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Autore: Stella Dark Star    11/06/2020    1 recensioni
Atsushi racconta un aneddoto riguardante una pietra dello stesso colore degli occhi di Akutagawa. Che cosa romantica! Peccato che i loro figli Hana e Riku non la pensino allo stesso modo e si dileguino con una serie di scuse! Hana a breve prenderà il diploma di scuola superiore ed è la tipica ragazza perfetta, salvo soffrire a causa del proprio potere incontrollabile... Il suo amico Sherlock (figlio di Ranpo e Yosano) le è accanto, ma è anche intrappolato in un rapporto molto particolare col gemello Moriarty, il quale si mostra possessivo e appiccicoso. In aggiunta ai problemi arriva Mafuyu (figlio di Mori e....), uno sbruffone ma anche un pericolo errante temuto da tutta la Port Mafia. Non è un caso che "nonna" Chuuya cerchi di tenerlo lontano da Hana, però si sa che quando il destino è in vena di fare scherzi nessuno può fermarlo!
La prima parte di una storia che cede il passo alla nuova generazione, ma senza trascurare troppo le amate ship Shin e Soukoku! ;)
Genere: Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Atsushi Nakajima, Chuuya Nakahara, Nuovo personaggio, Osamu Dazai, Ryuunosuke Akutagawa
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Triangolo
- Questa storia fa parte della serie 'SHIN+SOUKOKU SAGA'
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Bungo Stray Dogs:
Bungo New Generation!
(Parte 1)
 
A breve avrebbe cominciato a piovere. L’umidità era diventata quasi soffocante e si appiccicava alle pelle come una pellicola trasparente, mentre nell’aria si poteva già sentire l’odore di acqua e polvere. Incurante di tutto ciò,  Atsushi se ne stava fermo sul marciapiede come una statua, col naso in su a contemplare quel cielo grigio, il suo volto completamente privo di espressione. Era come trovarsi sotto un coperchio talmente grande da non poterne vedere i contorni, tanto le nuvole erano compatte. Qua e là erano appena percettibili dei contorni, delle linee curve e delle chiazze nere, ma era difficile a dirsi…
“Comunque i suoi occhi sono molto più belli.” Sussurrò al nulla, lasciando emergere una nota di disappunto nella voce.
“Atsushiiiii!!!”
Strabuzzò gli occhi e voltò il capo istintivamente. Vide Dazai correre verso di lui, il braccio sollevato in segno di saluto.
“Eri così assorto? Ho dovuto chiamarti tre volte!”
I capelli castani erano un po’ più arruffati del solito, sicuramente a causa della forte umidità, ma il suo bel viso era come sempre illuminato da un sorriso gentile e affabile.
Atsushi dischiuse le labbra, senza sapere bene cosa rispondere, ma ecco che proprio in quel momento alcune gocce di pioggia caddero su di loro.
“Oh!” Dazai, che fortunatamente aveva un ombrello sotto braccio, si affrettò ad aprirlo per riparare entrambi. La pioggia cominciò a scendere copiosa.
“Appena in tempo! Se non ci fossi stato io ti saresti bagnato tutto!”
Era vero ma…non che gli importasse gran che della pioggia.
“Andiamo!”
Obbediente come un cagnolino, Atsushi cominciò a camminare al fianco di Dazai, la spalla che si strofinava un po’ contro il braccio di lui. Distrattamente volse lo sguardo e lo sollevò su di lui, per poi finire coll’interessarsi all’ombrello. La parte esterna era nera, mentre quella interna rosso scuro, inoltre il manico in legno terminava con un pomello intagliato che raffigurava qualcosa di simile ad un gufo. Era un modello alquanto sofisticato, non adatto al suo abbigliamento.
Notando il suo sguardo, Dazai abbozzò una risata: “Non mi si addice molto, vero? Mi è stato regalato da una persona a cui tengo molto e non ho avuto il coraggio di restituirlo!”
Una persona cara…
“Dazai, sei mai stato innamorato?”
Lui lo guardò con sorpresa, la bocca a formare una ‘o’.
“Sì, certo! Lo sono tutt’ora. Si tratta della stessa persona che mi ha regalato l’ombrello.”
“Deve essere…bello…essere amati.”
“Be’, sì! Anche se negli anni ho perso il conto di quante volte ha cercato di uccidermi!” Un’altra risata.
Atsushi sgranò gli occhi: “Ucciderti? Ami una persona così? Ma è…possibile?”
Dazai accennò un sorriso: “Atsushi, non tutti manifestano i propri sentimenti allo stesso modo. Nemmeno io sono sempre stato uno zuccherino in amore. E’ un legame che va oltre. Amare significa che, per quanto male possano andare le cose, voi non smetterete mai di cercarvi, di aiutarvi e di unirvi per sentirvi completi. Comunque…” Lo sbirciò con la coda dell’occhio: “E’ curioso che tu me lo abbia chiesto con tanto interesse. Sei forse innamorato di qualcuno che ha attentato alla tua vita?”
Atsushi credette che il cuore gli sarebbe uscito dal petto per fuggire via di corsa! Si portò una mano al volto, come se bastasse a coprire il forte imbarazzo.
“Io…veramente non…”
“Prima di raggiungerti, involontariamente ti ho letto le labbra. Parlavi degli occhi di questa persona?”
Si era sbagliato. Il cuore non sarebbe fuggito da nessuna parte. Era più probabile che smettesse di battere, facendolo schiattare lì! Il che non sarebbe stato male…
“Una pietra!!!”
Il grido improvviso di Dazai lo fece sussultare.
“Cosa…?”
“Potresti cercare una pietra che ha il colore dei suoi occhi! Detta così sembra una cosa sdolcinata, ma io credo che tenerla con te e poterla guardare quando ne senti la necessità, potrebbe aiutarti a sentire più vicina a te quella persona!”
Come faceva quell’uomo a dire certe cose senza batter ciglio e col sorriso sulle labbra? Accidenti! Quel marciapiede sembrava non finire mai e lui non vedeva l’ora di arrivare al palazzo dove era l’Agenzia.
“Ehm… Magari proverò a cercarla in giro… Va bene…”
“Waaaaah allora sei davvero innamorato!!!”
Stavolta Atsushi strinse i pugni e gli abbaiò contro: “Possiamo finire qui il discorso???”
La risata di Dazai si confuse col rumore della pioggia che scendeva indisturbata su Yokohama.
Atsushi sporse la mano per mostrare la piccola pietra di quarzo tormalinato e disse: “La cercai per quattro giorni interi! E la tenni con me fino a quando non ci fu l’epico scontro fra me e vostro padre. E dopo…be’, potendo vedere i suoi occhi ogni volta che volevo, non ne ho più avuto bisogno e così l’ho riposta assieme a delle cianfrusaglie e me ne sono dimenticato! Questa mattina, quando l’ho ritrovata per caso, non ho saputo resistere dal raccontarvi questa storia!” Il dolce sorriso sulle labbra faceva pendant con gli occhi che brillavano di gioia. Non c’erano dubbi che fosse ancora follemente innamorato!
Akutagawa, al capo opposto del tavolo, aveva ascoltato il racconto con interesse, col viso appoggiato alla mano e il gomito contro la superficie.
“Non me lo avevi mai detto. Né della pietra, né del fatto che fossi innamorato di me molto prima che io ti baciassi.” Non era esattamente un rimprovero ma…
Atsushi chiuse gli occhi e sfoggiò ancor più il suo bel sorriso: “All’inizio ero troppo imbarazzato! E poi, come ho detto, dopo ho dimenticato la pietra e tutto il resto!”
Il piccolo tavolo da cucina, di forma quadrata, in quel momento era occupato anche agli altri due lati rimanenti. Precisamente da due figli talmente imbarazzati che, se avessero avuto l’abilità di scomparire o vaporizzarsi, lo avrebbero fatto volentieri! Il primo a fuggire, astuto, fu Riku, il secondogenito, un tredicenne pieno di energie che difficilmente riusciva a stare fermo per più di tre secondi di fila. Balzò dalla sedia gridando: “Io devo finire di prepararmi per la scuola!” E via, in un attimo era fuori dalla cucina, incurante del richiamo di sua madre.
“Riku, hai lasciato la ciotola sul… Uff… Non importa.” Atsushi ormai era rassegnato. Suo figlio era un fulmine incontrollabile.
“Non preoccuparti, okaa-san, ci penso io.”
Hana, la primogenita, era sicuramente una ragazza molto più composta e responsabile, oltre ad avere un’intelligenza che le aveva permesso di frequentare una scuola superiore di alto livello in cui quell’anno si sarebbe diplomata. Una alla volta prese tutte le ciotole vuote dove prima era il riso e i piattini delle verdure al vapore, le radunò in una pila con sopra le bacchette e andò a riporre il tutto nel lavello. Generalmente si sarebbe fermata a lavarle, ma quella mattina non era proprio il caso, dopo aver dovuto fare da spettatrice ad un episodio così sdolcinato riguardante i suoi stessi genitori! Con un sorriso incerto, si rivolse alla madre: “Ti…dispiace pensare al resto? Sherlock ormai starà arrivando e non vorrei farlo aspettare in strada…”
Atsushi si alzò dalla sedia e rispose semplicemente: “Certo! Vai pure!”
“Grazie!” Il tempo di dirlo e si volatilizzò fuori dalla cucina, diretta all’ingresso dove ogni sera aveva cura di mettere la cartella accanto alle scarpe.
Atsushi si sporse, tenendosi aggrappato allo stipite della porta: “Buona giornata, Hana! Prendi dei bei voti!”
“Sarà fatto!”
Slam!
Lui scosse il capo, ridacchiando. Hana non sapeva nascondere l’imbarazzo, proprio come lui! Fece per andare al lavello a lavare le stoviglie, ma ecco che un paio di mani lo afferrarono per i fianchi e lo trascinarono giù.
“Ryuu!!!”
Akutagawa lo strinse a sé per impedirgli di scappare, anche se di fatto Atsushi non ne aveva intenzione. Infatti, non solo si accomodò meglio sulle sue ginocchia, ma gli portò anche le braccia al collo e scambiò uno sguardo complice con lui. Dopo tanti anni amavano ancora scherzare e giocare come quando erano dei ragazzi. Ma era pur vero che il tempo li aveva un po’ cambiati… Akutagawa si era fatto crescere i capelli all’incirca fino alle scapole e ora li teneva quasi sempre legati in una severa coda; il suo viso tutto sommato era rimasto lo stesso, con le sopracciglia tipicamente disegnate e le labbra chiare e sottili, se non fosse stato per quelle rughe espressive che con gli anni si erano accentuate fino a scolpirsi sulla pelle, dandogli così un’espressione perennemente accigliata. Al contrario, Atsushi continuava a sembrare un ragazzino, grazie ai suoi bellissimi occhi luminosi e il sorriso giocoso, perciò l’unico cambiamento si poteva ritrovare nei capelli, che aveva lasciato crescere in un caschetto, e la frangia tenuta di lato in una morbida ciocca che lui aveva l’abitudine di lisciare dietro l’orecchio.
“Era così terribile quel racconto? Ho fatto scappare i nostri figli!” Si strinse nelle spalle, con fare impacciato.
“Io l’ho apprezzato molto. E’ stato come trovare l’ultimo tassello di un puzzle rimasto incompleto per lungo tempo.”
“Vuoi dire il puzzle del nostro amore?”
Invece di rispondere, Akutagawa posò le labbra sulle sue, sfiorandole appena come avrebbe fatto con un fiore delicato. Un gesto carino, sì, se quel fiore non si fosse rivelato un carnivoro affamato! Altrimenti detto, Atsushi s’incollò alle sue labbra con voracità e lo costrinse ad aprirle insinuandovi la lingua. Neanche a farlo apposta, proprio in quel momento piombò in cucina Riku, con la giacca della divisa aperta e un po’ sgualcita che gli dava un’aria da tipico adolescente trasandato.
Otou-san! Okaa-san! Io vad-” Rimase a bocca aperta per lo shock!
A nulla servì interrompere immediatamente il bacio, ormai il danno era fatto. Atsushi fece una simpatica smorfia, tirando fuori la punta della lingua e strizzando un occhio. Ops!
“Aaaaaaaaaah mi si fermerà la crescita dopo aver visto questa cosa disgustosa!!!” Starnazzò Riku, correndo via come se avesse un demonio alle calcagna!
SLAM!
Atsushi e Akutagawa si guardarono perplessi. A dirla tutta, Riku era alto per la sua età. Gli mancava appena mezza spanna per raggiungere sua madre ed era solo al primo anno di adolescenza!
*
 
Dopo aver preso l’ascensore per raggiungere il piano terra del palazzo, Hana attraversò l’ingresso con passo saltellante, ricambiò il saluto del signore anziano alla portineria e uscì pronta ad affrontare una nuova giornata. Allungando lo sguardo, vide che Sherlock l’attendeva al di là della strada, quindi gli corse incontro sorridente.
“Buongiorno! Per fortuna sei qui! Non vedo l’ora di allontanarmi da questo palazzo e da quei pazzi dei miei genitori!” Si gettò su di lui come una bambina e lo prese a braccetto.
Sherlock ridacchiò: “Cos’hanno combinato questa volta?”
“Meglio che non te lo dica! Ora andiamo, ti prego!”
Più che incamminarsi, praticamente lo portò via trascinandolo.
In breve raggiunsero la metropolitana. Pur essendo mattino presto era già affollata e caotica, ma per loro non era un problema dato che scendevano appena alla terza fermata e proseguivano a piedi per l’ultimo tratto. Poco dopo l’uscita, infatti, svoltando a destra ci si inoltrava in un pittoresco viale alberato, il quale era stato testimone delle loro chiacchierate fin dai tempi delle scuole medie e aveva colorato le loro giornate ad ogni stagione e con qualunque condizione meteorologica. Avevano giusto passato un paio di alberi quando Hana si staccò dal suo braccio per correre verso un cumulo di foglie rosse e sollevarle in aria facendole volare come farfalle. Hana era alta e snella, aveva la carnagione chiarissima e gli arti lunghi, ed era aggraziata in ogni suo movimento. La sua chioma folta e corvina era sempre perfetta e le piccole ciocche color cipria che spuntavano qua e là come punti luce, non facevano che rendere i suoi capelli ancora più belli. Le sue sopracciglia erano sottili archi sopra ad un paio di bellissimi occhi luminosi colorati di viola e oro e le sue labbra rosee come boccioli erano spesso inarcate in dolci sorrisi. In una parola, Hana era bellissima. Sherlock rimaneva sempre incantato a guardarla, era come se la sua luce vitale e il suo buonumore si espandessero tutto attorno e portassero una ventata di gioia a chi la guardava. Sì, lui conosceva quella sensazione che gli faceva battere il cuore e gli portava via il respiro. Loro due non erano solamente amici, erano cresciuti insieme, avevano affrontato a testa alta ogni prova che la vita aveva messo loro di fronte, creando così un legame forte e infrangibile. Nonostante avessero due anni di differenza, lui aveva fatto di tutto per poterle stare accanto, compreso passare dalla prima elementare alla terza nel corso dello stesso anno pur di diventare un suo compagno di classe. E da allora avevano trascorso ogni singolo giorno insieme, fianco a fianco.
“Sherlock, non fare il lumacone!” Lo riprese lei, ridendo.
Lui parve riprendersi dall’effetto incantato e tornare al presente. Il suo volto divenne sorridente mentre bruciava di corsa la distanza tra loro, per poi riprendere a camminare insieme verso la scuola.
Trattandosi di un istituto privato a cui era difficile essere ammessi, gli studenti che lo popolavano avevano la tendenza a credersi superiori ai comuni mortali e ogni giorno in classe era più simile ad una battaglia tra cervelli che ad una normale lezione. Per questo lui e Hana non avevano stretto vere e proprie amicizie in quell’ambiente, salvo qualche raro caso di ragazzi stranamente gentili e socievoli con cui di tanto in tanto uscivano per andare a mangiare qualcosa dopo le lezioni. Ma lui non aveva occhi che per Hana. Per il terzo anno di fila era riuscito ad impossessarsi bel banco dietro quello di lei, precisamente il terzo accanto alla finestra, e trascorreva quasi tutto il tempo ad osservare i suoi capelli, in attesa che lei si voltasse per chiedergli qualcosa e deliziarsi così anche dei suoi occhi luminosi e dei suoi sorrisi.
“Buongiorno!”
La voce familiare lo richiamò al presente. Si alzò in piedi come tutti gli altri suoi compagni e fece l’inchino.
“Buongiorno, Professor Moriarty!” Dissero in coro.
Il professore in questione era un giovane di bell’aspetto, dal volto sorridente, i tratti delicati e due occhi di un viola così carico da far invidia alle violette. Teneva i capelli neri all’indietro, con la frangia impomatata, e vestiva un completo blu notte che gli dava un’aria ancora più elegante.
“Sedetevi, prego. Iniziamo subito il test. Avete tempo fino alla prossima campanella per consegnare.”
Posò un fascicolo sulla cattedra e ne estrasse una pila di fogli che subito consegnò al capoclasse, affinché li distribuisse, quindi prese posto e si rivolse nuovamente agli studenti.
“Mi aspetto dei voti che facciano onore alla media della vostra classe. Non deludetemi!” Lo disse sorridendo, però tutti sapevano che in caso  di un esito negativo, sarebbe diventato spietato e li avrebbe massacrati di esercizi. Era capitato solo una volta, ma era bastato.
Sherlock, grazie alla sua spiccata intelligenza, terminò tutti gli esercizi in meno di dieci minuti. Tanto meglio, così poteva tornare a dedicarsi al suo passatempo preferito. Quel giorno Hana aveva legato i capelli in una coda di cavallo, cosa che gli permetteva di osservarle le spalle e decifrare il tuo stato d’animo in base a quanto erano rigide. Ma ormai la conosceva e sapeva che lei non era tipo da finire sotto pressione per un compito di matematica. Infatti, lo terminò in mezzora.
Il loro professore, che per tutto il tempo aveva per lo più finto di leggere un volume per preparare la lezione successiva, adocchiò i due studenti e disse: “Akutagawa! Edogawa! Se avete terminato potete consegnare. Sentitevi liberi di utilizzare i minuti restanti a vostro piacimento.”
Hana si voltò per dare un’occhiata a Sherlock e, ad un cenno di lui, entrambi si alzarono e andarono a consegnare. Il silenzio dell’aula era tale che ogni loro passo rimbombò come fossero stati elefanti in un negozio di cristalli.
Non appena si rimise seduta, Hana prese dalla cartella il quaderno di appunti di giapponese moderno, visto che le seguenti due ore sarebbero state di quella materia. Era una brava studentessa! Stava giusto ripassando quando…
Tu-tum!
La percepì chiaramente, era una sensazione sgradevole e fastidiosa. Con la coda dell’occhio sbirciò il resto della classe. Come temeva, alcuni suoi compagni stavano lanciando occhiatacce a lei e a Sherlock, solo perché avevano consegnato per primi. Tentò di ignorarli, la grammatica era una cosa ben più interessante a cui dedicarsi. E invece no. La sentiva sempre più forte, la loro invidia era talmente accesa che con gli occhi poteva vedere perfino un’aura verde innalzarsi dai loro corpi. Cher persone odiose. Perché se la prendevano con loro due? Lei aveva studiato e si era preparata con impegno per quel test. Doveva sentirsi in colpa per questo? Accidenti a lor- NO. Si volse verso l’angolino tra il banco e la finestra, per non vedere altro. Non doveva fare di quei pensieri. Per quanto fosse lei la vittima, non poteva lasciarsi andare e provare rancore per i suoi compagni. Perché sapeva cosa sarebbe potuto succedere.
“Dannata secchiona.”
Sussurrò la ragazza alla sua destra, così piano che lei sperò di essersi sbagliata. D’istinto si volse e incontrò il suo sguardo colmo di disprezzo. Quella stronza non perdeva occasione di attaccarla, fin dal primo anno. Che essere odioso. Avesse potuto cancellarla dalla propria vista lo avrebbe fatto volentieri. Un momento… Perché all’improvviso il suo sguardo era cambiato? Ora i suoi occhi erano spalancati, come se fosse spaventata. La mano con cui teneva la matita tremava. Spostò lo sguardo, anche altri ragazzi mostravano gli stessi sintomi. Oh no… Si abbracciò il busto, come per impedire a qualcosa di uscire. Ormai era tardi.
“Ho attivato il mio potere.” Pensò, spaventata a sua volta e tremando come quei cinque o sei altri suoi compagni. No, non era possibile. Stava accadendo di nuovo. Non poteva rimanere lì.
Si alzò di scatto dalla sedia.
“Professore, ho bisogno di uscire, non mi sento bene.”
Con sguardo velato di preoccupazione, lui rispose subito: “Vai pure.” E la osservò correre fuori dall’aula.
“Vado a vedere se ha bisogno di aiuto.” Si affrettò a dire Sherlock, correndole dietro senza aspettare la risposta del professore.
Non appena furono usciti entrambi, Moriarty notò che alcuni studenti sospiravano come se si fossero appena tolti di dosso un enorme peso. Un paio si passarono la manica sulla fronte umida di sudore. Accennò un sorriso enigmatico, parlando fra sé: “Allora avevo sentito bene.”
“Hana, aspettami! Dove stai andando?”
Ormai col respiro ansante e le gambe che rischiavano di piegarsi per la mancanza di forze, Hana stava correndo in cerca di un’aula vuota in cui rifugiarsi. L’infermeria non era un posto sicuro. Corse fino a quando non trovò ciò che stava cercando e si precipitò all’interno di un’aula che ormai non veniva più usata, salvo eventuali necessità.  Andò verso un angolo e si vi si gettò in ginocchio, senza fiato.
Sherlock la raggiunse pochi secondi dopo ma, prima che potesse avvicinarsi, lei allungò un braccio e gridò: “Stai lontano da me!”
“Sciocca! Stai male. Voglio aiutarti.”
Hana volse il capo, aveva gli occhi lucidi e due lacrime le avevano rigato il viso.
“Se ti avvicini farò del male anche a te! Non voglio! Ti prego, vattene!”
Sherlock accennò un sorriso e, incurante di quelle parole, le andò incontro senza timori. Si inginocchiò a sua volta e le cinse le spalle con un braccio, anche se lei tentava di impedirglielo divincolandosi.
“Va tutto bene. Lo sai che ci vuole ben altro per ferirmi!”
Per un motivo che non si era mai spiegato, lui e altre poche persone erano dotati di una sorta di scudo che li proteggeva dal potere di Hana quando lei perdeva il controllo.
Piangendo più intensamente, Hana sollevò un poco le mani tremanti e le guardò con disgusto: “Sono una catastrofe! Perché il mio potere si chiama ‘I doni della vita’ se può solo fare del male alle persone che ho attorno?”
“Non è vero. Serve anche a portare gioia, a chi sa vedere la persona meravigliosa che sei. Non devi rimproverarti se quegli odiosi dei nostri compagni ti portano a questo. Anzi, se lo meritano!”
Riuscì a strappare un sorriso ad Hana, la sentì sciogliersi nel suo abbraccio. Attese che lei si asciugasse il viso col fazzoletto che teneva sempre nella gonna della divisa, poi con una mano sotto al mento la fece voltare verso di lui. Era così carina con il naso tutto rosso e gli occhi umidi!
Le sorrise: “Visto? Ora che ti sei allontanata dalle loro occhiatacce stai molto meglio!”
Lei gli regalò un sorriso riconoscente: “Grazie, Sherlock. Sono felice che tu sia qui con me!”
In quel momento suonò la campanella della fine dell’ora.
Attesero alcuni minuti che nel corridoio si esaurisse la mandria di studenti che si spostavano da un’aula all’altra, giusto per evitare che Hana si sentisse ancora a disagio circondata da troppe persone, poi uscirono.
Prima di raggiungere la loro aula, vennero fermati da una compagna, una di quelle gentili che mai una volta si era mostrata scortese con loro due.
“Oh siete qui! Stavo giusto venendo a cercarvi. Ho visto che in infermeria non c’eravate.”
Hana rispose cercando di mostrarsi più allegra di quanto non fosse: “Oh non ci sono andata! E’ stato un falso allarme! Credo di aver avuto un attacco di panico a scopo ritardato! Ah ah!” L’impaccio la tradì, quella ragazza era incapace di dire bugie!
“Be’…mi fa piacere che ora tu stia bene! Torniamo in classe prima che arrivi il professore di giapponese moderno, altrimenti ci becchiamo un rimprovero!” La prese per mano, sorridendole. Decisamente era una creatura totalmente diversa dalle altre che erano nella loro classe! Stavano giusto per incamminarsi tutti e tre, quando la ragazza si rivolse a Sherlock: “Accidenti, quasi me ne dimenticavo! Il Professor Moriarty ha lasciato detto che vuole vederti nel suo ufficio.”
Lui si fermò all’istante, l’espressione di chi è abituato a sentire una frase come quella.
“Grazie per l’informazione. Allora… Per favore, quando torni in classe avvisa il professore che mi attardo.” Poi si rivolse ad Hana, stavolta con un pizzico di divertimento nella voce. “Comincia a prendere gli appunti anche per me!” E girò i tacchi, lasciando le due compagne.
Hana lasciò una risatina, scuotendo la testa. Ovviamente si trattava di una battuta! Sherlock aveva smesso di prendere appunti in sesta elementare e lo stesso aveva preso sempre il massimo dei voti in qualunque materia!
*
 
Sherlock camminò a passo spedito, sperando di non incrociare nessuno nei pressi dell’ufficio in cui si stava recando. Aveva le sue buone ragioni. Certo che anche Moriarty…. Cosa gli era passato per la testa quando aveva fatto richiesta per avere un ufficio personale? Nessun altro professore lo aveva e lui di certo non era sullo stesso livello del Preside. Uff…
Quando giunse di fronte alla porta, diede una sbirciata attorno e poi entrò senza bussare.
“Dovresti smetterla di convocarmi. Non fai altro che attirare attenzioni su di me. E lo sai che io odio le attenzioni.”
Un rimprovero fatto svogliatamente, con la consapevolezza che tanto erano parole inutili.
Moriarty, infatti, cambiò subito discorso: “Hana sta bene? Mi sembrava di aver percepito il suo potere, ma non essendone sicuro ho preferito aspettare che fosse lei a chiedermi di poter lasciare l’aula.”
“Sì, è tutto a posto. Si è calmata quasi subito. Non credo sarà necessario avvisare i suoi genitori. Non è successo niente.”
“Tranquillo, non ho intenzione di farli preoccupare inutilmente.” Fece una pausa e riprese a parlare con forte tono drammatico: “Con te accanto, i suoi attacchi sono diminuiti molto in questi ultimi anni. Sei la sua salvezza!” E sollevò una mano al soffitto, completamente calato nella parte che stava recitando!
Sherlock incrociò le braccia al petto e gli lanciò un’occhiata maliziosa: “Non sarai geloso, vero?”
“Pff! Le voglio bene, non potrei mai.” Riabbassò la mano e finse di controllarsi le unghie perfettamente curate. “Trovo solo assurdo che uno intelligente come te sprechi tempo in questa scuola, quando potrebbe già aver preso una laurea. Lo fai solo per stare con lei, immagino…”
“E tu Moriarty? A sedici anni possiedi ben tre lauree. Potresti tranquillamente essere a capo di un’azienda o addirittura lavorare per il Governo. E allora perché hai scelto di fare il professore di matematica in una scuola superiore?”
I loro sguardi s’incontrarono e si soppesarono attentamente. Moriarty si alzò dalla sedia con aria minacciosa e…saltò addosso a Sherlock per stringerlo in un caloroso abbraccio!
“Per stare accanto al mio fratellino, ovviamente!!!” In un attimo era diventato il ritratto della felicità.
Sherlock sbottò: “Odio quando mi chiami in quel modo. Sono nato solo quattro minuti dopo di te!”
“I quattro minuti più lunghi della mia vita! Oooooh!!! Non credo avrei resistito un attimo di più senza vedere il tuo bel viso! Non desidero altro che ricoprirlo di baci!”
Che sviolinata…
“Ti sembrano cose da dire a uno che ha la tua stessa faccia?”
Moriarty ridacchiò: “Forse sono narcisista!”
A onor del vero, i gemelli Edogawa-Yosano erano due gocce d’acqua. L’unica cosa che li differenziava, fisicamente, era il colore degli occhi. Moriarty aveva gli stessi occhi viola della madre Akiko, mentre Sherlock li aveva verdi come il padre Ranpo. Il resto era tutta opera loro. Si differenziavano per il modo in cui tenevano i capelli, l’uno impomatati all’indietro e l’altro con la frangia che gli ricadeva ai lati della fronte, per il portamento e per il carattere. Ah e poi c’era il fatto che Moriarty di recente era diventato un centimetro più alto del fratello, ma non glielo aveva ancora fatto notare per timore che si arrabbiasse! Per ovvie ragioni la loro parentela era nota e molte persone nell’istituto malignavano di certi favoreggiamenti che in realtà non c’erano. Sherlock prendeva ottimi voti per merito proprio e basta. Per creargli meno problemi, Moriarty aveva deciso di farsi chiamare per nome dagli studenti e di essere affabile con loro, trovando comunque il modo di farsi rispettare in quanto professore.
Sherlock sospirò e con gesto deciso si liberò dall’abbraccio del fratello: “Torno in classe, ci vediamo più tardi a casa.”
Appena fatto un passo, si sentì trattenere per una manica. Si voltò e vide lo sguardo serio di Moriarty.
“Sherlock, sei mio?”
Per la seconda volta il silenzio calò fra loro, mentre i loro sguardi incollati sembravano studiarsi.
“Sempre.” Rispose lui, per poi ritrovarsi nuovamente tra le braccia del fratello.
Le loro labbra si unirono in un bacio profondo, assetate, vogliose, in quello scambio di saliva che non sarebbe mai dovuto avvenire tra fratelli, ma che per loro era diventato una cosa naturale e quotidiana.
Sherlock emise dei mugolii di piacere, mentre le braccia di lui si muovevano sul suo corpo, esplorandolo da sopra i vestiti. Quando separarono un istante le labbra per prendere respiro, Sherlock intrecciò le braccia attorno al collo di lui, un gesto per fargli capire che gli si affidava  totalmente, che era il suo sostegno. Niente a che vedere col tocco sfacciato e possessivo di Moriarty, col suo braccio che gli cingeva il girovita saldamente, con la sua mano sinistra che si era avventurata verso il fondoschiena per stringere una natica senza alcun riguardo. Le loro lingue partirono per il secondo round di quel duello in cui non vi erano né vincitori né vinti, i respiri così amalgamati e caldi da essere diventati un tutt’uno, il rumore sensuale e bagnato delle loro lingue sovrastato solo dal ticchettio dell’orologio sopra la porta. Sherlock ricordò che non era stata chiusa. Se fosse entrato qualcuno e li avesse sorpresi così, sarebbe scoppiato uno scandalo di proporzioni cosmiche.
Tentò di staccare le labbra da quelle del fratello, ma lui gliele risucchiò con forza. Allora si aiutò con le mani, spingendogli le spalle indietro.
“FUAHHH!”
Subito mise una mano davanti alla bocca di lui, per impedirgli di baciarlo ancora.
“E’…anf anf…è meglio se…anf…torno in classe…anf…”
Moriarty scosse il capo per liberarsi della sua mano.
“Anf anf…perché? Anche se rientri la prossima ora che differenza fa?”
Sherlock deglutì e prese un respiro profondo per calmarsi.
“Voglio assicurarmi che Hana stia bene. Non mi fido a lasciarla da sola dopo quello che è successo.”
Senza nascondere la delusione, Moriarty lo sciolse dall’abbraccio. Si passò una manica sulle labbra per asciugare la saliva.
“Allora vai.”
Sherlock gli accarezzò la guancia col dorso della mano: “Possiamo continuare questa sera, in camera nostra. E’ più sicuro.” Aveva uno sguardo così dolce che era impossibile contrariarlo.
Moriarty lasciò un sospiro, arrendendosi: “Hai ragione, come sempre!” Un cenno d’intesa e tornò alla propria scrivania, mentre il fratello lasciò l’ufficio.
*
 
La concentrazione era la prima arma che suo padre gli aveva insegnato ad usare. Sì, un’arma. Una cosa che era in grado di determinare la vittoria o la sconfitta di un individuo, indipendentemente dalla sua forza fisica o dai suoi poteri. Una mente concentrata agiva più in fretta delle mani e dei piedi. Essere concentrato era una risorsa fondamentale anche per la condizione in cui si trovava in quel momento. Il magazzino era silenzioso come una tomba e l’unica fonte di luce proveniva da uno spiraglio della grande porta scorrevole in metallo, le pile di scatoloni accatastati lungo le pareti e le numerose casse sparse per tutta l’area avrebbero potuto fare da nascondiglio ad almeno dieci persone. Un attimo di distrazione poteva rivelarsi fatale. Al momento, l’unica presenza di cui aveva la certezza, era una figura che se ne stava in disparte accanto alla porta e di cui si distinguevano appena il viso per via della pelle chiarissima e il cappotto nero leggermente illuminato dalla luce esterna. Anche senza guardarlo, sapeva che aveva le braccia incrociate al petto e il capo chino, come fosse in contemplazione. Nel silenzio totale e nella semioscurità, Riku era immobile al centro del magazzino, con addosso un giubbino bianco in jeans che lo rendeva un ottimo bersaglio. Gli anfibi neri che aveva ai piedi e i jeans attillati anch’essi neri, gli davano un aspetto minaccioso, come anche l’espressione. Le sopracciglia leggermente aggrottate sopra agli occhi dalla forma quasi felina, rendevano il suo sguardo più severo, nonostante il colore oro e viola che li illuminava. Oltre al giubbino, anche un altro elemento era ben visibile. I suoi capelli neri e folti, dal taglio corto, presentavano una ciocca bianca che gli disegnava il contorno di metà fronte. Un punto perfetto per ricevere un proiettile.
Swish!
Un rumore appena percettibile bastò per indicargli la posizione di un avversario. Gli occhi ormai abituati all’oscurità videro il luccichio di una pistola puntata verso di lui. Balzò in aria ancor prima che il colpo venisse sparato. Appena il proiettile fendette l’aria a vuoto, portò avanti un braccio la cui manica prese vita e si allungò in un tentacolo fino a raggiungere la pistola, quindi l’estremità aprì le fauci e ingoiò l’arma in un boccone, dopo di che diede una tale spinta all’uomo da farlo finire addosso alla pila di scatoloni, la quale si infranse e gli cadde sopra seppellendolo. Neanche il tempo di ritirare il tentacolo ed ecco che dalla direzione opposta si udirono i passi affrettati di altri due uomini, armati di mitra. Questa volta, invece di saltare, rimase fermo dov’era, le estremità inferiori del giubbino innalzarono una barriera bianca davanti a lui. Le raffiche di colpi che vennero sparati, entrandovi a contatto sparirono nel nulla. Nel mentre, due tentacoli sfrecciarono dai lati e andarono dritti a tagliare in due i mitra, rendendoli così inutilizzabili. Gli uomini indietreggiarono e fecero per rifugiarsi dietro a delle casse, ma i tentacoli li afferrarono e li sbatterono l’uno contro l’altro, per poi abbandonarli sul pavimento. Il successivo attacco venne dalle travi del soffitto, dove altri due uomini indossavano delle cinture con numerosi foderi, ognuno contenente un pugnale. Lui sollevò entrambe le braccia, da cui partirono in contemporanea i tentacoli bianchi, i quali spazzarono via i pugnali uno dopo l’altro. Fino a quando uno degli uomini non lanciò un pugnale modificato con la magia, che fendette un tentacolo senza problemi, allora lui fu costretto a schivarlo, continuando  a parare gli altri pugnali che altrimenti lo avrebbero infilzato. Il pugnale, che si era piantato a terra, si estrasse da solo e tentò di nuovo di colpirlo, ma lui giocò d’astuzia. Il retro del giubbino divenne una grossa bocca dorata che ingoiò l’arma come una caramella! Attese che gli uomini terminassero i pugnali e solo dopo mandò i tentacoli ad afferrarli, intrappolandoli e tenendoli appesi come dei salami. Per sicurezza si guardò attorno e verificò che non vi fossero altre minacce.
Un paio di minuti ed ecco che la figura che era rimasta ferma in disparte per tutto il tempo lasciò la parete e si avvicinò a lui con passo felpato. La poca luce bastò ad illuminare il volto soddisfatto di Akutagawa.
“Molto bravo, Riku. Ormai padroneggi White Rashomon alla perfezione.”
Lui abbozzò un sorriso e fece un cenno col capo: “Grazie, otou-san.”
“I miei complimenti anche a voi.” Si rivolse agli uomini, in realtà agenti della Port Mafia, che si stavano rimettendo in piedi non senza qualche difficoltà. Riku si occupò di riportare a terra i due appesi, facendoli scendere coi tentacoli.
“Ammiro il vostro coraggio per aver accettato di prestarvi a questa prova, pur sapendo che se aveste colpito mio figlio anche solo di striscio vi avrei uccisi senza battere ciglio.”
In effetti il suo sguardo tagliente non lasciava spazio a dubbi. Akutagawa non era solo un Dirigente, era anche un padre pronto a togliere la vita a chiunque avesse osato torcere un capello al figlio. Inutile dire che gli agenti non ebbero il coraggio di rispondere e che scostarono subito lo sguardo per timore che i suoi occhi bastassero a ucciderli. Una volta che furono tutti in riga di fronte a lui, fecero un umile inchino e attesero un suo cenno per andare via. La velocità con cui si allontanarono non è un dettaglio importante!
*
 
Moriarty ce la stava mettendo tutta per essere professionale. Si era ripromesso di correggere le pile di compiti dei suoi studenti, precisamente di tre classi, e di non uscire da quell’ufficio fin che non avesse finito. Ma era difficile restare concentrato con quel tizio che non gli staccava gli occhi di dosso un istante! Diverse volte lo aveva sbirciato con la coda dell’occhio. Se ne stava là fermo, con la schiena contro lo stipite della porta e le braccia incrociate al petto, le caviglie accavallate con eleganza. In realtà, ogni fibra del suo essere sprizzava eleganza. Una cosa che gli dava ai nervi! Quei capelli biondi e lisci che gli ricadevano sulle spalle come raggi di sole, il volto dai tratti raffinati, le labbra sottili e rosee, e quegli occhi di ghiaccio che attiravano uomini e donne come le mosche col miele. Mafuyu era uno schianto. E un gran bastardo.
“Professore? Sai che quando ti guardo mi viene in mente un numero?”
Continuando a segnare di rosso le risposte sbagliate del compito che aveva sotto gli occhi, Moriarty cercò di usare un tono indifferente nel chiedere: “Ah sì? Quale?”
Anche se lui non lo stava guardando, Mafuyu sfoggiò un sorriso seducente e disse: “Sessantanove.”
La mano di Moriarty tremò un poco. “Schifoso pervertito.”
“Ah ah! Eppure ti piaceva!”
“Consideralo un errore di gioventù.”
“E’ successo l’anno scorso.”
Questa volta Moriarty gli rivolse lo sguardo. “Appunto.” Gli parve di sottolineare un’ovvietà, eppure in risposta ottenne solo un’altra risata da parte di lui. Mafuyu aveva diciannove anni, ma a volte si comportava come un ragazzino, mentre lui che ne aveva sedici era senza dubbio più maturo.
Mafuyu si decise a lasciare lo stipite della porta e camminò fino alla scrivania, dove poi si chinò appoggiandosi coi gomiti.
“Ci siamo divertiti, non puoi negarlo!”
“TU di certo. Ti sei divertito davvero tanto a prenderti gioco di me dicendo di amarmi, quando invece ti scopavi qualunque essere umano ti passasse davanti.”
“Ancora con questa storia?” Sospirò, ma subito ritrovò il sorriso. “Ti ho detto mille volte che mi dispiace! E da quando lavori qui vengo a trovarti quasi tutte le settimane! Mi manchi, Moriarty…”
“Come no.” Scrisse il voto sull’angolo destro del foglio, lo mise da parte e ne prese un altro. “In fin dei conti forse dovrei ringraziarti. Mi hai aperto gli occhi e così ho capito che la persona più importante al mondo, per me, è Sherlock. Non voglio nessun altro. Lo amerò per sempre.” Sollevò leggermente la penna e aggiunse. “Fattene una ragione.”
Come niente fosse, anzi godendosi quella conversazione neanche fosse stata una barzelletta, Mafuyu riprese a parlare con tono allegro: “E pensare che noi due insieme potremmo fare grandi cose! Presto io diventerò il nuovo Boss della Port Mafia, questo lo sai, e se tu fossi al mio fianco acquisiresti un potere immenso. Ho sempre desiderato averti con me e prendere il controllo su Yokohama.” Allungò una mano su di lui e sfiorò un ciuffo di capelli sfuggito alla chioma impomatata, che ora gli ricadeva sulla fronte. “Proprio come ho sempre desiderato averti nel mio letto.”
Moriarty lasciò la penna e andò ad afferrargli quella mano con tutta l’intenzione di stritolargliela. Se fino a quel momento era stato paziente, adesso ne aveva avuto abbastanza.
“Qualunque cosa ci sia stata fra noi, ora è finita. Provo disgusto per la Port Mafia tanto quanto per te e tuo padre, che amate usare le persone per i vostri loschi scopi. E’ vero che bramo il potere, ma non ho bisogno di te per ottenerlo.”
Mafuyu cercò di liberare la mano, ma lui gliela trattenne,  e si fece ancora più minaccioso.
“Non appena Sherlock la smetterà di giocare alla guardia del corpo, io farò la mia mossa. Prima butterò giù il Presidente Kunikida per appropriarmi dell’Agenzia di Detective Armati e poi allungherò i miei artigli anche sul Governo. E finalmente potrò schiacciare quella feccia della Port Mafia.”
Lo sguardo sorpreso di Mafuyu si mutò presto in un sorrisino sfacciato.
“Mi fai impazzire quando fai così! La prima cosa che mi ha attratto di te è stata proprio la tua mente contorta! Fingi di essere un bravo ragazzo devoto alla famiglia, invece sei così consumato dalla brama di potere che ormai il tuo cuore deve essersi tramutato in un cumulo di marciume.”
Moriarty gli lasciò la mano e la scacciò via come un insetto fastidioso. “Ora vattene.”
Mafuyu ridacchiò ancora. Se avesse voluto avrebbe potuto dominarlo all’istante, ma era così divertente farlo arrabbiare e tirare fuori il suo lato più oscuro! Si diede lo slancio per sollevarsi dalla scrivania e fece per dirigersi verso la porta, ma non prima di lanciare una granata. “Chissà cosa penserebbe Sherlock di te se sapesse chi sei davvero. E soprattutto, chissà come reagirebbe se scoprisse che l’anno scorso lo hai tradito con me!” Nel voltarsi, i suoi capelli si mossero e vennero percorsi da un scintillio dorato. “Fai tanto il duro, ma io non ho dimenticato come gemevi quando te lo mettevo dentro!”
Moriarty scattò in piedi con tale agilità che la sedia cadde all’indietro e si rovesciò rumorosamente sul pavimento. Il suo sguardo omicida avrebbe spaventato chiunque, ma non il ragazzo che aveva di fronte, il quale continuava a sorridere dandosi un’aria di superiorità. Attorno al corpo di Moriarty comparve un’aura che si fece poco alla volta più evidente, una sorta di nuvola nera mossa da un vento impercettibile. Il silenzio venne infranto da un rumore simile al ringhio di una creatura pericolosa.
Mafuyu scosse il capo e disse semplicemente: “Lascia il cagnolino a cuccia. Me ne vado.” Detto fatto, uscì dall’ufficio senza voltarsi indietro.
Una volta solo, l’aura oscura scomparve e lui si ritrovò a doversi sostenere sulla scrivania, come se all’improvviso fosse privo di forze. Il suo sguardo si fece umido e tremante.
“Perdonami Sherlock…” Strinse i denti, piangere era da deboli e lui non lo era. Non voleva esserlo.
*
 
Sdonk! La cartella cadde sul pavimento, proprio accanto ai suoi piedi coperti dai lunghi calzini bianchi della divisa. Un attimo e lasciò che anche il suo corpo cadesse a peso morto, sopra al letto, con la faccia ad affondare nel morbido piumone rosa.
“Oooufhhhh… Finalmente sono a casaaaaa….”
Non era stata una giornata facile, per lei. Dopo il piccolo incidente durante l’ora di matematica, l’ansia l’aveva accompagnata anche durante le ore successive e le aveva prosciugato le energie. Avrebbe tanto voluto saltare la cena e il bagno e andare subito a dormire.
Vrrr! Vrrr!
Sollevò la testa di malavoglia, sul suo viso un’espressione lugubre. Il cellulare stava vibrando nella cartella. Quando lo prese sbirciò lo schermo, la chiamata proveniva dall’Agenzia.
“Pronto?”
“Hana, sono io! Sei a casa adesso?” La voce era quella di sua madre.
“Sì, sono appena tornata.”
“Ah bene! Ho bisogno che tu venga qui all’Agenzia.”
“Eeeeeeh?”
“Ho trovato dei documenti che mi aveva chiesto tuo padre, riguardo un caso di cui si sta occupando, e vorrei farglieli avere subito.” Mentre lo diceva stava appunto sfogliando tali documenti pinzati in un angolo, cosa che lo costringeva a tenere la cornetta del telefono fra l’orecchio e la spalla.
“Ma scusa…non puoi farglieli portare da qualcun altro?”
“Non essere pigra!!!”
“Ma uffa! Ho avuto una giornata pesante! Sherlock mi ha perfino portata nella mia pasticceria preferita per risollevarmi un po’ il morale!” Un sorriso le sfiorò le labbra al pensiero: “Mi ha offerto una fetta di torta alle fragole davvero squisiiiiit-”
“Aspetta un momento, signorina! E’ successo qualcosa a scuola?” Atsushi aggrottò le sopracciglia con fare sospettoso, anche se la figlia non poteva vederlo.
Accidenti alla sua linguaccia! Ma perché non imparava a tacere? “Ehm….NO, okaa-san! Va tutto BENISSIMO! Ah ah!”
Non era certo nato ieri per farsi fregare così da una ragazzina. In ogni caso cercò di non darci peso, non per niente aveva chiesto ai figli di Ranpo di tenerla d’occhio e avvisarli nel caso ci fossero stati problemi col suo potere. Sospirò, lasciando correre… “Ah, va bene. Allora vieni qui, ti asp- EHI!!!”
Il grido inaspettato costrinse Hana ad allontanare il cellulare dall’orecchio.
“Ma che…? Dazai, lasciala!”
Peccato che lei non potesse vedere la scena! Dazai, dopo aver origliato dalla propria scrivania, aveva deciso di balzare su quella di Atsushi per impossessarsi della cornetta del telefono. In quel momento, sdraiato di pancia sulla superficie e con le gambe a penzoloni nel vuoto, non si era risparmiato di allontanare Atsushi premendogli una mano sulla faccia, pur di ottenere ciò che voleva!
“HANA, PICCOLA MIA!!! Vieni qui in ufficio, ho tanta voglia di abbracciarti! E’ da due giorni che non ti vedo!”
Quell’uomo invecchiava ma non maturava mai. In genere amava mostrarsi come una persona seria e responsabile, aveva anche abbandonato il cappotto beige e il laccio col pendente per puntare sui completi eleganti, e adesso portava i capelli ben pettinati e impomatati con la riga di lato. A prima vista era l’uomo dei sogni, peccato che poi mostrava la sua vera natura comportandosi come un babbeo! Ma a lei piaceva così com’era, non avrebbe cambiato niente del suo amato nonno.
Ridacchiò contenta: “Se me lo chiedi tu verrò di corsa, ojii-san!”
“Ti aspetto, tesoooooro!! Aaaah!” Si udì un rumore non ben definibile e un attimo dopo la voce di Atsushi tornò al ricevitore: “Ehm…scusami. Volevo dirti…ah sì…porta con te uno zaino o qualcosa per metterci i documenti. A dopo!” Termine della chiamata.
Hana abbassò il cellulare e guardò lo schermo con un’espressione interrogativa, ma subito scoppiò in una fragorosa risata. Quando c’era di mezzo suo nonno, la vita era uno spasso!
Dopo essersi cambiata, indossando un semplice paio di pantaloni neri e un maglioncino bianco su cui poi aveva aggiunto una giacca a vento, aveva recuperato dall’armadio uno zainetto piuttosto capiente, che negli anni aveva usato per le gite scolastiche, ed era andata alla metro. Una volta raggiunto l’ufficio per farsi dare i documenti, era stato difficile convincere Dazai a lasciarla andare, dato che le si era incollato addosso come una piovra, ma dopo aver ricevuto un bel pugno sulla testa da Kunikida, alla fine aveva ceduto e così Hana aveva potuto prendere un’altra metro per raggiungere la sede della Port Mafia.
Quel palazzo era come una seconda casa per lei, essendo il luogo dove lavorava suo padre (e molto presto anche suo fratello, da quello che aveva sentito) e dove vivevano i suoi nonni, perciò era conosciuta e ben voluta da tutti e aveva libero accesso a qualunque piano tranne l’attico del Boss. Entrata dalla porta vetrata dell’ingresso, salutò la guardia.
“Buonasera! Saprebbe dirmi dove posso trovare mio padre?”
La guardia, un omone in divisa nera e armato di pistola, messo lì apposta per spaventare eventuali seccatori, tradì la propria immagine sfoggiando un sorriso a trentadue denti.
“Buonasera, signorina Akutagawa! Sono felice di rivederla! Mi risulta che suo padre sia al Porto, gradisce che lo avvisi del suo arrivo qui?”
Lei agitò la mano davanti al viso: “Oh non importa! Prenderò un’altra metro per raggiungerlo! La ringrazio!”
S’inchinò con rispetto all’uomo ma, non appena si voltò per recarsi all’uscita...sbatté il naso contro qualcosa. Anzi, qualcuno.
“Mi perdoni!”
Sollevò il viso per guardare di chi si trattasse e rimase letteralmente incantata. Era un ragazzo bellissimo!
Dapprima Mafuyu aveva strabuzzato gli occhi e l’aveva sorretta nel timore che perdesse l’equilibrio a causa del colpo, ma poi, vedendo quel visetto carino e il naso arrossato, sorrise.
“La colpa è mia, dovevo stare più attento!”
Hana, sentendosi improvvisamente cogliere dall’imbarazzo, si mosse per sfuggire al suo tocco e si passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio con fare infantile.
“Per farmi perdonare, posso aiutarti in qualche modo?”
“Ehm…io…no ecco… Io ora devo andare da mio padre.”
“Padre?”
“Ehm…” Le dita stavano letteralmente torturando i capelli. “Si chiama Akutagawa.”
Il volto di Mafuyu parve illuminarsi: “Sei la figlia di Akutagawa? Ho grande stima di tuo padre!”
“Ah…davvero?” Un’ottima notizia! Non solo le era capitato di imbattersi in uno schianto di ragazzo, ma era anche qualcuno che conosceva suo padre! Le cose andavano di bene in meglio!
“Ma dove ho lasciato le buone maniere?” Si portò una mano al petto e si presentò: “Mori Mafuyu. Piacere di conoscerti.”
Il figlio del Boss? Non andava bene. Accidenti… Però era così bello!
“Ehm Akutagawa Hana, piacere mio!”
Divertito da quella sua timidezza e dal suo modo di fare impacciato, Mafuyu non riuscì a resistere dal stuzzicarla un po’. “Il mio oroscopo diceva che oggi sarei stato fortunato ma…parola mia, non mi aspettavo di imbattermi in una ragazza così bella!” Un’occhiata seducente e lei già gli pendeva dalle labbra.
“Sempre a fare il cascamorto, Mafuyu?”
Quella voce dal tono tipicamente aspro attirò l’attenzione di entrambi. Hana preferì scostare subito lo sguardo e coprirsi parte del viso con la mano, come una bambina sorpresa a mangiare la cioccolata prima di cena, mentre Mafuyu non perse occasione di atteggiarsi a galletto del pollaio!
“Si parla di belle ragazze ed ecco che subito arriva la più bella di tutte!” Si avvicinò a lui. “Chuuya sei uno splendore, come sempre!”
Non erano solo lusinghe fatte alla buona, Chuuya era di una bellezza che toglieva il fiato. Più maturava e più il suo fascino androgino aumentava. Da quando aveva scoperto che le scarpe col tacco gli rendevano le gambe più aggraziate, non se ne era più separato, inoltre da qualche anno per tenere in ordine i lunghissimi capelli che aveva lasciato crescere fino alle caviglie, aveva adottato il sistema di acconciarli in tre asole morbide raccolte da un giro di capelli e posizionati semilaterali alla testa, per poi terminare con una ciocca che gli ricadeva sul davanti, il tutto decorato dal classico cappello che era posto a tre quarti sull’acconciatura e fermato da uno spillone con testa in onice. Tra l’acconciatura, l’abbigliamento e lo sguardo di fuoco, sembrava di trovarsi al cospetto di una dea guerriera.
“Mia nipote è una brava ragazza, non fa per te. Vai a infastidire qualcun altro.”
Mafuyu ridacchiò, amava quel temperamento focoso in un uomo. “Sei geloso? Lo sai che ho occhi solo per te!” Gli prese la mano foderata dal guanto e vi impresse un bacio. Non appena risollevò il capo, aggiunse: “Salutami tuo marito.”
“Tsk. Ti odia a morte e una volta o l’altra te le suonerà di santa ragione.”
Lui si chinò verso il suo orecchio e disse con voce seducente: “Non vedo l’ora!”
Chuuya venne percorso da un brivido. Di rabbia. Gli avrebbe tirato volentieri un pugno.
Finalmente Mafuyu decise di andarsene, anche se prima di entrare nell’ascensore diede una sbirciata ad Hana e le fece l’occhiolino. Il cuore di lei mancò un battito.
“Ti accompagno io al Porto. Vieni, andiamo all’auto.”
Hana sobbalzò, anche se sua nonna non aveva parlato a voce alta. Doveva calmarsi. La vide scambiare uno sguardo con la guardia e poi fare un cenno del capo. Doveva essere stato lui ad avvisarla di quanto accadeva all’ingresso. Nessuna sorpresa, comunque, sapeva di essere sempre controllata.
Salirono nella lussuosa auto di Chuuya e, appena messa in moto, lui subito si accese una sigaretta. Dal modo in cui fumava si capiva che era nervoso. Hana sperò non fosse a causa sua.
Prese una gran boccata di fumo e dopo appena un paio di secondi la buttò fuori, cercando di sporgersi verso la fessura aperta del finestrino. “Ti consiglio di stargli alla larga, quello porta solo guai.”
“Io…mi dispiace obaa-san.”
Lui le lanciò un’occhiata sorpresa. “Perché ti scusi? Non hai fatto di niente male. Hai solo avuto la sfortuna di incontrarlo. Speravo non sarebbe mai accaduto.”
“Quasi tutti quelli che conosco mi hanno messa in guardia su di lui. Lo so.”
“Questo perché nessuno di noi si fida. Quel ragazzo è umano solo per metà e, con tutto il rispetto per il Boss, ha preso da suo padre quella vena spietata e incontrollabile che lo rende un individuo temibile. Uccide con troppa facilità e punisce gli agenti severamente. Io tutto sommato mi ritengo fortunato per essere diventato oggetto delle sue attenzioni. Fin che fa il damerino so che non mi farà del male ma…non che questo piaccia a Dazai, come puoi immaginare.”
“Mh.” Sapeva di dover ascoltare sua nonna, però qualcosa dentro di lei la spingeva a volere di più. Era solo il fascino del proibito ad attrarla o c’era dell’altro? Che si fosse…innamorata? Così a prima vista? Persa nei propri pensieri, strabuzzò gli occhi nel ritrovarsi davanti la sigaretta, o meglio, il mozzicone che ne restava. La prese fra due dita e se la portò alle labbra. Le sigarette che fumava sua nonna avevano un sapore esotico con un retrogusto amarognolo. Erano buone. Cliccò il pulsante per aprire un poco il finestrino, quindi soffiò fuori il fumo lentamente, immaginando il tragitto che questo faceva dai suoi polmoni fino alla bocca. Era rilassante. Poter fumare era una piccola conquista, per lei. Un segreto tra lei e sua nonna che nessun altro doveva sapere, soprattutto i suoi genitori. Una piccola infrazione delle regole che le donava un pizzico di libertà.
*
 
Le cene della famiglia Mori non erano esattamente tradizionali. Anzi, non lo erano proprio per niente! Ogni volta che suo padre lo invitava non era mai per chiacchierare alla leggera, ma sempre e solo per parlare di affari, piani, strategie, potere e talvolta anche denaro. Da quando era bambino, Mafuyu non aveva mai ricevuto attenzioni affettuose o parole gentili come, immaginava, facevano gli altri genitori coi figli. I primi otto anni della sua vita li aveva passati in un appartamento segreto che era sotto la sede della Port Mafia, poi, quando finalmente gli fu permesso uscire da lì per essere presentato ufficialmente come erede di Mori, al posto della calda accoglienza che aveva sperato aveva ricevuto solo diffidenza da parte di tutti. Be’, non proprio tutti, c’erano anche quelli che lo temevano apertamente e che si dileguavano alla svelta quando disgraziatamente lo incrociavano in un corridoio. Aveva imparato a convivere con questa situazione, si era fatto forza, ma quando sentiva di non farcela e aveva bisogno di fuggire via, andava a rifugiarsi in uno dei locali notturni gestiti dalla Port Mafia e lì si sfogava attraverso il sesso e l’alcol. L’unica volta in vita sua che aveva avuto la fortuna di incontrare qualcuno con cui si sentiva a proprio agio, era riuscito a rovinare tutto a causa della dipendenza dal sesso. E così era rimasto di nuovo solo. Di una cosa era certo: non appena fosse diventato il nuovo Boss, le cose sarebbero cambiate radicalmente, grazie al grande potere che possedeva e alla rabbia che covava dentro da lunghi anni. Doveva pazientare ancora un po’ e allora ognuno avrebbe avuto ciò che meritava. Non in senso positivo. Primo fra tutti, suo padre. Ne aveva fin sopra i capelli di quel vecchio privo di sentimenti.
Posò il calice vuoto e allungò lo sguardo verso il capo opposto del tavolo. Purtroppo i candelabri posizionati lungo il tavolo erano sufficienti ad illuminare una scena disgustosa che lui avrebbe preferito non vedere. Mori, sulla sua comoda sedia, stava ammirando la piccola Elise addormentata sulle sue ginocchia. Col braccio sinistro le sorreggeva il busto, mentre con la destra le sfiorava una gamba nuda, fino ad arrivare ad insinuarsi oltre l’orlo della gonnellina.
Otou-san, potresti evitare di fare certe cose davanti a me?” Si lamentò, con pieno diritto.
“Sto solo accarezzando tua madre, non vedo quale sia il problema.”
“Almeno degnati di impostarla con un corpo di donna. Dannazione.”
Per lui era incomprensibile la scelta di suo padre di mantenere la sua amata nelle sembianze di una bambina. Era una cosa raccapricciante. Ma se proprio la voleva così, poteva evitare di toccarla in modo così spudorato.
“Invece di lamentarti, dovresti ringraziarmi, Mafuyu. Ti ho dato la vita.” Sollevò lo sguardo su di lui e lo guardò con tale durezza che sembrava volesse trafiggerlo. “Desideravo avere un figlio dotato di poteri straordinari e per questo ho dovuto fare dei sacrifici. Per generarti ho cambiato le impostazioni di tua madre, affinché avesse un corpo adulto in grado di concepire. E per due lunghe settimane ho dovuto possedere quel corpo. L’unica consolazione è che, essendo lei un’abilità, ha potuto velocizzare la gravidanza e partorirti dopo soli due mesi.”
Mafuyu sfoggiò un sorriso amaro: “Oh…mi dispiace che tu sia stato costretto a scoparti una donna!”
“Non fare lo spiritoso, Mafuyu. Non te lo permetto. Ti ho comunque permesso di godere dell’affetto di una madre per otto anni. Credi mi sia divertito a modificare ogni giorno le impostazioni per permetterle di accudirti con sembianze di donna e poi riportarla bambina quando ero io a necessitare della sua presenza? Accontentati di ciò che hai avuto. Mi sono fatto in quattro per te, per proteggerti, per nascondere la tua esistenza fino al momento opportuno.”
“Credi che per me sia stato facile, invece?”
“No. Non lo credo affatto. Ma vedo che crescendo ti sei conquistato la tua libertà.” Inclinò leggermente la testa e aggiunse: “Cos’altro vuoi?”
“Che tu la smetta di comportarti come un maledetto pedofilo.” Purtroppo poteva solo pensarlo, perché se lo avesse detto ad alta voce le conseguenze sarebbero state inimmaginabili. Era costretto a tacere e sopportare. Lasciò una risata e si alzò dal posto. “Io mi ritiro.”
Non vedeva l’ora di uscire da quella sala spettrale e di allontanarsi da quel pazzo di un tiranno. Ma…
“Un’ultima cosa, Mafuyu. Ho saputo che nel pomeriggio hai avuto un fortuito incontro con la piccola Akutagawa.”
Mafuyu si bloccò all’istante. Continuò a dargli di spalle.
“Sì, è vero.”
“Mi auguro tu ne abbia approfittato per fare il primo passo.”
“Sì. Mi hai dato degli ordini precisi in previsione di quel momento.”
“Esatto. Seducila, falla innamorare di te. E convincila a far parte della Port Mafia.” Le sue labbra s’inarcarono in un sorriso sinistro. “Con voi due al comando la nostra fazione diverrà invincibile.”
Già, era solo quello che importava. Non era così ipocrita da non ammettere di avere lo stesso desiderio, però…quella condizione che suo padre gli aveva imposto non gli piaceva. Perché doveva essere proprio quella ragazza la prescelta per stare al suo fianco?
“Conosci il mio orientamento sessuale. In genere preferisco gli uomini ma…farò il possibile per portare a termine la missione che mi hai affidato.” Strinse un pugno, senza farlo vedere. “Buonanotte, otou-san.” E lasciò la sala.
*
 
Il sonno non voleva saperne di arrivare. Con tutto quello che era successo quel giorno, come minimo si era aspettata di crollare addormentata nel giro di cinque minuti, invece l’orologio aveva continuato a ticchettare velocemente come i suoi pensieri, e a mezzanotte passata lei era ancora sveglia. Sotto alle coperte c’era un bel calduccio e la morbidezza del materasso e del cuscino era l’ideale per rilassare il corpo, peccato che non avesse qualcosa che facesse altrettanto con la mente. Non era tanto il piccolo incidente a scuola a tenerla sveglia, anzi quello ormai era diventato un pensiero diretto al dimenticatoio, la cosa a cui non riusciva a smettere di pensare era…Mafuyu. Non si era mai fatta troppe domande su di lui o sul perché negli anni non glielo avessero mai fatto conoscere, ma ora che lo aveva incontrato queste domande avevano cominciato ad emergere e a schizzare ovunque come l’acqua di una fontana. Doveva dare ascolto a sua nonna e lasciarlo perdere? Però si era mostrato così galante con lei… Nessun ragazzo le aveva dedicato quel tipo di attenzioni. Be’, era anche vero che poi aveva fatto il cascamorto con sua nonna, davanti ai suoi occhi! Però…
Dling!
Giusto. Aveva lasciato il cellulare dentro lo zainetto. Per fortuna il suono della batteria scarica glielo aveva ricordato. Scostò le coperte un po’ controvoglia, alzarsi di notte in pieno autunno non era molto piacevole, ma era meglio mettere sotto carica il cellulare adesso piuttosto che dover uscire l’indomani senza.
Andò a passo sicuro verso la sedia di fronte alla scrivania, guidata dalla luce artificiale proveniente dall’esterno che filtrava dalle tende sottili, e recuperò lo zainetto che vi aveva posato quando era rientrata a casa. Lo schermo si accese al tuo tocco e le illuminò il viso. Sopra la foto di lei e Sherlock che sorridevano di fronte al tavolo di un buffet, scattata un paio di anni prima, il disegnino rosso della batteria le confermò che necessitava di una ricarica. Aprì uno dei cassettini laterali alla scrivania e ne estrasse il caricabatterie, quindi lo collegò al cellulare e infilò la spina nella ciabatta che era in un angolo sopra al ripiano. Avere le cose a portata di mano invece che di piede era molto più comodo! Posò il tutto e, già che c’era, infilò la mano nello zainetto per prendere il mazzo di chiavi e rimetterlo nella cartella della scuola (altra cosa che aveva dimenticato di fare prima di coricarsi).
“Mh?”
Le sue dita incontrarono qualcosa di piatto e lucido. Una tessera? No, sembrava più un pezzo di carta. Lo tirò fuori, mentre con la mano libera ricercò l’interruttore della piccola lampada da tavolo.
Click!
Una luce rosea illuminò la scrivania, permettendole così di vedere di cosa si trattasse. Era un biglietto da visita con tutti i contatti di Mafuyu. Quando glielo aveva infilato nello zainetto? No, c’erano domande più importanti. Ma era scemo? E se le fosse caduto tirando fuori i documenti? O peggio, se suo padre se ne fosse accorto? Che intenzioni aveva? Voleva metterla nei guai?
Sbuffò e fece per stropicciare il biglietto nella mano, ma si fermò. Di Mafuyu sapeva solo quel poco che le era stato detto, magari poteva cogliere l’occasione per conoscerlo meglio? In fondo, era il figlio del Boss, l’uomo per cui suo padre lavorava fin dalla prima adolescenza. Che male c’era a volerlo incontrare e parlare con lui? Riprese il cellulare e, senza indugiare oltre, si segnò tutti i contatti del ragazzo. Il sapore del proibito era decisamente delizioso!
 
[Continua…]
  
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