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Autore: Crudelia 2_0    06/06/2020    8 recensioni
[Seconda classificata al contest “Ogni amore ha la sua pietra preziosa” indetto da Zukiworld sul forum di Efp.]
Durante un ipotetico settimo anno, Ron torna ad Hogwart in compagnia di Harry ed Hermione; in seguito, intraprenderà una carriera da Auror.
Era un terreno pericoloso, quello in cui si stava avventurando.
Non avrebbe dovuto pensare alla gonna di Daphne, al profumo di Daphne o al sorriso di Daphne.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Daphne Greengrass, Rose Weasley
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Storia partecipante al contest “Ogni amore ha la sua pietra preziosa” indetto da Zukiworld sul forum di Efp.
 
 
Nickname: Crudelia 2_0
Pacchetto: Diamante
Coppia: Ron/Daphne
Bonus: Si

Note
Durante un ipotetico settimo anno, Ron torna ad Hogwart in compagnia di Harry ed Hermione; in seguito, intraprenderà una carriera da Auror.
Chiedo scusa, in anticipo, a tutti gli appassionati d’arte se leggeranno castronerie: non sono un’esperta, tutto ciò che ho scritto sono le mie impressioni.
Ultima cosa poi chiudo: ho mantenuto i nomi delle Case in inglese. Così, perché mi andava.
 
 
 
 
 
Conchiglia di diamante
 
 
 
 
Cosa ti è rimasto di lei, Ron?
Nulla: un disegno che senti pesare nella tasca della giacca, ma che non hai il coraggio di prendere in mano. Sai che, se lo faresti, le dita non reggerebbero, facendolo a pezzi e lasciandoti con i palmi pieni di carta macchiata dal carboncino e il rimorso di non aver saputo conservare l'unico pezzo di sé che lei ti ha donato.
Cosa ti è rimasto, allora, di lei, Ron?
Niente: il rimorso. Il rimorso di non aver assaporato una volta di più le sue labbra.

 
 
 
Hogwarts, 1999
 

 
Aveva scoperto quello che aveva finito con l'essere il suo posto durante il quarto anno, quando era stato così stupido da credere che Harry si fosse iscritto di sua volontà al Torneo Tremaghi. In verità, erano stati Fred e George a mostrarglielo.
Era bello, pensare a quei tempi. Dolceamaro, ad esser sinceri. Erano ricordi macchiati dal suo stato d'animo: sempre scontroso per via dell'assenza di Harry, ma a pensarci ora erano gli unici momenti in cui i gemelli l'avevano preso sotto la loro ala.
Era Ginny la loro preferita, lo era sempre stata, ma in quel periodo si erano occupati di lui.
Non che Ron volesse pensare a quello  ̶  a Fred  ̶   in quel momento, era già abbastanza cupo di suo. Da quella mattina, senza un apparente motivo. Aveva pensato di potersi consolare sfruttando il pomeriggio di sole  ̶   la primavera era arrivata presto, quasi che Hogwarts tirato a lucido dopo la battaglia avesse fatto risvegliare anche la natura  ̶   ma quel progetto era naufragato come un derelitto bucato dalla bottiglia d'inaugurazione che si infrange con troppa violenza contro il varo.
Hermione non aveva voluto, semplicemente.
Hermione non aveva voluto perché doveva studiare. Mancavano tre mesi   ̶   tre mesi!  ̶   ai M.A.G.O. e «Com'è possibile che tu non capisca, Ron?»
Ma Ron non capiva come lei potesse non capire. Erano davvero così importanti, i M.A.G.O., dopo aver combattuto e vinto una guerra? Erano davvero più importanti di un pomeriggio passato al sole a divertirsi, più importanti di lui?
Si sarebbe detto di sì, ma odiava autocommiserarsi.
Arrivò al suo posto a pari passo con il tramonto   ̶   ed erano lunghi, i tramonti scozzesi. Così lunghi da poterci morire e rinascere dentro.
La prima scossa  ̶   interna, al suo cuore, al suo stomaco o a qualunque cosa ci fosse sotto le costole  ̶   arrivò quando si accorse di non essere solo. Il suo posto era già occupato. Si inciampò quando varcò la porta per uscire  ̶   e sì che lo sapeva, che c'era quel dannatissimo scalino  ̶   e lei alzò lo sguardo.
Se ne stava seduta al sole, le ginocchia al petto e un libro poggiato sopra di esse. Indossava la gonna della divisa e una camicia tanto bianca da far male agli occhi, la piccola spilla da Caposcuola (un serpente sinuoso avvolto intorno alla C) era l'unico indizio che rivelava l'appartenenza alla sua casa. Sembrava assorbire la luce del sole e rifletterla, o forse era solo l'effetto che dava la sua collana, un piccolo cerchietto di diamante.
Ron recuperò l'equilibrio in modo un po' goffo. Si sarebbe aspettato degli sberleffi (cos'altro, da una Slytherin?) ma lei si limitò a squadrarlo con incuriosita disapprovazione, prima di riportare gli occhi alla sua lettura.
«Oh, scusa» si sentì avvampare. «Non sapevo fosse occupato. Se vuoi...» si schiarì la gola, «se vuoi stare da sola vado via, ecco»
Lei tornò a guardarlo. Aveva occhi limpidi, blu  ̶   occhi di mare. «Si può stare da soli anche in compagnia, Weasley» disse, enigmatica.
«Mh, okay...» borbottò perplesso Ron, ma lei era già tornata al suo libro.
Daphne Greengrass, sbuffò. Il suo posto era occupato da Daphne Greengrass.
Non c'era bisogno di presentazioni, si conoscevano da più di sette anni. Eppure, non ricordava neppure una volta, prima di questa, in cui si fossero scambiati la parola.
Ma il fatto curioso era che quel balcone, così alto da poter intravedere un angolo del Lago Nero e tanto vicino alla torre dei Rawenclaw, fosse occupato da un Gryffindor e una Slytherin.
Curioso, davvero. Ma Ron non aveva voglia di risolvere quell'enigma, al momento. Aveva raggiunto quel balcone che credeva sconosciuto e isolato per trovare un po' di pace e godersi il tramonto che vedeva specchiarsi nel lago rosso come i suoi capelli.
Che poi, cosa ci faceva davvero lì?
Non era quello il suo posto. E non si riferiva soltanto al balcone palesemente appartenente ad un'altra Casa, ma all'intera scuola, ad Hogwarts. Il suo posto sarebbe dovuto essere a casa, al fianco di suo fratello.
Sua madre aveva suo padre, Bill aveva Fleur, Charlie aveva i suoi draghi, Percy aveva il suo lavoro e Ginny aveva Harry, ma George? Aveva forse, George, una persona speciale capace di comprenderlo e consolarlo?
Sì, certo, ce l'aveva. Era Fred.
Ma Fred non c'era più.
Sospirò, chiudendo per un attimo gli occhi e abbandonando il peso sulle mani appoggiate alla balconata.
«Hai da accendere?» chiese all'improvviso, quasi stupendo se stesso delle parole che avevano lasciato la sua bocca.
Neanche voleva parlarle, in realtà.
«Scusa?»
Lei gli concesse un'occhiata, riusciva a imprimere in una parola sfumature ironicamente sorprese e deliziosamente divertite. Come fosse possibile, Ron non lo sapeva.
«Da accendere. Sai, una sigaretta» spiegò Ron, agitando tra due dita uno stecco grigio scuro.
«Oh, fumi?» La bocca di lei assunse una piega che su chiunque altro sarebbe risultato un ghigno, ma su di lei l'effetto risultava sghembo e furbo. «E lo sa la tua fidanzata di questo vizio deplorevole?»
Slytherin, pensò Ron, sempre a girare il coltello nella piaga.
Sospirò, spazientito. «No, è per questo che tengo solo le sigarette. Quindi?»
«Quindi tieni solo le sigarette e non un accendino così non ti scoprirà. O se ti dovesse scoprire non capirebbe mai che fumi. Logica inoppugnabile»
«Senti, Greengrass, bastava dire di no» sbottò spazientito, riponendo la sigaretta nella tasca con un gesto brusco.
«Ma come siamo suscettibili» cantilenò lei inarcando le sopracciglia, poi si alzò e si sistemò le pieghe della gonna, già perfette.
Si avvicinò a lui, rimanendo ad una certa distanza, e poggiò un fianco sul pesante corrimano di pietra. E rimase lì, a guardarlo, con quel sorrisino saccente sulle labbra che sotto una luce diversa sembrava intenerito.
Ron si voltò ad incontrare il suo sguardo, incrociando le braccia. Dovette schiudere gli occhi per non rimanere abbagliato dal bianco splendente della sua camicia. Pareva seta, cucitale addosso.
«E va bene, Weasley. Ma lascia che ti dica una cosa» esordì quando per Ron il peso di quello sguardo stava diventando insostenibile. «Ti presterò il mio accendino, ma spero tu sappia che chiedere un favore ad una Slytherin è come fare un patto con il diavolo: sarai mio debitore per sempre»
Ron la guardò con gli occhi sgranati e capì, specchiandosi nella sua espressione innocente, come facessero quelli della sua Casa a non finire mai incastrati in una punizione: nessuno, vedendo quegli occhi grandi e trasparenti, avrebbe detto che Daphne Greengrass si divertiva con ironia tanto sottile da potersi confondere in un raggio di polvere.
Dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di capire che lei lo stava prendendo in giro, poi la mandò al diavolo sul serio.
Daphne rise  ̶   bicchieri di cristallo tintinnanti  ̶   gettandosi sulle spalle i lunghi boccoli biondi.
«Voi Gryffindor, adorabilmente ingenui» sospirò compiaciuta, l'ombra della risata genuinamente divertita ancora sulle labbra.
Ron considerò bene di risponderle con un grugnito, ma impiegò tutte le energie a convincere il suo cuore che no, non era il caso di battere così in fretta, anche se alla luce del tramonto i denti di lei erano apparsi come perle nascoste in un tesoro in fondo al mare.
«D'accordo, tieni» disse infine Daphne, allungando un accendino stretto fra dita sottili.
Ron si sporse e, mentre sforava la sua pelle pallida per accettare il prestito che l'avrebbe condannato per tutta la vita, vide che il piccolo diamante che lei portava al collo sembrava più un cuore che un cerchietto.
«Grazie» le rispose serio, sbuffando una nuvola di fumo al sapore di bergamotto.
Lei stirò le labbra in un altro dei suoi sorrisi ambigui  ̶   metà appagato, metà malinconico  ̶   e se ne andò senza aggiungere una parola, in una mano il libro e nell'altra il maglioncino.
 
La Sala Grande era sonnacchiosa i lunedì mattina, chiassosa i martedì.
E Daphne li odiava, i martedì.  
Si sistemò il tovagliolo sulle ginocchia prima di iniziare a mangiare  ̶   una fetta di pane tostato con marmellata di arance e una banana, perché era martedì  ̶   e urtò per sbaglio il gomito di sua sorella.
«Mi passi il caffè?» le chiese, perché da quando aveva memoria quella era la prima frase che si scambiavano, dopo buongiorno.
«È finito» si sentì rispondere, e sospirò delusa.
Ma doveva immaginarlo: era martedì, il caffè era finito e Astoria era persa già di prima mattina a contemplare i biondi e sottili capelli di Draco Malfoy.
«Smettila di fissare, Astoria, non è educato!» la rimproverò, per sfogare la sua frustrazione. Ma non era colpa di sua sorella, se era finito il caffè.
E neanche se era martedì.
Con aria triste diede un morso alla sua fetta di pane, arrendendosi a riempire il bicchiere con la spremuta d'arancia, e alzò gli occhi verso gli schiamazzi che giungevano fin lì dalla parte opposta della sala.
Al tavolo dei Gryffindor  ̶   fra incitamenti, pugni sbattuti e sporadiche teste scosse  ̶   era in corso una gara di bevute. Ron Weasley, in piedi sulla panchina al fianco del suo sempiterno compare Potter, Finnigan e un altro di cui Daphne non ricordava il nome, era intento ad ingollare con quanta più fretta possibile il contenuto del bicchiere.
Evidentemente finì per primo, perché lo vide alzare le braccia al cielo ed essere accolto con urla e pacche sulla schiena. In fondo, era il loro Re.
Lui si godette la vittoria annuendo con il capo e abbracciando l'intera Sala con lo sguardo.
Quando incontrò i suoi occhi Daphne sentì lo stomaco sprofondare in qualche punto imprecisato sotto i suoi piedi. Lui le sorrise furbo, poi le fece l'occhiolino.
«Com'è bello» commentò Astoria, persa nei suoi vagheggiamenti.
«Com'è stupido» rispose Daphne.
Però le guance scottavano.
 
Un'altra nuvola di bergamotto, ma questa volta era già accesa quando arrivò. Cercò di accomodarsi senza far rumore, ma lui la sorprese.
«Greengrass» disse soltanto, eppure non si era neanche voltato.
Non che ne avesse avuto bisogno: aveva percepito la sua presenza. Lei sapeva di mare, e avrebbe dovuto immaginarlo  ̶   onde per capelli e risacca per occhi.
Daphne non rispose, ma era lì: nel suo angolino a leggere, il libro posato sulle ginocchia.
Ron osservò attento il contrasto della nera copertina contro il bianco quasi ancestrale della sua camicia. Era convinto che tutte le divise fossero uguali, ma la sua era di fattura superiore.
Gli infondeva una strana calma rimanere a guardarla, con il gusto intenso del bergamotto che si sedimentava al fondo della gola ad ogni inspiro.
Lei alzò il mento con calma, prendendosi tutto il tempo che riteneva necessario per arrivare al punto  ̶   Ron aveva visto con frequenza quel gesto, ogni volta che parlava con  Hermione  ̶   e alzò un sopracciglio, riuscendo ad assumere un'espressione annoiata e sorpresa.
«Fumi?» le chiese. Una parola sola, la voce leggermente arrochita.
«No» secca, concisa. Tornò alla sua lettura.
Ron si strinse nelle spalle, tornando a guardare lo spicchio di lago che intravedeva. Non c'era il tramonto, ma la vista era impareggiabile.
«Era per sdebitarmi, ma se non vuoi...» disse riuscendo a sembrare noncurante, ma poté contare i tonfi del cuore contro le costole mentre aspettava la sua risposta.
Lei sospirò. «Ne hai una alla viola?» chiese, smentendo così la sua mancanza a quel vizio.
Dovette frugarsi nelle tasche prima di risponderle. «Vaniglia e gelsomino»
«Odio il gelsomino» rispose, ma si alzò ad accettare la sigaretta di un bianco giallino che le stava porgendo.
E di nuovo sfiorò le sue dita  ̶   eleganti, bianche e sottili. E fredde.
La prima nuvola di fumo la soffiò nel vento, ed entrambi rimasero a guardarla mentre veniva trasportata più in alto, verso mondi e luoghi che a loro non era dato conoscere.
«Scommetto che non sai fare cerchi di fumo» lo sfidò.
«Cosa te lo fa dire?»
«Il fatto che accendi le sigarette con un accendino babbano»
 
E aveva ragione, infatti: non era capace.
Ma la sua incapacità a fare cerchi di fumo non si rivelò l'unica cosa cui Daphne avesse ragione: qualsiasi argomento  ̶   dalla filosofia alla musica, dalle pozioni alla politica  ̶   era sottoposto al suo scrupoloso esame, e ne usciva sempre sviscerato in ogni aspetto e con affissa un'opinione che, secondo Ron, non era disposta a cambiare.
«Non dire sciocchezze, Weasley, ovvio che posso cambiare opinione. Non lo faccio mai semplicemente perché le mie sono sempre, subito giuste» aveva risposto altezzosa.
Altezzosa, ma complice.
Ron aveva riso  ̶   e soppresso l'istinto di stropicciarle i capelli solo per farle dispetto  ̶   e avevano continuato a parlare. Pur provenendo da ambienti profondamente diversi, avevano opinioni per lo più comuni.
C'era spazio per il presente, nei loro discorsi. Per i compiti, per l'ultimo pettegolezzo, per i testi troppo lunghi e per la festa che stavano organizzando gli studenti dell'ultimo anno. Per il futuro.
«Ti ci vedo come Auror» aveva commentato, seria. «Sei troppo onesto per entrare nel Ministero in altri modi» e anche se era un complimento era riuscita a farlo sembrare un aspetto di poco conto, appena da considerare prima di prendere una decisione di quel genere  ̶   decidere la vita.
«E tu, invece? Tu cosa vuoi fare?»
Lei aveva distolto lo sguardo, una maschera fredda e senza emozioni a calarle sul volto.
«Io voglio studiare arte, diventare pittrice»
«Arte?» aveva chiesto sorpreso Ron, poi gli occhi erano corsi ai suoi libri. Non erano libri di testo e neanche della biblioteca, eppure non si era mai chiesto da dove arrivassero.
Ora, reso attento dalle sue parole, vedeva l'immagine di sculture e gallerie sulla copertina, e ricordava quanto spesso lei segnasse le pagine con i graffi sottili della sua piuma.
«Una pittrice» ripeté, meditabondo, con una punta di dubbio alla fine della frase.
«Non diciamo sciocchezze, Weasley. Non sarò una pittrice, sarò la pittrice»
E così aveva chiuso la conversazione: aveva spento la sigaretta sul cornicione e se n'era andata, senza dargli la possibilità di replicare che, per lui, ce l'avrebbe fatta a diventare la migliore.
 
I sotterranei erano territorio Slytherin, la classe di Trasfigurazione territorio Gryffindor. Ma il corridoio dell'aula di Difesa Contro le Arti Oscure  ̶   corridoio est del quinto piano  ̶   era terra di nessuno.
Ecco perché, in quel punto, almeno una volta alla settimana scoppiava una diatriba fra Malfoy e Potter.
Quel giorno, tuttavia, Ron, se interrogato, non avrebbe saputo dire il perché fosse esplosa.
Faceva caldo, il sole era già alto da tempo anche alla prima ora del mattino e, in quel corridoio esposto e foderato di legno, i raggi rimbalzavano e venivano assorbiti creando una cappa. Piacevole d'inverno, terribile d'estate.
Era del tutto comprensibile, quindi, che Daphne si avvicinasse alla classe con la toga da studente slacciata per metà. Si stava avvicinando parlando con uno svogliato Zabini, intento a reggerle i libri mentre lei  ̶   dita sottili e veloci su bottoni obbedienti  ̶   chiudeva la veste.
Ron la guardò gettarsi sulle spalle i capelli scivolati in avanti a disturbarle la visuale, vide la camicia bianca  ̶   così luminosa anche a distanza, raffinata e splendente  ̶   scomparire dietro la pesante tunica come un soprano dietro il sipario, bottoncino dopo bottoncino.
La vide increspare la bocca in una leggera smorfia quando si formò una piega, che poi appiattì con una carezza fatta con il palmo della mano. La vide rispondere a Zabini e sorridergli mentre riprendeva i libri tra le mani, probabilmente ringraziandolo.
E in quel sorriso Ron si perse, perché non aveva sfumature. Quel sorriso  ̶   lontano un corridoio e vicino un battito di ciglia  ̶   desiderò vederlo più spesso, sempre.
Perché a lui, in quel modo, non aveva mai sorriso.
Si riscosse quando il pugno di Goyle gli centrò la mascella, facendo apparire scintille luminose dietro le palpebre.
Ron rispose ai colpi e per un po' non ci fu più spazio per sorrisi sinceri e camicette linde. Ad ogni contusione, però, scintille che si facevano sberleffi di lui somigliando a piccoli diamanti.
 
Le nocche erano graffiate e doloranti, le mani gonfie e la tempia sinistra pulsava come se una mandragola ne avesse fatto la sua abitazione e luogo perfetto per sfogare i suoi urli.
Ma la mascella. La mascella  ̶   benedetto Godric!  ̶   faceva male anche a respirare.
Ma Ron era combattuto: non sapeva se soffrire di più per quel colpo che gli aveva fatto stridere i denti e mordere la lingua, per i punti tolti alla sua Casa che avevano spedito Gryffindor al terzo posto  ̶   dopo Hufflepuff  ̶   o per la sfuriata che gli aveva fatto Hermione e che aveva contribuito a far peggiorare il suo mal di testa.
Posò gli occhi chiusi contro i pugni, poggiati sulle ginocchia. Tutto quel sole, anche se morente, non gli faceva bene, ma non riusciva a convincersi ad alzarsi dalla scomoda pietra, andare in infermeria, infilarsi sotto la doccia e sotto le coperte.
In quest'ordine.
«Dovrei complimentarmi per lo spettacolino, Weasley?»
Alzò la testa di scatto al suono di quella voce, e il martellare alla sua tempia gli ricordò come fosse stata una pessima idea.
Stupido. Stupido. Stupido.
Strinse gli occhi per il dolore  ̶   e per la luce  ̶   ma li riaprì subito quando vide le sue gambe.
Perfetta, statuaria, stava davanti a lui, rigida.
Alzò lo sguardo fino alla sua camicia  ̶   altra luce, bianca e accecante ­ ̶   e al suo viso ­ ̶   mare in tempesta.
Per incontrare la mareggiata dei suoi occhi dovette posare la nuca contro la dura pietra, il collo piegato in una posa così scomoda che non avrebbe retto a lungo.
«Non ho iniziato io» strascicò a fatica.
Perché da lei, un rimprovero, era l'ultima cosa che voleva.
«Lo so» rispose, e prima di chiudere gli occhi  ̶   troppa luce  ̶   Ron poté vedere i suoi lineamenti addolcirsi. «Malfoy è un idiota»
Ron socchiuse un occhio e alzò pigro un angolo della bocca. Daphne era davanti a lui, seduta sui talloni, quel tomo che pesava più di lei stretto al petto.
«Sono felice di non essere l'unico a pensarlo» disse, una nota biascicata persistente nelle sue parole.
«Oh, siamo in molti a pensarlo» arrivò la risposta, affilata come il dardo di una freccia.
Ron chiuse gli occhi, un po' più sereno. Faceva meno male, al buio.
O forse era quell'odore di estate, vento e salsedine che ad un tratto l'aveva avvolto. Era facile lasciarsi andare, con quel profumo, fingere di galleggiare senza peso e senza preoccupazioni.
Era facile anche fingere di non sentire la carezza di una gonna a pieghe contro la sua coscia, e il piacere che tale vicinanza gli dava.
Era un terreno pericoloso, quello in cui si stava avventurando.
Non avrebbe dovuto pensare alla gonna di Daphne, al profumo di Daphne o al sorriso di Daphne.
Ma lei  ̶   tutta sorrisi, espressioni e frasi dal doppio significato  ̶   aveva catturato la sua attenzione come la luce con le falene, come un diamante che attira un minatore che poi è incapace di vedere altro se non quel piccolo, luminoso, inscalfibile minerale.
«Perché sei qui?» le chiese ad un tratto, lento, la voce roca come appena svegli.
Più che vederla la percepì muoversi, e ne ebbe conferma quando, sollevando le palpebre pesanti, trovò i suoi occhi vicini. Troppo vicini, ad appena la distanza di un battito cardiaco.
«Vengo qui spesso, non solo oggi» fu un sussurro, miele colato.
Ron chiuse gli occhi, sospirando e reclinandosi. Un briciolo di soddisfazione gli nacque nel petto, perché ci era riuscito.
Era riuscito a non farle assumere troppe inflessioni: era cauta, guardinga, sospettosa e dubbiosa, ma erano tutti sulla stessa linea. Non c'erano strani controsensi, ambiguità divertite volte a confonderlo e prendersi gioco di lui.
«Potevi non farlo» le disse, un bisbiglio faticato che con orgoglio si poneva il compito di finire il ragionamento logico che gli era stato imposto.
Lei non rispose, si mosse di nuovo. Subito Ron non capì, poi spalancò gli occhi quando sentì le sue dita fredde premere contro la mascella offesa.
Sgranò lo sguardo quando se la trovò vicina  ̶   troppo, troppo, troppo!  ̶   ma lei rivolgeva tutta la sua attenzione alla macchia blu che già si stava formando sulla sua pelle pallida e spruzzata di lentiggini.
«Ti farà male per un po'» commentò, quasi volesse consolarlo.
Lui deglutì, incapace di pronunciare la frase che gli era salita alla bocca. In più, un campanello che suonava pericolosamente come Hermione aveva iniziato a strillare nella sua testa già compromessa.
«Quell'energumeno è un idiota» sussurrò, ma non c'era abbastanza acredine in quella frase. Forse poteva fare un altro tentativo, ma per riuscirci avrebbe dovuto smettere di fissare le sfumature di azzurro così chiaro da sembrare bianco che partivano dalle sue pupille per diffondersi ed irradiarsi verso l'esterno.
Erano piccole luci, i suoi occhi.
«Riposati, Ronald» mormorò Daphne, un soffio di vento.
Si alzò con delicatezza, senza fretta, ma prima di andarsene passò le dita sottili tra i suoi capelli.
Ron trattenne il fiato a quel contatto  ̶   tanto breve quanto desiderato  ̶   e passò ancora molto tempo prima che trovasse la forza di smettere di ricordarlo e tornare alla sua torre.
 
«Dove sei stato?» chiese Harry quando Ron sbucò dal ritratto. Aveva un occhio nero e un labbro spaccato, ma il sorriso pigro di chi si stava godendo le carezze che riteneva più che meritate.
Semisdraiato sulle cosce di Ginny, non si era neanche alzato per guardarlo. Hermione, acciambellata sulla poltrona di fronte, aveva a malapena alzato gli occhi dal tomo polveroso che reggeva sulle ginocchia.
«Da Madam Pomfrey» rispose, un po' scontroso.
Ed era vero, ci era stato. Dopo.
Gli era stata data una pomata da spalmare sulla mascella tre volte al giorno, ma per la testa gli era stato detto di aspettare.
Iniziò allora a farlo, cercando di ignorare il martellare persistente nella sua tempia. Con una manata spostò i piedi di Harry, che ridendo piegò le gambe giusto lo spazio necessario per fargli posto sul divano.
La Sala Comune era più buia del balcone, ma più rumorosa. E quel ronzio non l'aiutava affatto a sopprimere i pensieri che l'avevano invaso: a metà di un corridoio si era accorto di quanto l'avesse avuta vicina, e aveva sprecato quell'occasione perdendo la possibilità di analizzare la sua collana. Un cerchietto o un cuore?
Il quesito lo stava quasi ossessionando.
Ma lei l'aveva distratto, con il tocco delle sue dita fresche e la dichiarazione della pubblica idiozia di Malfoy.
Lei era una Slytherin, ma l'aveva definito un idiota; lei era una Slytherin, ma aveva guardato con disapprovazione la loro zuffa; lei era una Slytherin, ma aveva dimostrato di sapersi escludere dalla setta della sua Casa; lei era una Slytherin, ma aveva accarezzato la sua pelle nera di lividi e i suoi capelli rossi come un marchio.
Una Slytherin, ma non l'aveva mai giudicato. E lentamente, incontro dopo incontro, aveva fatto a stracci la convinzione che un leone rampante e un serpente sibilante definissero una persona.
«Hai un aspetto orribile, amico»
«Pensa per te» perché lui, con gli occhi chiusi, voleva solo ristagnare ancora un po' nell'immagine dei suoi capelli baciati dal sole.
«Non è colpa mia, Malfoy è un idiota» arrivò ancora la voce di Harry a spazzare quella visione, impressa sulle sue retine come la più traditrice delle prove della sua colpevolezza.
Vide Ginny annuire, e la bocca si aprì prima che il pensiero razionale potesse agire sui suoi muscoli.
«Anche tu lo sei!» rispose con troppa acidità, al limite della rabbia.
Hermione alzò la testa di scatto e Ron, in un angolo profondo della sua coscienza, riconobbe che era quella  ̶   e lo era sempre stata  ̶   l'unica strada per attirare la sua attenzione: la rabbia.
«Potevi evitare, invece come un cretino l'hai preso a pugni» continuò, cavalcando l'onda di quel sentimento capace di rodergli lo stomaco come una bestia in gabbia.
Si ritrovò tre paia di occhi puntati addosso e la fiera nella sua pancia ruggì, facendosi strada con gli artigli e con i denti verso la sua gola. Perché quello non era il suo posto, perché Hermione non lo guardava così da quello che a lui sembrava troppo tempo ­ ̶   e sì che ci aveva provato, ad avere la sua considerazione  ̶   perché una Slytherin dagli occhi troppo azzurri e dall'odore di mare gli stava dimostrando che c'era di più, nel mondo, oltre a una stupida competizione a punti fra adolescenti e un esame che mai avrebbe rappresentato il loro valore nella vita.
«Ma che ti prende?» sussurrò Hermione, gli occhi sgranati e la bocca socchiusa. Le emozioni lei le urlava con tutto il viso, appuntate al cuore come una medaglia. Non c'erano enigmatiche sfumature nelle pagine scritte delle sue intenzioni.
«Non mi prende niente!» sibilò alzandosi di scatto  ̶   un pugno nella tempia.
 
«Ahia  ̶   mi hai fatto male! Ma che bisogno c'era di colpirmi?» si lamentò Ron massaggiandosi il bicipite pizzicato dalle unghie sorprendentementi forti di Daphne.
Lei si gettò i capelli sulle spalle recuperando il contegno nobile e delizioso che l'accompagnava in ogni gesto, una luce birichina negli occhi. «Perché hai detto una fesseria, Weasley, e io non le sopporto» spiegò superba  ̶   e ammiccante.
«Potevi spiegarmelo» insistette Ron mettendo il broncio. «Non te l'hanno insegnato che con la violenza non si ottiene nulla?»
«Mi hanno insegnato a colpire prima di rimanere ferita, e la tua ignoranza mi stava ferendo molto»
«Ignoran ̶   ma come posso avere nozioni sulla scultura babbana!?» chiese sconvolto lui, le labbra indecise tra il rimanere socchiuse o evidenziare il broncio.
«È per questo che sono qui: sopperire alle tue mancanze» e con aria di importanza, lisciando una piega invisibile sulla camicia, ricominciò a spiegare mostrando con un indice curato un'immagine sul libro.
«Sono i dettagli, il gioco fra pieni e vuoti e luci ed ombre. E guarda il suo viso, qui. Puoi vedere il terrore e il sollievo nei suoi occhi»*
«Ma perché scappa?» chiese Ron, deciso ad impegnarsi a comprendere la scultura che lei gli mostrava. Il sollievo, lui, non riusciva proprio a vederlo.
«Per proteggere la sua verginità, anche se per farlo prega di essere trasformata in un albero»
«Doveva essere un dio crudele se faceva scappare le donne» commentò Ron, cercando di sdrammatizzare. Gli occhi di lei, malinconici da quando aveva aperto il libro su quella pagina, erano stati oscurati da nuvole di tristezza.
«Non scherzare, Ronald» sbuffò dandogli un colpetto con la spalla, ma continuando a guardare la scultura. «Lei porta il mio nome» disse poi, dopo un attimo di silenzio durante il quale Ron aveva finto di soffrire per il colpo.
Il tono di quella frase attirò l'attenzione di Ron: sembrava sconsolata, ma assorta.
«Daphne: deriva da alloro, simbolo di rifiuto e inaccessibilità» recitò come se avesse letto quella frase milioni di volte, lo sguardo perso. «Sembra essere il mio destino, sempre sola»
«Non sei sola» mormorò Ron, non osando dire le stesse parole a voce più alta. Sentiva la gola secca, e uno strano peso simile a piombo fuso nello stomaco.
«No?» chiese lei voltandosi nella sua direzione, un sopracciglio inarcato e un sorriso sarcasticamente triste a piegarle le labbra. «Perché ci sei tu?»
Ron deglutì. «Certo che ci sono io, sono tuo amico»
«Amico...» sbuffò con disgusto  ̶   ma speranza. «Devo andare»
«Cosa? Ho fatto qualcosa di sbagliato? Daphne, aspetta!»
Ma lei se n'era già andata, la gonna stropicciata dalle ore passate seduti sulla pietra.
 
Ron non l'aveva più vista per tre giorni, aspettandola circondato da nuvole di bergamotto e speranze sfumate. Non riusciva a smettere di pensare ai suoi occhi, al suo tono amaro. L'aveva osservata distante, dall'altra parte dei corridoi.
Aveva iniziato a prestare attenzione alle voci, però.
Daphne, anche se come molti Slytherin fingeva il contrario, era stata toccata dalla guerra: il padre era caduto per mano di Voldemort, la madre era impazzita dal dolore.
Forse aveva ragione, forse era vero: il suo nome le aveva cucito il destino addosso, condannandola ad essere sola, ma ammirata come la pianta lodevole in cui la ninfa si era trasformata.
Un'altra contraddizione, ambivalenza, sfaccettatura. Daphne era una tela bianca capace di riempirsi di ogni colore contrastante e armonioso.
Eppure, non era sola. Aveva sua sorella, aveva lui.
 
Quando, una settimana dopo, la vide nuovamente accovacciata con un libro sulle ginocchia si pietrificò sull'uscio. Il cuore impazzito e la gola secca, accarezzò con lo sguardo il piccolo corpo baciato dal sole. La collana catturava i raggi riflettendoli in piccoli arcobaleni, e ancora una volta a Ron sovvenne alla mente che non aveva ancora scoperto se si trattasse di un cuore o un cerchio.
Lei alzò gli occhi quando lui si costrinse a muovere i piedi in un passo, uscendo all'ombra per esporsi al caldo sole.
«Weasley»
«Daphne» rispose, ostinandosi ad usare il suo nome.
Lei non parve smossa da quella scelta. Sbatté le palpebre sulla maschera di cera che era il suo viso e tornò a leggere, come se prima d'allora non avessero scambiato parole, frasi e discorsi capaci di riempire le ore.
Ron abbandonò la borsa in modo scomposto contro il muro e crollò a sedere al suo fianco, rimproverandosi per il sollievo che sentiva nascere nel petto alla sua vicinanza.
«Qual è l'argomento di oggi, pittrice?» ammiccò.
«Non è divertente» rispose lei, la bocca seria e gli occhi scintillanti.
Ron sorrise, perché non era d'accordo: era divertente vedere la passione nascere nei suoi occhi quando parlava dell'arte, vedere le sue mani muoversi sollecitate quando spiegava emozioni e concetti, vedere le labbra sospirare estatiche davanti un'opera capace di rubarle il cuore.
«Avanti, fammi vedere» e senza aspettare che lei rispondesse si sporse in avanti, il peso su una mano e il petto a sfiorarle una spalla. Inchiodò gli occhi alle pagine, ma dovette socchiuderli per non essere sopraffatto dal suo profumo d'estate, tanto intenso a quella vicinanza.
Lei sospirò, ma aveva stampato agli angoli della bocca quanto fosse compiaciuta del suo interesse  ̶   e reticente a condividerlo. «È il Suonatore di liuto, di Caravaggio»** spiegò. Poi rimase in silenzio, ad osservare.
Ron aspettò in silenzio, aveva imparato che in quei momenti lei raccoglieva le parole necessarie per spiegare le sensazioni che le davano quell'aria meravigliata e tanto vicina alle lacrime.
«Non solo è bella l'espressione del suonatore, i lineamenti languidi e rapiti. Ma guarda le mani: le linee morbide, i dettagli, le unghie curate...» E fu lì che il cervello di Ron si staccò.
Stava osservando le mani, certo, ma quelle di Daphne. Ed erano curate ed eleganti,  all'estremità macchiate  ̶   a volte di colori, a volte di nero. Erano mani di donna raffinata, di ragazza abituata ad accarezzare ogni cosa con morbida intensità, un tocco appena percepibile sotto la pelle.
Prima di pensare, si sporse a stringere le dita tra le sue. Erano fresche come la prima volta che le aveva sentite tra i capelli, sulla mascella. A contrasto con le sue mani  ̶   da uomo, larghe, da giocatore  ̶   erano fragili petali di fiore, da proteggere. Ron aveva la pelle pallida e macchiata dalle efelidi, Daphne era pregiato marmo bianco venato di striature tra l'azzurro e il verde più delicato che avesse mai visto.
Passò il pollice su una di quelle linee sottili, dal polso alle nocche, e sentì il sangue scorrere e il cuore pulsare sotto la superficie fragile della sua pelle trasparente. Accarezzò ogni dito prima di intrecciarli con i suoi, resistendo all'impulso si portarli alla bocca e baciare ogni unghia a forma di mandorla.
Alzò gli occhi, scontrandosi con le pozzanghere blu che erano le iridi di Daphne. Spalancate, in attesa.
«Vorrei vederne uno tuo, di disegno, un giorno» sussurrò per increspare quel silenzio denso che si era creato fra loro, aria satura d'intensità che poteva essere vista vibrare fra i centimetri che dividevano le loro labbra.
«Non ti piacerebbe» mormorò lei, facendo vagare lo sguardo sul suo viso per poi posarlo sulla sua bocca. Aveva distolto gli occhi intimidita, insicura  ̶   ma vogliosa.
«Mi piace tutto ciò che fai tu» fu la risposta gettata così in fretta da assomigliare alla pietra lanciata da una mano che corre a nascondersi dietro la schiena.
Ron si avvicinò, inebriato dal suo profumo e desideroso di averne di più. Daphne aveva la bocca lucida di trucco, tendente al rosso ciliegia verso l'esterno. Hermione!  ̶   Hermione non si truccava mai.
Ron chiuse gli occhi a quel pensiero e li riaprì più in basso, sulla sottile collanina che aveva invaso i suoi pensieri. A quella distanza poté vedere che non era un cerchio, come aveva inizialmente pensato, né un cuore, come gli era sembrato in seguito. Era una conchiglia, una conchiglia di diamante.
Inscalfibile, altera e con la forza dell'oceano, quella conchiglia era l'essenza stessa di Daphne: bellissima.
Ron affondò la mano tra le onde di oro liquido che erano i suoi capelli e la avvicinò a sé.
Le sue labbra sapevano di frutta matura e passione proibita, ma erano salate come se bagnate da una lacrima.
 
Che stesse sbagliando Ron lo sapeva, ma non riusciva a farne a meno.
Tradimento, questa la parola che squarciava la sua mente ogni volta che incontrava i suoi occhi, ma non riusciva a farne a meno.
E ogni volta che incrociava lo sguardo nocciola di Hermione  ̶   i suoi capelli disordinati e la divisa sgualcita - pensava a Daphne  ̶   alla sua bocca truccata e alle sue unghie curate. Si sentiva in colpa, ma non riusciva a farne a meno.
 
«Un tramonto fatto ad acquerelli. Non la mia tecnica preferita: va bene per i colori, però...»
La frase sfumò nel silenzio e Ron rimase a guardare Daphne intenta a rincorrere qualche pensiero più veloce della lingua. Succedeva spesso, quando parlava delle sue opere.
«In ogni caso ci sto ancora lavorando» concluse tornando ad appoggiarsi con la schiena contro la spalla del ragazzo.
«È molto bello» commentò.
«Tu sei di parte» sbuffò lei  ̶   disinteressata e lusingata. 
«Fai solo paesaggi?» chiese sinceramente incuriosito Ron dopo attimi di silenzio passato a giocare con una ciocca dei suoi capelli di miele fuggita al rigoroso controllo.
«No, voglio dipingere tutto. I dipinti dei maghi sono tristemente limitati» rispose lei, la mano che si muoveva annoiata  ̶   gli occhi persi a contemplare un futuro glorioso.
Intrecciò le mani e le posò sul grembo, ma c'era di più  ̶   parole che spingevano per uscire tra la fessura delle sue labbra.
«Abbiamo la convinzione che bisogna dipingere solo i morti per ricordarli, ma la pittura è molto di più. È arte, fantasia, respiro» prese fiato, lo sguardo riflesso nel cielo celeste che non poteva uguagliare la bellezza delle sue iridi. «E noi abbiamo la magia per rendere tutto questo di più, fare di ogni opera un piccolo mondo perfetto»
Ron la guardò rapito. Lo sapeva, quant'era bella, quando le si illuminava il viso in quel modo?
«Sono sicuro che riuscirai» sussurrò incantato. Non voleva disturbare con le sue parole rozze lo spettacolo che Daphne vedeva ballare appena al di là delle palpebre chiuse, ma il suo impeto Gryffindor gli aveva fatto aprire le labbra più in fretta del raziocinio necessario per chiuderle.
Lei si voltò a guardarlo, subito seria e con l'ambizione a scolpirle i lineamenti. «Lo so, è per questo che andrò a studiare all'estero»
Come sassi che cadevano, le sue parole, e Ron le sentì sedimentarsi nel vuoto improvviso della sua anima.
Perché giugno era appena fiorito, gli esami ad un passo di distanza e la fine dell'anno scolastico ad appena una notte di sonno. E lei se ne sarebbe andata.
All'estero. A studiare.
«Te ne vai» disse, tre parole che non sapevano se essere arrese o arrabbiate  ̶   forse, come lei, aveva imparato ad avere qualche sfumatura.
«Pensavo saresti rimasta» continuò, continuò a pugnalarsi il cuore pronunciando ad alta voce i sogni che il suo cuore non aveva osato bisbigliare, lacerando il muscolo cardiaco ad ogni frase.
«Andrò a Firenze, Ronald» disse alzandosi  ̶   gli occhi tranquilli e le mani tremanti. «L'Italia è la culla della pittura»
«Ma io pensavo ̶  Daphne...» ma lei stava raccogliendo i suoi libri, le pietre preziose che aveva al posto degli occhi fisse a terra.
«Che sarei rimasta? Neanche tu puoi credere alle tue utopie, Ronald» il tono sarcastico aveva l'intento di colpire, ma il tremolio delle labbra era un segnale, una supplica ad essere fermata.
Ron si alzò sulle gambe tremanti  ̶   gambe che durante la guerra l'avevano salvato correndo e ora parevano gelatina. E il suo nome, pronunciando da quella bocca, era balsamo su ferite aperte e sanguinanti.
«Ti ho fatto un disegno, come mi hai chiesto»
Ron allungò la mano verso il foglio teso con gesto automatico, ma la sua mente urlava di ignorarlo, gettarlo a lato, afferrare le sue spalle e accusarla perché gli stava dicendo addio, perché lo stava lasciando, perché l'aveva illuso.
Ma era stata lei a costruire quel castello di carta tra le onde, a sognare un'illusione tranquilla in quel balcone che era diventato il loro posto?
Forse aveva fatto tutto da solo, visto più di quello che c'era nelle movenze misteriose di Daphne. Forse nei suoi scherzi non c'era affetto, solo sadico divertimento con un Gryffindor tanto stupido da capitolare ai piedi di qualunque donna fosse stata così bella.
O forse aveva capito troppo tardi, come al solito, ciò che lei aveva capito già da tempo: per loro due, insieme, non ci sarebbe stato un futuro.
Chinò il viso sulla bianca pergamena come diversivo, per allungare il tempo con lei fin quasi allo spasimo. Aveva usato il carboncino  ̶   la sua tecnica preferita, lui lo sapeva, anche se macchiava le dita e si spandeva come una notte sottomessa. Erano due mani intrecciate, le loro, avvolte da una sottile corda d'oro da cui pendeva un ciondolo: una conchiglia.
E pur avendo usato solo lievi tratti neri, Daphne era riuscita a rendere quella conchiglia lo splendente diamante reale che portava al collo.
«Avrei preferito un tuo ritratto» fece uscire dalla gola secca con voce roca.
Era una frase scortese, lamentosa, ma se avesse pronunciando quel grazie che il cuore gli gridava come un ossesso temeva che si sarebbe bruciato gli organi come le lacrime bruciavano dietro gli occhi.
«Non sono brava con i ritratti, lo sai» la sua voce l'accarezzava, ma Ron sapeva che non era vero. La sua era una dolce e tiepida bugia che aveva lo scopo di nascondere una realtà che lui aveva già scoperto: dietro la maschera della vanità c'era insicurezza, c'erano dubbi e paure.
«Mi piacerebbe tutto ciò che fai tu, lo ̶ » ma scosse la testa, perché non era il momento delle lusinghe. «Lascerei tutto, se me lo chiedessi. Basta una tua parola, Daphne, e ti seguirei ovunque»
Ma era lei a scuotere il viso, adesso, i biondi capelli sparsi sulle spalle. «Non è ciò che vuoi, Ronald. Tu vuoi una famiglia, e io ̶ »
«Ma non lo sai, ciò che voglio!» urlò afferrando sotto le mani le sue spalle, quella camicia di seta tanto bianca da essere irreale.
Avrebbe voluto scuoterla, ma abbandonò la testa in avanti. Lei aveva chiuso gli occhi, portale della sua anima. Lei aveva chiuso gli occhi, ma lui era riuscito a leggerci il desiderio di lasciarsi andare, di essere amata.
Le voci dicevano che la drammatica storia famigliare dei Greengrass aveva reso Astoria desiderosa di una famiglia e Daphne decisa a rimanere sola, ma Ron sapeva che non era vero, e ne aveva la prova davanti in quel momento. Chiunque, vedendo Daphne combattere  ̶   corpo immobile e occhi in tempesta  ̶   avrebbe capito che la sua anima era un mare di sfumature troppo profondo da essere compreso con una sola occhiata e liquidato con una frase bisbigliata all’orecchio di un compagno.
Daphne tornò ad aprire gli occhi, e l'orgoglio che vi era dentro era pari solo alla tristezza.
Parlò con calma, misurata. «Hai una ragazza e ̶  »
«Al diavolo!»
E questa volta fu sicuro, Ron, che erano salate di lacrime, le sue labbra. Fu un bacio disperato, un cercarsi di bocche che chiedevano e supplicavano la stessa cosa. Mani aggrappate a camicie raggrinzite e perse fra capelli dalle pieghe perfette, curve schiacciate contro muscoli asciutti e gambe troppo deboli per reggere il peso di quell'amore da sole.
Lei si separò e scappò in fretta. Ron avrebbe voluto inseguirla, ma le ginocchia cedettero al primo passo.
E rimase lì, ginocchia e mani sulla pietra ormai fredda, sulla scia di un profumo che aveva il sapore del mare. Rimase lì, Ron, gli occhi chiusi e il corpo lacerato dal dolore, a fingere che i graffi che sentiva bruciare sulla pelle fossero causati da schegge di vetro infranto dalla forza di un diamante, e non i pezzi acuminati del suo cuore.
Rimase lì, ma una lacrima  ̶   traditrice come lui lo era stato con quei baci  ̶   cadde dalla sua guancia e andò a posarsi con dolorosa precisione al centro del suo disegno, facendo brillare di luce la raffigurazione della piccola conchiglia di diamante.
 
 
 
Ministero della Magia, 2007
 
 
 
Ron si spazzolò la cenere dal mantello mentre usciva di corsa dal camino. Era in ritardo, come sempre. Se il suo capo non fosse stato il sul migliore avrebbe già ricevuto diversi richiami, ma il suo capo era il suo migliore amico, perciò chiudeva un occhio.
Certo, non era colpa sua se la babysitter di Rose aveva il vizio di presentarsi sempre dieci minuti dopo l'orario dell'appuntamento, ma avrebbero dovuto fare qualcosa.
Intento a percorrere a grandi passi il corridoio verso il suo ufficio, impiegò un attimo ad accorgersi dei suoi colleghi fermi ad osservare, apparentemente, il nulla.
«Che succede?» chiese con la fronte corrugata sbirciando sopra le spalle di un ragazzo poco più avanti.
«Hanno appeso un nuovo quadro» spiegò una voce dietro di lui accompagnata da una pacca sulla spalla.
Ron si voltò verso Harry e alzò un sopracciglio, una muta e supponente domanda negli occhi.
«Ti ricordi la Greengrass? Pare sia tornata in Inghilterra da poco. È diventata una pittrice e il Ministero le ha offerto una sala per allestire una mostra, in cambio lei ha offerto questo» finì di spiegare indicando con un cenno del mento il quadro coperto dal capannello di uomini. «Elogio alla forza, l'ha chiamato. O al coraggio, non so, qualcosa del genere»
Poi cambiò discorso portandolo sui documenti che avrebbero dovuto analizzare quella mattina, ma Ron non lo stava ascoltando.
Ce l'aveva fatta, dunque, a realizzare il suo sogno. Erano passati otto anni, ma era tornata.
Una parte di lui era felice, ma l'altra, che ancora non era riuscita a ricomporre tutti i pezzi da quando se n'era andata, si chiese se sarebbe riuscito, per la seconda volta, a far finta che lei non esistesse.
 
Era spettacolare, ciò che era riuscita a creare.
Con il Ministero mezzo vuoto a causa dell'ora della cena sempre più vicina, Ron aveva il tempo necessario per osservare la sua opera e rievocare nella mente tutti i suoi tratti caratteristici, così suoi, così evidenti nonostante le dicotomie che lei aveva scelto: era una scena di battaglia, e gli incantesimi venivano lanciati e si infrangevano in piccole pozze di luce che sbiadivano lentamente. Se si concentrava, poteva sentirne il profumo, le grida.
Sarebbe arrivato a casa tardi e avrebbe detto che si era trattenuto per lavoro. Non era la prima volta che succedeva  ̶   non era la prima bugia che nascondeva al suo matrimonio.
«Speravo di trovarti qui»
La voce cristallina lo vece voltare, e per un secondo pensò quasi che l'avrebbe rivista con la gonna a pieghe e quella camicia troppo bianca da risultare opalescente.
E i suoi occhi  ̶   un pugno nello stomaco. Il cuore era fermo, ma il sangue scorreva impazzito nelle vene.
Deglutì.
Cosa dirle, che era ancora più bella?
Banale, ma dolorosamente vero. Un vestito nero le fasciava il corpo ormai maturo, e la pelle spendeva abbronzata anche sotto le luci fioche del corridoio. Era evidente che il clima italiano, mediterraneo, le aveva giovato più del costante grigiore inglese.
Dirle allora che anche lui aveva sperato di vederla?
Vero, ma ridicolmente banale. Era passato il tempo in cui il ragazzo ingenuo con le mani troppo piene d'amore si dichiarava sperando che i suoi sentimenti non venissero calpestati.
Scelse il silenzio, allora, perché con lei qualsiasi parola non era abbastanza. Lei, contraddizione vivente e onirico desiderio.
«Sei felice, Daphne?» e sembrava un'accusa, anche se quel nome per tanto tempo solo immaginato bagnò le sue labbra con un velo di zucchero.
«Sono realizzata, grazie» ma i suoi occhi raccontavano una storia diversa. Raccontavano tormenti e delusioni, battaglie perse e lievi soddisfazioni che non potevano essere coperte dal tono cordiale della sua voce. «E tu, Ronald?»
Mai l'aveva chiamato abbreviando il suo nome, e sentirlo adesso lo faceva sorridere. Stanco, arreso, agognante.
«Sono diventato padre» una scusa, questa.
Ma si scusava per cosa, poi?
Lei non gli aveva chiesto di aspettarla, e lui l'aveva assecondata; lei se n'era andata, e lui era tornato sui suoi passi; lei gli aveva insegnato a vedere oltre l'unico colore di un diamante, e lui l'aveva maledetta per questo.
«Sono felice per te» aveva inclinato la testa  ̶   i capelli una morbida cascata di fili d'oro sulla spalla. Aveva sorriso educatamente, ma felicità e tristezza ballavano sulla sua bocca.
«Ho una foto, se vuoi vederla» rompendo l'immobilità a cui si era sentito costretto iniziò a frugarsi nelle tasche. «Si chiama Rose»
Daphne si avvicinò tanto da sfiorarlo, gli occhi fissi sulla piccola foto all'interno del portafoglio di pelle di drago. «Ti somiglia» mormorò.
Ron annuì, gli occhi chiusi. Quel profumo  ̶   mare calmo che diventa onde a seconda della luce, sale che brucia le ferite e sole che scalda la pelle.
«È un bel nome, Rose. Amore e passione»
Se l'era dimenticata, la sua passione per le definizioni.
«È adorabile, infatti» sorrise guardando la foto della figlioletta, intenta a muovere i primi passi dietro un ciuccio più grande di lei. «Ma testarda»
Perché come tutte le donne della sua vita  ̶   come Hermione, come Daphne  ̶   Rose era più di una definizione: era un dizionario intero, era una piccola pietra preziosa dalle mille sfumature da proteggere da sguardi e mani troppo indiscreti.
Ripose il portafoglio lentamente mentre incontrava i suoi occhi, poco più in basso.
I suoi occhi, ecco cosa non si era dimenticato. Tornavano a tormentarlo nei sogni, quelle iridi  ̶   laghi di perdizione proibita, condanna e salvezza.
«Ti avrei aspettata, Daphne» ammise a cuore aperto, parole dette dopo tempo che non era riuscito ad alleggerire il peso di quel dolore.
«Era più di quanto potessi chiederti» perché l'aveva capito, lei, che il loro amore cresciuto tra una tela e una scultura non sarebbe sopravvissuto ad anni di lontananza.
Ron chinò lo sguardo. La portava ancora, la piccola conchiglia di diamante.
Non le aveva mai chiesto che significato avesse per lei  ̶   troppo stupido, troppo perso ad ammirarla, troppo intento a godersi ogni attimo passato in sua compagnia. Poteva toccarla, una sola volta, ora, dopo anni?
Ma lei non gli diede il tempo. Fece un passo indietro, poi un altro, finché non diventarono tre, dieci, un corridoio, mesi, anni, parole e sentimenti non detti di distanza.
Si allontanò piano, lasciando fra loro una scia di profumo di mare, d'estate, di giovinezza e di speranza.
 
 
 
Cosa ti è rimasto di lei, Ron?
Niente: un quadro appeso ad un corridoio che guarderai ogni giorno, e ogni giorno ti ricorderà ciò che avresti potuto avere e  che hai perso come acqua tra le dita.
Cosa ti è rimasto, allora, di lei, Ron?
Nulla: il rimpianto. Il rimpianto di non aver baciato nemmeno una volta quel triangolino di pelle nascosto da una piccola conchiglia di diamante.

 
 
 
 
 
 
 
* Stanno parlando della scultura Apollo e Dafne, di Gian Lorenzo Bernini.
 
** So che ci sono due versioni di quest’opera, una esposta a San Pietroburgo e l’altra a New York. Per me si stanno riferendo alla seconda versione (quella del 1597 conservata al Metropolitan Museum), ma soltanto perché mi piace di più. Se voi preferite l’altra siete liberissimi di credere stiano parlando di quella.

 
   
 
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