e nel mondo l’originalità era pericolosa, illogica, senza capo né coda. Per le persone, i clienti di quel bar erano come una mosca caduta in uno squisito whiskey ghiacciato, il tram perso per un soffio, l’automobile passata all’ultimo istante di giallo prima di far scattare il rosso, la macchia di sugo che imbrattava le loro camicie bianche nonostante indossassero il bavero. Quella sensazione non aveva nulla a che fare con la paura: era disgusto, un’emozione sgradevole e da scrollarsi di dosso una volta tornati a casa. In pratica, ciò che facevano gli altri era limitarsi a volgere lo sguardo altrove, senza degnarli di un’occhiata.
    Nessuno s’era mai chiesto cosa provassero loro, nel vedersi trattare in quel modo. Nessuno s’era mai interrogato su cosa potessero pensare, che tipo di sentimenti celassero quelle personalità un po’ contorte e così riccamente dense d’esperienze, di rimorsi, di piccole gioie e d’errori che ancora si trascinavano dietro, nascosti nei loro occhi che raccontavano così tante storie da poter passare intere giornate senza neppure il bisogno di parlare.
     Nicola l’aveva fatto. Per questo riusciva a vederli.
    Sapeva il nome della Barista, Martina Bianco, la quale aveva lasciato gli studi che non poteva più permettersi e s’era dovuta accontentare d’un lavoro che svolgeva con grande passione, nonostante nessuno sapesse neppure il suo nome; sapeva che il Capitano Pucci s’era separato dalla moglie perché si rifiutava di prendere le pillole per l’Alzheimer, ed ogni volta finiva per dimenticarsi persino dove abitasse; sapeva che il marito della signora Fa era tornato in Cina, lasciandola da sola ad allevare quattro bambini e che spesso la donna aveva dovuto saltare i pasti per poter concedere ai figli almeno un tozzo di pane; sapeva che Jackie il Rosso era stato ripudiato dai genitori non perché fosse funambolo, ma perché gli piacevano gli uomini, e suo padre s’era rifiutato d’accettar la cosa; sapeva che il signor Noncorrorischi aveva perso sua moglie in un incidente stradale e che sua figlia era morta a seguito d’una massiccia dose di barbiturici; sapeva che Bricconcello s’era trasferito in Puglia dai nonni materni, che d’illustre non avevano proprio nulla, tranne forse l’orgoglio d’esser contadini in una terra agricola; sapeva che Posta e Piedipiatti erano stati migliori amici, ma che poi il secondo aveva sposato la donna amata dal primo, finendo entrambi per mandarsi reciprocamente al diavolo; sapeva che Mangiafuoco era stato un insegnante d’italiano e che nessuno sapeva recitare La ginestra del Leopardi meglio di lui; sapeva che u’ Scazzamurried era un artigiano che conciava pelli, e che si recava al bar non per bere il suo cappuccino, ma perché in realtà si sentiva sempre molto solo.
    Che poi, a dirla tutta, a Nicola stavano simpatici proprio per quello. Erano come i personaggi d’una recita scolastica, gli stessi a cui si applaudiva non appena s’alzava il sipario. La cosa che non capiva era perché non vi fosse nessuno a batter le mani per loro anche nella vita vera.
    Il bambino, vittima forse dell’ingenuità infantile e scevro dalla malizia adulta, non conosceva il significato del pregiudizio, né la cattiveria dell’ignoranza: gli interessava parlare con la Barista, ascoltare i ricordi incongruenti e paradossali del Capitano Pucci, imparare alcune parole in cinese con la signora Fa, capire come Jackie il Rosso riuscisse a stare in piedi su una corda, consolare il signor Noncorrorischi, conoscere le note del violoncello di Bricconcello, aiutare Posta con le lettere, ridere delle battute di Mangiafuoco tentando di aiutare Piedipiatti a replicare qualcosa che avesse un minimo di senso e godersi il suo latte caldo in compagnia del silenzioso Scazzamurried.
    In un mondo nel quale le persone voltavano loro le spalle, Nicola era lì per afferrare le loro mani e stringerle. Cosa gli desse la forza di farlo, non era ben chiaro: c’era chi pensava che pure quel bambino avesse qualche rotella fuori posto, chi invece s’era convinto che non avesse una famiglia dalla quale tornare – e in parte era vero. Nicola aveva passato così tanto tempo in compagnia di quelle persone, che aveva smesso di piangere per via di una madre che non c’era mai e di un padre che non aveva conosciuto. S’era ritrovato immerso fino al collo in una di quelle sceneggiature deliranti e fiabesche alle quali erano avvezzi i commedianti, ricolme di sentimenti, angosce, sogni mai realizzati e speranze che non erano mai svanite.
    Quei personaggi, a ben guardare, avevano una sola cosa in comune: la sua mano. Potevano vederla lì davanti a loro, piccola e pallida, in attesa che qualcuno l’afferrasse. Perché ci voleva coraggio a tendere una mano verso gli altri, ma ce ne voleva molto di più per trovare la forza di prenderla. Loro, che di normale non avevano proprio niente, l’avevano agguantata per paura di scomparire. Era stato forse per il proprio egocentrismo o per avere la semplice conferma d’esistere a fare in modo che ciò accadesse, ma nessuno di loro s’era mai pentito d’aver preso quella decisione.
    Nicola, agli occhi di tutti, era come un caro parente. Per quanto giovane, per quanto inconsapevole del mondo – e forse proprio per tale ragione – lui era ciò di più vicino ad un amico. Parlavano con lui, gli permettevano d’ascoltare le loro storie, gli offrivano un gelato di tanto in tanto, ma soprattutto lasciavano che lui li comprendesse: con i volti, le cicatrici, gli scheletri nell’armadio e quelli già sepolti. Lo facevano non per nobili ideali, ma perché erano abbastanza egoisti da volersi ancora sentire parte di qualcosa, e lo facevano attraverso gli occhi di quel bambino che li aveva guardati per la prima volta.
    Lo spettacolo era iniziato da allora, ma nessuno sapeva ch’era già giunto all’ultimo atto.
    «E quando ti trasferisci?» La voce raschiata della Barista sembrava più isterica del solito.
    «Partiamo dopodomani.»
    «Hai già fatto le valigie?»
    Annuì, continuando: «Mamma dice che fra qualche giorno verranno anche a prendere i mobili.»
    La Barista sospirò, ma non disse altro. Nicola non sapeva se ciò fosse legato al fatto di non aver nulla d’aggiungere o d'essere troppo impegnata a non lasciarsi cogliere da una crisi di pianto. Aveva avvisato tutti, dal Capitano Pucci a u’ Scazzamurried, e ognuno di loro aveva avuto una reazione diversa, dalla tristezza della signora Fa che si era limitata ad accarezzargli i capelli a quella più esagerata di Posta che s’era convinto d'inviare una lettera a sua madre, nella quale spiegava che la casa dove si sarebbero dovuti trasferire era saltata in aria a causa d’un guasto alla bombola del gas.
    Nicola era un ragazzino tranquillo e obbediente, ma quando la Barista lo accompagnò all’ingresso del locale in attesa che arrivasse la madre, si sentì abbandonato e pianse, ricordandosi ch’era giusto concedersi alle lacrime quando il caso lo richiedeva. E allora Mangiafuoco – ch’era tornato nel pomeriggio – lo andò a trovare a casa sua, prendendolo in giro e chiamandolo “poppantello da quattro soldi”, ma chissà perché le sue pupille erano più lucide del solito, mentre Piedipiatti e Posta battibeccavano tra di loro su chi dovesse salutarlo per primo. Il Capitano Pucci gli disse d’essere in gamba e di non lasciarsi calpestare dai nuovi compagni di classe. La signora Fa gli diede uno di quei bouquet finti che vendeva al negozio, dicendogli che avrebbe potuto tenerlo in un vaso accanto alla finestra. Bricconcello gli diede una pacca dietro le spalle e gli fece un occhiolino – anche se, e ben pensarci, forse era più un tic nervoso. Jackie il Rosso e il signor Noncorrorischi decisero di non litigare per quel pomeriggio; il primo gli diede un buono per tutti i suoi futuri spettacoli, il secondo una boccetta di fiori di Bach. U’ Scazzamurried, che non se la intendeva granché bene con gli addii, gli offrì un Cucciolone[⁷] con sopra una simpatica vignetta di Paperino, ch’era il suo personaggio preferito perché non si sapeva mai cosa dicesse. Nicola comprendeva ch’era il suo modo di salutarlo – anche u’ Scazzamurried in fondo era un po’ come Paperino, non si capiva mai bene cosa volesse comunicare.
    Avevano tutti gli occhi gonfi e i sorrisi forzati, ma nessuno lo salutò piangendo. Se ne rimasero lì, sotto l’insegna impolverata del bar Sottocasa, e Nicola li guardò dal finestrino del baule della Fiat 126 che si allontanava sempre più velocemente, fino a quando l’asfalto della strada non ingurgitò la scritta malconcia e i volti di coloro che considerava i suoi più cari amici.
   Non disse a nessuno di loro “addio”. Non ne ebbe il coraggio, e forse fu proprio quella paura a fare in modo che potesse afferrar le loro mani per un ultimo istante e salutarli come se dovesse rivederli presto. In parte l’aveva fatto anche per loro, affinché non si spaventassero di rimaner senza pubblico ancora una volta.
   Sperò che in quel teatro chiamato vita potessero finalmente trovare le loro battute e pronunciarle con fierezza e speranza, inchinandosi di fronte allo scroscio di ovazioni per la commedia più sopra le righe di tutte. Perché quelle persone, per lui, erano state proprio questo: la messinscena più gaia e divertente, la saga di commedianti allo sbaraglio più assurda di sempre, nonché la più dolce, amorevole casa che potesse sperare di trovare.
    Avrebbe continuato a ricordarsi di loro persino da grande, quando l’età adulta gli avrebbe svelato i trucchi dietro le quinte. E anche in quel momento per lui non sarebbe cambiato nulla: il bar Sottocasa era stato il palcoscenico con gli attori migliori, con i sentimenti più veri; e le mani di Nicola avrebbero sempre continuato ad esserci, sia per batterle che per tenderle verso di loro.
    Perché era troppo triste pensare che non vi sarebbe stato alcun applauso una volta calato il sipario.



FINE




NOTE:
[¹] Il Gruppo Cimbali fu uno dei primi in Italia a dedicarsi alla progettazione e alla produzione di macchine professionali per caffè.
[²] Preferisco chiarire: ho scelto consapevolmente di lasciare la lettera maiuscola quando la barista viene identificata con l'articolo determinativo.
[³] Modello di Motorola uscito per la prima volta intorno agli anni Ottanta.
[⁴] Una serie televisiva statunitense, di genere poliziesco, prodotta tra il 1980 e il 1988.
[⁵] Riferimento alla figura del Mangiafuoco de “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”.
[⁶] Nella leggenda popolare, u’ Scazzamurried dona monete d’oro o dà indicazioni per un tesoro a chiunque abbia l’accortezza di fargli dei doni, generalmente un paio di scarpe. La leggenda narra anche come si possa ricattarlo, rubandogli il cappello a punta.
[⁷] Gelato dell’Algida.


Angolino di
ver


Ma buongiorno, donzelle e donzelli! <3
Come sempre eccomi tornata con una storia che non finisce benissimo, ma almeno non mi sono dilettata ad ammazzare i protagonisti - conterà pur qualcosa! ^^"
Questa storia dovevo scriverla da un bel po' di tempo, ma non voleva saperne di uscire manco per sbaglio, per cui non posso che essere grata a mystery_koopa per la genialità del suo contest This is our place, we make the rules
, perché mi ha dato la possibilità di creare qualcosa che riposava nella mia testa da troppi mesi.
Chiedo scusa se i personaggi presenti in questa storia vi sono parsi un po' assurdi e incongruenti, anche se in realtà era proprio questo il mio intento. Sono sempre stata una grandissima appassionata di Pirandello, per cui questo racconto deriva in parte dalle sue considerazione sui cosiddetti tipi fissi. La premessa è che tutto quello che ho scritto non vuole essere un banale stereotipare dei personaggi - non sono razzista, ci tengo a sottolinearlo -, bensì far cadere la cortina dietro la quale si cela la reale essenza delle persone.
Io ADORO letteralmente tutti i miei personaggi. A prescindere dal fatto che possano piacere o meno, sono nati dalla mia penna e li amo proprio perché ognuno di loro rappresenta una parte di me, così come spero che anche voi possiate riconoscere in loro parte della vostra personalità.
Svarionate a parte, mi auguro davvero che la lettura vi sia piaciuta.
A presto,

_EverAfter_


  
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