5.
Dicembre
2022
Quanto tempo era
passato, dall’ultima visita di Alekos?
Astrea non lo sapeva,
eppure credeva fosse trascorso molto tempo. Forse troppo, per poter
pensare, o
credere, a un suo eventuale ritorno.
Passeggiando nervosamente
lungo le vie di una Hiroshima stranamente quieta - visto ciò
che la circondava
- Astrea continuava a correre con lo sguardo al colle della sua pianta
preferita.
Da quando lo aveva visto
sparire nel fuoco, quel terribile giorno in cui Alekos aveva ammesso il
suo
peccato con lei, ogni giorno il suo sguardo si era perso in
contemplazione di
quell’albero, a ogni nuova esplosione.
Dopotutto, lo aveva
incontrato lì per la prima volta. Da quel momento, Alekos
era giunto in visita
a lei quasi giornalmente, sempre attendendola all’ombra di
quella quercia
scampata al disastro.
In principio, aveva
trovato le sue visite piuttosto fastidiose, così come
anacronistiche. Lui, così
perfetto e sano, mal si abbinava a quel regno fatto di morte e
disperazione, di
cui lei stessa era portabandiera e creatrice.
Eppure, con il passare
delle settimane – anche grazie alle stravaganti avventure che
lui andava
raccontandole, aggiornandola così sul mondo che si era
lasciata alle spalle –
aveva finito con il bramare le sue visite.
Per la prima volta da
anni, aveva desiderato qualcosa che
non fossero sangue, dolore e morte.
Per la prima volta da
anni, aveva sorriso di fronte a una creatura viva, gioendo
di tale vita.
Per la
prima volta da anni,
aveva agognato il calore umano proveniente da una persona.
Le sue parole, però, la
condanna verso se stesso e verso di lei, l’avevano sconvolta,
portandola a
perdere il controllo sulla propria mente e coinvolgendo così
anche lui
nell’esplosione che l’aveva rinchiusa lì.
Non era stata capace di
ascoltarlo, quando le sue parole erano divenute qualcosa di
più che semplice
conversazione. Era stata pavida, aveva perso per l’ennesima
volta la battaglia
contro se stessa e contro le proprie paure.
Stavolta, però, aveva
coinvolto nel proprio personale dramma anche un’altra
persona, una persona che
aveva saputo toccarla nel profondo e che, proprio per questo, era stata
segnata
ancor di più dal suo errore.
Forse, dopotutto, Alekos
aveva rinunciato a capirla, visti i danni che sicuramente aveva subito
durante
lo scoppio dell’atomica. In fondo, non l’avrebbe
trovato per nulla strano, né
così sconvolgente.
Persino sua madre, dopo
quel giorno in cui l’aveva trovata sotto shock
all’ombra della sua pianta,
aveva smesso poco alla volta di tornare, quasi avesse compreso
– finalmente –
di non poter far nulla per lei.
Paradossalmente, però,
ora sentiva la mancanza dei suoi goffi tentativi di strapparla a quei
luoghi e,
il solo pensarlo, la faceva sentire stupida e ingrata.
Per più di
settant’anni
aveva rifiutato sia lei che il padre, respingendo il loro amore
così come i loro
tentativi di parlarle, e ora che avevano finalmente gettato la spugna,
si
lagnava di essere stata lasciata sola.
Allo stesso modo, aveva
escluso dalla sua vita Esculapio, Hypnos e i suoi fratelli, per non
parlare del
Sommo Érebos, prodigatisi inutilmente per riportarla a
più miti consigli. Anche
con loro si era comportata in malo modo, e cominciava a sentire il peso
della
loro mancanza.
Era davvero una ben
misera persona, niente affatto degna di essere salvata o di portare il
titolo
di dea. Meritava di rimanere
lì per
l’eternità.
Fu perciò con estrema
gioia – e non poca contrizione – che le sorse un
sorriso sul volto, quando
infine vide un’ombra nei pressi della sua collina preferita.
Accorrendo incontro a
quell’ombra, già pronta a salutare Alekos e a
benedire il suo ritorno, interruppe
però di colpo la sua risalita quando, dinanzi a lei,
trovò ad attenderla solo suo
padre.
Vederlo dopo tanto tempo
la fece sentire tremendamente in colpa, poiché lei aveva
desiderato vedere
qualcun altro, al suo posto.
Il padre, comunque, fece
finta di non notare il suo evidente disappunto e, rimanendo fermo
accanto alla
pianta, disse: «Alekos mi ha detto che, quasi sicuramente, ti
avrei trovata
qui.»
Nell’udire quel nome,
Astrea si rianimò subito e, portandosi una mano al petto,
domandò turbata:
«Lui… come sta, Alekos?»
«E’
tutt’ora convalescente»
ammise lui, sgomentandola non poco. «Credo… beh,
immagino sia successo qualcosa
di piuttosto grosso durante una delle sue visite, per ridurlo nello
stato in
cui l’ho trovato durante una delle mie visite a
lui.»
Astrea reclinò colpevole
il capo, il desiderio di fuggire già pronto a prendere piede
nel suo animo,
quando Astreo aggiunse: «Si scusa con te. Non mi ha spiegato
per cosa, ma mi ha
pregato di dirtelo, nel caso in cui fossi venuto da te.»
La dea sgranò gli occhi
per la sorpresa, a quelle parole e, risollevando un volto pieno di
domande per
puntarlo in direzione del padre, esalò sgomenta:
«Ma… perché ti ha detto proprio
questo? Non deve scusarsi di
nulla!»
«Non mi è
parso di
quest’avviso» si limitò a dire il
titano, scrollando le spalle. «E’ bello
vederti, comunque, dopo tanto tempo.»
Astrea strinse le mani a
pugno lungo i fianchi scarni e, sbuffando, replicò caustica:
«Dubito sia un bello
spettacolo.»
«Solo perché
lo vuoi tu,
no?» chiosò il padre, sorprendendola un poco.
«Se non ti conoscessi,
direi che anche tu hai preso in prestito il filato di Eris per
continuare a vivere»
ribatté vagamente piccata Astrea.
Ridendo sommessamente,
Astreo chiosò: «Credo che, ora come ora, Eris ti
raggiungerebbe volentieri, pur
di liberarsi delle attenzioni di Dioniso. Sono mesi
che le corre appresso in ogni modo possibile, e sull’Olimpo
sono ormai diventati argomento di discussione quotidiana. Ares ha
persino
aperto un giro di scommesse, puntando una marea di soldi su quando
capitolerà
sua sorella.»
Astrea fece tanto
d’occhi, a quella notizia, ma ciò non
bastò a farle dimenticare la propria
condizione miserevole, né ciò che di male aveva
fatto ad Alekos.
Sospirando, tornò quindi
a reclinare il capo e mormorò: «Beh, se persino
una dea come Eris ha uno
spasimante che la venera, il mondo non può andare che alla
rovescia.»
«Questa è una
crudeltà
gratuita, cara, e non è da te» le fece notare
Astreo, portandola ad arrossire.
«Sai bene che Eris non è mai stata solo
Discordia, e il tuo risentimento millenario verso di lei non ha mai
avuto molto
senso.»
«Lei ha sempre remato
contro di me!» sbottò Astrea, inveendo contro il
padre al pari di una bambina a
cui fosse stato rifiutato un regalo. «Non mi va
giù che possa avere una vita
tranquilla e serena, né che…
che…»
Interrompendo il suo
dire prima di ammettere troppo, Astrea sbuffò nel
distogliere lo sguardo dal
padre e, trinceratasi dietro un mutismo offeso, fissò
testardamente la baia
limpida e tranquilla.
Tutto, pur di non
affrontare lo sguardo di sicura derisione del padre.
Astreo allora sorrise
indulgente, di fronte a quello sfogo che esprimeva –
finalmente – una scintilla
di vita che mai, in quei decenni, aveva scorto sul volto della figlia.
Certo, aveva visto la
rabbia di una donna che non voleva essere strappata al proprio incubo,
ma lui
non aveva mai considerato positivo quel genere di livore. Questo,
invece,
sapeva di nuovo e, paradossalmente, di antico. Della vecchia lei.
Per quanto gli spiacesse
vederla irritata, era pur sempre preferibile all’Astrea atona
e distante che
aveva dovuto sopportare di vedere in silenzio per tutti quegli anni. Se
era in
qualche modo gelosa della vita apparentemente piacevole di Eris, questo
poteva
essere uno sprone per vederla riemergere da quello stato di sconfitta.
«Ora, penso che
andrò.
Vedo che sei indisposta alla compagnia altrui,
perciò…» asserì a quel punto
Astreo, facendo l’atto di scostarsi dalla pianta.
La figlia, però, lo
afferrò a un braccio e, inconsapevole del proprio
cambiamento estetico agli
occhi del padre, mormorò ansiosa: «Eri venuto solo
per dirmi di Alekos?»
Astreo cercò di
contenere la propria sorpresa, di fronte al viso turbato – ma
ora bellissimo –
della figlia, e disse: «Beh, in effetti, sì. So
che non vedi volentieri me o la
mamma, ma ci sembrava giusto portarti il suo messaggio.»
La mano di Astrea
strinse maggiormente il braccio del padre nel tentativo di trasmettere
al padre
quanto, in realtà, si sentisse frustrata e triste al
pensiero di averlo sempre
fatto soffrire.
«Non voglio vedervi star
male a causa di una decisione che ho preso in piena coscienza.
E’ tutto qui.»
«Soffriamo in ogni caso.
Sia che tu ci veda, che no» replicò il titano,
scostandole gentilmente la mano.
Lei, allora, si
allontanò di un passo, quasi tramortita da quella
realtà così semplice e
assoluta e, mentre Astreo si dissolveva dinanzi ai suoi occhi
spalancati, Astrea
mormorò: «Sono stata così egoista,
dunque?»
***
Guarire dalle bruciature
lasciate dalla bomba, era stato più difficoltoso e doloroso
di quanto non si
fosse aspettato in un primo momento. Liberarsi finalmente delle
fasciature fu
dunque un sollievo, pur se non significava avere il lasciapassare
definitivo
per riprendere le sue visite ad Astrea.
Entrambi i genitori
erano stati chiari, in merito; finché Esculapio o Apollo non
lo avessero
dichiarato guarito, non sarebbe tornato nel mondo onirico.
I suoi nonni umani erano
stati dello stesso avviso, e persino nonno Zeus e nonna Era si erano
impuntati
in merito, mettendo un broncio tale da far sentire in colpa Alekos.
Era forse la prima
volta, da quando aveva tolto il giogo del suo potere su di loro, in cui
si erano
spontaneamente uniti per un’unica causa. Nonostante il loro
divieto gli avesse
causato fastidio, era stato anche felice di vederli andare
d’accordo su
qualcosa… e senza il suo
intervento
diretto.
Anche se questo aveva
voluto dire ritardare di quasi un mese il suo ritorno nel mondo
onirico, gli
aveva fatto piacere vederli uniti sotto un’unica bandiera.
In quei lunghi mesi di
insopportabile attesa, Alekos era stato più volte tentato di
venir meno alla
parola data ma, memore di quanto aveva fatto soffrire la sua famiglia,
si era
autoimposto la calma.
Persino Eris lo aveva
rabberciato per la sua fretta e, quando lui aveva replicato con stizza,
la dea
lo aveva preso per un orecchio al pari di un bambino, sgridandolo come
poche
altre volte gli era accaduto in passato.
A quello spettacolo,
ovviamente, avevano assistito le due arpie che, furbamente, si erano
involate
per non dover subire a loro volta una reprimenda di qualche tipo. Con
Eris, non
si poteva mai sapere.
Sua madre, sempre
ovviamente, aveva plaudito la
sfuriata di Eris, e ad Alekos non era rimasto altro che rintanarsi in
casa sua
in compagnia di una birra e una pizza, brontolando in merito alla
spietatezza
delle donne.
Aveva anche rinunciato a
chiamare Acaste per sfogarsi; tra il nipotino appena arrivato e le
visite
frequenti a Zéphyros, l’amica era sempre
impegnatissima. Quasi sicuramente, comunque,
Acaste si sarebbe schierata dalla parte di Eris e Athena,
perciò lui non
avrebbe ottenuto appoggio alcuno, ma ulteriori reprimende.
Inoltre, in ultima istanza,
non sarebbe stato corretto scaricare su di lei i suoi problemi.
Problemi che,
alla fine, avevano preso la forma di un’unica parola.
O meglio, persona.
Astrea.
Ora che era passato così
tanto tempo dal suo ferimento, desiderava rivederla più che
mai, sapere come
stesse e come vivesse quella nuova solitudine, dopo quel breve periodo
passato
a ricevere le sue quotidiane visite.
Pur se aveva parlato con
Astreo in merito, non si sentiva soddisfatto né tranquillo
e, finché non
l’avesse vista con i propri occhi, il suo cuore non avrebbe
smesso di palpitare
nervosamente.
Quando, perciò, si
presentò a casa dei nonni per ritentare il suo viaggio nel
mondo onirico, lo
fece con l’ansia di un adolescente al suo primo appuntamento.
Cosa che lo fece
sentire ancor più idiota di quanto già non si
sentisse.
Anita e Carlos lo
accolsero con sorrisi e abbracci ma, quando anche il nonno li
seguì nella
dependance, Alekos si rese conto di quanto entrambi, in
realtà, non si
sentissero affatto sicuri a rimandarlo in quel luogo così
pericoloso.
Tutto ciò lo fece
sentire ulteriormente in colpa ma, nonostante questo sentimento
traditore, non
se la sentì di annullare quel tentativo.
Doveva tornare da lei, a
qualsiasi costo.
Nello sdraiarsi sul suo
ormai famigliare materassino, guardò perciò i
nonni con aria sicura e disse:
«Sono certo che andrà tutto bene. In ogni caso,
comunque, sono già guarito una
volta. Succederà ancora.»
Carlos parlò prima
ancora che Anita potesse rabberciare il nipote e, piantando con fare
imperioso
un dito addosso ad Alekos, borbottò a gran voce:
«Non ti venisse in mente di
prendere sottogamba la situazione, ragazzo, solo perché sei
immortale. Hai ben
visto cosa è successo a questa ragazza che cerchi di
salvare, perciò non
pensare mai di poterla sfangare sempre!»
Alekos sbatté le
palpebre con aria incredula – era molto difficile che Carlos
alzasse la voce
con lui ma, evidentemente, il suo ferimento doveva averlo colpito molto
– e,
annuendo frettoloso, rettificò il suo dire.
«Sì, nonno.
E’ chiaro.
Non volevo dire che me ne sarei infischiato delle conseguenze, ma solo
che voi
non avreste dovuto stare in pensiero per me.»
«Questo ragazzo
è tardo,
o che?» ironizzò allora Carlos, lanciando
un’occhiata sarcastica alla moglie,
che sorrise divertita. «Pensa davvero che noi nonni potremmo non essere in pensiero per lui? O per
qualsiasi altro dei nostri nipoti?»
«Ma caro, è un
giovanotto sano e forte… per forza che si crede
invincibile» celiò a sua volta
Anita, portando Alekos a rimettersi seduto per poi fissarli accigliato
e pronto
a battibeccare con loro.
«D’accordo,
c’è qualcosa
che vi rode, e me la state facendo pagare in questo modo. Sputate il
rospo, e
chiudiamo la faccenda» propose quindi lui, scuotendo una mano
con fare nervoso.
Aveva fretta, ma non voleva lasciare che quell’argomento
rimanesse in sospeso
tra di loro.
Anita allora gli sorrise
dolcemente e, nell’accomodarsi su una panca imbottita accanto
al materassino
dove il giovane era assiso, si limitò a dire:
«Tesoro, vogliamo solo che tu
stia attento, e non ti lanci in atti eroici gratuiti. Capiamo il tuo
desiderio
di aiutare questa donna, ma pensa anche a te stesso mentre lo
fai.»
«Nonna ha
ragione» annuì
con vigore Carlos.
A quelle parole, Alekos
addolcì lo sguardo, prese tra le sue una mano della nonna e
mormorò: «Farò
attenzione… ma nei limiti del possibile. Ho promesso a Eos
che avrei liberato
sua figlia, e io mantengo la parola data. Inoltre, desidero
anch’io che Astrea
se ne vada per sempre da quel luogo. Mi fa star male pensare a come
soffre ogni
giorno, a quanto si stia perdendo della vita di tutti i
giorni.»
«Ma certo. Non potrebbe
che essere così, visto il tuo animo buono. Ma usa lo scudo
di tua madre,
qualora servisse. Te ne prego» lo pregò Anita,
osservando il piccolo bracciale
che Alekos portava al polso.
Una testa di medusa
della grandezza di un pollice pencolava dal bracciale in pelle che
Alekos indossava
quel giorno e che, all’occorrenza, gli sarebbe servito per
difendersi da
eventuali altre esplosioni. Sua madre, su questo, era stata categorica.
Gli sarebbe bastato
stringere nel pugno la testa di medusa, e il possente scudo di Athena
sarebbe
apparso a proteggerlo.
«Lo userò.
Promesso»
annuì Alekos, tornando a distendersi per poi chiudere gli
occhi e concentrarsi
sulla mente di Astrea.
Con un gran respiro, si
discostò quindi dal proprio corpo e, come un alito di vento,
si involò fino
alla dimensione onirica ove viveva Esculapio e, da lì,
raggiunse le stanze di
Astrea.
Come sempre, trovò solo
il piccolo buco nero in cui lei era scomparsa decenni addietro ma,
contrariamente al solito, notò delle scalfitture in quella
massa oscura
apparentemente inattaccabile.
Pareva quasi di vedere
inciso su quella superficie liscia come alabastro il cretto di Burri, e
questo
fece sorgere molte domande in Alekos.
Lasciandole però per un
secondo momento, si incuneò nel sogno eterno di Astrea e
lì, dopo qualche
attimo, si ritrovò all’ombra della pianta
preferita della dea.
Guardandosi intorno, non
trovò nulla di diverso dal solito – Hiroshima era
già caduta vittima della
bomba – sennonché i fuochi si erano finalmente
estinti, e l’aria non era più
satura di fumo e morte.
Doveva essere già il
secondo o il terzo giorno dallo scoppio dell’ordigno, a suo
parere, almeno a giudicare
dalle condizioni della città.
«Alekos!»
Quell’ansito disperato
quanto sorpreso giunse dalle sue spalle, strappandolo di colpo ai suoi
pensieri. Nel volgersi quindi a mezzo, il giovane si sorprese non poco
quando
si ritrovò abbracciato dalla dea padrona di quei luoghi che,
quasi
sciogliendosi contro di lui, iniziò a ringraziare il cielo
per la sua buona
salute.
Non riuscendo a
evitarlo, Alekos la strinse a sua volta e affondò il viso
nella massa
cespugliosa dei capelli di Astrea, infischiandosene grandemente del
fatto che
non fossero setosi o puliti.
Lei era lì, non era
scomparsa chissà dove, e loro potevano riprendere a parlare
assieme, a stare assieme.
Quando infine i due si
scostarono per potersi finalmente guardare in viso, si sorrisero
vicendevolmente
per alcuni attimi. Nel momento stesso in cui Astrea, però,
si rese conto della
totale scomparsa dei riccioli di Alekos - sostituiti da un taglio
militare
piuttosto drastico - la dea ansimò sconvolta ed
esalò: «Ma… e i tuoi
capelli?!»
«Beh, hanno avuto
bisogno del tocco di un barbiere. Erano piuttosto
abbrustoliti» ammise lui con
un risolino.
Quel risolino di
scherno, però, non fece piacere ad Astrea, che
ribatté piccata: «Te l’avevo pur
detto di non metterti in mezzo. Così facendo, sei rimasto
ferito, i tuoi
capelli si sono volatilizzati e sei stato lontano da qui per
mesi!»
Alekos impiegò alcuni
attimi per digerire anche quella
reprimenda – alla prossima, si sarebbe infuriato davvero
– prima di rendersi
conto delle ultime, impreviste parole della dea.
Alla fine dei conti, le
era mancato. Poteva apparire irritata per il suo colpo di testa,
ma… le era mancato!
Stupidamente, si mise
perciò a sorridere in modo piuttosto tronfio e Astrea,
notandolo subito, si
accigliò ulteriormente e domandò: «Beh,
che hai da sorridere tanto?»
«Ti sono
mancato»
sottolineò lui, poggiando le mani sui fianchi con fare
soddisfatto.
Lei spalancò occhi e
bocca di fronte alle sue parole spavalde, boccheggiò per
diversi secondi senza
sapere bene cosa dire ma, alla fine, bofonchiò:
«Ma… che stai dicendo?!»
Il giovane allora ghignò
beffardo, la guardò dall’alto al basso con fare
saputo e ripeté ampollosamente:
«Ti. Sono. Mancato.»
«Non ti ascolto
neppure»
sbottò allora lei, volgendogli le spalle per poi intrecciare
le braccia sotto i
seni, l’aria piccata e il naso rivolto verso l’alto
in atteggiamento di sfida.
«D’accordo.
Allora,
vedrò di occupare il mio tempo in modo proficuo, invece di
limitarmi a guardare
la tua schiena spellata» replicò il giovane,
cominciando a discendere la
collina a passo svelto.
Astrea gli concesse tre
secondi di vantaggio prima di volgersi irritata e raggiungerlo di
corsa.
Affiancatolo quindi con aria burbera, borbottò:
«Ero solo preoccupata per te,
sciocco!»
«Vedila come
vuoi»
scrollò le spalle lui, allungando il passo.
«Ehi,
aspettami!» lo
richiamò lei, alzando la voce.
«Smettila di camminare a
piedi nudi, e vedrai che riuscirai a tenere il mio passo» gli
fece notare lui,
indicando con fare ironico i suoi piedi sudici.
Lei si bloccò di colpo,
puntò i pugni sui fianchi e ringhiò:
«E’ normale
che io sia a piedi scalzi! Qui è bruciato tutto! Tutto! Perché proprio io
dovrei avere le scarpe!?»
«Perché sei la
signora
di questo sogno?» si limitò a dire lui, tornando a
discendere la collina e
lasciandola così sola a rimuginare sulle sue parole
sibilline.
Osservando il giovane
che, a grandi passi balzellanti, si dirigeva sempre più
velocemente verso il
campo di raccolta dei feriti di Hiroshima – posizionato
all’interno della base
militare locale – Astrea si chiese se non avesse ragione.
In fondo, era lei stessa
a essersi rinchiusa in quel mondo, perciò non poteva
lagnarsi con Alekos del
suo problema ai piedi. D’altra parte, lei sentiva di dover
soffrire come gli
altri, così da essere partecipe del dolore provato da quelle
genti.
Sbuffando, perciò,
tornò
a discendere dalla collina di Koimachi senza dare troppo peso alle
piante
piagate dei suoi piedi, o al dolore che le riverberava nelle ossa. Se
lo
meritava, perciò non doveva lamentarsene.
Quando infine raggiunse
Alekos, lo trovò a pochi passi dall’entrata della
base militare locale, dove
diversi soldati presidiavano l’entrata, gli abiti laceri e
l’aria stanca di chi
non ha più certezze né speranze.
Di lì a poco, la seconda
bomba atomica sarebbe scoppiata a Nagasaki e, ben presto, altre morti e
altro
sangue si sarebbero aggiunti a quelli di Hiroshima, spezzando
definitivamente
il morale delle genti.
«E’ inutile che
li
guardi… tanto, non ti faranno entrare. Sei un gaijin,
perciò non accetteranno mai la tua benevolenza»
sottolineò
Astrea ponendosi al suo fianco con espressione burbera.
Alekos, però, la
afferrò
a una mano e, sorridendole fiducioso, disse: «Sei la signora
di questo mondo,
perciò puoi andare dove vuoi.»
Ciò detto, la
trascinò
con sé verso i cancelli e, sotto gli occhi sgomenti di
Astrea, i soldati non
solo non li bloccarono ma si inchinarono dinanzi a loro come alla vista
di una
qualche entità trascendente.
«Oh-kami1…»
mormorarono ossequiosi, le teste reclinate in
avanti in atteggiamento deferente.
Astrea li fissò senza
capire mentre Alekos, al suo fianco, penetrava all’interno
del campo con passo
sicuro, con l’andatura potente e fiera di un dio.
«Ma
come…» tentennò lei
incredula.
«Guardati» le
sussurrò per
contro il giovane, ammiccando al suo indirizzo con espressione ammirata.
Lei allora reclinò il
viso ma nulla vide perciò, ancor più confusa,
domandò nuovamente: «Non capisco.
Cosa dovrei vedere?»
A quel punto, fu Alekos
a non comprendere e, dopo averle lasciato la mano, la fissò
incredulo mentre,
da dea incarnata quale lui l’aveva vista diventare,
tornò a essere la scialba e
debole creatura che aveva conosciuto. Che diavoleria era mai quella?
Astrea sbatté le braccia
lungo i fianchi, ripetendo la domanda con inquietudine e Alekos, non
meno confuso
di lei, ammise: «Brillavi. Il tuo icore scintillava sotto la
pelle, proprio
come possono fare gli dèi. Ora,
però…»
Astrea, a quel punto,
afferrò la mano di Alekos per stringerla con forza e, ancora
una volta, lui la
vide in tutta la sua sfolgorante bellezza, coi lunghi e fluenti capelli
biondi
carezzati dalla brezza marina.
Gli occhi, di un grigio
pallido e fluido, lo stavano scrutando pieni di domande, domande a cui
però lui
non sapeva dare una risposta.
«Cosa… cosa
vedi, ora?»
domandò lei, incerta.
«Te» si
limitò a dire
Alekos. «Hai dei bellissimi capelli. E se prometti di non
spifferarlo a mia
zia, posso anche osare dirti che sono più belli di quelli di
Afrodite.»
Quel complimento la
mandò in confusione. Sapeva bene di non avere un aspetto
decente da più di
settant’anni. Lasciate quindi le mani di Alekos, si
passò le dita tra la
scompigliata criniera annodata e informe e, con un sospiro,
replicò: «Credo tu
abbia le traveggole.»
«Oh, no. So bene cosa
vedo. Ora, i tuoi capelli sono come al solito… e
cioè, bisognosi di una bella
pettinata e di un bel po’ di balsamo ammorbidente»
le sorrise indulgente prima
di riafferrarle le mani per aggiungere: «Se invece ti prendo
per mano, vedo com’eri.»
«E…»
mormorò lei,
mordendosi nervosamente il labbro inferiore.
Alekos, a quel punto,
arrossì e disse: «Oh, no! Non cadrò nel
tranello! Ne so poco di donne, ma
alcune cose le conosco. Se ammetto quanto tu fossi bella, mi potresti
replicare
che baso il mio giudizio su di te solo sul tuo volto, e non sulla tua
personalità
ma, se ti dicessi che ti apprezzo soprattutto come persona,
replicheresti che
ci conosciamo ancora troppo poco, per poter dire una cosa
simile.»
«Come? Ma che
dici?»
esalò Astrea, sbigottita.
«Uhm… vuoi
farmi
intendere che non lo penseresti?» replicò ora
dubbioso Alekos.
Lei scostò le mani da
quelle di Alekos per poi allontanarsi di qualche passo dal giovane
dopodiché,
da sopra una spalla, lo guardò piena di dubbi e desiderosa
di porre molte
domande.
Di tutti i dubbi che
Alekos le lesse negli occhi, però, non ne espresse nessuno
e, con voce nuovamente
atona, tornò a rivolgergli la parola soltanto per dirgli:
«Andiamo a curare i
feriti.»
Al giovane non restò
altro che fare così anche se, per il resto della giornata
passata accanto ad
Astrea, non fece che accumulare tensione nervosa e una fortissima
esasperazione.
Come diavolo faceva a
farle capire che voleva conoscerla meglio e voleva aiutarla davvero?!
***
Riemergere dal sonno
onirico fu più esasperante e irritante di quanto non lo
fosse mai stato nei
mesi precedenti e, quando si ritrovò gli occhi dei nonni
puntati addosso, non
faticò a comprenderne i motivi.
Era più che certo di
avere il volto corrucciato, forse addirittura livido, e per
più di un motivo.
«E’…
andato tutto bene?»
tentennò Anita, non sapendo bene quanto – e cosa
– chiedere al nipote.
«Bah… vai a
saperlo»
sbuffò Alekos, balzando in piedi dal materassino prima di
rendersi conto
dell’orario. Era rimasto addormentato quasi tredici ore!
Fissando costernato
l’orologio da muro, fissò spiacente entrambi i
nonni, ma Carlos tenne subito a
precisare: «Non fare quella faccia. Siamo andati in bagno a
turno e abbiamo
anche pranzato.»
«Lo spero bene»
sottolineò Alekos, stiracchiandosi un poco prima di dire
frettolosamente:
«Eros, io ti invoco. Hai tempo per me?»
Una nuvola dorata
apparve dopo qualche attimo e, sotto gli occhi stralunati dei tre
presenti,
fece la sua apparizione Eros in tutto il suo divino splendore.
A torso nudo e lucido di
sudore, il dio indossava solo un esile perizoma da danza classica color
carne,
che niente lasciava all’immaginazione e molto mostrava agli
occhi dei suoi
spettatori.
Mentre Carlos
bestemmiava un’invocazione a tutti i santi del paradiso per
poi coprire gli
occhi alla moglie – in totale ammirazione del dio –
Alekos gracchiò: «Ah… che
stavi facendo, scusa?»
«Danza classica, non si
era capito? Porto persino le scarpette con la punta!»
sottolineò lui
indicandosi i piedi.
«Giuro… non le
ho
notate» esalò Alekos, passandosi una mano sul
volto, ormai prossimo a un
esaurimento. «Senti, se posso rubarti alla tua lezione, avrei
bisogno di
parlarti.»
Esibendosi in un fouetté
en tournant di gran pregio, Eros
assentì e disse: «Nessun problema. Posso
riprendere anche dopo.»
Ciò detto, si
inchinò
elegantemente ad Anita, strizzò l’occhio a Carlos
e infine portò con sé il
cugino, svanendo in una nube dorata al sapor di zucchero.
Sbuffando di fronte ai
residui di quella nuvoletta profumata, Carlos borbottò:
«Questi dèi, a volte,
non hanno davvero pudore.»
«Lo dici solo
perché non
è arrivata Psiche, così conciata» lo
rimbeccò con ironia Anita, dandogli un
colpetto sullo stomaco con fare divertito.
«Puoi forse
criticarmi?»
replicò allora lui, scoppiando a ridere con la moglie.
Nell’uscire dalla
dependance mentre le loro risate andavano scemando, Carlos
commentò con la
moglie: «Chissà perché aveva quella
faccia, comunque…»
«Se ha chiamato proprio
Eros, oserei dire che è un caso delicato.»
«Uhm… cherchez la femme?»
ipotizzò l’uomo.
Anita assentì,
chiosando: «Ho idea di sì.»
«Era ora»
motteggiò a
quel punto Carlos, ricevendo per diretta conseguenza uno schiaffetto
sulla
spalla da parte della moglie.
Lui, però, non vi fece
caso. Era inutile che la moglie facesse la finta puritana; il nipote
era in
gamba, sapeva un mucchio di cose… ma, quanto a donne, non
aveva ancora imparato
nulla, ed era tempo che si desse da fare.