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Autore: Fran Truth    15/06/2020    0 recensioni
Sul confine tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia, immerso nei vecchi boschi delle Dolomiti, Fabrizio Bortot attende la morte imminente nella sua casa-bottega, situata nel suo paesotto d'origine reduce dall'onda del Vajont.
Spopolato e reso un'esca per turisti sognatori, il borgo può finalmente offrirgli la pace che ha ormai perso dopo anni passati a Venezia, dove ha intrapreso la carriera di scrittore. Ancora molti ammiratori bussano alla porta del suo laboratorio, in cui centinaia di lavori in vetro riflettono i raggi del sole montanaro.
Sa che manca poco al suo ingresso nell'altro mondo, ma la vita pare donargli nuovamente una gemma preziosa: una figuretta bagnata si staglia davanti alla sua porta, in attesa di qualcosa.
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Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia batteva con leggerezza sui vecchi ciottoli della viuzza. I petali vermigli dei fiori sui davanzali delle case si afflosciarono lievemente sotto il peso dell'acqua e alcuni caddero giù, percorrendo le pareti crepate e abbandonate dal tempo, un miscuglio di malta e grossi sassi miracolosamente vivo. Le piccole membra color sangue toccarono il terreno antico e stanco e furono travolte dal peso di minuscoli piedi sfreccianti sotto i tuoni.
Nell'angolo di quello stretto sentiero montanaro, un'insegna lignea di forma ovale dondolava al ritmo di un vento che portava in grembo la tempesta. "Vetreria Bortot", dipinto in nero con fine maestria, segnava l'inizio di un mondo. Fabrizio Bortot lo amava, quel mondo, il suo pianeta e unico amico che la vita gli aveva ormai risparmiato, quella stessa vita che lo aveva travolto insieme all'onda del Vajont.
Ricordava ancora quella brezza che sapeva di terra. Poi una sorta di vuoto al pensiero di sua madre, uscita con l'amante giù a Longarone con la scusa di assistere la sorella malata. E infine niente, la sua mente pareva aver rimosso qualunque immagine dell'ondata, ogni urlo, ogni disperata ricerca, la loro casa semidistrutta. Solo suo padre affranto era rimasto, lui e la sua funerea sentenza: 'ndamo zó da to xìo a Venessia. Qua non ghe xe pi gnènte par ti, "andiamo da tuo zio a Venezia. Qua non c'è più nulla per te". Intascati i soldi del risarcimento, al diavolo il processo, dalla montagna alla laguna più bassa e l'acqua e il fango via, mai più passati per la mente. Non li aveva propriamente cancellati: quel ricordo era pari a un oggetto né utile né inutile, posto in un cassetto remoto e avvolto nell'aria stantia dell'indifferenza. Ogni tanto lo apriva, quel cassetto, quando andava a trovare la tomba di sua madre, una croce grigiastra che della donna che avrebbe dovuto ricordare aveva unicamente una foto in bianco e nero. Sotto non vi era nulla.
Quel cambiamento, a dire il vero, non gli dispiacque: la drasticità del trasferimento venne ricambiata presto con scuole, libri, il vetro e l'amore. Aveva conosciuto molti amori e molte donne, tutte diverse ma ugualmente degne di rispetto e ammirazione, nessuna eterna. A quello che ormai poteva definire il crepuscolo della sua esistenza, Venezia sembrava l'unica vera sposa che avesse mai avuto, la sola a cui aveva definitivamente detto addio. Tutto ciò che rimaneva di lei era solo un gran mucchio di vetro, una gondola in miniatura, Canal Grande vivo nella pittura sul muro e la piuma di un gabbiano dentro una bottiglia. Null'altro, se non il ricordo. Tanto bastava, oramai.
A Venezia aveva incominciato a scrivere e a lavorare il vetro e non aveva smesso di fare nulla delle due cose. L’aveva preso come apprendista un vecchio vetraio amico di suo zio, un uomo che “era andato in guerra”, così glielo avevano descritto, perché effettivamente, di lui, si sapeva ben poco, oltre al fatto che lavorasse il vetro in maniera magistrale. Fabrizio ricordava le piccole maschere in vetrina, che raccoglievano la luce del sole e la trasformavano in gioiosi riflessi rossi, versi, azzurri, o i cigni dello stesso colore dello zaffiro, con le sottili e fragili ali spiegate verso i compagni dorati dalle piume dipinte di bianco.
Oltre quella coltre di vetro e cicatrici si nascondeva, però, anche un sognatore colto e raffinato, che sapeva intavolare discorsi nella più bassa forma di dialetto o in italiano forbito e che, al di fuori della lucente bottega, viveva in una casa dove i mattoni erano i libri. Si chiamava Dario Vianello ed era veneziano, figlio e nipote di veneziani, ma il nome sopra i suoi titoli era Luigi Vascotto. Era uno che parlava tanto, di libri, di storia, di guerra, di Venezia e dei dogi, ma quando Fabrizio gli chiedeva qualcosa riguardo all’origine del suo pseudonimo la sua parlantina vivace ed eloquente si scioglieva come la neve delle montagne d’estate. Poco prima che morisse di un atroce male che gli divorava da tempo la mente, chiese a Fabrizio di accompagnarlo in un cimitero militare della prima guerra mondiale. “Volevi sapere di Gigi, vero?”, gli domandò. “Quarta croce della dodicesima fila. Te lo meriti, dopo che sei riuscito a pubblicare qualcosa. Anche se avresti potuto fare di meglio”.
Continuò a pubblicare, senza mai sapere se avesse raggiunto o superato la soglia di quel “meglio”.
Adesso, decenni dopo, con venti romanzi, quattro raccolte di racconti e molto, molto vetro alle spalle, sentiva una sensazione agrodolce farsi strada in lui, qualcosa di ben diverso dal consueto fastidio al petto che, ormai, tormentava le sue giornate. Era un’annebbiata foga che, inconsciamente, lo accompagnava in ogni singolo gesto: ogni giorno lavorava quanto più vetro possibile, sempre più veloce, come se una scadenza imminente pendesse sul suo calendario, circondata di rosso. Sistemava la sua bottega da cima a fondo anche il lunedì, giorno di chiusura. Riordinava i suoi documenti, aggiustava ciò che era rotto, addolciva i rancori e cancellava dei possibili rimpianti. Ma non c’era un effettivo bisogno di fare tutto ciò. Eppure una voce dentro di lui glielo ordinava, lo spronava a “mettere a posto” tutto, come un vacanziero che prepara le valigie e chiude acqua e gas prima di partire. Solo un’ultima cosa, però, necessitava di essere “messa a posto”.
Un lampo squarciò il cielo, un tuono lanciò un grido, un vecchio cassetto di legno cigolò anonimo in mezzo alla tempesta. Fabrizio estrasse un quadernetto bianco e lesse velocemente il titolo della prima pagina: “Vetro e Roccia, Racconto Uno – La martora”. Seguiva un blocco scritto in maniera fitta, minuscola e ordinata.
La sua ultima raccolta. O meglio, ciò che quella voce interiore gli diceva essere l’”ultima”. Ciò che invece gli diceva il cervello era di fare quello che aveva fatto per anni: scrivere ad Anna, la sua editor, per dirle che il lavoro era concluso, per poi parlare con lei, con il grafico, con l’impaginatore, con i responsabili della pubblicità, con qualche critico letterario per annunciare in pompa magna il suo nuovo prodotto.
Non lo aveva ancora fatto, in realtà. Aveva provato, con tutta la buona volontà del mondo, a premere quel tasto sul suo cellulare (lo stesso che Anna gli aveva regalato, mossa un moto d’esasperazione perché sempre incontattabile), ma quella strana sensazione era riuscita a fermarlo, ogni volta, come se stesse sbagliando qualcosa. Quel formicolio nella sua testa gli dava da rimuginare, ma lo irritava anche e quel cassetto era divenuto la sua soluzione. Una soluzione molto temporanea: sentiva il peso del tempo gravargli sulle spalle.
Mentre sfogliava le pagine, udì un tondo fuori dalla bottega. Si alzò con lentezza e vide una bambina spiaccicata sul terreno fradicio di fronte alla sua porta, con un piccolo zaino blu in spalla. Faticava ad alzarsi: Fabrizio notò con orrore due evidenti sbucciature sul ginocchio e sul gomito destri e un’innaturale posizione del piede sinistro.
Aprì la porta lottando contro il vento. «Ehi, piccolina!» esclamò nella tempesta. «Stai bene?»
Non rispose. Tentò invece di rimettersi in piedi, ma cadde addosso alla vetrina. Piangeva.
«Aspetta che ti porto dentro» disse Fabrizio con dolcezza. «Così chiamiamo i tuoi genitori. Questa tempesta è pericolosa.»
Appena la bambina udì la parola “genitori”, sollevò il volto. Fabrizio constatò che non doveva avere più di otto o nove anni. Parve restia.
«No, la mamma ha detto che non devo entrare nelle case degli uomini che non conosco. Mi ha detto che ai bambini come me fanno cose brutte, bruttissime» biascicò fra un singhiozzo e l’altro.
Fabrizio comprese il suo timore, ma non poteva lasciarla lì fuori, in balia del vento. «Facciamo così: io prendo il telefono e chiamiamo subito la tua mamma e tu non entri finché lei non ti dà il permesso». Non gli rispose, ma annuì appena. Gli passò un foglietto: sebbene bagnato, i numeri erano ancora leggibili.
Dall’altro capo della linea non rispose una donna, ma un uomo dalla voce rotta dal pianto. Disse a Fabrizio di essere il padre e che si sarebbe precipitato subito in vetreria. Lo ringraziò due volte, si scusò per il disturbo e gli chiese di occuparsi di Martina, la sua bambina.
«Bene, Martina» disse Fabrizio spegnendo il cellulare. «Vieni dentro, ti do qualcosa di caldo e mettiamo dei cerotti su quelle brutte sbucciature». Dopo aver udito le parole del papà, Martina decise di fidarsi.
La fece accomodare su una sedia di legno, vicino a uno scaffale con delle piccole ballerine di vetro. Fabrizio, innanzitutto, corse a prendere un asciugamano, dei cerotti e del disinfettante. Mentre Martina si asciugava la testa, lui le medicava le sbucciature. Le studiò anche la caviglia. Era slogata, ma non doveva essere troppo grave. Martina continuava a guardare le ballerine e Fabrizio le preparò una tazza di tè caldo.
Bevvero in silenzio per qualche minuto, fino a che Fabrizio non le chiese: «Da dove vieni?»
«Da Belluno» rispose Martina.
«Siete qui per la diga?»
«Sì» mormorò. «Mamma non è di qui. Viene dal sud. Voleva vedere la diga e le montagne».
Fabrizio annuì. Era una famigliola come tante, turisti anonimi che si tuffavano nella memoria.
«Alloggiate qui vicino?»
«Sì, all’ostello vicino alla chiesa.»
«E perché eri fuori in mezzo alla pioggia?»
Martina affondò il musetto dentro la tazza mezza vuota e non rispose.
Quando Fabrizio finì il suo tè si alzò e controllò fuori. Il vento si era fatto meno forte, ma la pioggia non dava segni di tregua.
«E lei?» la voce di Martina gli giunse lieve e quasi soffocata dalla bufera.
«Io cosa?»
«Perché è qui?» Guardò le ballerine, poi il dipinto di uno squarcio di Canal Grande sul muro. «Quella è Venezia?»
Fabrizio si risedette davanti a lei. «Beh, io sono nato qui, tra queste montagne» spiegò. «Poi è arrivata l’onda e io e mio padre abbiamo perso… molto. Così sono andato giù a Venezia. Lì ho studiato un po’, ho imparato a lavorare il vetro e ho scritto dei libri.»
Martina alzò la testa. Nei suoi occhi iniziava a brillare un bagliore di curiosità. «Ma perché è qui adesso? Non era meglio Venezia? Qua non c’è nulla, è un po’ triste questo posto. Poi tutti parlano dell’onda, sembra sia stata ieri. E di cosa parlano i suoi libri?»
«Calma, cara, calma, una domanda alla volta» Fabrizio si trovò sorpreso di fronte a quell’improvvisa scarica di voce. «Sono qui perché… in realtà non c’è un motivo preciso. Non tornavo da molti anni, quasi una dozzina. Sentivo di dover tornare. Venezia è bellissima e mi manca, ma questo posto è casa mia. Ha qualcosa che Venezia non ha.»
«Ma perché non è tornato prima, se questo posto le piace tanto?»
Fabrizio sorrise divertito. Sotto interrogatorio da una bambina. Gli piacque quella sensazione: la sua voce genuina era così diversa dalle domande meccaniche dei giornalisti. «Avevo molte cose da sbrigare. E poi… non era sempre bello tornare qui. Come hai detto tu, tutti parlano dell’onda.»
«Lei era qui quando c’è stata?»
«Certo. Avevo undici anni. Ma non ricordo molto. Se alla tua famiglia interessa, il proprietario dell’osteria qui vicino ne parla tanto» le fece l’occhiolino «Se avete da spendere in pietanze.» Avrebbe voluto dire “bevute”, ma gli sembrò poco consono.
Martina si era ormai aperta e, senza muoversi dalla seggiolina, indicava a destra e a manca le opere in vetro, le fotografie, i dettagli del dipinto, sommergendolo di “cos’è” e “perché” e “ma”. Fabrizio, nel mentre che le rispondeva, spolverava le mensole e sorrideva giulivo. Uno strano presentimento prese a insinuarsi dentro di lui, un’energia positiva che gli iniettava soddisfazione pura, ma faticava a comprenderla. Giacché il padre di Martina tardava, Fabrizio andò a prendere alcuni biscotti e l’occhio gli cadde sul quadernetto bianco che aveva lasciato aperto. Sentì una scintilla scaldargli il cuore.
«Dimmi cara, tu leggi?»
Martina lo fissò pensierosa. «Un pochino».
«Ti piacciono i racconti?»
«Tipo le fiabe?»
«Sì, tipo le fiabe.»
«Sì, mi piacciono!»
«E gli animali? Ti piacciono?»
«Un sacco! A casa abbiamo due gatti e un coniglietto. Io avrei voluto anche una volpe, ma mamma ha detto che le volpi non sono animali da tenere in casa.»
Un sorriso dolce, quasi malinconico, si formò sul volto di Fabrizio. Anna era ormai cancellata dalla sua mente: la sua decisione era un’altra e non aveva vie d’uscita.
Afferrò il quadernetto, si avvicinò a Martina e indicò il suo zaino. «Sai mantenere una cosa segreta?»
Lei annuì, eccitata.
«Ascoltami bene» iniziò. «Questo è un libro di racconti che ho scritto io stesso. Dovrebbe essere il mio ultimo lavoro, ma non voglio darlo via come gli altri libri. Voglio che lo tenga tu. Ma devi averne molta, molta cura.» Un peso enorme prendeva a dissolversi dentro di sé.
«E potrò leggerlo?»
«Certamente. Sono racconti sugli animali del bosco. Forse non riuscirai a capire alcune parole: armati di dizionario. Altrimenti, chiedi alla tua mamma o al tuo papà, ma devi aspettare un po’ di tempo.»
«Quanto?»
«Non più di sei mesi.»
«Ma è tanto…»
«La pazienza è un dono prezioso. E mi raccomando» le mise una mano sulla spalla. «Se qualcuno ti chiederà mai chi ti ha dato questo quaderno, tu dovrai dire che è stato Luigi Vascotto.»
Lo guardò dubbiosa. «Ma sull’insegna c’è scritto Bortot. E lei ha detto a mio padre di chiamarsi Fabrizio.»
«Non badarci. Ricordati di Luigi Vascotto. È una lunga storia, tesoro.»
«Va bene.»
Non appena Martina cacciò il libro dentro lo zainetto, un uomo sulla cinquantina bussò incessantemente alla porta vetrata. Entrò e ringraziò Fabrizio mille volte, con le guance rigate dalle lacrime e dalla pioggia. Abbracciò sua figlia, borbottando un “cucciola” e uno “scusa” rotti dal pianto. Fabrizio si allontanò di qualche passo.
Dal momento che l’uomo era senza ombrello, gliene diede uno. Donò a Martina una delle ballerine di vetro e dovette rifiutare il denaro di suo padre ben tre volte. Non poteva dirgli che sua figlia gli aveva fatto un regalo molto più grande e importante di un pezzo di vetro colorato.
Quando uscirono, Fabrizio chiuse il cassetto. Finì di riordinare il negozio, chiuse a chiave la porta principale e telefonò ad Anna, dicendole che il lavoro era stato completato. L’editor, ovviamente, male interpretò quelle parole.
Andò a dormire soddisfatto, felice e in pace con se stesso. Due mesi dopo, il mondo ricevette l’annuncio della dipartita di Fabrizio Bortot, noto scrittore. Fu trovato morto appoggiato a un albero, vicino al Vajont, con un sorriso fanciullesco dipinto sul volto.
 
 
   
 
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