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Autore: Kiki Daikiri    12/08/2009    3 recensioni
"Era giunta la nostra fine, la fine della nostra pazzesca storia, la fine dei Sex Pistols. Sentivo il mio cervello lontano, come se fosse rimasto incatenato a quel motel di San Francisco.
Più consumavamo strada, più i miei pensieri venivano strappati via, ed io rimanevo come un vegetale sradicato, fermo, pallido, emaciato.
Sentivo il calore della sua spalla contro la mia, ma Sid non mi vedeva. Non vedevamo più nulla, eravamo vuoti e morti. Non vedevamo più nessuno, né noi stessi né il mondo che ci circondava. Non c’era nessun futuro, nessun futuro. Non era divertente."
Genere: Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Ok, ed ecco che giungiamo alla fine di questa breve avventura xD Anche se non ho ricevuto commenti e probabilmente questa FlashFic ha fatto schifo, io sono cocciuta e rompiballe, perciò pubblico anche il terzo ed ultimo capitolo. Goodbye! ^^


Capitolo III

No fun. My babe, no fun.
 
Mi risvegliai con un centinaio di aghi infilzati in tutto il corpo: credetti che fosse una specie di sogno, invece era reale.
«Stai tranquillo, è agopuntura.»
La voce di una donna in camice lilla mi tranquillizzò, pregandomi di restare immobile ancora per qualche minuto soltanto. Avevo sentito parlare di agopuntura, ma mi sembrava una gran stronzata prima di allora, invece, in quel momento, mi sentivo incredibilmente meglio.
«Era ad un passo dall’overdose, lo sa? Un suo amico l’ha lasciata qui… è stato fortunato: in ospedale, quelli come lei, li lasciano morire nella sala d’aspetto.»
Mentre mi toglieva l’infinità di piccoli aghetti dalla pelle, sentivo tutto formicolare, e mi chiedevo cosa intendesse per “quelli come me”.
«Il mio amico, se ne è andato, vero?»
Non ottenni risposta.
«Fanculo.» soffiai, sentendo una strana angoscia rabbiosa invadermi cervello e gola. Era parecchio tempo che non piangevo, ma non ero il genere di persona che si vergogna di farlo. «Fanculo, cazzo. La mia band si è sciolta, sai? Ed ho perso l’unica persona al mondo a cui frega qualcosa se schiatto su un pavimento pulcioso oppure no. Cazzo…»
L’infermiera mi passò un panno sulla fronte sudata, per poi farmi cenno di alzarmi a sedere.
«Ecco qua. Mi stia a sentire, è inutile piangere: non so cosa la spinga a fare quello che fa, ma ci rifletta bene. Potrebbe essere proprio quella la causa dei suoi mali. Ed ora la prego, veda di non doversi fare ricoverare per overdose.»
La donna aveva un tono severo, ma allo stesso tempo estremamente dolce, quasi mellifluo, il tipico tono da commessa di una pasticceria quando sorprende un ragazzino a rubare.
Annuii concitatamente, tenendo lo sguardo basso.
Sul lettino stavo così bene che avrei voluto stare a morire lì, forse sarebbe stata anche la cosa più giusta da fare, invece sollevai lo sguardo: davanti a me c’era un grosso specchio.
Ed eccomi lì, appena diciannovenne, seduto su un lettino bianco con indosso solo dei pantaloni neri sdruciti e il petto nudo straziato dai graffi.
Mi fecero impressione le braccia livide piene di ematomi e vene in vista. Erano piste rosse, serpenti che si arrampicavano lungo il mio avambraccio cadaverico e scarno. Ormai erano rimasti solo i muscoli.
Il mio bel volto, o quello che avevo sempre considerato un bel volto, era ridotto ad un teschio orribile e malamente avvolto nel suo involucro di pelle grigiastra.
Mi passai entrambe le mani tra i capelli, solo quelli erano sempre gli stessi, ed all’improvviso provai l’impulso di tagliarli via tutti, con una forbice, con qualcosa di grosso ed impreciso.
Volevo essere nauseante.
Volevo davvero che la gente mi trovasse antipatico, che mi detestasse.
Come John mi detestava. Ero riuscito a fare allontanare una persona così irriverente ed eccentrica, mentre piacevo sempre di più alle masse a cui io stesso appartenevo. «Oddio, cazzo…»
Mentre ringhiavo al me stesso riflesso nello specchio, notai una figura riflessa come me, un omino in lontananza, poggiato alla parete opposta della stanza.
Mi voltai di scatto, sentendo gli occhi asciugarsi di colpo e la gola stringersi.
John era lì, non se n’era mai andato.
«Sei proprio un cazzone, Sid.»
Lui non si mosse, mentre io, barcollando in maniera incerta sulle gambe, mi accingevo a raggiungerlo. Non sapevo cos’avessi intenzione di fare. Abbracciarlo? Non l’avevo mai fatto. Scusarmi? Di cosa. Piangere? Mi aveva già visto piangere molte volte, forse lo stavo facendo in quel momento e non me ne rendevo nemmeno conto.
Decisi di non fare niente.
Arrivai accanto a lui, sulla porta, e stetti in silenzio.
Lui mi dedico una tipica espressione alla Johnny Rotten, ma non disse nulla.
Quando mi sentii vagamente i grado di muovere qualche passo, sorretto da John, ci avviammo verso l’uscita.
 
Uscimmo dal centro di medicina alternativa dove l’avevo portato, sotto consiglio di Tiberi. Era così distrutto che mi sorprese l’energia con cui riuscì ad affrontare i minuti successivi all’agopuntura. Riuscì a trascinarsi fino all’angolo, a circa cinquanta metri dall’ingresso del centro, con me come unico sostegno.
Con molta fatica, riuscii a fermare un taxi e farci portare fino al San José: non fu semplice, perché nessun autista voleva accogliere Sid nella propria vettura. Era conciato troppo male, sembrava già morto.
Stava veramente male e non faceva che blaterare frasi sconnesse sulla morte. Voglio morire voglio morire voglio morire.
E io non gli rispondevo, non gli dicevo No, Non Devi Morire. Perché avrei dovuto farlo? Mi interessava davvero di Sid Vicious? Per me avrebbe potuto morire.
«John.»
Chiusi la portiera con calcio, lanciando sul sedile anteriore gli ultimi dollari che mi erano rimasti in assoluto.
«John.»
Trascinare Sid su per le scale non fu semplice, anzi. Più di una volta mi dovetti fermare per riposare: Sid era notevolmente più alto di me, i suoi piedi e le sue ginocchia strisciavano sulla superficie ruvida e scheggiata del pavimento, ad ogni mio passo.
«John.»
Volevo solo portarlo a letto e chiudere gli occhi, volevo che tutto si concludesse, non avevo più voglia di fare qualcosa di orribile, di leggere titoli su di me in prima pagina.
Chi cazzo se ne frega, nessuno si meritava il mio impegno, non valeva la pena tentare di risvegliare né quella né nessun’altra nazione addormentata.
Che dormissero, che dormissero pure. Anche io avrei voluto poterlo fare.
Dormire.
«John.»
Lo lasciai cadere sul materasso di uno dei due letto, sperando che la smettesse di farfugliare.
Era già abbastanza doloroso trovarmi in sua compagnia, sentire la sua voce era fin troppo per me.
«Stai zitto Sid, per favore taci.»
«John.»
«Basta!»
Con il respiro affannoso, mi lasciai cadere accanto a lui, passandomi freneticamente una mano sugli occhi. Non era da me reagire in quel modo, lo sapevo. Non ero uno che alzava la voce.
In ogni caso Sid Vicious era lì, inerme e quasi in coma, tutt’altro che in possesso delle proprie facoltà mentali.
Vaffanculo cazzo.
«John.»
«Cosa c’è?»
«Ti amo.»
Seguirono attimi di esitante silenzio.
Io non mi ero più mosso di un millimetro, non un muscolo del mio corpo aveva reagito a quella situazione. Me ne stavo lì, in silenzio, con lo sguardo sbarrato a fissare il soffitto.
Sapevo che sarebbe successo, prima o poi la droga gli avrebbe bruciato anche gli ultimi due neuroni.
«John.»
Sid rotolò su di un fianco, così da potersi stringere ad un mio braccio.
«John.»
Continuava a piangere, ma solo i bambini piangono. Io non piangevo mai, non avevo pianto nemmeno quando ero stato accoltellato, l’anno prima.
Sentivo il suo fiato pesante di fumo, alcol e vomito. Non riuscivo a guardarlo, mi sembrava un bambino violato, un candido bimbo di vent’anni raggomitolato su se stesso e ricoperto di ematomi e sangue.
«Sid.»
«John.»
 
Ci trovarono entrambi morti, quando entrarono nella stanza di motel che ci avevano affibbiato. Era come le altre, come tutte le stanza in cui avevo abitato durante la mia vita.
Non provai nulla, quando vennero a prenderci.
Provarono a staccarmi da John, provarono a spezzarmi le dita di una mano, ma non ci riuscirono.
Io non mi muovevo, non pensavo, non parlavo, ma non riuscirono a staccarmi da John.
Quando ci fecero salire sulla limousine, non mi opposi, perché John era accanto a me, immobile.
Era freddo, anche io mi sentivo freddo.
Non vedevo, non vedevo nulla. Mi sentivo vuoto e freddo e cieco.
Malcolm non c’era, ma voleva parlare con me al telefono. Snocciolava domande riguardo ad un film.
A me non importava più nulla, non risposi, non respiravo più nemmeno.
Si trattava solo di cose future.
Non c’era nessun futuro, nessun futuro. Non era divertente.
Ma non mi sentivo più solo.
No fun, my babe, no fun.
 
   
 
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