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Autore: Nescio17    10/06/2020    1 recensioni
1920
L'Inghilterra è profondamente segnata dalla guerra, ma nell'ombra e tra i quartieri bui, una famiglia riesce a farsi strada.
Sono le sorelle Hall, rimaste orfane a causa della guerra. Questo non le ha scoraggiate dal portare avanti le attività storiche della famiglia: nei meandri di Liverpool, i Poison Absinthe, hanno costruito un impero attorno a scommesse, mercato nero, ma soprattutto vendendo il miglior assenzio di tutta la Gran Bretagna.
Il lavoro della banda sarà riposto nelle mani delle sorelle e gli affari nelle loro scelte.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si rigirò la sigaretta fra le mani lasciando bruciare lentamente la cartina, un filo di fumo che lentamente si innalzava verso la parete bassa e opprimente di quello scantinato polveroso. Ormai il nero della fuliggine aveva tinto le pareti bagnate dall’umidità grondante che nemmeno con il fuoco dei camini era riuscito ad andarsene. Guardò in alto, verso la finestra talmente stretta da sembrare una lama sottile: contemplò i numerosi passanti che affollavano Kensington a quell’ora di notte. 

 

Era quello il momento migliore per passeggiare tra quelle strade, dove l’odore di fogna persisteva come parte integrante di quei mattoni anneriti dallo smog delle fabbriche. Le prostitute mostravano le gambe lunghe e snelle, provate però dal freddo di quell’inverno piuttosto duro mentre alcuni uomini venivano cacciati date le loro scarse finanze: la carità non era ben accetta in quel periodo. 

 

Fece un profondo respiro e poi tirò una lunga boccata di fumo che le invase i polmoni: sentì il sapore acre del tabacco grezzo scendere lungo la gola e graffiarle le corse vocali, doveva cambiare marca di quelle sigarette o a venticinque anni si sarebbe ritrovata senza voce. Si stiracchiò allungando le gambe sulla scrivania, i pantaloni neri che la fasciavano morbidi: quelli erano un opera di sua madre che prima della sua dipartita aveva modificato numerosi paia di pantaloni del padre per farle quel regalo. Le gonne di quegli anni era così scomode che avrebbe preferito andare in giro in biancheria che metterle: eppure vestita così riusciva a dare anche più scandalo, vestita come un uomo. Il tacco nero picchiettava sulla superficie di legno al ritmo di una musica tutta nella sua testa: era una ballata ritmata, un ballo gioviale di quelli da bar del venerdì sera dove gli uomini sbronzi si divertivano a cantare per rianimare gli animi distrutti da anni di lavoro logorante. Fece ancora un tiro profondo consumando fino in fondo la cartina ormai ridottasi  a una cicca minuscola.

 

Qualcuno bussò alla sua porta rovinando quel momento di pace e di quiete che si era riuscita a ritagliare in quella serata piena di trambusto. Si strinse le tempie socchiudendo un attimo gli occhi: da quando aveva preso lei la direzione quel posto sembrava un formicaio che non dormiva mai, senza riposo. 

 

“Avanti.” Disse cercando di mantenere la calma: si accese un’altra sigaretta sperando che dal suo sguardo trasparisse la voglia che aveva di stare completamente sola. Judith entrò silenziosa come un fantasma: la pelle delle mani, diafana, riluceva sotto le lampade gialle, le dita inanellate pesanti sotto tutto quell’oro. 

 

“Mag, Lucas ha avuto dei problemi nel locale di Gregor, ha fatto una specie di rissa e l’hanno cacciato fuori.” Si strinse ancora di più le tempie sperando che quel troglodita di suo cugino non avesse combinato l’ennesimo casino in uno dei bar di sua competenza. L’essere parte di una famiglia con un nome importante non ti dava nessuna supremazia sugli altri eppure lui non riusciva a capirlo: se eri una testa di cazzo ci rimanevi. 

 

“Ju vai a parlare con Gregor che io mi occupo di Lucas e digli che non gli darà più fastidio - Judith stava per uscire, quando la fermò un attimo prima che sparisse - digli anche però che è indietro con i pagamenti. Quindi io lo tengo fuori dai guai se lui paga quello che deve pagare.” La ragazza annuii convinta e poi sparì nel buio del corridoio lasciando dietro di se una scia profumata: adorava il profumo alla rosa. 

 

Si alzò dalla sedia stringendo fermamente la sigaretta tra le labbra, un prurito alle mani iniziò ad attraversale le terminazioni nervose: già era difficile gestire tutta la baracca, se poi ci si mettevano i suoi parenti di sesso maschile a incasinare tutto era troppo. Si diresse rapida verso le scale, salendo i gradini rapidamente e lasciandosi dietro il fumo della sigaretta che ora aspirava con avidità. Sapeva perfettamente dove trovarlo quel fannullone, quell’ubriacone senza arte né parte che riusciva solo a farsi riempire il bicchiere e non ascoltare le sue direttive. Uscì sulla strada lasciando che il buio e il freddo la investissero come un treno in corsa: gettò la sigaretta finita sulla strada e aspettò a fumarne un’altra, ora doveva andare da quel babbeo. 

 

Attraversò in fretta evitando una macchina che per poco non la prese: gli fece un gesto più che eloquente e continuò per la sua strada stringendosi nel cappotto di lana e calandosi con durezza il cappello sulla testa. Girò la strada ed imboccò la viuzza che si trovava dietro il locale di Gregor, il Quaff, uno dei pub più frequentati di tutta Liverpool, ovviamente sotto il loro controllo: era difficile che ci fosse qualche locale, negozio, attività o anche solo anfratto che non fosse sotto la giurisdizione dei Poison Absinthe. Solo il pub di Mick Null era fuori dai loro poteri, una piccola concessione per evitare uno scontro a fuoco con un’altra delle famiglie più rilevanti di Londra: un prestito ben ripagato. 

 

Era lì, seduto su un bancale di legno, reggendosi la testa con la mano mentre l’altra reggeva a mala pena una sigaretta quasi finita. Attorno a lui gravitavano altri due ragazzi: Jimmy e Nigel, due fannulloni al pari del fratello. Entrambi stavano finendo una birra, facendo poi schiantare la bottiglia sulla parete opposta, macchiandola con quel liquido vomitevole che si ostinavano a bere e che in poco avrebbe loro bruciato lo stomaco. Si avvicinò tranquilla, lo sguardo nascosto dal cappello nero che la proteggeva non solo dagli sguardi, ma anche dalla pioggia che stava per iniziare a cadere: l’aria era satura dell’odore dell’acqua. 

 

“Ehi bella, sei venuta qua a farci compagnia?” Schiamazzarono i due che ancora riuscivano a proferire parola dopo i numerosi boccali di birra già ingurgitati. Alzò lo sguardo piano, lasciando che i ragazzi seguissero i suoi occhi lentamente per riconoscerla: li fissò silenziosa, accendendosi finalmente quella benedetta sigaretta che agognava da minuti. 

 

Maledetto suo padre che le aveva trasmesso questo vizio. 

 

“Mag ci dispiace, n-n-noi…” Jimmy balbettò delle scuse cercando di riprendere il controllo su di sé. L’osservò restando ancora in silenzio e inalando il fumo: la cartina sfrigolò ardente tra le sue dita esperte. Al sentire quel nome Lucas rizzò il capo, gli occhi ora vigili e le gambe pronte alla corsa se necessario: in realtà non sarebbe riuscito a fare nemmeno sei piedi che sarebbe caracollato su se stesso, rendendosi ancora più ridicolo. 

 

“Ragazzi, mi sono giunte voci che avete infastidito ancora Gregor. E’ vero o sono solo menzogne?” Disse facendo un altro tiro: il fumo le avvolse la bocca, nascondendo le labbra peccaminose dietro una cortina sottile. Nigel decise che fosse il momento di aprir bocca e far vedere che l’uomo era ancora lui.

 

“E se così fosse? Quel bastardo ci deve ancora trecento sterline!” Disse innervosendosi: l’alcool faceva questo, aizzava gli animi, sbiadiva le inibizioni, rendeva bestie. Lo aveva bandito in ogni posto di lavoro della famiglia: si poteva bere solo al di fuori dagli uffici. 

 

“Non spetta a te decidere cosa fare, o mi sbaglio?” Disse schiacciando quello che rimaneva della sigaretta nella strada malfatta, ancora metà fango e metà catrame: sicuramente il governo non si sarebbe scandalizzato sapendo che nel quartiere di Kensington le strade ancora erano un lago di putredine.

 

“Mag ti abbiamo fatto un favore accelerando i tempi.” La voce di Lucas sembrava lontana, impastata dall’alcool e da qualche altra sostanza che aveva assunto di recente. Gli occhi vigili, ma vacui ne erano la testimonianza: il suo cervello era sicuramente da un altra parte. Sfoderò la pistola, stanca di quei giochetti, sembrava di essere all’asilo: gliela puntò proprio sulla giugolare, li dove la vita scorreva forte e vorticosa, una delle vene più fragili e pericolose, eppure così esposta. Calò il silenzio, mentre alcune gocce di pioggia iniziarono a cadere pesanti come proiettili. 

 

“Non mi fate mai un cazzo di favore, sapete solo fare casini, dovete imparare ad ascoltare - scandì lentamente, osservando una goccia di sudore che scivolava sulla tempia di suo cugino - se vi becco ancora in questo posto vi sparo un colpo in mezzo agli occhi. Sono stata abbastanza chiara?” I ragazzi la fissarono, le pupille dilatate dalla paura, la puzza di alcool che ancora gli riempiva l’alito e i vestiti: annuirono tutti e tre, consapevole delle parole della donna. Tolse la pistola, ma non troppo in fretta, lentamente, tracciando una linea sul collo così bianco e fragile di quel ragazzo nemmeno uomo, ancora troppo bambino. 

 

“Un ultima cosa, voi non mi dovete chiamare così, dovete rivolgermi a me con il nome intero, chiaro?” Rinfoderò la pistola scostando leggermente il cappotto. 

 

“Sì Magdalene.” Si levò in coro, come una sinfonia un po’ stonata, un po’ storta. Li vide darsi a gambe levate, trascinandosi l’uno con l’alto sotto la pioggia che ora era diventata più intensa. Si sedette lì dove poco prima sostava Lucas e si accese un’altra sigaretta, osservandone il vano dove accuratamente le sistemava tutte le mattine: avrebbe dovuto fare rifornimento anche quella sera.

   
 
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