Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Mirin    11/06/2020    0 recensioni
Le madri sono creature meravigliose, perché amano senza aspettarsi nulla in cambio. Quando si ama tanto quanto ama una madre, il cuore è destinato inevitabilmente a spezzarsi. Fortunatamente, avere qualcuno accanto vuol dire avere qualcuno pronto a rimetterlo a posto. Sarà forse per questo che le donne sono state create per essere madri ed amanti?
“Non ti arrabbiare, Shishi, stavo solo-” “-sai cosa? Lascia perdere. È stata un’idea stupida, comunque, ma che diavolo mi salta in mente?”
Yoshino provò a divincolarsi, ma Genta non glielo permise. “Lo stai facendo di nuovo.”
“Cosa?” esclamò lei, piccata.
“Ti arrabbi pur di non affrontare i tuoi sentimenti. Non sei arrabbiata con me, almeno, non per davvero, non così tanto da urlarmi contro e tenermi a distanza. Shishi, mi dici che sta succedendo, sì o no?”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Yamato nadeshiko.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Se avete cliccato sulla storia nonostante l'introduzione, siete veramente degli eroi. A mia discolpa, non scrivevo un'introduzione ad una storia su EFP da letteralmente anni, quindi sono un po' arrugginita. I personaggi trattati in questa storia sono già stati introdotti in un altro mio lavoro, Décourageant jelousie, che trovate anche come storia iniziale di questa serie; se vi va e se volete approfondire alcune situazioni che magari qui sono solo accennate, vi invito a leggere anche la storia linkata sopra. Per il resto, questa è letteralmente la prima storia che scrivo in tre anni e, specialmente, la prima che scrivo in italiano, quindi sono anche un po' emozionata per la pubblicazione. Grazie per aver scelto questa storia e fatemi sapere le vostre impressioni!
Essendo questa storia ambientata in Giappone, ecco alcune note per la trascrizione di nomi e luoghi:
Il sistema di trascrizione utilizzato è il sistema Hepburn secondo il quale le vocali si leggono come in italiano e le consonanti come in inglese. Inoltre va ricordato che: ch è una affricata sorda come la 'c' di 'cesta; g è una velare come la 'g' di gara; h è sempre aspirata; j è un affricata sonora come la 'g' di gita; sh è una fricativa come 'sc' in 'scelta'; y non va letta come la y inglese ma come la i italiana. Si è mantenuto l'uso giapponese di porre prima il cognome e poi il nome.
 


Yoshino misurava a piccoli passi il bordo della piscina, l’intercedere silenzioso di un gatto, la pianta del piede morbidamente scivolava sulle piastrelle lisce e solo leggermente umide. Il corpo snello e dalle forme poco pronunciate era fasciato da un accappatoio bianco di cotone stretto in vita che profumava di talco, i capelli castano scuro, folti ma molto sottili, le cadevano sulle spalle morbidi e disordinati, già asciutti dopo la doccia.
Era sera tardi, non c’erano luci accese se non i neon bianchi sul fondo della piscina che proiettavano l’ombra delle onde leggermente increspate ed illuminavano di un colore tra il bianco e l’azzurro il viso assorto della donna.
Sentiva il vetro battere contro il vetro della serra, era Marzo inoltrato eppure quella sera non c’era niente di primaverile nella brezza, si percepiva ancora chiaro il morso freddo dell’inverno. I sempreverdi che decoravano la serra gettavano ombre lunghe ma pallide, la luna era coperta, forse qualcuno avrebbe trovato l’atmosfera lugubre, tetra, persino intimorente, ma Yoshino era del tutto a suo agio immersa nel buio.
Certo, c’era da obiettare che la sua carnagione era talmente chiara da risplendere nell’oscurità, quindi anche a luci spente non era mai troppo scuro per lei. La sua pelle era di perla, nivea, tanto che la chioma castana che le cadeva sulle spalle risultava quasi nera. Gli occhi nocciola, allungati, asiatici, erano orlati da ciglia fitte non troppo lunghe, il naso minuto si accordava ai lineamenti graziosi e tenui, dolci, del suo viso, così come le labbra piccole ma carnose.
Quel viso così gentile e delicato era inasprito da una smorfia di concentrazione, come se le riflessioni in cui era immersa potessero farle male fisico. Teneva le spalle contratte, si stringeva i bicipiti, i denti dritti e bianchi mordevano la bocca; era evidente che qualunque pensiero la assillasse, la stava torturando dentro. Yoshino era sempre stata dell’opinione che da sola riuscisse a pensare meglio, però quella notte non riusciva a pensare, solo ad incolparsi di tutto quello che era successo.
Talmente assorta, non sentì nemmeno il bipbip! dell’orologio da polso di Genta che l’aveva raggiunta nella serra. Le lancette segnavano le tre.


Si era svegliato nel cuore della notte, forse un brutto sogno che aveva subito rimosso appena aperti gli occhi, e, rigirandosi nel letto, con la mano aveva cercato il corpo caldo di Yoshino per stringerla e riaddormentarsi; solo che, dopo aver tastato a vuoto il materasso per qualche secondo, non l’aveva trovata accanto a sé come sempre. Quando quella piccola, solida certezza veniva a mancare, Genta non poteva non sentire un nodo alla gola: aveva passato troppi anni della sua vita a cercare il calore della sua donna senza trovarlo, perché lei lo aveva lasciato, ma i suoi ricordi no.
Sonnolento ma deciso, si era alzato per cercarla dopo avere chiamato il suo nome: “Shishi? Shishi, dove sei?”
Solo dopo aver girato a vuoto per dieci minuti si era accorto delle luci che venivano dalla serra in giardino.
Sapeva che la sua piccola aveva tante preoccupazioni per la testa ultimamente, e nonostante lui cercasse di essere presente per lei, Yoshino era una schiva che preferiva soffrire in silenzio e sacrificarsi per gli altri. Malgrado Genta amasse il suo altruismo, a volte lo faceva impazzire, specie perché Shishi sapeva essere anche incredibilmente orgogliosa. Anche lui lo era, orgoglioso s’intende, e questo tratto comune spesso trasformava le loro (sebbene rare) discussioni più accorate in litigi.
Era difficile, sia per lui che per lei, chiedere scusa, e per giorni dopo una lite si trascinava quel senso di malinconia e di livore che sapeva di acido e sale, cresceva nello stomaco, e poi si scioglieva al primo abbraccio, come neve al sole.
Neve. Il suo fiore di neve, il suo snowdrop, il suo piccolo bucaneve. Il nome di Yoshino, Yukinohana, in giapponese significava proprio ‘bucaneve’ e quindi lui, fin da quando si erano conosciuti da giovani, le aveva assegnato quel nomignolo, ‘snowdrop’, la parola inglese per bucaneve.
Stava passando una nottataccia il suo fiore di neve e la discussione che avevano avuto dopo cena non doveva di certo aver migliorato il suo umore… era stato un idiota a comportarsi in quel modo con lei. Certo, Yoshino aveva dato di matto per un nonnulla, ma arrabbiarsi con lei non avrebbe di certo contribuito ad alleggerire il carico di pensieri che si rincorrevano nella sua testa. Forse era giunto il momento di metterci una pietra sopra prima di sentire il gusto amaro di acido e sale.

“Hey, piccola,” la chiamò lui, sospirando. Yoshino si girò di scatto a guardarlo, non aveva idea che lui l’avesse raggiunta, non l’aveva nemmeno sentito arrivare.
“Perché non sei a dormire?” gli chiese, un non so che di accusatorio nel tono di voce. Poteva sentire la propria freddezza e, sebbene se ne fosse pentita all’istante, non diede segni di ripensamento all’esterno. Così dannatamente orgogliosa.
“Dormivo,” rispose lui, si avvicinava lento. “Mi sono svegliato e non ti ho trovata. Sai che non mi piace quando non sei affianco a me.”
A sospirare, stavolta, fu Yoshino. “Non riuscivo a dormire. Io… non ci riuscivo.”
“Che cosa c’è, Shishi?”
“Non ne voglio parlare,” disse. Era qualcosa che doveva affrontare da sola, un dolore che sentiva il bisogno le trapassasse il petto. Genta non avrebbe potuto capire, Genta non avrebbe mai commesso l’errore che aveva commesso lei. Non era giusto che Genta si addossasse un dolore che non era suo, anche solo per alleviare quello della sua donna.
Genta rimase in silenzio per un po’, poi snodò la cinta che teneva assicurata la sua vestaglia da notte in stile kimono. Indossava un paio di boxer neri aderenti e nient’altro, la pelle scura tesa sui muscoli potenti. Si voltò verso Yoshino, poi ammiccò verso la piscina.
“Facciamoci un bagno.”
“Non ho il costume addosso, ho solo la biancheria.”
“Se vuoi togliertela, non mi offendo.”
Yoshino alzò gli occhi al cielo con un mezzo sorriso. Sapeva che Genta voleva farla ridere, ma sapeva anche che Genta non stava scherzando: erano due settimane che non facevano l’amore e per i loro standard era decisamente troppo. Yoshino se ne rese conto quando ci mise fin troppa fatica a staccare gli occhi dalle gambe spesse di lui, dagli addominali scolpiti, dal petto gonfio.
Conscia di avere gli occhi dell’avvocato incollati addosso si prese tutto il tempo necessario ed anche di più per sgusciare fuori dall’accappatoio. Il reggiseno e le mutandine che indossava erano molto semplici, color carne, senza vezzi né pizzi, intimo confortevole per dormire.
A Yoshino non era estraneo il fatto che fosse e venisse considerata una bella donna, aveva un fisico asciutto e sportivo, ancora perfetto nonostante non fosse più una ragazzina, eppure a volte s’imbronciava guardandosi allo specchio e tracciava nell’aria il profilo di un seno più generoso, più alto, e di glutei più ampi; riconosceva, però, di avere un sedere sodo ed invidiato e, dopotutto, il seno piccolo era caratteristico delle donne asiatiche. Forse era solo un difetto femminile, quello di vedere sempre il bello in ciò che non si possiede.
Genta si sedette al bordo della piscina, poi si diede la spinta con le braccia per cadere in acqua. “Mh, è fantastico. L’acqua è calda. Vieni, piccola.”
Le tese la mano e Yoshino l’accettò di buongrado, ridacchiando quando lui la tirò garbatamente ma scegliendo di entrare in acqua con i suoi tempi, più lenta di lui ma meno goffa.
Alla fine si immerse, i piedini battevano veloci per tenersi a galla, i capelli fluttuavano sul pelo dell’acqua e le braccia di lui la cingevano attorno al torace. Quando stavano così vicini lei non poteva che sentirsi una bambola ningyo: la sua pelle pareva ancora più bianca, vera porcellana, contro quella di Genta, e pareva così minuta, così piccina, così fragile, complice il quasi mezzo metro di differenza tra di loro. C’era anche un lato positivo però, un lato positivo di cui Yoshino approfittò non appena le fu possibile, nascondendo il viso contro il petto di Genta: alto e largo com’era, quando si stringeva a Genta Yoshino aveva l’impressione di poter sparire dentro di lui. La faceva sentire completamente protetta, totalmente al sicuro.
“Sei ancora arrabbiata?” domandò lui, inspirando a pieni polmoni il profumo inebriante di lei. Così dolce, così caldo, così Yoshino. Dio, Dio, quanto l’amava. Quanto l’amava. Era impossibile rimanere in collera quando lei lo teneva stretto così forte, così sinceramente.
“Non sono mai stata arrabbiata, Gen,” confessò lei, “mi conosci. A volte preferisco arrabbiarmi pur di non avere paura, pur di non essere triste. Lo so che hai avuto tanto da fare, e che tra il lavoro e Masaru e tutto il resto non hai avuto un po’ di respiro. Lo so che, se potessi, torneresti sempre a casa da me. Ti sento distante, quando sei a casa sei così stanco che è quasi come se non ci fossi.”
Genta sospirò ancora, le accarezzò la schiena e la baciò sulla cima del capo. “Non c’è bisogno che ti ripeta il nostro patto, baby. Tu non mi chiedi del mio lavoro, io non ti chiedo del tuo. Deve essere per forza così, lo sai, visto e considerato...”
“...che io sono un procuratore e tu lavori con uno Yakuza? Sì, lo so. E non ti ho chiesto di parlarmi di lavoro, Genta… non ti ho chiesto un bel niente.”
“Non ti arrabbiare, Shishi, stavo solo-” “-sai cosa? Lascia perdere. È stata un’idea stupida, comunque, ma che diavolo mi salta in mente?”
Lei provò a divincolarsi, ma lui non glielo permise. “Lo stai facendo di nuovo.”
“Cosa?” esclamò lei, piccata.
“Ti arrabbi pur di non affrontare i tuoi sentimenti. Non sei arrabbiata con me, almeno, non per davvero, non così tanto da urlarmi contro e tenermi a distanza. Shishi, mi dici che sta succedendo, sì o no?”
Yoshino strinse i denti, cercando di ricacciare indietro il nodo alla gola. “Ti comporti come se io non ci fossi, non mi dai attenzioni, non mi pensi. Mi dai a malapena un bacio prima di andare a dormire e quando mi sveglio al mattino, tu sei già fuori.”
“È vero, sono stato distratto ultimamente, forse ti ho trascurata un po’, ma amore, ti prego, non prendertela così tanto,” Genta era molto sorpreso da quell’ammissione. Normalmente era lui nella loro relazione ad essere quello sempre bisognoso d’affetto, era lui quello a stringerla a sé ogni momento, era lui quello che la baciava in continuazione ogni volta che ne aveva l’occasione, tanto che Yoshino spesso lo rimproverava, che così facendo la distraeva.
Il suo cervello però lavorava più veloce. Se Yoshino aveva così bisogno di attenzioni era perché evidentemente si sentiva vulnerabile per qualche motivo. Masaru lo prendeva in giro dicendogli che sarebbe stato spassosissimo se “fosse riuscito a mettere incinta quella frigida della Yukinohana”, e per alcuni secondi accarezzò la fantasia di diventare padre per la seconda volta, padre del figlio dell’unica donna che avesse mai amato, prima di ricordarsi che l’ultimo ciclo mestruale di Yoshino era finito giorni prima. No, non era questo.
Padre per la seconda volta, poi, era quasi un insulto. Si vergognò per averlo pensato. Anche il figlio di Yoshino era suo: non era il padre biologico di Shinichi, figlio di Yoshino e del suo ex-compagno Akira, certo, ma non lo era nemmeno di Kenshin, il figlio adottivo di Genta. Erano comunque due suoi bambini, per quanto la relazione con Shinichi era sempre stata –
Sono un’idiota.’
“Non mi piace quando stai zitto per così tanto, Gen,” sentiva le dita affusolate di Yoshino tracciare il solco della sua colonna vertebrale e con un brivido la abbracciò ancora più stretta.
“Shinichi non ti ha chiamata, non è così?” quella frase fu un salasso per Yoshino, che si sentì le ginocchia diventare deboli tutto ad un tratto.
Quando Yoshino si era separata da Akira, Shinichi era rimasto con il padre. Oomori Akira non era un uomo cattivo, anzi, Yoshino sapeva che era un bravo papà e che Shinichi lo amava ed ammirava molto, ma Akira odiava Genta più di quanto fosse lecito per qualcuno nella sua posizione.
La relazione tra i tre era molto complessa: da giovane, Yoshino aveva lasciato Genta per stare con Akira, mentre da adulta aveva capito che l’unico uomo che l’avrebbe mai resa felice era Nishimura. Ovviamente, quando Yoshino aveva rotto con Akira per andare a vivere con Genta, Akira era andato su tutte le furie; la donna sospettava che, segretamente, Akira si fosse risentito non della situazione in sé, ma perché immaginava che Yoshino ritenesse uno sbaglio la vita che avevano passato insieme. Dovunque stesse la verità, parte dei pregiudizi del padre si erano riversati sul ragazzo che mal sopportava l’idea di stare con una madre che credeva gli avesse voltato le spalle.
Shinichi aveva appena sedici anni quando i genitori si erano separati e Yoshino poteva solo immaginare il dolore che lei, per quanto lo rimpiangesse, gli aveva inferto. Tollerava vederla solo nei giorni di festa, solo se lei si presentava senza Genta, quando lo chiamava non rispondeva e quando lo faceva mentiva su quanto in realtà avesse da studiare pur di non parlare per troppo tempo. Col passare dei mesi il suo odio a pelle per Genta si era affievolito, Shinichi era un ragazzo sveglio ed aveva capito che Genta era un tipo a posto, un uomo che non avrebbe mai allontanato sua madre da lui, ma quel malanimo nei confronti di Yoshino era sempre lì, sempre presente.

Akira era venuto solo a portarle alcuni fogli che per errore erano stati consegnati a casa sua invece che alla sua nuova abitazione.
Lei aveva insistito, “e dai, un caffè!”, e quindi lui si era seduto all’isola in cucina. Quella casa era enorme, troppo grande per due persone, troppo grande anche per tre quando il figlio di Genta veniva in visita dall’Australia… ricordava quanto Yoshino odiasse il loro piccolo appartamento nel centro di Tokyo, vuoi per il rumore, vuoi per il traffico, vuoi perché non c’era spazio abbastanza per un armadio nella strettissima camera da letto, ma perlomeno erano felici. Parevano felici. Ora sembrava che lo spazio fosse persino troppo: a malapena vedeva Shinichi spuntare dalla sua camera per i pasti. Ci voleva Yoshino per farli parlare, due testoni come loro.
Le mancava, la sua nanerottola, ma non avrebbe avuto senso dirglielo: Shishi aveva fatto la sua scelta. Lei amava Genta, per quanto lui amasse ancora lei… aveva sbagliato in passato, cazzo se aveva sbagliato, ma non avrebbe sbagliato ancora cercando di strapparla via all’uomo che mai come lui era riuscito a farla felice, per quanto Akira detestasse Nishimura Genta.
“Come sta Shin?” aveva chiesto Yoshino.
“Nervoso per l’audizione, presumo,” Akira accennò. Era una cosa seria, così gli era parso di capire da quelle risposte che Shinichi aveva masticato nelle cene precedenti: un allenatore di un’importante squadra di pattinaggio artistico sarebbe venuto a vedere gli allenamenti dei ragazzi per decidere la nuova promessa da ammettere nel team. Shinichi era un campione nel suo sport, un astro nascente, di questo nessuno aveva il dubbio, era un’occasione d’oro per dimostrare il suo talento, ma anche una soffocante fonte di tensione.
“Audizione? Quale audizione?” Yoshino cadeva dalle nuvole. Akira la scrutò, sorpreso.
“Non te l’ha detto?” si passò la mano nel pizzetto. “Immagino ti chiamerà quando l’audizione sarà passata per darti la bella notizia. Non preoccuparti. E non fare quella faccia, io non gli ho detto niente. Se non ti ha chiamato, è stata una sua scelta.”

“Piccola...” Genta la sentiva singhiozzare nel suo petto. Ad ogni singulto il senso di colpa aumentava: chissà da quanti giorni teneva quel pianto seppellito nel cuore e lui non se n’era accorto, preso dai conti, dai fottuti e maledettissimi soldi, dalle faide di Masaru, dal lavoro, quando il suo piccolo gioiello era scheggiato e aveva bisogno di lui.
Facendo schioccare la lingua contro il palato ed accarezzandole il capo, la spinse con delicatezza verso il lato della piscina dove l’acqua era più bassa. Ora che anche lei aveva i piedi per terra, le sollevò il viso e, con la dolcezza dello Zefiro, le posò un bacio sulla fronte, poi sulle palpebre umide, poi giù sulle guance rigate di lacrime. Arrivato alle labbra, poteva percepire il respiro corto ed affannoso della sua amata, ma si trattenne dal coinvolgerla nel bacio travolgente e passionale che bramava: Shishi aveva bisogno che lui la stesse a sentire e la consolasse, non che le confondesse le idee. Quindi, con un sorrisino mozzo, strofinò la punta del naso contro quella di lei: “parlami, amore.”
Yoshino prese un grosso respiro, anche se tremulo, e distolse lo sguardo. Non riusciva a guardare Genta negli occhi quando doveva parlare di qualcosa di così intimo.
“L’audizione di Shinichi è stata la settimana scorsa. So com’è il mio Shin, a lui non piace essere messo al centro dell’attenzione e se non mi aveva voluto dire niente vuol dire che voleva gli dessi il suo spazio, lo lasciassi entrare nello stato mentale senza assillarlo. O almeno, pensavo questo. Ora sono passati giorni, Gen, giorni e di lui non ho avuto notizie. Una cosa così importante, una cosa così bella come questa, e lui non vuole che io ne faccia parte, io… sua madre.”
Gli occhi le si velarono ancora una volta, ma lei, selvaggiamente orgogliosa, ricacciò indietro il pianto stringendo i pugni. Per quanto Genta desiderasse stringerla a sé ancora, e ancora, asciugarle tutte quelle lacrime fino a che non ne fossero rimaste più per piangere, la conosceva come il palmo della sua mano: non era ancora il momento.
“Perché non hai chiesto ad Akira?” le domandò, invece.
“Perché conosco Akira. Mi avrebbe detto le cose come stanno, poi sarebbe andato in camera per discuterne con Shinichi, ma Shinichi gli avrebbe urlato contro che come si comporta con me non sono affari suoi, Akira avrebbe preteso rispetto come l’idiota che è e Shinichi gli avrebbe sbattuto la porta in faccia. Non voglio che ci siano tensione tra Shin e Akira: primo, Akira è suo padre; secondo, è meglio che Shin veda Akira come amico invece che nemico, così potranno prendersi meglio cura l’uno dell’altro.”
“Capisco. Allora perché non hai chiamato tu Shinichi?”
“Perché non voglio forzarlo se non vuole parlarmi,” rispose lei. “Lui lo sa che può chiamarmi in qualunque momento, sempre… è il mio bambino. Gli voglio così bene, oh Gen, tu lo sai, lo sai che lo amo più di qualunque altra cosa. Ma, dopotutto, io l’ho abbandonato… sono una pessima madre...”
“Non ti azzardare, Yoshino. Non ti azzardare a dire una cosa del genere. Una pessima madre è quella che non ama i suoi bambini e non vuole vederli realizzati. Tu sei una bravissima madre: per sedici anni hai badato a Shinichi senza mai lasciarlo solo. Gli hai dato affetto, autostima, amore, un futuro. Sei stata sempre accanto a lui per spronarlo a dare il meglio, a sgridarlo quando faceva qualcosa di sbagliato, a premiarlo per le sue vittorie e a consolarlo per le sue sconfitte. L’unica cosa che hai fatto, amore mio, è stata compiere una scelta: non hai scelto tra lui e me, ma tra me ed Akira. Shinichi è un’altra cosa. Solo uno stronzo senza cuore ti avrebbe fatto rinunciare al tuo bambino. Shinichi lo sa che lo ami, baby. È un ragazzo intelligente e pieno di talento, lo hai cresciuto benissimo. Dagli del tempo per abituarsi a questo nuovo… what’s the word?… arrangement, sistemazione, ecco. Vedrai che sarà lui a venire da te, piccolina. Dagli solo del tempo.”
La voce di Genta era un balsamo per i lividi che aveva sul cuore. Tutte le ultime notti passate a rigirarsi tra le coltri chiedendosi se avesse commesso un errore lasciando Akira, domandandosi se la felicità che provava stando con il suo Gen sarebbe mai stata completata dall’avere di nuovo il suo Shin, accusandosi di essere una cattiva madre che aveva lasciato il proprio bambino in balia delle onde mentre lei scappava su una barca a remi… forse aveva ragione Genta. Forse, dopotutto, Shinichi le voleva ancora bene.
“Sei sicuro, Gen?” la sua Yoshino era forte e temeraria come una tigre, ma in quel momento tremava come un piccolo pulcino. Genta sorrise, intenerito. Che razza di bastardo fortunato che era.
“Certo che sono sicuro, amore mio. Al cento per cento.”
Yoshino gli si lanciò tra le braccia e Genta la afferrò al volo. Le mani di lei si arrampicarono fino a stringere il volto cesellato per poi avvolgere le sue labbra color palissandro in un bacio intriso di emozioni e passione.
“Grazie per essermi vicino, amore mio.”
“Sempre, my beautiful snowdrop. Non c’è un giorno della mia vita in cui non voglio starti vicino.”

Quella notte si concessero l’uno all’altra dopo le settimane di astinenza. Fu un momento dolce, si presero cura del corpo e dello spirito dell’altro, dandosi piacere appagante ma senza strafare. Fu un amore di carezze e baci, non di graffi e morsi, un amore di sospiri e mugugni senza voce, non di grida e gemiti… qualche volta andava bene anche così.
Il mattino dopo, Yoshino si svegliò prima di Gen. Era domenica, finalmente domenica, ed il cellulare dell’avvocato sarebbe rimasto impostato in modalità aereo fino a quando non si fosse svegliato.
Il sole di primavera era tiepido e luminoso, gentile ed accomodante, non ancora brillante e caldo come quello che sarebbe stato in estate. Yoshino si accoccolò nelle coperte, giocherellando con il cellulare. Con un sospiro, si fece forza.
Squillò solo un paio di volte, nonostante l’ora fosse tutt’altro che tarda.
“Pronto?”
“Ciao Shin, sono mamma.”
“Yo. Tutto okay, ma’?”
“Sì, scusami l’ora. Dormivi, tesoro?”“No, ero sveglio, tra qualche ora ho allenamento, il coach Tawara ci ha messo un allenamento di tre ore la domenica per il prossimo torneo.”
“Oh, capisco. Ti stai stancando molto, amore?”
“No, non troppo. Per il lunedì non ho mai tantissimi compiti e poi lo sai che mi piace allenarmi con la squadra, mi concentro meglio.”
Yoshino sentì ancora una volta le lacrime negli occhi, ma mantenne la voce ferma. Dopotutto, era un ottimo avvocato anche lei. “Certo, mi ricordo. Senti, amore, come stai?”
“Sto bene, ma’, non preoccuparti.”
“Te lo chiedo solo perché papà...”
“Ti ha detto della cosa del provino, non è così? Maledizione. Non impara mai a tenere la bocca chiusa.”
“Hey, linguaggio, Shinichi!”
“Sì, d’accordo, scusa. Solo che non volevo dirtelo...”
“Perché?”
Dall’altro capo udì Shinichi respirare profondamente. “Non mi hanno preso. Hanno scelto Daniel. Non ti volevo deludere.”
“Oh, amore mio! Non sono delusa! Sono così orgogliosa di te, tesoro, lo sai. Sarà per la prossima volta, non temere. Ce la farai, ne sono sicura.”
Un sorriso. “Grazie, ma’. Senti, volevo chiederti...”
“Sì?”
“Tra un mese, la scuola dovrà chiudere per qualche giorno per qualche stupido evento di beneficenza e mi chiedevo… potrei venire su a stare con te e Genta? Ti scoccerebbe? A lui va bene?”
“Oh amore, certo che puoi venire a stare con noi! Tutto il tempo che vuoi, tesoro. Magari posso prendermi qualche giorno di riposo e stare con te, se ti va. Genta ne sarà entusiasta. Hai chiesto il permesso ad Akira?”
“Non ancora… volevo prima sapere se a te andasse bene. È da un po’ che non ci vediamo, allora...”
“Mi manchi, tesoro.”
“Anche tu, ma’. Scusami se non ti ho chiamato in queste settimane… ti ho fatto preoccupare, vero?”
“Adesso non importa più, amore.”
“Hahaha, va bene. Senti, ora devo andare. Chiedo ora a papà a colazione, poi ti mando un messaggio stasera, okay?”
“Certo. Buona pratica, tesoro. Ti voglio tanto bene.”
“...anche io. Ciao mamma.”
Solo dopo aver riagganciato, Yoshino si rese conto di star piangendo di gioia. E solo dopo si rese conto della mano di Genta sulla coscia; poteva solo immaginare il sorriso sornione che era premuto sul cuscino di lui.
“Dillo.”
“Avevi ragione tu.”
“Dio, quanto ti amo, Shishi.”

   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Mirin