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Autore: Digihuman    07/06/2020    5 recensioni
[IN CORSO]
Mi chiamo Brent Smith, ho trent'anni e voglio raccontarvi la mia storia. […]
A dirla tutta il mio certificato di nascita indica Tokyo come mia città natale, ma la città in cui ho vissuto per la maggior parte della mia infanzia e adolescenza è Exeter. […] E niente, la maggior parte dei miei ricordi sono proprio legati a questa città. Ricordi, che tra le tante cose, mi riportano a lei, alla mia dolce Yoshiko. […]
Spesso mi ritrovo a pensare a quando, temporaneamente parlando, potrei collocare il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei. Avevo sentito le farfalle allo stomaco già la prima volta che la vidi. […] L'unica certezza che ho è che il mio amore è nato con lei e che morirà ciecamente con lei.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

Nonostante non sia solita lasciare grandi note iniziali, vorrei ringraziare la mia dolce Wendy_88 per essere sempre la prima a leggere e recensire i miei capitoli. Motivo per cui, voglio dedicarle il paragrafo su Peter Pan, la sua favola preferita.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: rosso per presenza di scene di natura sessuale parzialmente esplicite
Personaggi capitolo: Brent e Sam

Capitolo 7






Il mese dopo anticipai la mia partenza e mi arruolai nell'aeronautica militare presso l'accademia di aviazione a Shawbury.

La Royal Air Force di Shawbury è stata la prima base aerea ad accogliere giovani reclute da arruolare nell'aviazione militare inglese.
Nacque come accademia selettiva nel 1917, proprio a cavallo della prima guerra mondiale. Ovviamente serviva un centro di addestramento che potesse sfornare quanti più soldati possibili e all'epoca Shawbury poteva contare su una stazione aerea niente male. Venne chiusa intorno agli anni venti a causa di una netta riduzione del personale, per poi riaprire i battenti nel lontano 1938, sempre con scopo accademico, ovvero organizzata per addestrare futuri aviatori per l'aeronautica militare inglese. Parliamo della scuola di addestramento di piloti militari più antica al mondo. Non una tra le tante, ma la prima in assoluto.
Perciò, sono piuttosto orgoglioso di poter dire di aver iniziato la mia carriera da cadetto proprio lì. Se non fosse che, ahimè, è durata ben poco.

***

Giunto sino a Shawbury, venni subito a conoscenza della dura realtà dei fatti: nessuno mi avrebbe appoggiato in tutto questo. Il sergente Gamble non c'era più, perciò addio spalle coperte; ma prima di esso, avevo perso anche l'unico familiare su cui poter fare affidamento. Al mondo, in quel momento, vi ero io e solamente io.
Il mio cellulare vibrò nella tasca dei miei pantaloni proprio mentre mi accingevo ad aprire la grande cancellata di quel nuovo posto. Estrassi il telefono e lessi il messaggio che avevo appena ricevuto -spacca più culi che puoi-.
Sorrisi divertito. Non ebbi neanche necessità di scoprire chi me lo aveva mandato, tanto già lo sapevo. Quel modo di fare così sfacciato, secco e graffiante potevano appartenere solamente ad una persona: Sam.
-Verrai a trovarmi?- le domandai istintivamente.
-Anche domani- mi rispose senza esitazione.
Misi il cellulare nuovamente in tasca e mi addentrai verso una nuova esperienza.
Il sergente Gamble mi aveva raccontato tante cose su quel posto. In effetti ero abbastanza in fibrillazione perché finalmente avrei imparato a pilotare un aereo. Il mio sogno stava per esaudirsi e non potevo che esserne felice.
Alla fine, nonostante gli alti e bassi, ero giunto esattamente dove avevo sempre sperato di arrivare.

L'inserimento in accademia fu piuttosto traumatico. Se la U.K.M school poteva apparire - ma giusto esternamente - un covo di fanatici militari, Shawbury lo era senz'altro. I cadetti erano tutti con il capo rasato, tipico taglio da soldato. All'epoca non avevo sicuramente il taglio più alla moda tra i ragazzi e non ero un grande stimatore dei miei capelli, ma non vi nego che questo dover per forza uniformarmi agli altri mi stava stretto. Ma purtroppo quelle erano le regole e non potei fare altro che abituarmi a dover sottostare a certe convenzioni stipulate secoli prima, non so neanche io da chi.
Le camerate erano terrificanti e per un istante ebbi nostalgia del mio angusto bungalow. Strette e alte stanze completamente in cemento senza alcuna rifinitura alle pareti. Letti a castello in ferro battuto con un materasso alto poco più di cinque centimetri. Pavimenti anch'essi in cemento perfettamente puliti e tirati a lucido. Ogni letto era distanziato dal precedente da meno di un metro di spazio. La mia prima impressione fu che un claustrofobico non avrebbe mai e poi mai potuto sopravvivere lì dentro. Non vi erano armadi, né comodini o tavolini, solo un grosso forziere che, nel mio immaginario, mi riportò alla favola di Peter Pan. Ma qui non vi erano fatine con la polvere magica, né corsari dalle splendenti spade o bambini sperduti che potevano volare. Beh, in realtà un bambino sperduto che – almeno si spera – prima o poi avrebbe potuto volare c'era eccome, ed ero proprio io. Ma mi bastò uno sguardo a destra ed uno a sinistra per ritrovare la mia stessa espressione spiazzata in altri ragazzi. Lì, ora come ora, non ero l'unico bimbo sperduto. E fui preso alla sprovvista quando conobbi il mio compagno di letto.
-Piacere, io sono Peter- mi disse allungando un braccio nella mia direzione.
Sorrisi. Ero appena approdato all'isola che non c'è senza neanche essermene reso conto.

Le prime due settimane trascorsero velocemente. Gli allenamenti, per quanto sfiancanti potessero essere, non erano assolutamente paragonabili a quelli proposti dal sergente Gamble. Mi accorsi subito di essere un passo avanti a tutti i novellini del posto. E non ero l'unico ad averlo notato.
Il sergente del posto, un certo Bill O'Connel, iniziò a farmi sgobbare il doppio dicendomi che quella era l'ultima volontà di Gamble.
Purtroppo, però, come in ogni scuola che ho frequentato, mi ritrovai a fronteggiare un paio di tipetti tutto fuorché amichevoli. Il bullismo non è mai stato il mio forte. L'ho subito sin dalla tenera età per via della mancanza di una figura materna nella mia vita, alla U.K.S school, per via del rapporto quasi esclusivo che avevo con il sergente Gamble ed ora qui, per via, ancora una volta, dell'invidia che gli altri avevano nei miei confronti. Non volevo apparire come il falso modesto della situazione, ma conoscevo bene le mie abilità e ad alimentarle vi era questo forte desiderio di poter far avverare i miei sogni infantili. Perciò, ho sempre puntato in alto, anche quando la gente ha cercato di portarmi sul fondo. Non tutti però riuscivano ad apprezzare i miei sforzi e a comprendere che se ero lì, ora, in quel momento, non era per merito di terzi, bensì per la mia capacità di sfruttare il mio potenziale al massimo.
Evans, così si chiamava uno dei miei commilitoni, provava una seria invidia nei miei confronti. Eppure non ne aveva motivo: era il figlio del colonnello in carica. Ma sapete come vanno queste situazioni, nonostante il calcio in culo dato dal padre, Evans non era fatto per l'esercito e arrancava per restare a galla. Il fatto che io, invece, riuscissi in tutto ciò che facevo, gli dava noia. Provai più volte a spiegargli che non era tanto una questione di dote, quanto di forza di volontà. Io volevo diventare un pilota a tutti gli effetti, era sempre stato il mio desiderio di infanzia. Per questo ci mettevo tutto me stesso in ogni cosa che facevo. Lui invece era lì giusto per merito del padre e non per volontà propria.
Nonostante i consueti momenti di litigio con questo soggetto, il resto procedeva tutto bene.

Nel frattempo, Sam era diventata la mia confidente, nonché migliore amica. Ci sentivamo moltissimo al telefono, spesso anche in video-chiamata. I miei commilitoni mi reputavano molto fortunato, ma la verità era che non mi permisi di rivelare loro il fatto che Sam, in realtà, fosse lesbica. Loro erano convinti che io stessi con una ragazza particolarmente perversa e ninfomane. La verità era che loro udivano solo parte delle mie chiamate, quei frangenti in cui Sam rivelava di voler far certe cose proibite con me. Ma se io conoscevo bene il suo essere diretta e, spesso, sarcastica, per loro era un atteggiamento del tutto estraneo e tendevano spesso a prendere sul serio ogni cosa che lei mi diceva.
-Mi manca la tua compagnia- mi diceva spesso.
-E a me manca la tua- le rispondevo io.
Nonostante fossi consapevole di non attirarla fisicamente come poteva fare invece una donna, le piacevo come persona. E a me bastava quello. Non parlo di quel piacere carnale, legato esclusivamente al sesso. Lei mi voleva bene, proprio come io ne volevo a lei. Forse aveva ragione lei quando un tempo mi disse che io e lei eravamo un po' come fratello e sorella.
-Sai, Brent Smith, da quando sei andato via molti ragazzi vorrebbero prendere il tuo posto- mi disse Sam un giorno ironizzando sulla sua popolarità -sono diventata la puttana della scuola-.
-Non sei una donnina dai facili costumi- risposi allentando la tensione -al massimo puoi essere una ninfomane, ma solo con chi vuoi tu-.
-Giusto, solo con chi ce l'ha più lungo di venti-tre centimetri- scrisse lei facendo seguire la sua espressione con una emoticon divertita.
-Sam!- risposi cercando di dare quasi un tono di rimprovero alla mia voce.
La conoscevo fin troppo bene. La sua era solamente una facciata. L'idea di passare per la ragazza vogliosa che tentava di sedurmi con quel suo modo estremo di fare, non faceva parte di lei per davvero.
Mi reputo un uomo fortunato, perché ho avuto modo di conoscere la vera Sam, la ragazza di cui in parte posso dire di provare un amore fraterno. So di ripetermi in tutto questo discorso, ma lei per me è stato un pilastro fondamentale. Negli ultimi due anni ha significato moltissimo e mi ha insegnato ad amare in un modo del tutto singolare e fuori da ogni canone. Ho amato sì una ragazza, una donna meravigliosa, ma l'ho amata come un fratello ama la propria sorella. E di nuovo si ritorna sul pensiero incestuoso che ho di lei. Che in realtà non lo è, non abbiamo alcun legame di sangue, ma vi è una connessione estrema tra di noi.

***

Dovete sapere che dietro la Sam disinibita e sboccata che avete conosciuto, in realtà vi è una fragile crisalide delicata. Già, che noia penserete voi, con tutte queste metafore sulle farfalle. Però lei è ancora chiusa all'interno del suo bozzolo, alla ricerca del suo posto nel mondo. Io, forse, l'ho trovato e devo ringraziare il sergente Gamble per questo. Lei, purtroppo, non è stata altrettanto fortunata.

***

Le sue mani corsero veloci lungo i miei addominali, pregandomi ancora una volta di trascinarla verso quel limbo peccaminoso che era l'unico spettatore delle nostre notti insonni.
Ritrassi la mano che ancora giaceva sul suo sodo sedere, fino ad avanzare su e accogliere nel mio calore i suoi seni tiepidi. I capezzoli turgidi, particolarmente ispessiti un po' per il freddo, un po' per il mio tatto, vibrarono sotto l'eccitazione che Sam stava provando in quel momento. Con i polpastrelli ne afferrai uno, stringendolo e giocandoci un poco insieme. Era morbido e leggermente umido, scivolava tra le mie dita con puro piacere, provocando in lei una forma di eccitazione che la scuoteva in tutto il corpo.
Nonostante la voglia di poter approfondire quel sentimento così stimolante, Sam prediligeva il conforto di un delicato tatto, infinito nei suoi movimenti ed eterno nel tempo. A lei non piaceva consumare quell'amore in fretta e furia, seppur l'idea di poterlo fare in luoghi ostili o in momenti inopportuni la eccitava forse anche più.
-Dai, non smettere- mi disse prendendo la mia mano nella sua e portandola giù verso la propria intimità.
Chiuse gli occhi e si ritrasse all'indietro, quasi quel gesto l'aiutasse ad assaporare ancora di più quel momento così confidenziale.
Feci ciò per cui ero stato chiamato a fare. Le feci provare piacere, così tanto piacere da farla godere come mai prima.

Quella sera mi disse per la prima volta di volermi bene.
Non ci siamo mai detti di amarci, perché alla fine non era quello il sentimento che ci legava. Ci volevamo bene, ci facevamo compagnia quando serviva, ci ascoltavamo e parlavamo tra di noi come due vecchi amici. Niente di più. Io ero l'unico uomo nella sua vita che non aveva mai provato ad approfittare della sua bellezza e del suo corpo, ed era proprio per questo motivo che lei era attratta da me. Però era proprio nei momenti più intimi che capivo di aver difronte una ragazza che ostacolava la propria natura. Riuscivo sì a farle provare piacere e a farle raggiungere l'apice del godimento, ma al contempo vi erano alcuni momenti che mi facevano capire che lei si sentiva a disagio. Le piaceva essere toccata, le piaceva quando io l'amavo carnalmente, quando entravo in lei e spingevo con ardore il mio sesso contro il suo. Ma al contempo, evitava sempre di guardare in basso e ogni qual volta facevamo sesso, lei chiudeva gli occhi immaginandosi sicuramente ben altra situazione. Si lasciava masturbare, ma non contraccambiava mai il mio gesto. Non l'ho mai forzata in questo, perché sapevo di metterla a disagio. Ed era proprio questo disagio per il membro maschile che mi fece capire quanto fosse attratta dal corpo femminile. Alla fine Sam non era altro che una giovane donna alla scoperta della propria sessualità ed io potevo solo saziare la sua sete di piacere e assicurarmi che lei stesse bene con me, senza costrizioni o imposizioni.

Il poter contare su di lei, in ogni caso, fu una cosa piacevole. Quando presi la decisione di arruolarmi a Shawbury, ero quasi convinto di dover mettere una pietra sopra il nostro rapporto. Non che vi fosse un rapporto vero e proprio, per lo meno non era un rapporto esclusivo il nostro. Lei mi assicurò che non avrebbe mai avuto un uomo al di fuori di me, ma conoscendo la sua inclinazione sessuale, tutto ciò mi fece sorridere. Ovviamente Sam non avrebbe mai avuto un altro uomo all'infuori di me, d'altra parte era pur sempre lesbica.
Quando anche Sam concluse il suo percorso scolastico, il nostro legame si rafforzò maggiormente. Venne a trovarmi in un paio di occasioni, presentandosi ai miei commilitoni come la mia amica di letto. Ormai non riuscivo neanche più ad imbarazzarmi davanti alle sue battutine schiette, ero abituato e, in un certo senso, ne ero ammaliato. Già, perché sapevo perfettamente che non avrei mai potuto trovare un'altra donna come lei.
Persino tutto ciò non andò a genio ad Evans. Ci provò con Sam spudoratamente e per di più innanzi a me. Uno sfacciato. Finì per ritrovarsi con un nove inches* di scarpe stampato nelle parti basse. Sam non si era limitata a renderlo sterile almeno momentaneamente, ma lo aveva persino messo in ridicolo davanti a tutta l'accademia. Uno smacco per lui che, purtroppo, non digerì facilmente.
Fu così che, nel giro di pochi giorni, mi ritrovai sbattuto fuori dall'accademia. Secondo il codice penale articolo 336 e 337, venni accusato di violenza e resistenza ad un pubblico ufficiale. I commilitoni che quel giorno erano presenti alla scena, si ritrassero come ricci innanzi alla presenza del padre di Evans, non solo evitando di spalleggiarmi in una situazione in cui ovviamente ero stato incastrato, ma dandogli persino manforte.
Fui scioccato e disgustato da quell'accademia. Mi aspettavo di poter affrontare una carriera eccellente al suo interno ed invece, a causa del solito guastafeste di turno, mi ero ritrovato a tornare a casa con la coda tra le gambe.

Il rincasare fu più duro del previsto. Quello stabile, che aveva accolto la mia infanzia, appariva persino più grande e più vuoto del previsto. Quel weekend raccolsi ogni cornice appesa alle pareti e la buttai violentemente nell'indifferenziata.
Sam venne in mio soccorso, scusandosi su più fronti per l'accaduto.
-Fidati, non hai nulla di cui scusarti- le dissi mentre riempivo l'ennesimo scatolone con dei vecchi vestiti di mio padre -Evans avrebbe trovato comunque un modo per cacciarmi da lì, prima o poi-.
Lei mi prese una mano e me la strinse forte nella sua, fino ad invitarmi a perdermi nei suoi occhi chiari -per quel che vale, Brent, per me rimani una persona meravigliosa-.
Sorrisi. Era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Raccolsi lo scatolone e lo imballati con un po' di nastro -questo direi che va tra le cose da dare in donazione- dissi portandolo in salotto ed accostandolo ad altri due scatoloni della medesima misura.
Mi guardai soddisfatto. Innanzi a me vi erano raggruppati diverse scatole. A destra vi erano le cose da buttare, in centro quelle da donare e a sinistra i ricordi da conservare.
-Ed ora che ne sarà di me?- dissi sottovoce osservando quei due miseri scatoloni sopravvissuti alla spazzatura.
-Io in realtà un'idea ce l'avrei, Brent- mi disse Sam sorridendo.
La guardai pormi un opuscolo e lo presi tra le mani fino ad aprirlo in tre parti e leggere: Chitose Air Base.
-Hokkaido?- domandai a Sam -seriamente?-.
Lei ridacchiò divertita -sì, va bene, mi aspettavo questa tua reazione. Però non sottovalutare tutto ciò, voglio dire, sei o non sei per metà giapponese?-.
Sollevai un sopracciglio. In effetti Sam non aveva tutti i torti. Ero pur sempre nato a Tokyo, persino il mio certificato di nascita lo attestava.
Guardai Sam aizzare uno scatolone contenente libri di vario genere e trascinarlo verso la sua macchina -questi li voglio io-.
-Libri?- domandai scettico.
-Libri!- rispose lei ben convinta -che c'è Smith, non ti sembro una tipa da libri?-.
Io sorrisi divertito -assolutamente, secondo me tu non conosci barriere, sei nata per fare qualsiasi cosa-.
Lei appoggiò lo scatolone nel bagagliaio della sua auto per poi girarsi verso di me con occhioni dolci -dio, quanto sei smielato, Brent-.
Sghignazzai aspettandomi una risposta simile da parte sua.
Mentre lei era intenta ad incastrare lo scatolone all'interno della sua piccola vettura, io guardai e riguardai meglio il volantino che mi aveva dato. Chitose Air Base, non ne avevo mai sentito parlare. A dirla tutta non sapevo nulla del Giappone o delle sue usanze. Conoscevo poche parole, giusto perché Yoshiko me le aveva insegnate anni addietro. Sorrisi all'idea che forse, presto o tardi, avrei potuto abitare nel suo stesso Paese.
Sam arrivò di soppiatto innanzi a me e mi strappò il volantino dalle mani -entriamo, forza! Lo so che muori dalla voglia di sapere qualcosa su questo posto-.
Le sorrisi grato per tutto quello che stava facendo per me.
-Minimo mi devi una cena e del buon sesso, sappilo!- rispose schiaffeggiandomi contro il volantino e sorridendomi maliziosa.
Ridacchiai divertito, annuendo senza indugio.
Nonostante la mia connessione fosse piuttosto lenta, riuscii ugualmente a recepire alcune informazioni circa l'accademia militare giapponese, soprattutto grazie alla dote nascosta di Sam in informatica.
-Dunque, a quanto pare il Giappone ha una divisione militare molto particolare. Qui dice che esistono tre grandi gruppi di appartenenza: la Rikujo, Kaijo e Koku Jieitai, ovvero fanteria, marina navale ed aeronautica- spiegò Sam scorrendo il dito sul monitor del proprio computer quasi volesse tenere il segno di quanto letto.
-Quindi io dovrei far richiesta alla Koku Jieitai, dico bene?- domandai insicuro.
Sam annuì e proseguì dicendo -pare che la base aerea di Chitose si trovi in Hokkaido, una delle otto regioni del Giappone, situata direttamente a nord dell'isola principale dell'arcipelago nipponico, Honshū- mi disse mostrandomi anche una cartina presa direttamente da internet.
-Ma è un aeroporto o un'accademia?- domandai incuriosito.
-Qui dice che è una base aeronautica vera e propria, situata vicino all'aeroporto di New Chitose, con il quale si ritrova spesso a cooperare e insieme al quale costituisce uno dei più grandi centri di volo presenti in tutto il Giappone- mi rispose Sam piuttosto impressionata da quanto letto.
-Caspita...- sussurrai quasi a corto di parole quando guardai le poche foto che Sam riuscì a reperire di quel posto.
-Ora vorrei solo capire come diavolo fare a...- biascicò Sam quasi stesse pensando ad altra voce -è tutto scritto con simboli assurdi-.
-Sono caratteri kanji- le dissi correggendola e beccandomi un sonoro schiaffo sul braccio.
-Allora mister so-tutto-io, decifra questi geroglifici e cerca di capirne qualcosa- mi disse scostandosi dal computer e invitandomi a prendere il suo posto.
Mi sedetti controvoglia davanti al computer, sicuro di non riuscire a tradurre nulla di significativo, in quanto la mia conoscenza del giapponese era veramente limitata. Notai però un numero di telefono, uno a caso, per intenderci, e decisi di chiamare, tanto non avevo nulla da perdere in quel momento.
Mi risposero in giapponese e il mio primo istinto fu quello di interrompere subito la chiamata, ma Sam mi incitò a proseguire la telefonata, perciò dissi l'unica parola che mi veniva in mente in quel momento -sayonara**-.
-Konbanwa***- mi rispose poco convinto un uomo al di là del globo.
-Io... parla inglese?- domandai consapevole di non poter reggere un discorso di senso compiuto in lingua giapponese.
-Sì, signore- mi rispose l'uomo quasi ridendo.
Sospirai sollevato e, grazie soprattutto all'appoggio morale di Sam, spiegai per filo e per segno la mia posizione. L'uomo con cui ero al telefono dovette rigirare la mia chiamata ad un suo superiore il quale mi spiegò nel dettaglio come era organizzato il loro esercito e come funzionava la fase di arruolamento, invitandomi, come previsto, a visitare l'accademia di persona. Inoltrarono poi la mia chiamata ad un altro collega, il quale si occupava del reclutamento di nuovi cadetti.
Quando chiusi la telefonata avevo sì, le idee più chiare, ma al contempo mi sentivo quasi sfinito, come se quei cinquanta minuti trascorsi al cellulare mi avessero prosciugato le energie.
-Quindi?- domandò Sam di ritorno dopo essere uscita di casa per raggiungere la bancarella di fish and chips che vi era in fondo alla via -fame?-.
Mi allungò un sacchettino di carta con al suo interno cipolle e patatine fritte e pesce impanato.
Afferrai con discrezione la mia cena e iniziai a mangiare raccontandole nel frattempo tutto ciò che ero riuscito a scoprire -l'esercito giapponese, a causa dell'imposizione dettata dalla costituzione stipulata dopo la seconda guerra mondiale, ha scopi puramente passivi. In poche parole il Giappone ha rinunciato per sempre all'opportunità di dichiarare guerra ad altri Paesi. Perciò l'esercito non è come qui in Inghilterra che viene utilizzato per missioni militari offensive. Là viene impiegato solo per scopi difensivi e missioni umanitarie-.
Sam alzò un sopracciglio -un esercito che non fa la guerra? No, scusa, ma perché?-.
Io ridacchiai divertito -non è che non fa la guerra- le spiegai cercando di memorizzare ogni spiegazione datami poco prima -devi sapere che dopo la sconfitta subita nella seconda guerra mondiale, al Giappone fu imposto lo smantellamento dell'apparato militare. Motivo per cui ha subito questo cambiamento così traumatico nel post guerra-.
Sam annuì mentre addentava con voracità il suo fishburger -e come pensi di fare con la lingua?-.
Mi portai una mano al mento e risposi sicuro di me -appena vinta la guerra, gli Stati Uniti hanno occupato il Giappone e hanno costruito una serie di basi militari tutt'ora attive-.
-E perciò laggiù si parla inglese senza alcun problema- dedusse Sam terminando il suo panino -tutto chiaro-.
-Perciò ora come devi procedere?- domandò Sam afferrando alcune delle mie patatine e mangiandole sotto i miei occhi.
-Quelle erano mie- dissi puntandole il dito contro.
Lei mi rispose con una linguaccia, rubandomi ancora una mangiata di patatine dal piatto.
-Perciò ora come devi procedere?- domandò Sam nuovamente sfidandomi con lo sguardo.
Assottigliai gli occhi fino a quasi chiuderli per poi rispondere stizzito -hanno richiesto alcune scartoffie preliminari per valutare la mia preparazione, poi mi contatteranno per procedere con un colloquio conoscitivo e, se tutto va bene, mi inviteranno in Giappone per dei test attitudinali e fisici-.
-Quindi te ne andrai- disse con tono malinconico.
-Non è detto- mi avvicinai a lei sorridendo -non vorrai certo farmi credere che sei triste per la mia partenza-.
-Finalmente ti levi dalle scatole una volta per tutte!- rispose lei alzandosi dal tavolo e appoggiando i piatti nel lavandino.
Sam in quel momento non voleva darlo a vedere, ma era veramente triste per la mia dipartita. Perciò mi alzai dal tavolo per raggiungerla e l'abbracciai da dietro.
-Ti voglio bene, Sam- le sussurrai all'orecchio.
-Idiota che non sei altro- sbraitò lei allontanandomi da sé -lo sai che odio queste smancerie-.
Ridacchiai divertito per la sua reazione, afferrandola ancora una volta e trascinandola verso di me -te l'ho mai detto che sei particolarmente carina quando ti arrabbi?-.
-Ed io te l'ho mai detto che con la gonna ed i tacchi saresti proprio un bel figurino?- mi rispose lei cercando di mantenere intatta la sua corazza.
Sorrisi e le accarezzai il viso, scostandole una ciocca dal volto -mi mancherai, Sam Elliots- le dissi guardandola poi fissa negli occhi.
-Sei un cretino...- disse lei di getto, girando il volto a sinistra e cercando quasi di mascherare la sua espressione sgomenta.
Spostai la mano dalla guancia fino al mento, costringendola a reggere il mio sguardo e guardarmi dritto negli occhi -ti voglio bene anche io- le risposi.
Sapevo bene cosa stava passando in quel momento. Lei era fatta così, non lo dava a vedere, ma era ovvio che la mia decisione l'aveva realmente turbata. Eppure era stata lei ad incitarmi a seguire questo percorso alternativo.
I suoi occhi languidi mi penetrarono dritto al cuore. Sentii come una tenaglia stringermi forte il petto.
Quella notte l'amai come mai prima d'ora. L'amai in ogni modo possibile, donandole tutto me stesso e facendole provare ogni sorta di piacere. L'amai come se non ci fosse un domani per noi, perché in effetti fu così. Quello fu un addio a tutti gli effetti.
Non vi fu un domani per noi perché, a distanza di pochi giorni, venni contattato dalla Chitose Air Base poiché ritenuto idoneo ad affrontare i tanto temuti test di ingresso.
Nel breve giro di una settimana, quindi, mi ritrovai a mollare ancora una volta ciò che conoscevo e più mi era familiare, per salpare alla rotta dell'ignoto.
Se per ormai quasi vent'anni della mia vita avevo vissuto in Inghilterra, secondo regole specifiche, parlando una lingua conosciuta sin dalla nascita, ora mi ritrovavo dall'oggi al domani a dover intraprendere un viaggio verso tutto ciò che mi era estraneo, ma che per metà mi apparteneva, alla ricerca della felicità. Perché sì, per me diventare un pilota era un po' come raggiungere l'apice della felicità.





* nove inches come unità di misura, corrisponde ad un numero trentasei di scarpe italiane.
** addio
*** buonasera
  
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