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Autore: lightvmischief    05/06/2020    0 recensioni
Una ragazza.
Un gruppo.
La sopravvivenza e la libertà.
Le minacce e i pericoli della città, delle persone vive e dei morti.
Prova a sopravvivere.
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO 31

KAYLA

Lo sto seguendo.

Lo sto facendo davvero. Sono parecchi metri dietro di lui, non credo si sia ancora accorto che lo sto seguendo ma non mi interessa. Ho preso una decisione e non mi posso tirare indietro proprio nel momento del bisogno.

Da quando ho cominciato ad affezionarmi al loro gruppo è come se mi fosse stato assegnato il dovere inderogabile di aiutarli nel momento del bisogno. È stato semplice finchè lei era ancora con me, o almeno non così difficile. Adesso, invece, non ho più nulla. Per la seconda volta. 

Ho pensato quale fosse il mio compito adesso, il mio obiettivo e mi sono risposta molte volte: “nessuno”. Prima dovevo ritrovare la mia famiglia, o almeno parte di essa, poi dovevo proteggere lei. Ora non ho più niente da portare a termine. 

Mi sono distratta. 

Mi sono distratta, dando peso ai miei sentimenti invece che insabbiarli profondamente dentro di me. Se non mi fossi lasciata trasportare, ora lei sarebbe ancora qui con me. 

Non ho avuto nemmeno la possibilità di dirle: “va tutto bene”, anche se in realtà non andava tutto bene. Tutto andava a rotoli, il mondo si era fermato e migliaia di stelle avevano cominciato a cadere: l’universo si stava distruggendo. Così mi sentivo: il mio universo stava morendo sotto ai miei occhi e io non ho potuto fare nulla per evitarlo. Non andava tutto bene, ma alcune volte la speranza è l’ultima cosa che puoi dare a qualcuno.

Ho guardato impotente mentre la vita veniva cancellata, strappata via dal mio universo, come se le stelle cadenti avessero artigli aguzzi e affilati che lasciavano solchi indelebili sul suo suolo. 

Non ho più nulla da fare qui. Non ho più niente che mi lega. Non ho più niente.

Queste frasi si ripetono ogni giorno incessantemente nella mia testa, non lasciandomi dormire o riposare o semplicemente vivere. Mi divorano dall’interno come la stessa malattia che ci ha portato qui. I giorni sono diventati mesi e le notti sono diventate anni. Ogni ora, ogni minuto è un inferno sempre più doloroso che mi ritrovo a combattere da sola.

Non c’è via d’uscita.

Ho sempre capito perchè Clark ha fatto ciò che ha fatto e ogni volta che queste parole rimbombavano nella mia mente, mi venivano i brividi e pensavo a lui. A quante volte ho visto la vita uscire dagli occhi di qualcuno, proprio davanti a me. A quante volte mi sono incolpata per cose che non potevo controllare. A quante volte mi sono sentita crollare il peso del mondo addosso e schiacciarmi sotto di esso.

È finita.

E poi. 

Poi mi sono accorta che non ero sola, che per tutte quelle tre settimane infernali e miserabili c’era qualcuno accanto a me. Qualcuno che si prendeva cura del mio corpo malato, provando a distrarmi con delle letture per bambini accompagnate da commenti stupidi solo per riuscire a strapparmi una risata, che però non arrivava mai. Qualcuno che era presente quando mi svegliavo fradicia la notte, dopo uno dei tanti incubi che non mi lasciavano riposare. Qualcuno che ha deciso di abbandonare la sua famiglia per rimanere con me.

Qualcuno a cui so di tenere e per questo non posso lasciare che vada verso una missione suicida da solo. Lui ha ancora la speranza che arde dentro di lui, motivando le sue scelte e accendendo quella scintilla nei suoi occhi.  Non posso abbandonarlo ora. Ma non posso lasciarmi distrarre di nuovo.

Forse è meglio così. Non sento più molto da tre settimane. Mi sembra essere prigioniera di un corpo che non è il mio, con pensieri che si avvinghiano sempre di più attorno alla mia gola e mi tolgono il respiro. 

Eppure lo sto seguendo.

Forse perchè non mi resta altro da fare, forse è l’unico modo per distrarmi da ciò che mi sta portando sul fondo di un abisso sempre più profondo e buio. Forse perchè non sono pronta a lasciare andare qualcun altro di importante dalla mia vita.

L’aereo… ha risvegliato qualcosa in me. Voglio scoprire cosa c’è dietro, chi c’è dietro. Voglio qualcuno da incolpare per tutte le perdite che ho subito, perchè incolpare solo me stessa non mi basta più. 

Calum è alla ricerca della sua famiglia. Io, invece, sono alla ricerca della verità, perchè è tutto ciò che mi rimane.

***

Mancano appena pochi metri alla carcassa bruciata dell'aereo e già la situazione non si prospetta una delle migliori: ci sono Morti ovunque, dentro a ciò che rimane del velivolo, intorno… Non mi sorprenderei se ne vedessi qualcuno anche sopra di esso. Sono insaziabili. 

«Dovremmo almeno avere un piano per distrarli» suggerisco a Calum, mantenendo il mio tono di voce basso. 

Durante il tragitto abbiamo avuto qualche incappio e vorrei evitare di causarne altri, nonostante sia più che pronta a far fuori uno di quei mostri e passare all'altro senza problemi. 

Non è cambiato molto da quando siamo partiti: ognuno sta sulle sue, con i propri pensieri per la testa, i propri piani e i propri obiettivi. Ci scambiavamo qualche parola solo per sapere chi avrebbe iniziato il turno di guardia e per svegliarci a vicenda. Una delle cose positive è che con i chilometri che macinavamo a piedi, non appena il mio capo toccava terra cadevo in un sonno senza sogni né incubi, anche se non profondo, ormai abituata ad allarmarmi ad ogni singolo rumore.

Non abbiamo avuto - e ancora non abbiamo - problemi di scorte: a quelle ci aveva pensato Calum quando io ero ancora imprigionata in quella stanza. 

«Sì, hai ragione» risponde borbottando, quasi che faccio fatica a capire cosa dice. «Ehi, brutti bastardi!» urla istanti dopo, mettendo le mani a coppa ai lati della bocca.

«Ma sei impazzito?!»

«Ho creato un diversivo,» ribatte, lanciandomi un'occhiataccia, che ricambio incredula. «Ora, corri.» Non mi lascia nemmeno il tempo di recepire la sua frase che è già partito in uno scatto veloce.

Impreco sottovoce, piegando il collo. «Che piano fantastico.» Prendo il coltellino svizzero - unica arma che mi è rimasta - e lo stringo nel palmo, forse con troppa forza.

Si farà ammazzare. 

Aumento la velocità e lo supero, sviando poi a destra. «Venite da mamma!» grido a gran voce, ormai a pochi metri dal primo Morto, che subito si gira e comincia a camminare nella mia direzione. Funziona. «Non sprecare l'occasione, vai!» urlo a Calum.

Lui ha tutto il diritto di trovare le persone a cui tiene. Io non ho più nulla da perdere. Il piano è essere l'esca e sta funzionando meglio di quanto pensassi. 

Che la festa cominci.

Corro verso  la coda dell'aereo con ormai un'orda di Morti che continua ad allargarsi dietro di me, ma non sono così veloci e tra di noi ci sono abbastanza metri per una distanza di sicurezza.

Mi ero scordata la sensazione dell'adrenalina che scorre per il mio corpo: è passato così tanto tempo dall'ultima volta che ho dovuto correre per salvarmi la pelle. La sensazione dei piedi che sbattono sull'erba, inviando scosse di energia pura su per le gambe, le braccia che si muovono coordinate, il respiro che entra ed esce dalla bocca… Mi viene da ridere e lascio uscire una risata fragorosa dalle mie labbra, come se fossi appena impazzita. Eppure mi sento così libera ed invincibile adesso.

«Vaffanculo, stronzi! Ha!» urlo in modo liberatorio, alzando il dito medio sopra alla mia testa.

Lancio un'occhiata veloce dietro di me, notando che Calum è riuscito a farsi strada dentro all'aereo grazie alla mia distrazione.

Continuo a correre, provando così tanta leggerezza improvvisa che potrei continuare a correre all'infinito, se solo non fosse per i polmoni che cominciano a bruciare.

Magari non vedrò mai un Vagante sopra a un aereo, ma io posso salire su un'ala appena esaurirò l'ossigeno dentro di me: sono arrivata alla coda e vedo che l'ala dalla parte opposta è appoggiata obliquamente al terreno. 

Devo fare uno sforzo enorme per riuscire a darmi lo slancio per salire e devo contare che davanti a me ci sono altri Morti che stanno cominciando ad accorgersi della mia presenza. Dannazione. 

Uno sparo.

Non sono io e di sicuro non è Calum. C'è qualcun'altro oltre a noi due, ma deciderò dopo se prenderlo come un buon o pessimo segnale. L'unica cosa importante è che ha distratto molti Morti, che adesso si stanno dirigendo dalla parte opposta. Ne ho ancora una quindicina circa dietro di me, ma posso farcela a raggiungere l'ala. Dovrei farcela.

Faccio uno sprint, sentendo muscoli e polmoni bruciare, salto e mi aggrappo alla parte più bassa dell'ala. Per qualche istante la mia presa tiene, le mie gambe penzolano a qualche centimetro da terra, ma poi comincio a scivolare e muovo le mani come una pazza per riprendere la presa.

Posso farcela.

Mi lascio cadere, prendo una piccola rincorsa e salto di nuovo, sentendo i muscoli delle braccia tirare per lo sforzo. Forza.

I Morti si avvicinano e io ho ancora le gambe che penzolano. Riesco ad appoggiare il braccio destro sul suolo metallico, faccio leva, trattenendo un grido di sforzo tra i denti digrignati. Nell'altra mano ho ancora il coltellino ma non posso lasciare cadere l'unica arma che mi è rimasta: la lancio sull'ala e provo a tirarmi su con la mano libera.

D'improvviso mi sento prendere una gamba e il battito del mio cuore accelera impazzito: un Vagante ha afferrato il mio polpaccio e sta cercando di tirarmi giù. Scalcio più forte che posso con entrambe le gambe, riuscendo a colpirlo in faccia, ma si riprende in pochi istanti, ritornando ad aggrapparsi al mio polpaccio.

Sforzo così tanto sulle braccia che credo potrebbero staccarsi da un momento all'altro e il continuo dondolare delle mie gambe non mi permette di riuscire a salire su questa dannata ala.

Potrei lasciarmi cadere e soccombere così al mio destino, ma non posso dargliela vinta. Hanno già spezzato le vite di tutta la mia famiglia, non lascerò che facciano banchetto anche con la mia carne. Non succederà.

Un altro sparo inaspettato mi fa saltare un battito. «Quello era l'ultimo, ti conviene muoverti!» Non mi chiedo da dove provenga la voce né a chi possa appartenere; ha appena colpito il Vagante attaccato alla mia gamba, che cade lentamente a terra, tirandomi giù assieme a lui.

Ultima occasione.

Salto di nuovo.

Strizzo gli occhi così forte che mi fa male la testa, digrigno i denti e tutti i muscoli del mio corpo si ribellano per lo sforzo continuo. Poi la mia mano viene afferrata e tirata su. E anche le mie gambe riescono a toccare il metallo. Striscio avanti, riprendendo fiato. Mi giro sulla schiena, appoggio le mani sulla pancia e scoppio in una risata fragorosa, non preoccupandomi più di niente.

Apro gli occhi e vedo subito il volto di una donna di colore sulla cinquantina, che mi fissa con un'espressione tra il sorpreso e il divertito. Sposto lo sguardo sulla sua mano che stringe una pistola. «Grazie» dico praticamente senza voce, mettendomi a sedere.

«No, ringrazia lui,» dice, facendo cenno verso il corpo mozzato dell'aereo. «È stato piuttosto convincente.» Calum si gratta la nuca, il petto che si alza e si abbassa veloce per riprendere fiato. Gli faccio un cenno riconoscente con il capo.

La donna allunga una mano verso di me e la prendo esitante, lasciando che mi aiuti ad alzarmi in piedi.

«Sono la dottoressa Nuha Jacobs,» dice una volta raggiunto Calum ed essere entrati nella parte intatta dell'aereo. «ma potete chiamarmi Nuha o doc.»

Annuisco distrattamente, registrando appena le parole da lei appena pronunciate, troppo impegnata a studiare lo spazio attorno a me. Mi sembra di stare dentro ad un laboratorio: le luci a pila illuminano di bianco l'intero luogo con qualche sfumatura blu, c'è un tavolino con sopra un microscopio e diverse provette e campioni e altri contenitori di vetro, oltre che almeno una cinquantina di scartoffie sparse tra la scrivania e la sedia. Verso il fondo dell'aereo ci sono diverse flebo vuote, un sedile disteso per fare da brandina e bottiglioni di acqua potabile - c'è attaccata sopra un'etichetta con le parole ben leggibili -, al loro fianco diverse scatole di cartone.

Sento Calum e la dottoressa parlare in sottofondo, anche se non sto seguendo ciò che stanno dicendo; dalla parte da cui siamo entrati, che è dove la parte finale si è separata dal resto del velivolo durante l'impatto, ci sono degli spuntoni per tenere lontano i Morti: infatti, ci sono due corpi infilzati che muovono le braccia instancabilmente, aprendo e chiudendo i palmi con scatti spasmodici e che continuano a fare quel loro odioso verso.

«Fidatevi, vi ci abituerete, dopo un po'.» Sobbalzo al sentire la voce della donna così vicina a me.

«Come fai ad essere viva?» le chiede Calum, raggiungendoci all'entrata.

«Sono stata fortunata. Tutto qui» risponde, facendo spallucce. «Drew, il pilota, è morto all'impatto. Riley è stata scaraventata fuori. O almeno, credo. Io ero chiusa in bagno quando è andato tutto storto.»

«Cos'è tutta questa… roba?» chiedo, osservando nei minimi dettagli tutta l'attrezzatura sulla scrivania.

«Test. Provette con il loro sangue,» indica i due Morti infilzati, «sono stati molto gentili ad avermelo lasciato prendere» dice con un tono troppo leggero, lasciando scappare una leggera risata.

Questo suo modo di ironizzare su tutta questa situazione mi mette a disagio e sta cominciando a darmi sui nervi. Calum invece sorride.

«Hai trovato qualcuno?» chiedo a quest'ultimo. Non voglio stare in questo posto più del necessario se non ha visto nessuno del suo gruppo.

«Vuoi dire che c'è qualcun altro là fuori oltre a voi due?» Alla donna stanno brillando gli occhi di… emozione? «Oh, mio Dio, non credevo mi sarebbe andata così bene-»

«Calum?» la interrompo secca. Voglio una semplice risposta, non ho chiesto la sua opinione. Calum scuote la testa sconfitto, abbassando lo sguardo.

«Accomodatevi pure, sarete stanchi dopo tutto quel correre.» Calum attraversa lo spazio, andandosi a sedere sul sedile in fondo all’aereo. Io sento tutti i muscoli del mio corpo contratti; non sono tranquilla qui dentro. Forse per i Morti a pochi passi da me, forse per questa specie di laboratorio, forse per Nuha stessa. Prendo qualche respiro profondo, giocando nervosamente con le dita delle mie mani, ma non vado a sedermi.

«A cosa serve il loro sangue?» chiedo alla dottoressa, che si siede al tavolino, cominciando ad armeggiare con i suoi strumenti con una calma e abitudine quasi inquietanti. Sto comunque a distanza di sicurezza, abbracciando il mio corpo con le braccia.

«Okay, vedo che sei curiosa» risponde senza togliere gli occhi dal microscopio. «Lo sto studiando in cerca di qualche segno di cedimento della malattia, per capire come si sviluppa a lungo termine, se ci sono ancora delle cellule sane-»

«Perchè l’aereo?» la interrompo con fare un po’ troppo inquisitorio. 

«Intendi perchè spostarci?»

«Intendo qualsiasi cosa. Voglio sapere la verità e, visto che lei mi sembra una di quelle dottoresse che lavoravano vicino al governo, voglio sapere tutto quello che sa.» Incrocio le braccia al petto, le mani che si stringono in due pugni involontariamente. «Non avete avuto molti problemi ad abbandonarci nel caos» sputo fuori fredda, tagliente come un lama appena affilata.

Ho sempre saputo di avere un risentimento nascosto per tutto ciò che ha fatto - o meglio, non ha fatto - il governo, il Presidente e la comunità scientifica quando tutto ciò è scoppiato. Ho sempre avuto domande rimaste senza risposte e dopo un po’ ho smesso di pensarci: non avevo nessuno che potesse rispondere in ogni caso. Ma adesso, avevo sotto mano una risorsa e sarei stata stupida a sprecarla, anche se sapere la verità non avrebbe cambiato niente. Non avrebbe potuto riportare indietro nessuno.

«Lo so» inizia, fermandosi subito per esalare un sospiro e togliere lo sguardo dal microscopio, appoggiando la schiena al sedile della sedia. «E sì, ero piuttosto vicina al governo. Non voglio cercare delle scuse, ma quando è scoppiato tutto ciò,» dice, indicando attorno a sé, «anche noi non ne sapevamo molto e la situazione è diventata disastrosa troppo velocemente per riuscire a fermarla. Tutto ciò che so adesso è frutto di mesi, anni di studio di provette, campioni, soggetti, dopo che è stato ristabilito una specie di ordine tra la comunità scientifica ancora rimanente. Il governo ci ha affidato il compito di trovare una cura-»

«Vuoi dirmi che esiste ancora un governo?» chiede sconvolto Calum con gli occhi spalancati e la mandibola che credo possa cadergli da un momento all’altro.

Mi lascio scappare una risata amara: non mi sorprende molto questa notizia. Ci hanno abbandonati una volta, non dubitavo sul fatto che avrebbero potuto farlo una seconda.

«Sì. Beh, prima- Ora è più complicato. Comunque, abbiamo scoperto che è un virus modificato derivante da quello della rabbia e dall’encefalopatia spongiforme bovina: quello della mucca pazza, in parole povere.»

«Ma entrambi sono fatali» interviene di nuovo Calum. Non ci sto capendo nulla. Vado a sedermi accanto a lui. 

«Per questo ho detto che è modificato.  La rabbia può essere trasmessa all’uomo attraverso la saliva: quindi morsi, ferite e graffi e così via. La stessa cosa da uomo a uomo, ora, con l’aggravante che un semplice starnuto o colpo di tosse può infettare molti più soggetti.

«Come avrete potuto capire dopo tutti questi anni, i soggetti perdono la vista, il senso morale è scomparso, il gusto, l’olfatto eliminati. Rimangono solo il tatto e l’udito, solo che quest’ultimo è potenziato. È come se tornassero a uno stato animale, preoccupati solo della caccia. Come hai detto prima, Calum, entrambi i virus sono fatali: infatti, in entrambi i casi, la distanza tra i sintomi e il coma e successiva morte è di una settimana. La mia teoria è che il virus finale sia stato contaminato da un virus influenzale che ferma il cuore umano e poi lo fa ripartire. Sembra fantascienza, ne sono consapevole, ma non è un’opzione da scartare.

«Non sappiamo da dove provenga. Si è vociferato che fosse un esperimento di laboratorio e che alcuni soggetti vennero erroneamente rilasciati, ma non ci sono prove fondate al riguardo. Non sapere la provenienza ha prodotto un grave rallentamento della ricerca. Nonostante ciò, recentemente abbiamo scoperto che il genoma umano dei più giovani - parlo di bambini nati durante la pandemia o appena precedentemente - si è modificato.

«Si è parlato a lungo di fare esperimenti su tali soggetti: contagiarli con la malattia, vedere come il loro corpo e le loro cellule avrebbero reagito a ciò, se c’era una possibilità che potessero essere immuni e da lì poter ricavare una possibile cura sperimentale. Non è mai stato approvato, a causa delle divergenze createsi nel gruppo. Non sono mai stata d’accordo sullo sperimentare su neonati e bambini, mi sono sempre opposta.»

Mi passo una mano sul viso frustrata all’idea di poter torturare vite innocenti. Strizzo gli occhi, poi li riapro, la vista ci mette qualche istante per ritornare a fuoco.

«Fino a due settimane fa.» Nuha prende un respiro pronfondo, l’aria sconfitta e combattuta. «Hanno approvato il progetto, hanno cominciato a prendere i bambini. In quel momento ho capito che non potevo restare a guardare. Non potevo rimanere chiusa in un edificio e vedere le vite di quei bambini venire spezzate dagli esperimenti. Non tutti sopravvivono. I miei colleghi sono stati tutti quanti corrotti dal terrore di potersi trasformare come loro.» Indica di nuovo i Morti. «Si sono spinti troppo oltre, senza modo di tornare indietro. Così io e un paio di miei collaboratori fidati abbiamo preso questo aereo, sperando di arrivare a Chicago e proseguire gli esperimenti su soggetti già contagiati lì. Il resto lo sapete.» 

Mi prendo qualche minuto per digerire tutte le informazioni. Ho la testa in subbuglio e le emozioni che fanno a lotta tra di loro.

Ho voluto la verità. Ed ora l’ho ricevuta, sempre che non ci stia raccontando un mare di bugie per chissà quale scopo.

«Hai detto Chicago… Da dove provenivate?» chiedo, cercando di mettere in ordine tutti i pezzi del puzzle.

«Fort Detrick, a Frederick nel Maryland.» La guardo con uno sguardo perplesso. «È una base medica dell’esercito. Fino al 1969 è stata centro di ricerca per le armi biologiche, per questo abbiamo deciso di studiare il virus lì.»

Mi passo le mani tra i capelli frustrata. Vorrei poter urlare, scaricare la rabbia. Vorrei poterci capire qualcosa. Ancora una volta, vorrei che le cose fossero andate diversamente.

Le teorie complottiste non mi servono a molto a quattro anni dallo scoppio di tutto questo casino. Si dice che la verità dovrebbe dare tutte le risposte, ma io ho solo più domande e un gran mal di testa. Pensavo mi sarei sentita meglio, invece mi sento come se fossi appena stata investita da due treni, uno dopo l’altro. Ho bisogno di aria.

Mi alzo in piedi, barcollando leggermente sui miei stessi passi e immediatamente sento una mano stabile sulla mia schiena. Stringo i pugni ai lati delle gambe, così forte che sento le unghie affondare nel palmo e lasciare i segni.

«Dove vai?» chiede sottovoce Calum, sfiorandomi quasi impercettibilmente il polso con le sue dita. 

«Fuori. Devo schiarirmi le idee.» 

Oltrepasso gli spuntoni, passando dallo stesso punto da cui siamo entrati, ritornando sull’ala dell’aereo. Appoggio la schiena alla parete bianca e fredda, stringendo le braccia al petto. Chiudo gli occhi, inspiro. Espiro. Apro gli occhi.

«Stai bene?» Richiudo gli occhi.

«Non è importante.»

L’ombra prende il posto della luce. Apro gli occhi. Calum è davanti a me. Preoccupato, con le sopracciglia aggrottate: un’espressione che ho visto sul suo viso ormai troppe volte per non riconoscerla.

«Lo è per me.» 

Faccio un respiro profondo: sento la gola chiudersi, il battito del cuore accelerare e gli occhi inumidirsi. La mia gamba destra comincia a muoversi avanti e indietro, il mio solito tic nervoso che appare ogni volta che sto per piangere. Giro la testa di lato, guardando l’infinità di verde e marrone che si estende nei campi. Mi metto a sedere, incrociando le gambe.

«Pensavo di aver fatto pace con l’idea della morte.» Vedo con la vista periferica che Calum si siede davanti a me, tenendo il suo sguardo inquisitore sul mio viso. «Dopo quattro anni. Cazzo, quattro anni.» Prendo qualche attimo di pausa. 

Dopo la nostra convivenza forzata per tre settimane, ho notato diverse volte che Calum mi lascia i miei spazi e miei tempi. Nonostante tutto, è una delle cose che ho più apprezzato durante questo continuo periodo di dura prova per entrambi. Non è più precipitoso con i miei pensieri, con i miei tempi di condivisione, forse perchè ha imparato a capire quanto condividere sia difficile e doloroso per me.

«Io non so più niente. Non so chi sono, non so cosa voglio. Non so cosa devo fare in questa dannata vita! I miei genitori, Reece, Clark… Ebony.» Dire il suo nome per la prima volta dopo tre settimane fa aumentare il battito del mio cuore. Il suo nome rimbomba nella mia testa, nell’aria, nello spazio tra me e Calum. «Non ho fatto nulla per evitare...»

«Smettila di crederti Dio, Kayla.» Calum scuote la testa, il suo sguardo mi trafigge nel profondo. «Molte cose sono fuori dal tuo controllo, come lo sono dal mio. Non potevi sapere ciò che sarebbe successo e non avresti potuto evitare l’inevitabile. Smettila di incolparti di cose per cui non hai colpa.» Mi prende la mano, dandole una stretta rassicurante e racchiudendola nelle sue.

«Grazie» sussurro, senza guardarlo negli occhi, «per non averla fatta diventare una di loro.» Non pronuncio il suo nome di nuovo, ma sa benissimo a chi mi riferisco. Lo vedo annuire, un’espressione addolorata sul viso. E io che credevo di star portando tutto questo dolore da sola. La sua vita ha avuto un impatto anche su quella di Calum, ma sono sempre stata troppo preoccupata del mio dolore per vedere oltre.

Dopo alcuni minuti di silenzio, passati a riflettere sulle sue parole, decido di alzarmi, lasciando scivolare via la mia mano dalle sue e ritornando all’interno dell’aereo.

«Perché hai deciso di seguirmi, alla fine?» La voce di Calum mi arriva forte e chiara alle orecchie e la domanda mi fa fermare sui miei passi, presa alla sprovvista.

Perchè l’ho seguito se poco prima gli ho detto di non voler aver più niente a che fare con lui o la sua missione e il gruppo e tutto il resto?

«Ti saresti fatto ammazzare, altrimenti.»

È la verità: si sarebbe davvero fatto ammazzare con tutti quei Morti. Ma è davvero solo questa la motivazione che mi ha spinto ad andare oltre? A continuare?

Non lo so. Ma per ora mi va bene.

«Allora ti importa qualcosa di me» ribatte con un sorrisetto sulle labbra. Scuoto la testa, la traccia di un sorriso sul mio viso, mentre soppeso i sentimenti dentro di me. 

«Mani in alto, non vi muovete!»

Il mio cuore salta un battito, poi corre all’impazzata.

Il mio istinto di sopravvivenza vorrebbe voltarsi, riuscire a tirare fuori il coltello e provare a mettere a tappeto chiunque stia alle nostre spalle. 

Ma non lo faccio, sapendo che anche se riuscissi prendere l’arma e colpire, non avrei comunque possibilità.

Alzo le mani sopra la testa.

   
 
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