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Autore: Nescio17    10/06/2020    0 recensioni
1 settembre 1939, Hitler invade la Polonia e la seconda guerra mondiale ha inizio.
Molti giovani italiani vengono richiamati alle armi per difendere il proprio paese e portargli lustro.
Moira Marzotti e Andrea Nolano si troveranno coinvolti in questo avvenimento più grande di loro e i destini di tutti saranno legati da un filo rosso.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Storico
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12 settembre 1939

Passai di nuovo l'ago in quel tessuto, ma il filo non sembrava aver voglia di fare ciò che io avevo prontamente programmato: la mamma mi aveva detto di rammendare i calzini o non sarei potuta andare a lezione il giorno dopo, sosteneva che dovessi comunque adempiere ai miei doveri di donna. 

Avevo iniziato l'università da poco e non era stata una decisione facile dato che ero donna: la facoltà che volevo frequentare non mi avrebbe mai ammessa. Ci avevo messo un anno per decidermi a dirlo ai miei e, nel caso avessero accettato, trovare una soluzione per risolvere il problema del sesso sbagliato. La prima persona a cui l'avevo detto era stato mio fratello Gregorio, mentre pulivamo il porticato dalla mietitura appena fatta: i suoi occhi verdi mi avevano guardato con curiosità, come se gli avessi dato uno schiaffo in faccia. Eppure non aveva mosso ciglio, aveva alzato le spalle e mi aveva detto :"Fai come ti pare, se è quello che vuoi." Così da Gregorio la notizia era passata a Luigi che trafelato era entrato in camera mia e mi aveva abbracciato forte: io e Luigi avevamo solo un anno di distanza, era lui quello piccolo e quello più affettuoso. Ma i miei fratelli non si erano presi l'impegno di dirlo ai miei: una sera di agosto li avevo riuniti al termine di una cena. Io a un lato del tavolo e loro quattro di fronte a me, i miei con sguardo stranito, i miei fratelli pronti a calmare le acque. 

"Voglio andare all'università."

L'avevo detto con freddezza, con sincerità, trattenendo il respiro tra quelle quattro parole che rischiavano di rimanermi impigliate nella gola. Mia madre aveva sorriso, forse consapevole che non ero come tutte le altre e forse già a conoscenza del mio segreto a causa di qualche voce persa dai miei fratelli, oppure grazie al suo intuito di madre. I suoi occhi teneri mi diedero un assenso silenzioso, mentre mio padre mi osservò per un tempo infinito e poi con voce tranquilla rispose che andava bene, ma che avrei dovuto iniziare a guadagnare, sennò sarebbe stato impossibile farmi studiare e mangiare allo stesso tempo. 

Era iniziata così la mia avventura: ogni mattina mi alzavo per prendere la corriera alle quattro e un quarto, avendo giusto il tempo di buttare le sementi alle galline. Seguivo le lezioni sotto mentite spoglie grazie ad un'ingegnoso travestimento ideato da mia madre e un nuovo nome: Vittorio Marcellini; per il nome avevo preso ispirazione dalla mia amica Vittoria Arnolfi. 

Vittoria si era trasferita nel nostro paese quando avevo sedici anni compiuti e con mia somma sorpresa, stringemmo amicizia, trovandoci subito in sintonia. Lei però non strinse mai amicizia con Andrea che nel frattempo si era fatto bello e aitante: al paese tutte lo guardavano con occhi trasognanti, come se fosse il bello e ricco da sposarsi. Quando passava lui tutte sembravano fermarsi a osservarlo, con la bocca che tentava di rimanere chiusa a fatica: Andrea era molto solare, ma dentro di sé nascondeva un mondo a tutti quanti, incapace di dimostrare chi era veramente. 

Vittoria mal lo gradiva trovandolo superfluo e ingenuo, ma io lo conoscevo meglio di tutti e dopo numerosi tentativi, avevo desistito dal farli diventare anche solo conoscenti, Vittoria sapeva essere anche più testarda di me: strano, ma vero. 

Solitamente l'orario di ritorno era per le sei a casa e a quell'ora lì iniziavo i miei lavoretti per racimolare abbastanza denaro: rammendavo i vestiti delle signore, ogni tanto aiutavo nella piccola biblioteca comunale perdendomi tra quei grossi tomi o cercando di investire quello che guadagnavo in nuovi volumi da aggiungere a quegli stretti scaffali. 

Ma il mio primo investimento fu la Leica 3b, una machina fotografica di nuova generazione, uscita un anno prima: ci avevo investito cinque stipendi e mio padre non era stato molto felice della notizia, ma non poté nemmeno biasimarmi in quando la mia Leica A ormai era diventata quasi un cimelio rispetto ai nuovi modelli. Avevo così iniziato a cimentarmi nella fotografia fotografando le partite domenicali del calcio nel piccolo campo dell'oratorio, le gare di pesca al fiume, qualche ciclista di passaggio, gli alberi in fiore e i bambini che scorrazzavano per le strade del paese: Sandro Pritti, il direttore dell'editoria del paese vicino, mi aveva così assunta come fotografa del giornale locale. 

 

Finii di rammendare anche quell'ultimo calzino e poi mi alzai indolenzita da quella sedia di legno che ormai sembrava aver preso la forma del mio corpo da quanto tempo mi ci sedevo. Il sole era già tramontato e un leggero freddo aveva sostituito un tenero tepore di quelle giornate di settembre, dove l'estate inizia a cedere il posto all'autunno: nel camino scoppiettavano qualche pezzo di legno che Luigi aveva iniziato tagliato in quel mese, quando la legna ancora non è bagnata. Guardai fuori dalla finestra il cortile illuminato da piccole lampade a olio che ancora risalivano ai miei bisnonni: ogni cosa veniva riutilizzata e sistemata sopratutto dopo la grande crisi del ventinove. 

Ma quei giorni non erano nemmeno migliori, in Europa la situazione stava iniziando a scaldarsi notevolmente e l'ombra di un'altra guerra incombeva lugubre sulle nostre teste: era giunta notizia che Hitler, il dittatore della Germania, stesse conquistando pian piano territorio, anche grazie all'appoggio dei paesi che non volevano ricadere nell'inganno della guerra. 

Vidi una persona entrare dentro il cancello della corte e avviarsi verso la porta di casa: sapevo che non potevano essere i miei genitori in quanto erano andati via per qualche giorno a trovare la zia Rosetta all'ospedale di Milano e nemmeno Gregorio e Luigi che quella sera avrebbero fatto il turno di notte alla fabbrica di Nanni. Mi abbassai senza perdere di vista l'uomo che avanzava tranquillo e afferrai il fucile posto con astuzia sotto il lavello, agganciato per non destare sospetti o essere notato in caso di apertura degli sportelli. Caricai un colpo e andai alla porta aprendola: non c'era tempo per la filosofia e così puntai il fucile dritto verso l'uomo che ancora non riuscivo a identificare nel buio serale: le lampade illuminavano, ma non abbastanza finché io lo riconoscessi.

"Chi sei?" Dissi senza troppi giri di parole, il colpo pronto nella canna e la mano ferma sul grilletto con precisione millimetrica. Mio padre mi aveva insegnato a sparare per qualsiasi urgenza, anche se non avevo mai usato questa abilità nella caccia: mi esercitavo in solitaria ogni tanto nel bosco vicino a casa assieme ai miei fratelli. In quei tempi difficili le rapine nelle case erano diventate sempre più frequenti, così come voci di stupri perpetrati da giovani invasati. 

"Una persona a cui non dovresti sparare." Avrei riconosciuto la sua voce ovunque, anche in mezzo al temporale: avevo imparato a conoscerla, a identificare la leggera inflessione dovuta al dialetto, al rumore di ogni lettera pronunciata con quella voce profonda e leggermente roca. I suoi passi ora mi suonavano familiari, riconobbi quell'incedere tranquillo, ma leggermente spostato a sinistra. 

"Muoviti scemo, sennò entra freddo in casa." Allungò il passo e finalmente vidi il suo volto illuminato dal tenue bagliore. Gli occhi mi salutarono ancor prima della sua bocca che si piegò in un sorriso felice, come un bambino con la sua caramella preferita in bocca. Come quando eravamo bambini, non riuscivo mai ad arrabbiarmi per ciò che combinava e neppure quell'intrusione poteva farmi cambiare idea: qualche madre avrebbe detto che la presenza di un così baldo giovane in una casa di una ragazza sarebbe stato di protezione, ma sapevo con certezza che in caso di pericolo la mia mano sarebbe stata più lesta di quella di Andrea. Si sedette come se fosse a casa sua sul divano marrone, sollevando una leggera nuvoletta di polvere, quasi impercettibile alle lampade artificiali. Posò lo Steyr-Mannlicher M1895 vicino alla sua gamba, scarico e con la punta rivolta verso l'alto: sembrava stanco a causa della posizione, ma sapevo che era solamente il solito maleducato pronto a sbracarsi da qualche parte. 

"Un uccellino mi ha detto che una fanciulla era tutta sola in casa e quindi sono venuto a proteggerla." Disse guardandomi negli occhi con il suo sorrisetto furbo e per niente casto. 

"Dì al tuo uccellino di cercare informatori migliori perché la fanciulla sta benissimo." Dissi incrociando le braccia e chiudendo gli occhi con fare saccente: ogni scusa era buona per entrare in casa e stare qua fino all'indomani, come se lui un letto non ce l'avesse già. 

Andrea sbuffò sonoramente, il petto gli si sollevò tranquillo così come il ciuffo biondo che ricevette il suo sospiro dal basso: mi stava nascondendo qualcosa di più importante di una semplice visita e il fucile lo testimoniava. Gli uomini come lui non avevano bisogno di fucili per andare in giro, bastava indossare il simbolo che permetteva alle squadre d'assalto di riconoscerlo come facente parte del gruppo universitario fascista: in realtà avevo anch'io un simbolo distintivo per le giovani fasciste in quanto quello universitario non mi era permesso per ragioni già elencate. 

"Per cosa sei venuto qua Andrea?" Gli dissi con voce calma, andandomi a sedere a debita distanza da lui sul divano: le molle cigolarono piano, accompagnando il mio morbido movimento che venne seguito in tutte le sue fasi dagli occhi guardinghi di Andrea. 

Le cose fra di noi non erano cambiate, ma alcuni atteggiamenti e comportamenti facevano intendere altro: non eravamo più bambini di dieci anni che correvano lungo il fiume; a vent'anni i sentimenti possono cambiare e trasformarsi in qualcosa di pericoloso. Non volevo che qualcosa si rovinasse tra di noi, anche se sentivo un'attrazione sempre più forte nei suoi confronti che era difficile da non far trapassare: il problema principale, oltre al fatto che sarebbe potuta non essere corrisposta, era che non capivo se fosse davvero un sentimento sincero o se fossi attratta da lui solo per la sua bella prestanza. 

Posò lo sguardo nel mio, analizzando quella che sarebbe potuta essere una mia reazione e con voce pacata iniziò ciò che sembrava non voler uscire dalla sua bocca. 

"Hai sentito le nuove notizie sull'Europa?" Nelle ultime settimane non ero stata molto attenta agli ultimi avvenimenti, non per mancata voglia, ma perché studio e lavoro mi portavano via parecchie energie. Leggevo solo qualche testata la mattina appena scesa dalla corriera, quando passavo di fronte a un piccolo giornalaio, ma tra la calca non sempre era facile vedere. 

"Ho sentito qualche notizia disconnessa, anche perché la radio non funziona ancora. Cosa è successo?"

"Hitler ha invaso la Polonia e l'Inghilterra e la Francia hanno dichiarato guerra." Per poco il mio cuore non perse un battito: in soli dieci giorni mi ero persa l'inizio di una guerra. Rimasi in silenzio fissando un punto lontano, pensando a tutto quello che sarebbe potuto accadere: i ragazzi sarebbero stati richiamati alle armi se l'Italia avesse deciso di intervenire, tutti i miei fratelli sarebbero stati arruolati così come Andrea. Sarebbero andati al fronte senza poter opporsi a causa di quello che veniva chiamato tradimento di patria e che comportava l'uccisione immediata. La mia mano ebbe un leggero fremito: ci eravamo caduti ancora e stavolta con tutte le scarpe, non c'era via di scampo né di soluzione. 

Andrea mi prese la mano stringendola nella sua calda e ampia: cercò il mio sguardo irraggiungibile fino a quel momento, lontano in quelle terre dove i rombi delle bombe già iniziavano a risuonare come melodie lugubri. 

"L'Italia per adesso si è dichiarata neutrale, quindi per adesso nessuno dovrà partire Moira, c'è ancora una speranza. Non iniziare a preoccuparti come fai di solito." Cercò di consolarmi, ma feci tutto il contrario. La mia reazione fu parecchio violenta. 

"Ma come puoi pensare che l'Italia rimanga solo a guardare? Hanno stretto patti con quel pazzo che va in giro a parlare di razza pura, inneggiando a una stirpe nuova. Come puoi anche solo pensarlo?!" Gli strinsi la mano più forte sentendo una sua reazione: l'ansia è un'emozione che nessuno dovrebbe provare, ma in quel momento mi pervase come un'onda nera, fredda, viscida e invadente. Andrea si avvicinò a me stringendomi fra le sue braccia: i contatti umani non mi erano mai piaciuti, ma in quel momento anche il mio corpo aveva bisogno di calore umano, come una carezza che potesse anche solo allontanare quel dolore che mi stava invadendo il cuore, in balia delle emozioni. 

Mi prese a carezzare i capelli mentre la mia mente ancora viaggiava a possibili scenari di morte e devastazione: noi, generazione nata dopo la prima grande guerra, non riuscivamo a comprendere la vastità di un evento del genere e nemmeno ne comprendevamo la pericolosità, potevamo solo basare i nostri ricordi su i racconti dei sopravvissuti, di chi ancora aveva una mente stabile per poterne parlare. 

Rota ol mat era famoso in tutto il paese: figlio dei panettieri era tornato dalla guerra nel gennaio del diciannove, dopo aver combattuto la battaglia di Vittorio Veneto: nelle prime settimane non aveva dato segni di disagio anche se sembrava diffidare di tutti coloro che entravano nel negozio per comprare i viveri. Nel maggio dello stesso anno un ragazzino fece rimbalzare per sbaglio il pallone sulla vetrina: il rumore riportò la mente del povero Rota a quelle montagne dove la neve non si scioglie mai, dove i suoi compagni congelavano a causa degli equipaggiamenti non adatti. La vibrazione così forte lo fece uscire di senno, gli occhi stralunati e pieni di terrore per chiunque provasse anche solo ad avvicinarsi: ora viveva nella sua cameretta al secondo piano di via Manetti, dove i palloni non potevano arrivare e i rumori venivano attutiti da cuscini alle grandi finestre istoriate. La guerra lo aveva demolito, lo aveva reso schiavo del dolore e della paura, rendendolo prigioniero del suo stesso corpo e della sua mente incapace di liberarsi dalle catene che quelle bombe e quei fucili gli avevano costruito attorno. 

Quel momento sembrò durare un eterno, non riuscivo a percepire altro che lui che mi stringeva come si fa con i cuccioli indifesi, come se fossi una cosa fragile pronta a rompersi. Mi staccai da quella stretta e lo guardai fisso negli occhi: in quei pochi attimi avevano perso la loro leggerezza ed erano diventati più scuri, più bui, come se la loro luce si fosse affievolita. Anche lui comprendeva l'immensità di quella situazione e la possibilità dell'arruolamento era talmente tangibile che le ossa tremavano nelle carni ancora morbide di gioventù. La questione non era essere codardi o meno: tutti sapevano che la guerra non portava mai nulla di buono, portava solo morti e vedove, giovani spezzati e vuoti incolmabili negli antri di case silenziose. 

"Promettimi che qualunque cosa succeda, io e te rimarremo sempre in contatto." Il bisogno di sentirlo vicino a me era forte: non era possesso, era paura di perdere tutto ciò che di più caro avevo. Mi strinse nuovamente la mano e mi fece un cenno di assenso, muto, silenzioso, freddo. 

   
 
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