Singing
is the answer
18 – Remember when…
«Han, almeno tu…»
Raon guardava affranta il fratello che se ne stava
poggiato sul top della cucina, accanto al lavello, le braccia conserte;
quest’ultimo stava ascoltando in silenzio ciò che la signora Lee stava affermando
con convinzione.
«Non posso lasciarti da sola che combini guai. Si può sapere cosa succede? E
poi ritrovarti in casa con due ragazzi, così, a caso. È questo che ti ho
insegnato? Che hai combinato con loro? Dì la verità.» Stava procedendo senza
sosta, non stava dando alla figlia neppure la possibilità di ribattere; Raon si stava mordendo il labbro inferiore cercando di
trattenere le imprecazioni createsi una dopo l’altra a distanza di qualche
secondo.
Variopinte, fantasiose, particolarmente pesanti.
Non poteva parlare, sapeva che l’equilibrio già instabile si sarebbe spezzato
altrimenti: il loro era un rapporto precario che si reggeva a malapena in
piedi, ma se avesse aperto bocca, sarebbe stato il putiferio.
«Sicura non si tratti di una scusa? Che volevi fare, fermarti a dormire a casa
di quello lì?» La madre sottolineò con disprezzo le ultime parole. Alla ragazza
non era mai passato per la testa, non che avesse eliminato a prescindere l’idea
di poter incontrare nuovamente l’inquilino di casa di sua nonna, non sembrava
poi così male come al loro primo incontro… passarci la notte, però, quello no.
Mai.
Senza ombra di dubbio.
Aya dal canto suo se n’era stata in disparte, essendo
entrata assieme ad Han: l’ex padrona di casa non aveva fiatato nel vederli assieme
ancora una volta, anche se non s’era risparmiata osservandola con aria di
contrariata superiorità. Vedendo però Raon in
difficoltà decise di intervenire a costo di risultare stronza, impicciona o
quant’altro – era comunque abituata a chi la considerava negativamente. «Mi
scusi signora, se mi permette, ma non credo fosse sua intenzione fermarsi da
lui.»
«Senti, Aya, per quanto possa averti voluto bene,»
l’utilizzo del tempo passato del verbo non era stato affatto casuale, «non ti
permetto di immischiarti in faccende che non ti riguardano. Hai deciso di non
far parte più della famiglia dal momento in cui hai lasciato mio figlio, adesso
ti prego di andartene.»
«Lasciala in pace, non è stata colpa s-»
«Raon, non intrometterti per favore. Signora Lee, le
chiedo solo di capire: sua figlia ha avuto un incidente e sta male, è stata
aiutata e non capisco dove stia il problema.»
«Il problema non è lei, ma chi era con lei.»
Naturalmente ad Aya mancava un piccolo passaggio,
quello della presenza di Tae in casa di Åsli: aveva
capito cos’era successo collegando i vari messaggi ricevuti, ma nulla più. Non
era a conoscenza del litigio avvenuto poco prima, non sapeva neppure che faccia
potesse avere il ragazzo che aveva soccorso l’amica. Nulla di necessario al
momento, a lei bastava Raon non fosse seppellita da
spalate gratuite di merda dalla stessa presenza che l’aveva messa al mondo, per
poi abbandonare la famiglia e la propria casa qualche anno dopo in cerca di un
compagno migliore e benessere economico stabile.
Un esempio di madre e moglie che ancora credeva di poter mettere becco nelle
faccende private di coloro che aveva deciso di lasciare.
Coerente.
Decisamente coerente.
«Non trattare male Aya, lei non c’entra nulla in
tutto questo!» La pazienza della giovane ormai s’era ridotta all’osso, aveva
scavato tra le costole, scavato e scavato rischiando di consumarla da dentro.
Basta.
Era stata zitta più che a sufficienza.
Avrebbe anche potuto subire sfuriate da chi non avrebbe dovuto permettersi
nemmeno di parlare, ma il limite era stato superato.
«Ti da fastidio l’idea di vedermi accanto ad un
ragazzo? O forse due magari, chissà. Pensi avrei potuto portarmeli a letto e
restare incinta come è successo a te, e credi che io sia così stupida per
caso?»
Il sonoro ceffone la zittì e bruciò tanto da portarla alle lacrime.
«Beh, che ci fai ancora qui? Hai sparato le tue cazzate, te ne sei uscito con
il tuo essere un impiccione senza speranza, hai toccato tra le mie cose e
adesso non dici nulla?» Åsli aveva fatto cenno
all’ospite indesiderato di andarsene indicando la porta d’entrata, invitandolo
a levarsi dalle scatole. Il mal di testa era tornato più forte di prima,
martellante e distruttivo.
Lui.
Raon.
La madre.
La sbornia da smaltire.
Ne avrebbe avuta per tutta la sera e la notte sicuro, altro che antidolorifico.
E quella dannata sensazione d’aver tralasciato qualcosa, qualche piccolo
stupido particolare accantonato da qualche parte nel suo cervello dolorante e
fastidioso.
«Sei un vigliacco, lo sai?»
Aveva parlato Tae, tagliente, cinico forse, fuori luogo di sicuro. «Lei era lì,
ti ha guardato negli occhi cercando sostegno. Cosa hai fatto per lei? Un cazzo.
Anzi.»
Il ragazzo gli si avvicinò tanto da spingersi contro la sua fronte, sollevando
il labbro superiore in una smorfia mista a dolore e sopportazione minima. «Era
sua madre, tu che avresti fatto al mio posto?»
Tae incastrò gli occhi scuri su quelli chiari e liquidi dell’altro, sorridendo
sarcastico: «io avrei tirato fuori le palle e l’avrei difesa. Ed era quello che
avrei fatto se tu non mi avessi fermato. Paura? Sei solo un piccoletto abituato
ad avere tutto ciò che vuole senza dover lottare, ci scommetto quello che
vuoi.»
«Da quale buco d’inferno sei venuto fuori, per rompermi tanto i coglioni?
Perché non te ne torni dalle tue parti a mangiare riso e zuppe di pesce?»
«Sei ridicolo, ti prego non cominciare con le battute offensive, potrei
divertirmi davvero. E se ti chiedi perché ti tratto così, è perché so chi sei,
ho visto i tuoi video, gli edit, ti ho sentito
cantare. Ah, e per la cronaca, la tua pronuncia della lingua giapponese fa
cagare. Io intanto torno a mangiare riso e pesce come un cinese qualsiasi,
anche se sono coreano per la cronaca ma grazie per aver spiegato qualcosa delle
mie origini che nemmeno io sapevo. Tu e i tuoi luoghi comuni del cazzo
statevene qui in casa rintanati dal mondo, che tanto chi ti si fila ormai… la
gente si è accorta che sei sparito dalla scena, non canti più, non pubblichi
più, non registri nemmeno una cover. Attento, ancora poco e non sapranno
neppure come ti chiami. Puff, come una bolla di
sapone che esplode. Arrivederci, mi auguro davvero Raon
non sia così stupida da perdere la testa per uno che non ricorda neanche di
averla baciata.»
Un sorriso sincero stampato in volto, un semplice cenno del capo, e si congedò
soddisfatto.
Åsli sbuffò spazientito, rassegnato: non ne andava
una giusta dal momento in cui s’era trasferito. Sapeva d’essersi allontanato da
Kisha e da suo fratello, dopo tutto ciò che era
accaduto era naturale. Idiota lui ad esserci cascato senza rifletterci troppo;
era colpa sua, come di Erik, come di lei. Tutti e tre erano stati coinvolti in
un disastro senza possibilità d’uscita, considerando che la sua compagna
dell’epoca, se avesse potuto definirla tale visti i trascorsi e considerando la
relazione segreta, continuava ad uscire con Erik nonostante frequentasse il
fratello maggiore; non bastava uno solo, ne voleva di più a discapito di un
sereno rapporto equilibrato. Ma lei non lo era mai stata, era volubile e non
s’accontentava di nulla. Una stronza opportunista che aveva fatto un errore, e
più d’uno, ma quello più grande lui non l’avrebbe dimenticato tanto facilmente:
la cosa era diventata insostenibile, il test positivo effettuato qualche tempo
dopo l’inizio dei loro incontri clandestini lo aveva fatto desistere dal
mantenere ogni tipo di contatto. Aveva la certezza assoluta che il bambino non
fosse il suo, lo sapeva, se lo sentiva.
Era di suo fratello.
Il padre doveva essere Erik, per forza.
Tutto avrebbe dovuto concludersi lì, con quella notizia sussurrata a bruciapelo
tra gli occhi velati di lacrime. No, non era suo anche se non era affatto innocente,
ma l’orgoglio non gli aveva mai permesso di richiamare Erik per sistemare a suo
modo parte del disastro.
«Stronza.»
Lo disse ad alta voce tentando di rinnegare l’attrazione impulsiva e travolgente
che l’aveva spinto tra le gambe di Kisha.
«Stronza!» Lo ripeté ad un volume maggiore sapendo che nessuno avrebbe comunque
ascoltato e chiesto che era successo di così grave da spingerlo ad abbandonare
tutto quanto. La terza volta sentì pungere gli angoli degli occhi, sfregandoli
con tale energia da farsi male.
Era colpa di lei. Aveva tradito la fiducia di suo fratello per lei.
Era colpa di lei. Aveva abbandonato il gruppo e la propria casa per lei.
Era colpa di lei. Aveva mandato in fumo ispirazione e registrazioni, sempre per
lei.
Avrebbe dovuto lavorare ad un singolo inedito ma Kisha
aveva assorbito completamente il suo tempo, fino alla notizia che l’aveva
spaccato a metà. E così ogni singola probabilità di trovare un briciolo di equilibrio
se n’era andata a puttane: non aveva più combinato nulla di concreto, le visite
ai vari blog ufficiali erano calate e molti fan sui social avevano smesso di
chiedere – e probabilmente chiedersi – il motivo di tale prolungata assenza ingiustificata.
«Forse quello ha ragione.» Aveva riflettuto sulle dure parole di Tae, ed
effettivamente erano state efficaci, pungenti, un pugno diretto allo stomaco.
Veritiere.
Canzoni, cover, ore non quantificabili ad armonizzare la propria voce, studio
dei testi e dello strumento facevano tutti parte di una routine quotidiana dura
e scandita da esercizi continui e sfiancanti; interagire con gli users sulle varie
piattaforme inoltre era una parte fondamentale del proprio ruolo e del lavoro
che aveva sempre sognato di fare, quella dell’artista musicale. Un’arma a
doppio taglio, perché come aveva predetto l’indesiderato impiccione che aveva
impudentemente frugato tra le sue cose, a cominciare a perdere contatto con le
persone che lo sostenevano avrebbe portato solo a conseguenze negative. La
reputazione andava mantenuta, era importante tanto quanto gli sforzi che aveva
fatto per arrivare dov’era. E per quanto la notizia di un ipotetico bacio
scambiato con quell’assurda ragazza che sembrava perseguitarlo avesse scatenato
in lui un curioso senso di soddisfazione ed improvviso possesso, affiancato ad
un semplice ed efficace “ma allora sei proprio un coglione” pensando di sé,
decise di accantonare il fatto per quella sera. I suoi neuroni non ci sarebbero
neppure arrivati, sfiancati com’erano. Un problema alla volta, si disse e senza
un apparente motivo salì in soffitta, pulita e risistemata a dovere: la chitarra
classica giaceva in un angolo, abbandonata a se
stessa. Avrebbe dovuto riprendere a suonare almeno, sentire ancora la
consistenza delle corde sotto ai polpastrelli induriti dall’allenamento costante
e dalla passione che era venuta meno in quel periodo. Sì, avrebbe dovuto. Fece
per prendere la custodia di tela nera quando un flash improvviso lo bloccò sul
posto.
«Åsli, guarda, guarda qui è bellissimo!»
La bambina scosse il capo muovendo i codini scuri arruffati da ore intere di
gioco entusiasta, sbattendo i piedi sul pavimento di legno della soffitta indicando
un vecchio mobile impolverato, tarlato, consumato dal tempo. Il legno consunto mostrava
tracce di spostamenti, gli angoli smussati ed i graffi su tutta la superficie
parlavano da soli. Una fotografia della piccola in compagnia dei giovani
genitori era racchiusa in una semplice cornice color bronzo. «Vedi? Questa sono
io, questo è mio papà e questa mia mamma. Ma cosa è questo?»
«Raon, smettila. Non dovresti toccare le cose di tua
nonna. Cosa direbbe se ti scoprisse?»
La voce di una donna che aveva passato da un po’ la mezza età si levò tonante
dal piano inferiore richiamando l’attenzione di entrambi.
«Ecco…» sussurrò il ragazzino, «ci ha scoperti, lo sapevo! Rimetti a posto
quello che hai trovato, non voglio avere guai con la signora per colpa tua,
piccola peste.»
Raon strinse a sé il pacchetto che aveva appena scoperto
in uno dei cassetti superiori della vetrina da salotto, su in alto a destra,
spingendosi sulla punta dei piedi per raggiungerlo. L’involto sembrava essere
già vecchio ed avrebbe tanto voluto aprirlo e scoprirne il contenuto.
«Lascia stare, andiamo.»
Åsli si sbilanciò stringendo la testa con una mano:
da dove venivano quei ricordi sepolti, completamente dimenticati fino a poco
prima? Erano lui e Raon, ne era certo, come aveva
riconosciuto la pavimentazione ed il lucernaio del sottotetto.
«Ma quello…» aveva visto chiaramente il pacchetto, lo stesso che l’anziana padrona
di casa teneva stretto tra le mani il giorno del trasloco, come anche la foto:
cornice diversa, ma gli stessi soggetti ritratti. Frugò in tasca alla ricerca
del telefono, fanculo alla giornataccia, avrebbe dovuto saperne di più: era
giunto il momento di interrogare la ragazza sulle informazioni che aveva appena
ricordato, aveva come la sensazione che l’aria di quella casa avesse qualcosa
di particolare.
L’odore di legno in soffitta.
Il profumo degli alberi in giardino.
Le immagini.
Quelle più di tutto, quelle stavano riportando il giovane in un mondo che
credeva d’aver dimenticato.
Note dell’autrice (sopportatemi
per come sono, perché a una certa c’è da chiedersi che memoria di merda abbia Åsli, e non solo lui; Raon? Ancora
peggio.)
Ahhh beh, le cose piano pianino si
stanno mostrando.
O stanno incasinando tutto, non so.
Sicuro è che i due hanno un passato condiviso di cui non mantengono memoria non
perché siano delle emerite teste di PLIN, o perché i loro neuroni facciano
PLIN, ma semplicemente gli anni passano; i ricordi vengono accantonati
lasciando spazio a responsabilità e vita da adulti. Io pure non ricordo tre
quarti dei bambini con cui ho giocato per anni durante l’infanzia, e pure per
tanto tempo continuativo: quindi perché non dovrebbe succedere anche a loro? Insomma,
più si va avanti e peggio è. Ottimo, così mi piace!
Grazie grazie e ancora grazie a voi che mi supportate
con commenti, interazioni, con recensioni e letture silenziose… mi date la
carica e non avete idea di quanto!
Alla prossima,
-Stefy-