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Autore: ymirjeannie    13/06/2020    1 recensioni
[ Spiderman x Deadpool | Slash | Fluff, Introspettivo, Slice of Life | One-shot ]
Dal testo:
"Dopo un’interminabile, estenuante e sostanzialmente brutta giornata, agognava unicamente preparare del buon latte caldo, chiudersi in camera e sprofondare sotto calde, caldissime coperte. (...)
Gioì mentalmente al pensiero di avere la casa libera, sapendo che quasi nient’altro avrebbe potuto disturbarlo per le seguenti cinque ore di sonno.
«Dovresti indossare una tuta più aderente, sai?»
Quasi."
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Deadpool, Peter Parker
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Fare il supereroe è semplice, direte voi. Un pugno lì, un calcio qui, correre da una parte all'altra della città, fermare il cattivo di turno dal dubbio gusto in fatto di costumi e manie di controllo. Sì, ogni tanto incassare qualche colpo e poi tornare a casa a riposare, già pronti alla successiva battaglia.

Facile, no?

L’idea che la gente aveva dei supereroi era facilmente riassumibile: "quelli che combattono", "i tizi che sostituiscono la polizia", "coloro in calzamaglia". Era frustrante, a volte, essere l'oggetto d'ira di quegli stessi cittadini che cercavano di proteggere.

Erano questi alcuni dei pensieri che tormentavano la mente del giovane Peter Parker, conosciuto come Spiderman, mentre cercava di tornare a casa e diversi palazzi gli sfrecciavano accanto, occupando spazio inutile con le loro forme indefinite, svanendo dalla sua visuale una volta superati.

La città di New York era, sebbene sempre bellissima, quasi anonima, resa scontata dalla miriade di pellicole che la ritraevano nelle più variegate trame e salse. Tutti quei palazzi, quei negozi, i neon colorati appartenenti all’instancabile vita notturna, centinaia di persone pronte a recarsi in qualche luogo: casa, lavoro, scuola, chiesa, bar, chissà. Perennemente immerse nella fretta del loro cammino per riuscire a fermarsi un attimo ed ammirare l’ambiente circostante. I newyorkesi sembravano potersi abituare a qualsiasi cosa, consci di vivere in una città movimentata, distrutta da supercattivi incuranti, ma quasi sempre ricostruita alla perfezione, quasi come se, per contrasto, essi stessi fossero diventati incrollabili nel profondo, incapaci di stupirsi.

Una fredda gocciolina si infranse sulla sua maschera, esattamente sulla punta del suo naso. Allora si fermò, confuso, poggiandosi sul primo tetto disponibile e spostando lo sguardo sul cielo: sopra di lui si stagliavano nuvoloni densi e parecchio scuri che lasciavano ben poco spazio a dubbi, annunciando con prepotenza, quasi, un disastroso acquazzone.

Dal suolo in cui si era appollaiato riusciva a scorgere, a pochi isolati di distanza, il palazzo che ospitava il suo appartamento. Il moro sospirò sollevato alla prospettiva di essere finalmente giunto all’agognato riposo e ricoprì in fretta, giusto con gli sforzi indispensabili, il tratto di strada.

Aveva venticinque anni, da quattro e dieci mesi aveva lasciato la casa della zia per trasferirsi –insieme ai suoi compagni di squadra– in un luogo più vicino al cuore della Grande Mela e quel condominio era in una posizione particolarmente comoda, dato che poteva trovare quasi ogni necessità a pochi passi da casa: era vicino alla sede principale dell’università che frequentava e una buona parte dei criminali si concentrava spesso lì attorno, inoltre le vie erano dissipate di locali e market rendendogli facile comperi essenziali come la spesa –che aveva la straordinaria capacità di sparire nel nulla, spesso e volentieri i programmi dei singoli inquilini erano colmi di imprevisti per riuscire a mantenere un ordine e capitava spesso di trovare il frigo vuoto a pranzo– o anche l’acquisto veloce di videogames –assolutamente necessari anche loro–.

Dopo un’interminabile, estenuante e sostanzialmente brutta giornata, agognava unicamente preparare del buon latte caldo, chiudersi in camera e sprofondare sotto calde, caldissime coperte.

Arrivato al soffitto del palazzo, non fu molto difficile introdursi nei condotti d’aria e poi, piano e lentamente per non insospettire i vicini con potenziali rumori, gattonare fino alla propria casa, fermandosi solo una volta giunto di fronte alla porta. Assicuratosi l’assenza di occhi indiscreti, scivolò via dal condotto sospirando stancamente, più che determinato a dormire per ore ed ore.

Infilò la chiave nella toppa di legno targata 221 e la girò, varcando finalmente la soglia. Tolse quasi immediatamente la maschera, non trattenendo uno sbadiglio, attraversò il corridoio e si recò in cucina, beandosi momentaneamente della quiete emanata dalla stanza, una delle sue preferite in quell’appartamento: le pareti erano celesti, di una tonalità più chiara rispetto al salotto –immediatamente successivo e collegato—, mentre i mobili, gli elettrodomestici e persino il soffitto erano di un bianco panna. Sebbene una emetteva totale tranquillità fino al sistema dei colori, l’altra invece era un continuo bianco, azzurro, marrone dato dalla moquette e l’arancio-giallo dei divanetti, posizionati attorno un tavolino di vetro e davanti un’enorme tv attaccata al muro, annesso alla PlayStation e al lettore video, come fossero inseparabili. Quell’accozzaglia di tinte ai suoi occhi sembrava parecchio bizzarra, ma gli bastava ricordare che al mondo esisteva una particolare testa di secchio di nome Sam, che caso voleva fosse uno dei suoi coinquilini, e tutto quadrava.

Sbadigliando ancora raggiunse il frigorifero, ma si arrestò prima di aprirlo: sulla metallica superficie, attaccato con delle imbarazzanti calamite raffiguranti i simboli caratteristici di Capitan America e Iron Man –colpa di Eva, che adorava riempire la casa di merchandising a tema Avengers–, stava un foglio spiegazzato, in cui i suoi coinquilini lo avvisavano del loro rientro solo a sera inoltrata. Gioì mentalmente al pensiero di avere la casa libera, sapendo che quasi nient’altro avrebbe potuto disturbarlo per le seguenti cinque ore di sonno.

«Dovresti indossare una tuta più aderente, sai?»

Quasi.

Peter sussultò, voltandosi di scatto e ponendo un braccio teso verso la voce, pronto a scattare e sparare tonnellate di ragnatela per immobilizzare il possibile killer.

Il plausibile aggressore in questione scoppiò in una fragorosa risata, piegandosi teatralmente in due avvolgendo le braccia intorno allo stomaco.

«Che diamine ci fai tu qui, Wade?!»

L’eroe –che in realtà tanto eroe non era– in questione finse di asciugarsi una lacrima sopra la spessa maschera e continuò a ridacchiare per qualche secondo.

«Yohoo~»

 Peter sospirò esasperato, rilassandosi. Decise di porre la sua attenzione su qualcosa che risultava ancora ignoto.

«Come sei entrato?»

«Dalla finestra» lo disse con ovvietà, come se fosse stata l’azione più sensata e normale del mondo.

Wade Wilson, alias Deadpool, era senza dubbio l’uomo più folle che avesse mai incontrato, sebbene la cerchia di persone matte che conoscesse era parecchio larga, compresa di criminali rinchiusi e non, nonostante questo era certo –ci avrebbe messo la mano sul fuoco– che quell’uomo lo fosse più di tutti gli altri messi assieme. Da qualche mese ormai era entrato a gamba tesa tra le sue conoscenze e si era spinto molto in là, guadagnandosi un paio di appuntamenti disastrosi e la nomina di assiduo frequentatore, se un rapporto basato sulla regola “appaio quando voglio” potesse considerarsi tale. Peter non era un tipo romantico, non al livello di aspettarsi una rosa e un tenero bacio a fior di labbra davanti l’uscio di casa, ma era quasi stufo di quell’oblio di incertezze che comportava non stabilire un incontro ma venir letteralmente invasi nei momenti meno opportuni e trascinati altrove, con la premessa di divertimento sicuro, certo, ma con la mancanza d’altro.

Nonostante quello, aveva ormai accettato l’idea di essersi infatuato di un uomo matto come lo era lui (e gli era pure costata non poca fatica, visti i suddetti mesi di turbe adolescenziali servite solo a ritardare ciò che entrambi volevano e rovinargli esami, uscite e l’appetito in generale), sapeva di non essere arrabbiato con lui, non ci riusciva spesso, lo  guardava e diverse emozioni sfarfallavano per avere la giusta attenzione, mentre certi bisogni gridavano per essere ascoltati prima degli altri.

«È bello vederti, soprattutto in una brutta giornata come questa, ma sono stanco e voglio dormire» aveva provato a macchiare di ironia l’intera frase, ma aveva fallito miseramente venendo colto alla sprovvista da uno sbadiglio stanco e rumoroso che –ovviamente– sfumò tutto e fece intenerire l’altro, che in tutta risposta unì le mani formando un cuore e si avvicinò a lui, allacciandogli le braccia al collo e facendole scendere subito, dapprima a percorrere la schiena, poi arrestando il loro percorso sulle curve delle natiche, strizzandole leggermente e facendo arrossire il diretto interessato.

«E vuoi rinunciare a qualcosa di caldo vicino a te?» chiese ghignando, o dando l’impressione di farlo.

Il castano aprì la bocca per ribattere, sia per rimproverarlo sul doppio senso reso più che percettibile, che per illuminarlo sul reale livello di stanchezza dovuta alla disastrosa mattinata avuta, ma un lampo squarciò il cielo, irrompendo nella stanza con il suo bagliore e distraendoli, stroncando i tentativi sul nascere.

«Dovrei accendere il riscaldamento» pensò ad alta voce, distratto.

«Ma la riscaldiamo noi la stanza!» ribatté infatti l’altro, tutto contento. L’arrampica-muri, se possibile, diventò ancora più rosso di prima e, borbottando qualche battuta sarcastica, tolse la maschera a quell’idiota, appoggiandola al mobile vicino.

Si guardarono per qualche minuto, in silenzio, prima che Wade decidesse di prendere l’iniziativa e lanciarsi sulle labbra del bruno. Non ci volle altro per dissolvere la rabbia di quest’ultimo, che rispose subito al bacio. Ogni volta che discutevano arrivavano sempre a quel punto: la rabbia, la stanchezza, l’ironia, tutto veniva poi sciolto in quel semplice gesto. Che partisse dal mercenario o da Peter stesso, era un segnale di tregua, entrambi sapevano che dopo quello avrebbero deposto le armi, lasciandosi andare.

Ma quello non fu per nulla un bacio casto, non lo vide nemmeno da lontano. Fin da subito fu un intrecciarsi di lingue, denti che mordevano inizialmente le labbra, poi spostandosi alle guance e al collo, lasciando evidenti segni del loro passaggio, mani che afferravano e tiravano capelli, che accarezzavano la schiena, cingevano fianchi e cercavano punti per aprire o sollevare i lembi del tessuto dell’altro, in un groviglio confuso ma colmo di passione erotica, mentre le gambe si muovevano quasi da sole, per consumare quegli impulsi in mezzo a pacchi di patatine, libri aperti e joystick rubati a coinquilini dispettosi, puntando verso l’ultima s destra delle quattro stanze l’una accanto all’altra di quel corridoio.

***

Un cellulare prese a vibrare sul comodino vicino al letto, disturbando la figura più vicina a esso. Wade, un po’ incuriosito un po’ per spegnerlo, si mise lentamente seduto, non volendo disturbare il ragazzo che dormiva teneramente accanto a lui. Prese il telefono e si fermò un momento per osservare la buffa, ma che lui adorava, cover: tutta nera, con un’enorme scritta “chamichanga!” seguito un disegno di lui in costume. La parte divertente nell’essere supereroi –nel suo caso antieroe—, oltre ai poteri, mutazioni genetiche e tutto il resto, bla bla, consisteva nel vedere come il proprio personaggio spesso e volentieri diventasse protagonista di giochi, fumetti, diari, libri, fanfiction, i più famosi venivano ripresi persino in magliette, zaini e altro materiale scolastico, ovunque pur di vendere, e questo lo divertiva parecchio, era esilarante vedere bambini stringere tra le mani action figure, con ridicoli cappellini o costumi addosso.

Con in mente l’immagine chiara dell’ultimo bambino incontrato, vestito da Spider-Man, spostò lo sguardo sulla schiena nuda di Peter, sebbene fosse segnata da qualche vecchia cicatrice, lividi in fase di guarigione dovuti ad una probabile lotta qualche ora prima, suoi morsi sulla spalla e uno a metà dorso, nascosto per metà dal lenzuolo verdastro che aveva usato, insieme ad un pesante piumone, adesso rotolato ai piedi del letto, per ripararsi dal freddo di quella giornata.

Wade abbozzò un sorriso. Per la prima volta dopo tanto tempo sentiva di essersi affezionato a qualcuno, di nuovo. Quel moccioso, in realtà solo di qualche anno più piccolo, lo costringeva a rispolverare pensieri ed emozioni che era certo di aver sepolto da tempo, chiudendoli in uno scatolone, sigillandoli in qualche angolo sperduto della sua mente, lasciandovi sopra una scritta a caratteri cubitali che intimava a non toccare, mai, in nessun caso. Quando si era reso conto di essere fin troppo attratto da Peter, che mai gli dava retta e spesso nemmeno assecondava le sue bravate più folli, tenendogli invece testa come pochi, desiderava unicamente seppellire tutto insieme al corpo del diretto interessato, non aveva voglia di sottostare a costrizioni e vincoli, eppure, al lungo andare i suoi tentativi di omicidio erano falliti, quasi non ci avesse provato davvero, ma si era ritrovato intrappolato in una spessa ragnatela, a testa in giù, a dover fare i conti con i sentimenti che insistentemente bussavano alla porta della sua coscienza.

Il cellulare nella sua mano vibrò nuovamente, così decise di sbloccarlo, seppellendo nuovamente quei pensieri che mal si sposavano con il suo modo di fare. Diede un’occhiata alle notifiche, quasi tutte dal contenuto che avrebbe fatto impallidire una pornostar, e aprì distrattamente l’unica notifica di un nuovo messaggio, da un numero sconosciuto.

“Come mi chiamo, bastardo?”

Cazzo.

Il nauseante arcobaleno di pensieri positivi si infranse all’istante in piccoli pezzi, lasciando spazio –accompagnando, addirittura!– la rabbia che contraddistingueva i suoi incontri con lo stronzo.

No, non rendeva l’idea, quell’uomo era follia e malvagità allo stato puro, il diavolo, persino peggio di lui!

Ringhiò a bassa voce, sbattendo violentemente un pugno sul materasso, facendo vibrare le molle per qualche istante e svegliando inevitabilmente la persona che vi dormiva.

«Wade…?» mugugnò infatti questa, con una voce impastata e ancora assonnata, voltandosi verso l’altro, e notando che questo gli rivolgeva la schiena e non sembrava intenzionato a voltarsi, si mise seduto a sua volta, passandosi una mano sul volto «che succede?»

Lo sentì solo dopo qualche secondo, si girò per fissarlo per un paio di istanti, poi tornò a guardare il telefono, ora lui, ora il cellulare, ripetendo questi passaggi per un po’ e accelerando man mano i movimenti con la testa, enfatizzando un panico che non gli apparteneva. Infine, decise di lanciare l’apparecchio contro il muro di fronte a loro, osservando quasi a rallentatore lo schermo che si distruggeva e la batteria che saltava, staccandosi insieme alla cover.

«Quello era un mio regalo.»

Sentì il borbottio vagamente infastidito di Peter dietro di lui, più vicino di prima, e si voltò a sorridergli sghembo.

«Il bastardo che deve sistemarmi la faccia, prima o poi, ha deciso di rovinarmi la giornata. L’ho solo gentilmente mandato a fare in culo, è quello il suo posto.»

Spiegazione ovvia e più che giusta, penso tra sé e sé, annuendo. Non era tanto ovvia, però, al suo compagno, che alzò un sopracciglio confuso.

«E poi… ho qualcosa di più importante di cui occuparmi» continuò, non lasciando il tempo di formulare domande ma anzi, allargò il ghigno e azzerò le distanze, leccandogli il segno di un morso, dato qualche ora prima, sul collo. Godette nel sentirlo gemere flebilmente, ma in tutta risposta lo spinse leggermente appoggiandogli le mani sul petto.

«Non posso.»

«Perché no?» piagnucolò, strappando un sorriso al castano.

«L’abbiamo fatto per tre ore, sono distrutto. Inoltre, si avvicina un importante esame e devo assolutamente passarlo. Avevo preparato una tabella di studi solo per questo, e non la sto rispettando affatto!»

«Oh, andiamo, non potresti mettere da parte per un giorno il Peter secchione e ridarmi quello che adoro?»

L’altro gli scoccò un’occhiataccia: «e tra poco torneranno i miei coinquilini, è già sera» continuò, ignorando le proteste dell’altro, scese dal letto, scavalcando l’altro. Appena poggiò i piedi per terra rabbrividì per il contatto gelido delle piastrelle, ma iniziò comunque la ricerca di vestiti puliti e decenti, maledicendosi per il caos che regnava sovrano, si ripromise infine che più tardi avrebbe ripulito quel disastro.

Si infilò velocemente i boxer e una tuta e si voltò a scrutare l’altro, comodamente rimasto sul letto, sdraiato su un fianco, che lo guardava sornione.

«Dovresti vestirti.»

«I vestiti sono sopravvalutati, anche un inconveniente in certe situazioni» mostrò i canini in un altro ghigno, il millesimo della giornata. Il moro lo guardò per qualche secondo, non riuscendo a resistere al gesto del compagno, lì che lo guardava maliziosamente, coperto appena da un lenzuolo che di coprire faceva ben poco.

D’accordo, non è per nulla sexy, non mi lascerò distrarre, devo studiare. Sì, studiare… ma dove diavolo è finito il libro?, pensò uno sconfitto Peter.

Cercò l’agognato oggetto con lo sguardo per un po’, ma dovette arrendersi dopo poco, certo che Eva l’avesse preso, dato che il suo non era ancora arrivato. Buffo, pensò, la sua coinquilina era sempre attenta e precisa, quella era la prima volta che iniziava un semestre e non aveva il libro apposito.

«A che pensi?» la voce di Wade lo riportò sulla terra e lui in risposta scosse la testa, lasciando intuire che non era nulla di importante, e si chinò a prendere la maglietta. Nello stesso istante l'altro si alzò, avvicinandosi svelto a lui.

«Sei un egoista, sai?»

L'arrampica-muri drizzò la schiena, imbarazzato, alzando leggermente la testa per guardarlo con un sopracciglio sollevato e un'espressione infastidita, nonostante il sorriso stampato sulle labbra «Come?»

«Aawh, sei carino!»

«C-che?!»

Un certo rossore si concentrò sulle guance del minore. Ricevendo un sorriso come risposta, spostò lo sguardo con evidente imbarazzo. Ciò non fece che intenerire il maggiore, che si esibì in un altro "aaawh" prima di baciarlo.

Fare il supereroe non era affatto facile, constatò, si doveva inventare sempre scuse per sparire, fare del proprio meglio per proteggere i civili che, irriconoscenti, spesso e volentieri davano del vandalo perché, per sbaglio, nella lotta si distruggeva qualcosa. Come se non fosse abbastanza, si doveva fare l'impossibile per tenere segreta la propria identità e proteggere le persone care, che rischiavano la morte unicamente perché erano amici o parenti. 
Ma in fondo andava bene così, perché non fare del proprio meglio per salvare persone che si possono salvare?

Da un grande potere deriva una grande responsabilità, no?

Sorrise, dopo tutto, gli piaceva la sua vita, sebbene anche per gli eroi esistessero brutte giornate, doveva solo riempirle con qualcosa di bello.

E Wade era il suo “qualcosa di bello”.

  
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