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Autore: CyanideLovers    06/06/2020    5 recensioni
 Poteva essere solo un sogno.
Poteva essere — forse — la sua immaginazione.
Sembrava stupido ripensarci da sveglio, non aveva mai creduto a quel genere di cose.
Erano solo sogni, dopotutto.
Eppure…
eppure.
Eppure quei sogni gli facevano provare strane sensazioni che non aveva mai provato prima. Come se si fosse risvegliato qualcosa dentro di lui, indomabile e feroce, che ormai riusciva a malapena a contenere. 
〄 
Ogni notte Crowley sogna sempre lo stesso uomo. Sembra familiare, come se si fossero già conosciuti, come se si fosse già innamorato di lui. Il punto è che lui non lo conosce e questo non è altro che un sogno… giusto?
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Anatema Device, Aziraphale/Azraphel, Crowley, Newton Pulsifer
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Oneirataxia'
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Eppure resta che 
Qualcosa è accaduto, 
Forse un niente che è tutto. 
— Eugenio Montale, Quel che resta del giorno 

 
 

 
 

 
 

 

 

 

 
 

 
 

Poteva essere solo un sogno. 
Poteva essere — forse — la sua immaginazione.  
Sembrava stupido ripensarci da sveglio, non aveva mai creduto a quel genere di cose.  
Erano solo sogni, dopotutto. 

Un bambino dovrebbe fantasticare su quel genere di cose: angeli e demoni, enormi serpenti e spade fiammeggianti. Giardini incantati e mele proibite.
Non un adulto.  
No. 
Un adulto è costretto a vivere in un mondo grigio e sterile, noioso, vedere sempre le stesse facce, giorno dopo giorno.  
No, pensò Crowley. Gli adulti non hanno la meravigliosa immaginazione di un bambino.  

Eppure… 
eppure. 
Eppure quei sogni gli facevano provare strane sensazioni che non aveva mai provato prima. Come se si fosse risvegliato qualcosa dentro di lui, indomabile e feroce, che ormai riusciva a malapena a contenere. 
Rise di se stesso. 
Poi corrugò la fronte, preoccupato. 

 

 

Era sdraiato sul letto. Le braccia riposavano sullo stomaco mentre lui osservava, pigramente, come la luce dell’orologio elettronico illuminava a intermittenza la sua piccola stanza da letto. Succedeva spesso. Mezzanotte. La luna non splendeva come faceva di solito attraverso la finestra sul lato della stanza. Un temporale si stava avvicinando e pesanti nubi oscuravano il cielo. 

Un peccato, se qualcuno glielo avesse chiesto. Crowley aveva sempre amato studiare le stelle quando si sentiva particolarmente malinconico. Si limitò a guardare annoiato la nebbia alzarsi, la luce della sveglia, le ombre addensarsi agli angoli del soffitto. 

Non aveva voglia di dormire. Nonostante la giornata fosse stata particolarmente estenuante, non ci riusciva. Forse, forse, aveva più che altro paura di dormire. Non lo avrebbe mai ammesso neanche a se stesso ma sapeva che era così. Era spaventato all’idea di camminare di nuovo fra i suoi sogni, nell’intricato scenario che il suo subconscio si divertiva a ideare. Delle piccole e brevi conversazioni. I luoghi che sembravano essere così familiari anche se sconosciuti. 
Vedere lui, di nuovo. 

 

 

Non ricordava quando tutto era iniziato. Non sapeva quando quel complicato mondo aveva iniziato a vorticargli in testa; tutti quei piccoli dettagli che sembravano diventare così veri da farlo stare male. L’unica cosa che sapeva era che quei sogni non avevano fatto altro che far aumentare le domande nella sua testa.  

E se c’era una cosa in cui era bravo Crowley, era quello di porre troppe domande a cui non avrebbe mai trovato risposta.

Perché si sentiva spaventato? Perché questi sogni sembravano così reali? Perché il suo cuore batteva ogni volta come se dovesse uscirgli fuori dal petto e il suo sterno faceva male al pensiero? 
Non lo sapeva. Non voleva saperlo. 

Erano passati solo pochi minuti da mezzanotte. Crowley si alzò, si sedette sul bordo del letto e portandosi le mani sugli occhi. Era di nuovo andato a dormire con gli occhiali da sole e il segno delle lenti contro gli zigomi affilati facevano leggermente male. 
Li tirò sulla testa, rimanendo sul bordo del letto guardando di fronte a sé con lo sguardo perso nella penombra della stanza.  
“Che palle.” Sussurrò al nulla. 
Poi sospirò. 

 
Non c’era molto da fare a quell’ora. L’idea di uscire sembrava assurda la maggior parte delle volte; lo sforzo fisico di rimettersi in sesto dopo aver dormito solo per un paio d’ore sembrava insormontabile. Non aveva una televisione nel suo appartamento ma c’erano molti libri che lui li aveva sempre ignorato. Non era mai stato un gran lettore.  

 

La cosa più fastidiosa era la noia. Niente da fare, nessuno con cui parlare. Quindi il più delle volte finiva col bere un bicchiere di vino seduto sul divano del soggiorno o, in alternativa, si sdraiava nuovamente nel letto fingendo di dormire.

 

 

Ripensò di nuovo ai suoi amici e alla loro conversazione della sera prima. Quel giorno aveva trovato il coraggio di raccontargli uno dei suoi sogni. Che cos’è che avevano detto? 
“Magari è destino.” Aveva detto Anathema. Non era tanto il tono che aveva usato, neanche le parole in sé — idiozie secondo lui — era stato lo sguardo che aveva scambiato con Newt.  
Quella veloce occhiata preoccupata di lei. Newt e i suoi occhi sgranati e quel suo borbottio sommesso che sembrava dire: Un sogno? Questo è normale? 

(Di solito ignorava quel genere di sguardi girando la testa e fingendosi distratto. Appoggiava un braccio contro lo schienale della sedia vuota alla sua destra, fissava il vuoto e ignorava le loro espressioni tristi).

 

Oh, a volte li odiava.

Non erano male, però ogni tanto non riusciva a non provare un senso di malessere quando li vedeva. Anathema e Newt erano il tipo di amici che hai da così tanto tempo che non ricordi più come li hai conosciuti. Qualcosa a che fare con un gran casino avvenuto chissà quanti anni prima, si erano incontrati per caso cercando di risolverlo e alla fine erano ritrovati a rivedersi ogni mercoledì sera in un pub a Soho per discutere del più e del meno.  

La cosa strana era che i due erano sempre lì per lui, pronti a ascoltarlo. Era piacevole avere qualcuno con cui parlare, solo che a volte non sopportava i loro sguardi — come se si aspettassero qualcosa da lui, come se dovesse esplodere da un momento all’altro, neanche fosse una bomba che ticchettava furiosa — e lui sentiva sempre la necessità di andarsene via, scappare il più lontano possibile da loro.  
Solo per un po’. Finiva sempre per tornare alla fine. 

 

Era strano, non sentiva di avere altri legami. Non gli importava particolarmente della sua famiglia; facce e nomi sbiaditi nella sua memoria, solo una nota mentale che gli ricordava di Starne alla larga il più a lungo possibile marchiato a fuoco dentro il suo petto. Poteva sembrare una vita noiosa e solitaria ma lui non sapeva dire se gli piacesse o meno. Il tempo sembrava passare troppo velocemente in ogni caso. I giorni tutti uguali si fondevano insieme e lui avrebbe giurato che giusto ieri fosse stato un mercoledì e di certo non poteva essere già passata un’altra settimana.  

Un sospiro di sollievo sfuggì dalle sue labbra quando si rese conto che, in fin dei conti, non rivelare ogni dettaglio dei suoi sogni ai due era stata la scelta migliore. Non avrebbe mai potuto essere destino. Eppure, stranamente, anche se non lo avrebbe mai ammesso, adesso che ripensava alle parole di Anathema, sperò che lo fosse. 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

Ogni sogno iniziava quasi sempre allo stesso modo. 
Crowley camminava tranquillamente per il parco di St. James. Il giardino era deserto se non per qualche bambino che giocava sul prato o che dava da mangiare alle anatre nel laghetto. C’erano delle coppie che passeggiavano tenendosi per mano. Lui se ne andava senza una meta precisa con le mani in tasca, sentendosi un po’ distante da tutto il resto.  
 
C’era un uomo solitario seduto su una panchina che non faceva niente, se ne stava semplicemente lì a guardare il cielo e a studiare le nubi che si addensavano a oriente. 
Senza pensarci, avanzò verso di lui.  
Più si avvicinava, più dettagli poteva cogliere.  

Il viso rotondo, delicato. Capelli così chiari da sembrare bianchi come la neve e riccioli disordinati gli incorniciavano il volto. Abiti di un dolce color crema, occhi dello stesso colore del cielo mattutino. Strane domande iniziarono a accavallarsi nella sua mente: chi si veste in quel modo al giorno d’oggi? Gli occhi… sono azzurri oppure verdi? Cosa starà pensando? L’uomo sembrava in pace, magari anche bello sotto la luce tenue del sole. Gli angoli della bocca erano ricurvi verso l’alto come se sorridesse, felice di starsene lì a osservare il paesaggio.  
C’era una macchia rossa ai suoi piedi, una qualità di fiori di campo comuni, eppure in quel momento non riuscì a identificarli. Strano, pensò, era sempre stato bravo con le piante. 

La presenza di Crowley fu subito notata. Con un piccolo “Oh” l’uomo allargò il suo sorriso e Crowley si ritrovò a pensare, con un po’ di imbarazzo, che l’uomo avesse il viso più bello che avesse mai visto. Si spostò per fargli posto e Crowley si sedette accanto a lui con un “Grazie” detto a bassa voce.  

In silenzio, lui seguì il suo sguardo. Entrambi stavano guardando il cielo. C’erano nubi grigie a est ma il vento che si muoveva fra i suoi capelli era piacevole. Il silenzio poteva sembrare imbarazzante ma non lo era. Crowley si sentiva in pace, il che era stano per lui. Era sempre stato un tipo leggermente nevrotico, raramente riusciva a stare fermo, eppure l’uomo emanava un profondo senso di tranquillità.  

“Hey, stai aspettando qualcuno o qualcosa?” Domandò Crowley. 
L’uomo si limitò a scrollare le spalle. “Non proprio, mi piace questo posto.” 
Crowley si limitò a guardarlo meglio, sempre più incuriosito. Sembrava bizzarro ma non si sentiva in grado di giudicare. Forse l’uomo era semplicemente un solitario, proprio come lui. 

“Nient’altro da fare?” 
 
“No davvero. Semplicemente mi piace stare qui a osservare il cielo.” Crowley annuì senza aggiungere un’altra parola. “Tu invece?” 
“Io cosa?” Domandò Crowley. 
“Non aspetti qualcuno?” 
“No.” 
“Sicuro?” 

Crowley gli rivolse uno sguardo sorpreso. Da quando quel sogno era iniziato non aveva fatto altro che provare la sensazione di dover cercare qualcosa. Sembrava importante, eppure se ne era dimenticato non appena aveva visto l’uomo. C’era qualcosa di peculiare in lui, quasi familiare, come se lo avesse già conosciuto.  

“Vieni qui spesso?” 
“Ogni tanto.” 
 
Ci fu un altro momento di silenzio, in cui nessuno disse niente. Sembrava giusto, in un certo senso. Naturale forse, come se Crowley fosse stato creato solo per vivere accanto a questo estraneo che aveva conosciuto da neanche dieci minuti.  
Corrugò la fronte a quel pensiero. 
 
“Tu non avevi… un libro?” 
“Un libro?” 
“Si, un... libro.” Disse Crowley senza sapere dove volesse andare a parare. La mente lo aveva portato da qualche parte, l’immagine dell’uomo mentre leggeva era vivida nella sua mente. Poteva… immaginarlo, si disse.  
 
“Io ho molti libri, mio caro.” 
“Di che tipo?” 
“Di tutti i tipi.” 
“Mh.” Disse eloquentemente.  
No, si disse, forse la domanda che voleva fare era un’altra. L’uomo aveva posseduto qualcosa di speciale, prezioso, ne era certo. Qualcosa che aveva dato via molto tempo fa. 
“Scusa, so che questo può sembrarti strano,” disse Crowley, “ma ci siamo già conosciuti?” 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

Il sogno era finito con l’uomo che si era alzato dalla panchina con un movimento elegante. “Devo andare via,” aveva detto ma gli aveva promesso che si sarebbero di certo rivisti se lui fosse passato di lì. Lo aveva guardato allontanarsi ma poi la sua attenzione era stata catturata dai fiori che crescevano accanto alla panchina e, l’istante dopo, lui era sparito.  

 

 

Si era svegliato nervoso e confuso, chiedendosi come fosse possibile sognare qualcuno senza averlo mai visto prima, ma che gli aveva scaldato il cuore in modo così inaspettato. Non ricordava la risposta alla sua domanda. Il pensiero lo confondeva, era difficile da esprimere a parole, come se fosse… il termine giusto bruciava sulla punta della sua lingua senza riuscire a pronunciarlo. 
Affondò la testa nel suo maglione, assaporando l’odore di gelsomino. 

Buffo, pensò. Non aveva mai avuto vestiti che profumassero di gelsomino. Così buono, così… nostalgico? 
Non era certo del perché avesse pensato così all’improvviso a una cosa del genere quindi, come era solito fare, ignorò la questione. Il colletto del maglione scivolò giù dal suo naso ma l’odore continuò a permanere nella stanza.  

 

 

Guardò l’orologio. Mezzanotte e undici. Ancora non stava piovendo e lui era sveglio. Le palpebre erano pesanti ma i suoi occhi non volevano saperne di chiudersi. Era nervoso e all’erta, non riusciva a rilassarsi. 

“Idiota.” Disse a sé stesso. 

Dopo qualche minuto spesi nel vano tentativo di riprendere sonno si arrese e si alzò dal letto, prendendo una bottiglia di vino rosso e sedendosi sul divano. Avvicinò le ginocchia al petto, appoggiando la testa contro di esse. L’odore di gelsomino, che il suo maglione di almeno tre taglie più grande emanava, tornò a tormentarlo. 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

Iniziavano sempre allo stesso modo quei sogni ma poi cambiavano il loro percorso. Ogni tanto lui camminava fino alla solita panchina, altre volte l’uomo lo aspettava vicino al laghetto per dare da mangiare alle anatre. C’erano delle volte in cui lui leggeva un libro a voce abbastanza alta da permettergli di ascoltare parole e frasi che sembravano venire da un’altra dimensione. Crowley si avvicinava un po’ di più a lui, inspirando profondamente quel profumo contemporaneamente diverso e familiare.  

Ti conosco, pensava chiudendo gli occhi e ascoltando l’uomo parlare. Gelsomino, tè, vecchie pagine che venivano sfogliate così spesso da essere consumate, ma che erano trattate con cura e devozione. Legno, cioccolata calda e cotone pulito. Inspirava profondamente, gustava l’aria e l’uomo aveva il viso dolce come quello di un — 

“Angelo?” Lo chiamò delicatamente Crowley, gustando la risata sommessa dell’altro, ricca di una nota dolce e affettuosa. 
“Dimmi, mio caro?” 
“Cosa stai leggendo?” 
“Paradiso Perduto, di John Milton.” 

Crowley ascoltava la storia degli angeli caduti dal paradiso. Lucifero, non un mostro spaventoso ma un affascinante oratore, sembrava essere un terribile seduttore. Crowley pensò che poteva capire perché in così tanti lo avessero seguito. Lo avrei fatto anche io al posto loro, si ritrovò a pensare. 

“Sembra stia per piovere.” Disse improvvisamente l’angelo — ormai nella sua mente era così che aveva iniziato a chiamare — e sembrò infastidito dalle nuvole, come se lo avessero personalmente offeso, probabilmente perché gli avevano rovinato il pomeriggio. Crowley guardò davanti a sé, grossi nuvoloni neri si stavano addensando di nuovo a oriente.
“Già.” Commentò lui. 

Il vento aveva iniziato a soffiare un po’ più forte, portando l’odore della pioggia, l’aria statica, fredda. Quando il cielo divenne scuro come se fosse notte l’uomo accanto a lui sospirò, chiuse il libro e lo guardò negli occhi.  
“Devo andare.” 

“Oh, di già?” 
“Sta per piovere, mio caro.” 

Crowley sussultò. Di nuovo quel ‘mio caro’. Poteva vedere come rotolava con naturalezza dalle labbra dell’uomo. Mio caro, come se fosse la persona più importante del mondo. Si sentì arrossire e invadere dal senso di familiarità. 

“Dovresti tornare anche tu a casa. Non vorrei che prendessi freddo.” 

Crowley non rispose, annuì leggermente. Forse… aveva intuito quanto detestasse la pioggia? Non l’aveva mai sopportata, ogni volta che pioveva, sognava di grandi alluvioni e persone che gridavano. C’era qualcosa di intrinsecamente pericoloso nell’acqua, come se potesse ferirlo. 

“Ci rivedremo, ne sono certo.” 
“Dici?” Crowley sperò di non sembrare troppo disperato.  
“Potremmo prendere un tè insieme, magari. Offro io.” Il sorriso dell’uomo era così genuino che Crowley si ritrovò a annuire senza pensare. L’uomo si era alzato, salutandolo con un altro dei suoi sorrisi, ma prima che potesse ricambiare, era già andato via. 

Prima di svegliarsi aveva passato gli ultimi momenti seduto sulla panchina, cercando di identificare quei fiori che spuntavano dove sedeva di solito l’uomo. Erano aumentati dall’ultima volta che li aveva visti. Erano color sangue con lo stelo lungo, i petali si muovevano a ogni minimo sbuffo di vento tanto erano delicati. Il loro movimento lo ipnotizzavano, continuò a guardarli finché non si svegliò. 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
I sogni sono veramente strani, pensò. Di solito le persone sognano cose assurde, come i cavalieri della tavola rotonda, per esempio. Spie segrete che combattono contro i Nazisti, grandi complotti. Qualcosa del genere, non ne era certo. Piccole gocce di pioggia iniziarono a colpire il vetro della sua finestra cogliendolo di sorpresa. Il suo viso si corrugò senza che se ne accorgesse. 

 

La sua camera da letto era buia. Mezzanotte e venti. Le ombre si allungavano, tutto era grigio, nero, blu. Neanche una luce a illuminare gli scaffali carichi di vecchi libri. Crowley ne prese uno in mano. Li aveva sempre ignorati e forse si sarebbe dovuto stupire del fatto che Paradiso Perduto fosse uno dei primi a catturare la sua attenzione ma, allo stesso tempo, sembrava logico che fosse così. Quando si svegliava era più facile ricordare che quelli non erano altro che sogni, intrighi creati dalla sua mente, non c’era niente di reale. Forse aveva visto il libro prima di andare a dormire, ragionò, magari aveva letto quella frase sfogliandolo distrattamente a un certo punto.  

 

 

Questo doveva essere il motivo per cui poteva immaginare chiaramente un luogo oscuro illuminato solo dalla fiocca luce di una brace gigantesca, esseri che si muovevano cercando di risalire una pozza infernale, ali che bruciavano e gente che gridava. Aprì una pagina a caso, e lesse: “Milioni di creature spirituali si muovono, non viste, sulla terra, quando siamo svegli come quando dormiamo.” 

Richiuse il libro vagamente disturbato. Era stanco e si portò una mano al volto, sperando di potersi schiarire le idee. Era andato a dormire di nuovo con gli occhiali da sole, anche se quel giorno era stato talmente tanto nuvoloso che di certo non gli erano serviti a granché. Eppure si ostinava a indossarli, come se altrimenti fosse troppo esposto al mondo. 

 

(Un giorno li aveva tolti al pub, con Anathema e Newt. Entrambi lo avevano guardato sconvolti, come se i suoi occhi avessero qualcosa di innaturale. Avrebbe voluto guardarsi allo specchio ma lei gli aveva preso una mano, glieli aveva rimessi sul viso con gentilezza.  “Non è da te toglierteli.” Aveva detto. “È più nel tuo stile tenerli.” E lui l’aveva guardata ridacchiare nervosamente. Da quel giorno non aveva mai più fatto lo stesso errore). 

 
 

 
 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non erano sempre uguali, i sogni.  
Camminava, immerso nel verde ma, ogni tanto, lui era diverso. A volte era una persona normale, altre vote un demone. Ogni tanto, un serpente.   
C’erano delle volte in cui non era nessuna delle tre cose, qualcosa del tutto diverso, e poteva immaginarsi mentre plasmava e modellava corpi celesti e poi li appoggiava in cielo come se non fosse altro che una tela nera su cui lui poteva fare tutto ciò che desiderasse. 

Altre volte camminava in mezzo a un giardino di una bellezza straordinaria, piante verdi e vibranti, fiori dai colori impossibili, acqua cristallina. Sentiva ridere in lontananza, e su un imponente muro di pietra poteva giurare di aver visto una figura vestita di bianco, la schiena dritta e una spada avvolta tra le fiamme.  

 

Quando si risvegliava era sempre notte fonda. Mezzanotte e la stanza non gli era mai sembrata così vuota. Nel piccolo appartamento c’erano delle piante che curava, verdi ma non come quelle del suo sogno. Belle, ma non abbastanza da poter essere messe a confronto. Beveva del vino, tornava a dormire e i sogni proseguivano. 
Quasi sempre l’uomo era accanto a lui e insieme si divertivano a parlare di filosofia, teologia, fisica e astronomia.  

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

Camminava, di nuovo, lungo lo stesso sentiero ma questa volta non c’era nessuno seduto sulla panchina.  
“È in ritardo?” Si chiese sedendosi al solito posto. Stare lì senza l’altro alla sua destra era strano. Il cielo era nero. Non c’era stato ancora un solo giorno di sole. Non che fosse una novità, era pur sempre a Londra.  
Piccole gocce di pioggia avevano iniziato a bagnargli il viso ma lui non se ne curò, troppo distratto mentre si chiedeva se non si fosse semplicemente illuso o se lui sarebbe mai arrivato. La cosa che lo disturbava di più era quel senso di solitudine. Come poteva mancargli qualcuno che non conosceva, con cui aveva solo scambiato qualche breve conversazione? 

Un’ombra calò su di lui facendolo sussultare, notando solo ora che la pioggia non lo stava più colpendo.  
“Ah, grazie.” 
“Io ti riparo sempre dalla pioggia.” Disse l’uomo con un sorriso delicato.  
“Come?” 

L’uomo ridacchiò. “Ho detto,” disse con un’espressione tranquilla, “cosa ci fai qui sotto la pioggia, mio caro?” 
“Ah… Io, ngk, stavo aspettando…” 
“Ti andrebbe una bella tazza di tè caldo? In quel piccolo caffè hanno anche dei biscottini che sono assolutamente deliziosi.”  

Lui aspettò pazientemente che si alzasse e entrambi entrarono nel caffè dall’altra parte della strada. Per tutto il tempo l’uomo aveva parlato del più e del meno, per lo più di libri che aveva letto, di quelli che avrebbe voluto leggere, posti da visitare, graziosi ristoranti, andare al teatro, assistere a qualche rappresentazione di Shakespeare. 

“Hai mai letto Amleto?” Chiese lui, stringendo tra le mani la sua tazza di tè. “No, tu sembri più il tipo… scommetto che ti piacciono solo le commedie.” 
Più Crowley lo ascoltava, più non riusciva a scrollarsi di dosso quel senso di familiarità, come se lo conoscesse da una vita. “Come fai a saperlo?” 
L’uomo scrollò le spalle. “È solo una sensazione.” 

(Ti conosco, ti conosco, sei tu, ma non so perché non riesco a ricordare il tuo nome). 

 

 

La lampada del locale era proprio alle sue spalle e lo illuminava come se intorno a lui ci fosse una luce divina.  
“Questo è strano.” Disse sorseggiando la sua tazza di caffè fumante.  
“Cosa?” 
“Tutto, credo. Perché sprechi il tuo tempo con me?” 
“Magari mi piace chiacchierare con te.” 
“Ma perché?” Domandò “Standard troppo bassi?” 
 


“Mi sei mancato, sai?” 

Tuoni e fulmini rimbombavano fuori dalla finestra. Il vento iniziò a soffiare più forte. “Quando credi che smetterà di piovere?” Domandò l’uomo davanti a lui, prima che Crowley potesse dire qualcosa. 
“Potrebbero volerci ore.” 
“O minuti.” Disse l’uomo con un sorriso triste. “Il che mi ricorda che devo andare.” 
“Cosa, di già?” 
“Oh, ti piace la mia compagnia?” 

“No, voglio dire… forse.” Si sentì nervoso, senza una ragione. In tutta la sua vita non ricordava di essersi mai sentito così. Come se non desiderasse altro che passare ancora una manciata di minuti a parlare con lui. Come se fosse l’altra metà di una moneta. Finse di trovare la torta dell’angelo che stava mangiando particolarmente interessante.  
“Potremmo rivederci.” Disse Crowley senza alzare gli occhi dal suo piatto. “Potrei… ho la macchina qui vicino. Ti do un passaggio a casa, ovunque tu voglia andare.”  
Ma lui disse l’esatta cosa che non avrebbe voluto sentirsi dire. Come se sapesse già quali parole avrebbe scelto. Come se non ci fosse altra risposta che potesse dargli.  

“Tu vai troppo veloce per me, Crowley.” 

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 
 

 
 

 
 

Quella volta, si era svegliato con le guance bagnate. Aveva pianto per ore senza neanche sapere il perché. Si sentiva esausto, distrutto, disperato. Con un gesto arrabbiato si tolse gli occhiali dal viso guardandoli fracassarsi contro il muro più vicino. Stupido, era uno stupido. Odiava quando succedeva, quando si addormentava con gli occhiali, come se non li togliesse mai.  

Non che fosse importante al momento, ma pensare a quello era meglio che soffermarsi su quanto fosse stato umiliante essere rifiutato dal suo stesso sogno. Ma poteva davvero biasimarlo? Si erano a malapena conosciuti.

Cosa gli era venuto in mente, quello era solo un sogno.  

 

Si strofinò gli occhi e controllò l’ora. Mezzanotte e ventisette. Non voleva dormire, non lo avrebbe fatto. Era troppo nervoso all’idea, troppo agitato per starsene nel letto fermo e immobile. Iniziò a girovagare per casa. C’era una vecchia copia di Amleto dimenticata sul tavolino da caffè vicino alla poltrona. Un paio di occhiali da vista dallo stile vintage erano appoggiati sul libro. Per un momento Crowley immaginò quell’uomo, un sorriso soddisfatto mentre li indossava per poi bearsi sfogliando il libro, cullando un calice di vino rosso.  

Lesse due o tre pagine, immaginando la voce dell’uomo scandire le parole e prima che potesse rendersene conto, poteva recitare ogni parola, ogni frase, come se lo avesse già fatto prima. Aveva ragione, non gli piacevano le tragedie, così decise di chiudere il libro, deluso. Seduto sul divano, guardava il camino dove non c’era fuoco e la stanza era buia, fredda e tetra.  

Il suo corpo era dolorante, lo implorava di tornare a letto fra i cuscini, di rilassarsi. Con un gesto infastidito chiuse il libro e lo appoggiò accanto ad un vaso ricolmo di papaveri rossi sul tavolino da caffè. Ma chi era questo tipo, comunque? Perché sembrava così importante scoprirlo? 
Finse che non gli importasse. 
Nonostante la stanchezza, non dormì per molto tempo.  

 
 

 
 

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 
 

 
 

Note: 

Ma cosa volete che vi dica? Ho scritto questa storia durante la quarantena perché la mia insonnia ha preso il sopravvento su di me e sono cinque giorni che dormo al massimo due ore quindi adesso vi beccate un’altra bella dose di angst.
L’unica cosa che posso promettervi sono i soliti plot twist, tanto cosa vi stupite a fare, so scrivere solo questo *piange in un angolo*

PS:
Questa storia fa parte della serie: Oneirataxia.
"Tre storie non collegate fra loro che hanno come unico tema l'oneirataxia, ovvero l'incapacità di distinguere la realtà dal sogno. Questa serie si concentra sul mondo delle illusioni, l'immaginazione, incubi e, ovviamente, sogni."

Per questo motivo, nel caso aveste letto la storia precedente "La morta innamorata" potreste notare alcune somiglianze, ma vi assicuro che le storie che fanno parte della serie non hanno niente a che fare tra di loro.

Siate buoni e regalatemi qualche recensione, io intanto aspetterò con ansia bevendo vergognose quantità di camomilla e valeriana

 

   
 
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