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Autore: _Lisbeth_    14/06/2020    2 recensioni
Dal prologo:
"- E anche questa giornata di lavoro è giunta al termine. - la frase della dottoressa Warren fece annuire la giovane tirocinante, che raccolse tutte le sue cose dal divanetto e le sistemò nella borsa.
- A che ora dovrei venire, domani?
- Domani... - Danielle Warren si alzò dalla propria sedia e diede uno sguardo al calendario appeso alla parete, mettendosi in punta di piedi per poter vedere meglio. – Domani non abbiamo pazienti. Però ho una buona notizia da darti: da venerdì potrai tenere tu stessa le sedute."
"Jake prese un sorso dal bicchiere. – Perché sono qui?
- Perché sono il tuo numero di emergenza e ieri sera eri praticamente in coma etilico."
"- Jake. – la ragazza puntò gli occhi in quelli del fratello. – Ti rendi conto che è qualcosa che potrebbe aiutarti?
- No! – si alzò dalla panchina su cui era seduto e sbarrò gli occhi. – Come dovrebbe farmi stare meglio parlare con una persona che non ho mai visto dei cazzi miei? E’ come prostituire i propri neuroni."
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jacob Kiszka, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Tracy si sentì sfiorare con delicatezza i fianchi, quasi incollata alle labbra del ragazzo che aveva davanti. Raccolse tra le dita una ciocca di capelli lunghi e scuri, sottili e morbidi, così diversi dai propri: i riccioli sudati le ricadevano sulle spalle appena crespi e disordinati. Sentiva i suoni ovattati e la visuale poco nitida, ma riusciva a sentire i respiri frettolosi del ragazzo, poteva vedere i suoi occhi grandi e scuri come pozzi osservarla.
La ragazza gli agganciò le mani dietro alla nuca mentre si sentiva baciare nuovamente. I baci, dapprima delicati, dolci, casti, si approfondirono man mano sempre più. Spinse il ragazzo fino a fagli toccare il muro afferrandogli le spalle, gli accarezzò i capelli, il collo e le braccia fino a sfilargli la giacca color pistacchio, facendola cadere morbida sul pavimento di legno. Lo percepì sorridere sulle sue labbra, forse preso di sorpresa dalla sua intraprendenza.
Tracy non aveva idea di chi fosse. Il che non era da lei, che trovava difficile aprirsi anche dopo mesi interi di frequentazione.
Finché.
Un particolare le saltò all’occhio e fu sufficiente a rendere l’immagine davanti a sé più chiara, più nitida. Gli occhi enormi erano spenti sotto alle sopracciglia folte, incastonati in un viso così particolare, per niente anonimo, che solo in una persona aveva potuto notare.
 
 
Tracy spalancò gli occhi, mettendosi a sedere immediatamente, con il cuore a mille e il respiro accelerato. Guardò l’orologio sul muro: le tre e mezza del mattino. Ancora ad occhi spalancati si prese la testa tra le mani, incastrando le dita tra i capelli ricci e deglutendo il nodo che aveva in gola.
Jake.
Aveva sognato Jake. E non era un sogno come un altro. Aveva sognato di baciare Jake, di baciare un suo paziente che sì, aveva la sua età, ma che non avrebbe dovuto sognare per nessun motivo al mondo. Non in quel senso, almeno. Appena ebbe il tempo di prendere realmente coscienza dello scherzo che la sua mente aveva deciso di farle sollevò la testa, fissando il soffitto.
- Porca puttana.
 
- Posso sapere che cazzo ti prende, stamattina? – sbuffò Maggie, seduta in cucina a bere la sua tazza di caffè. Tracy sussultò, smise di camminare avanti e indietro per la stanza, sul punto di consumare il pavimento e guardò la coinquilina, cercando di essere più naturale possibile.
- Niente. – peccato che la voce le uscì dalla gola acuta come quella di una cornacchia.
E, ovviamente, l’amica lo notò. - Se devi prendermi per il culo, almeno fallo bene. Che c’è, ti sei innamorata di Piper?
- No.
- E dunque?
Tracy scrollò le spalle, scosse la testa e incrociò le braccia al petto. – E dunque, posso avere il diritto di non dirtelo, o devi sempre farmi il terzo grado?
- Prima di tutto: no, non puoi. E, seconda cosa, se ti rivolgi di nuovo così a Margareth Richards, lei ti farà il culo.
- Oh, ammirate chi abbiamo qui, la principessa d’Inghilterra!
- Io sono meglio della principessa d’Inghilterra. Io sono la regina.
- Mi sento in una sitcom del cazzo.
- Piano con le parole. Le psicologhe devono essere family friendly.
La ragazza, a quel punto, aggrottò la fronte. – E questa cosa dove l’hai sentita?
- L’ho appena inventata per mettere in dubbio la tua professionalità.
- Carino, da parte tua. – Tracy sbuffò, gettando il cartone del latte nel bidone della differenziata.
- Comunque. – Maggie si schiarì la gola, raccolse la propria borsa dalla sedia che aveva posato sulla sedia accanto alla propria e se la mise in spalla, alzandosi. – Io devo andare a lavoro. Ho un appuntamento con un paziente che prenota sempre ma non si presenta mai agli appuntamenti. – lasciò un bacio sulla guancia di Tracy e batté poi le nocche sulla fronte della ragazza, fingendo di bussare. – Nel frattempo, cerca di pensare alle parole che mi dirai quando tornerò.
La giovane psicologa avrebbe avuto voglia di sbatter ripetutamente la testa contro a un muro. Tirò un lungo sospiro e sentì la porta chiudersi dietro le spalle di Maggie rumorosamente.
 
 
- Dovete pensare al setting come una stanza, magari la stanza in cui dovrete tenere un appuntamento con il vostro paziente, in futuro. Arredata come a voi piace ma con qualcosa che non può assolutamente mancare: due sedie, o due poltrone, magari un lettino, ma niente di esagerato. Nella stanza però devono rientrare anche delle componenti astratte, quali gli orari e i giorni della terapia. – quel professore tanto stimato e rispettato in quell’Università era Clayton Bennett, afroamericano e dai folti ricci arrotolati su se stessi come tante piccole spirali. Professore di psicologia, filosofia e sociologia, giovane e alla mano, era anche una vera e propria guida con la sua professionalità, e Tracy faceva parte di quella cerchia di allievi che riuscivano ad apprezzarlo per i suoi modi diretti e chiari nello spiegare le proprie lezioni. Di tanto in tanto faceva anche qualche battuta. – Tuttavia, la cosa più importante è lo spazio mentale, che dipende dall’approccio positivo o negativo che sia alla seduta da parte di entrambe le parti, il paziente e il terapeuta. La predisposizione, però, non deve sfociare in un’eccessiva confidenzialità. Cosa voglio dire, con questo? Volendo fare un esempio concreto, immaginate di dover trattare il paziente solo come, appunto, un paziente: qualcuno a cui dare una mano. Dunque, la soglia verrebbe oltrepassata nel momento in cui voi terapeuti doveste, volontariamente o meno, arrivare a stringere un rapporto confidenziale in cui sfogare i vostri stessi problemi o, in casi estremi… - Clayton Bennett smise di parlare e rizzò la schiena, volgendo uno sguardo pensieroso al soffitto. – La conoscete Sabrina Spielrein?
Seguì un coro di “sì” e di “no”
- Per chi non la conoscesse, Sabrina Spielrein fu una delle prime figure femminili entrate a far parte del campo della psicologia. Questo è certamente notevole, ma non è il motivo per cui ho deciso di parlarvene. Il terapeuta di Sabrina fu Carl Gustav Jung, per giunta allievo di Freud e lei se ne innamorò inesorabilmente, tanto da desiderare di avere un figlio da lui.
Si udì qualche risata e del brusio sorpreso.
- Come potete immaginare, questa storia non andò a finire esattamente come una normale relazione amorosa. Vi ho fatto quest’esempio perché innamorarsi di un paziente, stringerci un rapporto simmetrico o intraprenderci addirittura una relazione amorosa, andrebbe a violare le regole del setting. La psicoterapia deve assumere un aspetto simbolico, prettamente comunicativo: una relazione andrebbe ad annullare completamente lo scopo di essa, e andrebbe a creare un altro trauma nella mente del paziente.
 
 
Tracy si detestò per tutta la durata della terapia. Non era riuscita a tenere la mente lucida neppure per mezzo secondo e più guardava Jake più si rendeva conto del fatto di dover smettere di pensare al sogno di quella notte. Quella mattina, come a voler girare il dito nella piaga, aveva osservato Jake in modo più approfondito, più attento. Aveva notato dei particolari che non le erano mai saltati all’occhio, forse perché ciò che attirava l’attenzione su Jake erano cose non proprio positive: la carnagione praticamente grigia, gli occhi spenti e stanchi, la pelle talmente sottile da poter intravederci le ossa. Ma Tracy notò quanto effettivamente particolare fosse. Le sopracciglia folte ma in armonia con il resto del viso, le labbra quasi femminili e i lineamenti fini e dolci, resi ancor più delicati dalle ciglia lunghe e scure, aveva una narice più piccola dell’altra, cosa dovuta forse a una deviazione del setto nasale. I denti di Jake erano bianchissimi: non lo aveva mai visto sorridere tanto da mostrarli, ma li notava quando il ragazzo parlava o si mordicchiava di tanto in tanto le pellicine delle dita.
Jake, effettivamente, era bello. Di una bellezza rara. Il suo viso era uno di quelli che non si dimenticavano facilmente, particolare e delicato, il corpo così esile da poter essere spazzato via dalla più misera folata di vento. I capelli lunghi che solitamente cadevano morbidi fin sotto le spalle erano ora raccolti in una coda alta e disordinata che metteva in evidenza il collo e la mandibola.
Tracy continuò a odiarsi.
- Josh ed io da piccoli eravamo indistinguibili. E a me questa cosa non faceva particolarmente piacere. – Jake sospirò dal naso, sorridendo appena. – All’asilo ci chiamavano “Josh e l’altro Josh”. Era terribile. Verso i sette anni abbiamo iniziato ad assumere una nostra identità, un nostro modo di vestire e di portare i capelli. Prima di… – deglutì, facendo salire e scendere il pomo d’Adamo. – Prima di morire, aveva i capelli ricci. E questo era il motivo per cui, a vederci a primo impatto, nessuno avrebbe detto che eravamo gemelli. – Tracy notò gli occhi di Jake stringersi.
 

 
“Eravamo”.
Quella parola iniziò a ripetersi nella testa di Jake innumerevoli volte. Troppe. Gli fece perdere la concentrazione, gli fece girare la testa e bruciare gli occhi.
Come se la sua mente volesse prendersi gioco di lui proprio ora che era riuscito ad aprirsi, proprio nel momento in cui pensava di poter realmente fare affidamento in quelle sedute per riuscire a sfogare tutta la sua rabbia e la sua tristezza.
Quando aveva pronunciato quella parola, il cuore gli aveva fatto quasi male. Ripensò al viso di Josh, alla sua voce cristallina e a come il ragazzo stringesse gli occhi durante una delle sue risate, che quando era con Jake diventavano più forti facendo perdere il respiro a entrambi.
 
 
- Do you remember what I’ve said when I got down on my knees? – strillò Josh, stonando anche parecchio e cadendo in ginocchio in modo melodrammatico una volta terminata la frase.
Jake imitò una plettrata con la mano destra, fingendo di stringere il manico di una chitarra con l’altra. – Gonna get your lovin’ babe, lovin’s all I need!
- Don’t make me beg now, babe.
- Don’t let me bleed! – fecero entrambi all’unisono, finché Jake non vide Josh inciampare sui suoi stessi piedi e crollare a terra ridendo sguaiatamente. Il gemello più piccolo lo imitò, cadendo al suo fianco e continuando a canticchiare la canzone che avevano scritto. Erano entrambi ubriachi, quindi non riuscivano nemmeno a scandire decentemente le parole. Ubriachi marci.
- Questo testo fa già meno schifo di quello di Highway Tune.
- Ma sentiti, brutto sciroccato! Non insultare i miei testi, hai capito?
- Gne gne gne testi, hai capito?
Josh scoppiò nuovamente a ridere, toccando il naso di Jake con la punta dell’indice. – Sei sporco di terra.
- Dove? Sul naso?
- No, mica sei caduto di naso.
- Cazzo, hai ragione.
- Cazzo, ho ragione. – il ragazzo spalancò gli occhi. – Di solito sei tu quello che ha ragione!
- Un giorno dobbiamo scrivere un testo sul fatto che ho sempre ragione.
- Sì, tesoro, si chiamerà “Canzone fuorviante”
- No. Si chiamerà “Age of man” e parlerà di come l’umanità si sia evoluta dopo avermi dato ascolto.
- Ma non abbiamo già scritto una canzone con questo nome?
Jake aggrottò la fronte. – Cazzo, hai ragione.
- Cazzo, ho ragione.
- Ma il testo non parla di me.
- Cazzo, hai ragione.
- Cazzo, ho ragione.
- Perché ho la sensazione di aver già vissuto questo momento?
- Perché ripetiamo la stessa frase da venti minuti.
- Cazzo, hai ragione.
- Cazzo, ho ragione.
Le risate esagerate si sparsero per tutto il quartiere, facendo chiudere svariate finestre.
- Jakey.
- Mhmh?
- Tu sei la mia anima gemella, sai?
- Che schifo, come i Lannister.
- Non in quel senso, stupido.
- In che senso?
- Nel senso che – Josh gesticolò cose incomprensibili per aria. – Tu sei l’unico con cui riesco davvero a sentirmi me stesso, che sa capirmi e ascoltarmi e che so capire e ascoltare. Ti comprendo al volo, mi comprendi al volo, sappiamo sempre se l’altro sta bene o male. Sei come una bussola quando mi sento perso.
- E se la bussola ti cade dalle mani?
Josh strinse forte suo fratello, talmente tanto da farlo pigolare. – Potrei cercarla ovunque.
Restarono zitti, immobili in quella posizione per minuti interi che a loro sembrarono frazioni di secondo, e dopo svariati secondi ci pensò la voce di Jake a rompere il silenzio. – Joshua.
- Dimmi, Jacob.
- Anch’io ti voglio bene.
 
 
- Lo amavo. Non come ama un innamorato, in modo diverso. Completamente. C’era qualcosa di talmente forte tra noi da farmelo amare. – Jake respirò a fondo, vedendo poi Tracy fare lo stesso.
- Cosa significa, per te, amare?
- Non… Non lo so. Lo senti, quando ami qualcuno. Lo percepisci. E’ come se qualsiasi cosa Josh facesse non mi permettesse in nessun modo di farmi cambiare idea su di lui. L’avrei sempre amato. C’era ogni giorno, ogni secondo. Eravamo connessi come se fossimo la stessa persona e sapevamo sempre dov’era l’altro, come stava, pronti ad abbandonare qualunque cosa, tutto quanto, al fine di sostenerci. Josh ha abbandonato il suo sogno di diventare un regista per la mia musica, perché mi amava. E se lui non ce l’avesse fatta più, io avrei fatto lo stesso. Avrei accettato la sua decisione e gli sarei stato accanto. Perché lo amavo quanto mi amava lui.
- Ti senti così anche con Sam e Veronica?
Ci pensò un attimo su. Sam e Veronica erano i suoi fratelli, due delle persone più importanti della sua vita che lui avrebbe protetto ad ogni costo. Erano tutti quanti una famiglia, insieme. Senza distinzione. Quando anche solo uno di loro non c’era, l’atmosfera cambiava. Ma di una cosa Jake era certo: sarebbero stati uniti per tutta la vita, legati da un rapporto forte come nessun altro.
 
 
Il bimbo nella culla li osservava con gli occhi scuri spalancati, identici a quelli di tutti e tre. Samuel era nato da pochi mesi, eppure già sorrideva ogni volta che vedeva i suoi fratelli.
Aveva la strana abitudine di stringere tra le labbra le dita dei propri piedi.
- Ora gli metto il dito nel naso.
- Che schifo, lascialo stare, Josh.
Veronica, dal canto suo, era troppo occupata a giocare con il fratellino come se fosse un gatto, sollevando e abbassando un peluche a forma di pesciolino che Sam stava cercando di prendere tra le piccole mani.
- E’ proprio brutto. Era più bella Ronnie.
- ‘Assie, ‘Ake.
- Noi eravamo brutti o belli?
- Tu eri brutto, io ti ho visto.
- Ma tu sei uguale a me.
- Non è vero. Tu sei più brutto.
In risposta, Jake fece un gesto con le mani. Sollevò la mano destra e strinse il pugno due volte: stava a significare “smettila”, “piantala”, ma questo lo sapeva solo Josh: i gemelli avevano un loro modo per comunicare, fin da quando erano nati. Karen, quando si era resa conto del fatto che a due anni ancora non parlassero, si era preoccupata non poco. Solo che, un giorno, mentre i bambini stavano giocando, li aveva visti fare dei gesti incomprensibili con le dita. E lì aveva capito.
E, nonostante ora Josh e Jake sapessero già comunicare a parole, non avevano perso quell’abitudine.
Il peluche cadde sulla testolina del povero Sam, che scoppiò di conseguenza a piangere, scaturendo anche il pianto di Ronnie e la risata dei gemelli. La reazione a catena fece entrare Kelly Kiszka nella cameretta, che sollevò il neonato dalla culla e lo prese tra le braccia, per poi chinarsi a guardare la sua bambina asciugandole le lacrime. – Ronnie, che è successo?
La bimba singhiozzò un paio di volte, indicando il fratellino. – I-io ‘olevo gioca’e!
Papà Kiszka sorrise e cullò appena Sam tra le braccia, accarezzandogli la testa per fargli smettere di piangere.
- Sammy ti odia. – rise Jake, ricevendo un’occhiataccia da Kelly e facendo piangere ancora di più la povera Veronica.
- Sammy non ti odia, piccola. E se Jacob Thomas Kiszka continua così può aspettarsi una bella sberla.
Quella frase bastò a far rabbrividire il più piccolo dei due gemelli.
- Non potrebbe mai odiarti, Ronnie. Siete fratelli, giusto? E i fratelli restano accanto ai fratelli, sempre. Qualsiasi cosa accada. E non si insultano a vicenda come questi due – indicò Josh e Jake con la testa. – Dovete sempre rispettarvi l’un l’altro, perché sono sicuro che, ogni volta che ne avrete bisogno, i vostri fratelli ci saranno.
 
 
Jake respirò profondamente, continuando a tenere la testa appoggiata sulle gambe di Veronica, che con le dita sottili e veloci stava intrecciando i suoi capelli lunghi, permettendogli di rilassarsi ancora di più.
A Jake erano sempre piaciuti quei momenti. Tra tutte le persone al mondo, non ce n’era nessuna più delicata e attenta di sua sorella. Nonostante Ronnie avesse un carattere forte e una testa come poche, non perdeva la sua leggiadria e la sua leggerezza. Soprattutto con lui, che appena veniva toccato con un po’ più di forza rischiava di bruciarsi.
Potevano passare interi pomeriggi così, ad ascoltare dischi a volume bassissimo l’uno sdraiato sull’altra senza stancarsi, magari addormentandosi di tanto in tanto.
Prima, soprattutto d’estate, ma anche durante i temporali invernali, Ronnie amava girare per la casa ascoltando Jake suonare la sua chitarra acustica in modo leggerissimo, senza quasi far rumore. Si sedeva con un ghiacciolo o una cioccolata tra le mani e ascoltava, ascoltava e basta. Zitta, ma non assente. Perché Ronnie era lì con le orecchie e con il cuore, ad ascoltare l’arte che scorreva tra le mani di suo fratello. E, di tanto in tanto, si aggiungevano la voce di Josh e il pianoforte di Sam. E lei non smetteva di ascoltare.
- Cambia canzone.
- Che?
- Non mi piace questa.
- E che m’importa. Un album si sente dall’inizio alla fine.
L’album in questione, che Jake voleva ascoltare fino alla fine, era “Helplessness Blues” dei Fleet Foxes. Avevano scoperto quegli artisti alle superiori e se n’erano innamorati immediatamente e “The Shrine/An argument” era la canzone che più piaceva a Jake e, ironicamente, piaceva meno a Ronnie.
- Ma perché ti piace così tanto?
- Perché è particolare. La chitarra è bellissima e la struttura non è banale.
- Te ne intendi più tu di musica.
Jake sorrise. Era stranamente sereno. Non poteva dirsi felice, ma era… Calmo. Non aveva poi tanti pensieri per la testa, quel tipo di calma. E stare con Veronica lo faceva sentire a casa.
Il campanello, però, lo fece sbuffare. – Vai tu.
- No.
- Dai.
- Per alzarmi io devi alzarti anche tu, comunque.
Jake sospirò e si levò in piedi, alzando gli occhi al cielo. – Già che ci sono vado io.
Attraversò il corridoio e, quando aprì la porta, il cuore gli si fermò. Gli occhi si spalancarono, il respiro gli si bloccò in gola.
Una donna di bassa statura, dai capelli lunghi color biondo cenere e corporatura robusta lo guardava con gli occhi scuri tristi e amari.
Jake riuscì a trovare il fiato per dire una sola parola, corta e stentata.
- Mamma.

 
   
 
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