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Autore: alyeskaa    24/06/2020    0 recensioni
Il 31 Ottobre 1993 si spense davanti il Viper Room il giovane attore River Phoenix.
Flea lo ricorda così: "Una delle persone più gentili che abbia conosciuto nella mia vita. Penso a quanto incredibilmente fortunato sia stato ad avere nella mia vita una persona che vedeva cose che nessun altro riusciva a vedere."
Una shot, spero veritiera, sul rapporto tra i due.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Note: Questa fanfiction è stata davvero un'esperienza per me. Ho passato anni a scriverla, senza neppure sapere se l'avrei mai davvero pubblicata. Ero solita mandarne i capitoli ad una mia amica molto cara, e lei mi dava sempre il suo giudizio più sincero: l'amava. Ho perso questa persona, e tra le altre cose della mia vita rimaste incompiute a causa della mia perdita, c'era sicuramente questa storia. L'ho ritrovata qualche giorno fa sul mio pc, e leggendola ho avuto una strana sensazione, ma anche bellissima: come se avessi trovato qualcosa che qualcun'altro aveva scritto per me, ma che avevo proprio bisogno di leggere in quel momento. Così, ho deciso di pubblicarla, sperando di poter fare lo stesso effetto a qualcun altro.
Era nata come una shot, ma essendo un grande progetto ho deciso di pubblicarla come long. In ogni caso, avrà solo 7 capitoli. I primi cinque sono già pronti, e spero di scrivere con la stessa passione anche gli altri- e sperando, magari, di impiegarci meno tempo. Il rating della storia potrebbe cambiare, a  seconda di ciò che racconterò in questi prossimi capitoli. 
Il numero 7 non ha rilevanza nel contesto della storia che vado a raccontare, è solo molto significativo per me. Come tutto in questa storia, d'altrone. Mi sono informata tanto prima di mettermi a scrivere, e spero dunque che possa essere un racconto abbastanza veritiero- considerando sempre la componente sentimentale che ogni autore inserisce in uno scritto. La strutturazione della storia sarà pubblicata all'inzio di ogni capitolo perché , un po' come mi capita sempre nella vita, ho paura di non essere stata chiara. 

Discaimers: non scrivo a scopro di lucro, non intendo offendere nessuno, gli avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. I Red Hot Chili Peppers e tutti i personaggi menzionati non mi appartengono, non me li porto a letto (purtroppo), e insomma tutte queste cose. 


La storia è strutturata in due momenti: uno "presente" narrato in prima persona da Flea, e uno ambientato nel passato. Quest'ultimo altro non è che un insieme di ricordi del protagonista, che sono suddivisi in 7 parti- a seconda del "tema" del ricordo-, ognuna composta da 7 ricordi. In ogni caso, dovrebbe essere chiarito dai tempi verbali. 




Seven.

 
 
« Quella sera al Viper c’eri anche tu. C’eravamo tutti.  » il suo tocco sul mio braccio è quasi impercettibile, come un soffio un po’ troppo freddo che, nonostante tutto, passa. « Puoi non mentirmi? Vorrei solo sapere che cazzo è successo!  »
Un gesto d’esasperazione con le braccia, tira su col naso e si asciuga quelle che sembrano lacrime. E’ dolore.
« Cazzo, rispondi. Qualcuno di voi bastardi può rispondere? » è rossa in viso, e nonostante questo mi sembra ancora la ragazzina che conobbi un po’ di tempo fa.
« Rain…  » è un sussurro appena percettibile, ma nel silenzio opprimente, quel genere di silenzio che ti schiaccia per quanto dolore contiene, è forte come un tuono.
« Tu sta zitto, cazzo! Non sei tanto meglio di queste merde! Tu… tu hai fatto qualcosa?  » e lei ha uno sguardo così freddo, glaciale, che credevo i fratelli non potessero mai scambiarsi.
«  Dedicami una canzone...  »
« Che cazzo hai detto?  » e forse non ha mai parlato così volgarmente in vita sua, ma ho questa profonda empatia verso di lei, la trovo spezzata dal dolore, proprio come accade a me.
« Io… niente.  »
Rain ricomincia a piangere. E’ un pianto strano, non quel genere di pianti che non ti aspetteresti mai sul viso di una ragazza, no, uno di quei pianti così disperati che non puoi evitare di esserci trascinato.
«  Rain…  » ripete Joaquin, un po’ più forte, una nota di sicurezza in più nella voce. Le mette un braccio sulle spalle e sembra che voglia ripararla, ma io la vedo: è completamente a pezzi e nulla può saldarla.
« Voglio sapere che ha detto.  » piagnucola e la scena sarebbe anche comica se non fosse mai esistito nessun River.
« Flea, dai, non fare il coglione.  » John mi dice, i denti stretti, lo sguardo furioso di chi vorrebbe essere da tutt’altra parte.
« No-  »
La porta cigola un po’, come se si stesse facendo male perfino lei. Samantha entra e, vi giuro, non avrei mai pensato che il silenzio assoluto potesse diventare più taciturno.
Ci squadra tutti, uno ad uno, osserva i nostri visi e siamo davvero ridicoli; un insieme di persone che non hanno nulla in comune, a parte il miracolo che tutti hanno perso.
Si avvicina a Rain, la abbraccia e poi, flebilmente, tra i suoi capelli: « Mi dispiace così tanto.  »
« Dispiace anche a me.  »
Sembra quasi un rituale, perché in seguito ci sono Summer, Liberty, Joaquin...
Sembra che le persone afflitte, spezzate, quelle morte dentro, non finiscano mai e fa salire così tanto i brividi sull’epidermide; brividi che l’accarezzano e se ne impossessano.
Vorrei stringere River tra le braccia, sussurrargli Mi dispiace così tanto tra i capelli, ma dov’è ora? E’ come se PUFF, sparito.
Ed è una bella frase d’effetto, una cosa che va detta per colpire il cuore della gente, dritta come un freccia, ma la tengo per me. Per permetterle di corrodermi l’animo, solo un altro po’.
« Dispiace a tutti, cazzo. Stiamo una merda anche noi- » non ho il tempo di finire il discorso, perché una voce tagliente – cazzo, urla, fa meno male- esce da un corpo minuto.
« Tu... tu te ne stai appollaiato su quella poltrona, e pensi di essere a persona che più sta soffrendo al mondo. Ti crogioli nei tuoi dolori e non li noti nemmeno quelli degli altri. Sei il centro del tuo mando, e probabilmente eri anche il centro del suo. Ma sai qual è la merda? E’ che tu non sai, cazzo se non lo sai, cosa vuol dire averlo perso dopo averlo amato così tanto.  »
« Cazzo, ma che credi, che solo perché vi baciavate, te lo portavi a letto e quelle cose di cazzo dei fidanzatini, eri l’unica ad amarlo? Ma hai la più pallida idea di quanto cazzo lo amavo? Più della mia stessa vita! Più di quella di mia madre, probabilmente! Qui, in questa fottuta stanza, lo amiamo tutti, solo che voi non ve rendete conto perché non adiamo in giro lacrimando o porgendo fazzoletti o regalando abbracci. Si tratta di come affronti il dolore, ma se… se tu adesso mi potessi mettere una mano sul cuore, cazzo, noteresti che è spezzato, in frantumi e che nulla, vaffanculo, nulla può ripararlo! Che volete, farci vivere per sempre con i sensi di colpa? Che pensi, che non sappia già quanto abbia sbagliato? Quanto abbiamo sbagliato? E’ qui che ti sbagli, Samantha. Io lo amavo. Lo amavano tutti, vero? Perché era così facile amarlo… » e poi mi accascio di nuovo sulla poltrona perché il dolore è la peggior forza, quella che ti trascina giù, che ti impedisce di vivere, vivere davvero.  
E c’è questa domanda retorica nell’aria che rende il tutto più melodrammatico.
«  Lo ami così tanto che lo hai lasciato andare, vero? » digrigna i denti, quasi insultata dalle mie parole. La parte peggiore è che sono vere e che non smetteranno mai di esserlo. Come fuggi dal dolore quando si attanaglia in ogni parte di te?
«  Cazzo, Samantha basta, ha sbagliato! Abbiamo sbagliato tutti, e lui per primo. Era troppo giovane, e non sapeva quel che faceva. » Forse non ce l’hanno nemmeno mai avuta questa confidenza, ma Johnny la sta rimproverando per qualcosa che non sa.
«  Ah, ah, non venirmi a rifilare la scusa del era troppo giovane, non lo sapeva, solo perché questo potrebbe farti dormire la notte!  » è un urlo che squarcia il silenzio, i petti, i visi. Il predatore che condanna la preda. Rain è davvero infuriata.
«  Rain…  » e il fratello di nuovo la richiama, come se potesse farla tornare a star bene, come se potesse salvarla.
«  Perché tu credi che lo sapesse, quello che faceva? Credi che l’avrebbe fatto lo stesso? Ma lo conoscevi almeno, River?  »
«  Ah, cazzo, non dire questa cosa! River è mio fratello, porca puttana!  »
«  Rain, noi non l’avremmo lasciato andare. Il problema non era che lui non lo sapesse, era che nessuno di noi lo sapeva.  »
«  Ah, beh, tu non lo sapevi di sicuro, vero? Hai preferito parare il culo a questi qua piuttosto che salvare tuo fratello. Ma che bravo! Cos’è?  Valium! » e l’ironia sprezzante è il peggior modo per far cadere una persona.
A Joaquin salgono le lacrime, gli inondano gli occhi e abbassa lo sguardo, sulle sue colpe.
Stavolta è Summer a passargli un braccio intorno alle spalle, a tentare di calmarlo, perché si sa, nessuno di noi riuscirà più a dormire la notte.
Quasi non la riconosco più, non come Rain, no, Summer è sempre stata di quella bellezza particolare che al primo impatto non salta alla vista, che questa perdita le ha portato tutta via.
«  Io… devo cambiare un po’ l’aria.  »E non è una scusa, un modo per fuggire, una via per evadere. Forse credo davvero che un po’ d’ossigeno nuovo e una sigaretta mi faranno stare meglio.
John mi segue perché si sa, lui vuole essere da tutt’altra parte.
Il fumo denso mi oscura la vista, e lui sembra così calmo, mentre il mio mondo sta girando veloce, troppo veloce. Chi l’avrebbe mai detto, che solo una notte avrebbe cambiato tutto.
«  Scommetto che è vero quello che hai detto. Scommetto che lo amavano tutti, vero?  »
«  Già. Fondamentalmente perché aveva gli zigomi alti, i capelli biondi sempre perfetti e camminava come se venisse da un altro pianeta.  »
John annuisce, poi anche lui si accende silenziosamente una sigaretta.
«  Dico… insomma, lo so che è morto. Però, è come se ci fosse qualcosa di lui che non sembra destinato a sparire. E’ come se lo sentissi ancora qui. Ed è assurdo vero? »
« E’ assurdo sì, cazzo! » scuote un po’ la testa.
« Ma è ancora più assurdo che, sì, insomma, è come se…  PUFF ed è sparito.  »
«  Ti stai forse chiedendo come si faccia a non esistere più, da un momento all’altro, Flea?  »
«  Una cosa del genere. E’ solo che non ce lo vedo sai, River, a non esistere più. » e probabilmente da quando è morto è la prima volta che pronuncio il suo nome. « Sai, per me, c’è ancora. E’ in ogni momento. Chiudo le palpebre e… lui è lì. Quindi forse esiste no? Come se non se ne fosse mai andato.  »
«  Flea, lasciatelo dire, sei matto da legare. » Soffia un po’ il fumo, e forse le sue tristezze vanno via con lui.
«  Già. Però non riesco a pensare che se ne sia andato. E non perché non sia giusto o cazzate così… solo perché.. non è da River.  »
 
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( Parte uno: Notti solitarie. )

La prima notte è stata la peggiore. Le prime luci dell’alba si affacciavano su un Halloween che non si sarebbe rivelato il migliore della mia vita.
Non ricordo molto di quella notte, mentre dovrei. E’ stata la notte che mi ha cambiato la vita.
Quello che mi ricordo bene è l’ossigeno, perché sembrava sempre mancare. E’ iniziato quando io e Johnny siamo corsi fuori dal Viper, senza sapere che la lama affilata di una morte giovane stava per trafiggerci tutti.
E’ stata la corsa più disperata della mia vita perché, per la prima volta, era davvero di vita o di morte.
L’atmosfera fuori dal locale era diversa da come me l’aspettavo: non lacrime, non urla,  non paparazzi … Solo un’aria così finta, quasi rarefatta. Tesa e impercettibile.
Forse, fu in quel momento che realizzai: io e River avevamo sempre respirato la stessa aria. Prima non me n’ero mai accorto, nemmeno dal suo petto che si alzava e si abbassava regolarmente quando dormiva, dalla sua vicinanza …
In quel momento capii cosa voleva dire respirare la stessa aria di River. Un nuovo mondo si spalancò in me. Ma era un mondo fatto di sentimenti negativi; era la voragine che a breve mi avrebbe risucchiato.
Quando arrivò l’ambulanza, io non ero più nemmeno me. Ero una persona distrutta, non destinata a rinascere. Non so che fine avesse fatto Flea. E l’unico che mi aveva sempre salvato, adesso stava morendo.
Era già morto. Perché io lo sentivo, e non potevo sbagliarmi. L’aria era tropo rarefatta, e il mondo troppo scosso perché lui potesse essere ancora tra noi. Forse era già in un posto migliore, dicono alcuni, ma io non mi preoccupai tanto di fosse River in quel momento. E forse avrei dovuto farlo.
Ricordo che il mio primo pensiero fu: Dove cazzo sono i soccorsi?
E dopo poco: Perché non si respira?
Perché era vero, non riuscivo a respirare. E credo di essere in apnea tutt’oggi.
Ricordo che lanciai un’occhiata tutt’intorno e qualcosa si spezzò dentro di me: Rain accasciata a terra con gli occhi gonfi ma asciutti, come se le lacrime le avesse già finite, e Joaquin, il telefono stretto in mano. Provai un’insopportabile fitta al petto, uno dei dolori più atroci della mia vita, che non dimenticherò mai.
E, in quel momento, capii che non avrebbero fatto in tempo. Fu così che arrivò il terzo pensiero. Ventitré. Arrivò come un numero, un dato di fatto, la soluzione di un’equazione che avevo cercato di risolvere per tutta la vita. Forse River era stato il mio problema con più dati nascosti, con più sfaccettature. Ma avrei davvero voluto che il risultato fosse stato maggiore.
Di quella prima, delle lunghe notti solitarie che mi attendevano, ricordo il mio egoismo. Ricordo le sirene, le urla di medici e paramedici, come semplici flash veloci.
Quello che ricordo è quando misi piede sull’ambulanza. Stranamente, la vista di River su quel lettino – immobile, gli occhi semichiusi, mentre lo rianimavano- non mi destabilizzò.
Ebbi più forza d’animo che mai prima d’allora. Forse sentivo, dentro di me, molto profondamente, che era già morto. Era come se l’avessi già accettato.  Era un punto di non ritorno.
Il punto di non ritorno più doloroso della mia vita.
Ricordo dati urlati, parametri vitali, il traffico impensabile dell’una di notte. E le domande dei dottori, sempre poco caute, sempre invasive.
«Come ti chiami?»
«Michael Balzary. »
«Ti dobbiamo chiamare così? » il dottore sfogliava svogliatamente dei fogli, mentre tutta l’equipe si dedicava anima e corpo all’obiettivo di salvare River.
«Flea. »
«Okay, Flea, è l’una e un quarto. Sapresti dirmi cosa è successo nelle ultime ore? »
«Io… no, non credo. »
«Okay, okay, calma. C’hanno detto che ha assunto del Valium, confermi? »
«Non saprei. Non gliel’ho dato io. »
«Quindi qualcuno deve avergli dato qualcosa? »
«Può… darsi? »
«Dottore… »una ragazza si intromise, sembrava quasi una tirocinante. «La caduta gli ha provocato una contusione allo stinco. »
«Va bene. Occupatevene. »  dopo una breve pausa, tornò a rivolgersi a me. «Flea, lo sai che sintomi sta riportando, il tuo amico? »
Scossi la testa.
«Overdose. Devo forse spiegare ad un chitarrista rock cos’è un’overdose? »
«Bassista. »
«Flea, lo so che è contro la legge. Ma ti giuro che non uscirà da quest’ambulanza. Devi dirmi cosa è successo e devi dirmelo adesso. Perché qualcuno pagherà con la vita. »
Ci fu uno strano silenzio. Ovviamente, non era silenzio: c’erano le sirene, i clacson della strada, il ticchettio delle macchine. Però era un silenzio di omertà. Stavo tradendo River. E da questo, non si sarebbe più tornato indietro.
«Flea? »
«Cazzo, lo so che lo vuole sapere. Ma a stento sono riuscito a ricordarmi come mi chiamo. Forse sono strafatto, cazzo. Forse sono solo troppo shockato. »
«Okay, okay, calma. » scuoteva la testa, ripetutamente, trattandomi come un bambino capriccioso. «Lo so che è difficile. Ma se tu adesso non parli, dopo lo sarà di più. Fidati. »
«Cazzo, sì che mi fido. E’ strafatto. Ma questo non glielo devo dire io, no? »
«No. Solo… raccontami di più. Ha assunto eroina? »
«Beh, sì. Credo si sì. Che cazzo può aver assunto per…  » nel momento in cui mi salirono le lacrime agli occhi, capii che era finita. Che avrei pianto per sempre. Che un giorno avrei finito le lacrime, ma il mio cuore avrebbe pianto per sempre. «… per farmi questo? »
«Okay, non pianga. Non si è bucato, né ha assunto alcolici, per quanto ci è stato possibile rilevare. Dunque? »
«Non lo so. C’era un sacco di gente nel locale. Lui… non è come crede. Non è come credono gli altri. Lui non si droga, okay? Non lo fai mai, quasi mai, mai. Non è abituato. »
«Okay-»
«Cazzo, può non rispondere ad ogni cosa con okay? Mi sta facendo saltare i nervi. »
«E’ per questo che crede che il suo corpo sia crollato così facilmente? »
«Non so, ma è strafatto, è chiaro. Vorrei davvero dire qualcosa. Ma forse nessuno di noi conosce le reali tematiche. Sa, è piuttosto difficile. Quando si è nei locali e c’è tanta gente e, soprattutto, c’è tanta droga in giro. »
«Okay, lo terremo a mente. Ma mi ascolti… se adesso il suo amico morirà, sarà anche colpa sua, è chiaro? »
Non saprei perché mi avesse detto quella cosa. Pensava non li avessi già i sensi di colpa? Ovviamente, crollai.
Cioè, rimasi in piedi, seguii il dottore con lo sguardo, le braccia penzoloni, gli occhi dilatati.
Però, dentro di me crollò tutto. E fu un terremoto devastante. Fissai River negli occhi, i capelli neri e corti, la faccia violacea, irriconoscibile. Immaginai già la voce del dottore ( Ore 1:51 causa del decesso: insufficienza cardiaca, che fu proprio quello che disse.)
«River…» sussurrai. «E’ così tardi. »
E lo era davvero.
 

Novembre stava arrivando. Non si faceva attendere. Con la sua prepotenza, voleva sostituire un ottobre piuttosto deludente.
In quel momento mi sembrò il più grande nemico che avessi mai avuto. Come se l’arrivare di novembre rendesse il tutto un po’ più concreto. Ottobre era finito e così anche lui.
Avevo una sigaretta tra le labbra, ma ero riluttante sull’accenderla. Il vento mi scompigliava i capelli, così corti, mentre camminavo a passo svelto alla ricerca di una meta.
Esisteva un posto non reso peggiore dalla sua scomparsa?
Rimuginavo su  come tutta la vita potesse cambiare in un attimo, con un errore apparentemente insignificante. Era così difficile, distaccarsi, uscire per un momento dalla mie mente fuori controllo. Che ripercorreva quella prima, delle tante notti solitarie, così tante e tante volte.
Il mondo era addolorato, certamente, perché aveva pero una delle sue persone migliori. Ripensavo al suo sorriso, al suo modo cauto di parlare, al suo latte di soia. Mi sembrava che l’unico miracolo successo nella mia vita fosse stato incontrarlo, conoscerlo. Dunque, come sarei andato avanti?
La velocità dei fan mi sorprese. A solo ventiquattro ore dal momento in cui smise di respirare, il Viper era già pieno di fiori, di frasi, di foto commemorative. Era gremito di dolore, di perdita, di lacrime invisibili. Lacrime gelide che, nonostante tutto, non potevano curare le ferite.
Davanti la porta chiusa – come se adesso chiunque avesse paura di entrare –, Johnny si appoggiava al muro, forse per non crollare, il capo abbandonato all’indietro, la sigaretta tra le dita tremanti e il fumo a nascondergli il viso.
«Siamo messi maluccio, eh? » Era il suo modo di salutarmi, di dirmi che stava affogando nel dolore, come me. La voce gli usciva un po’ rotta, ed era naturale. Si era rotto ogni equilibrio.
Ormai, eravamo persone rotte e non ci sentivamo destinate a rimetterci a posto.
«Decisamente. » Alla fine accesi quella sigaretta, sperando che un po’ di male si sarebbe consumato insieme a lei.
«E’ carino tutto questo… » Johnny indicò i fiori e i graffiti con un cenno della testa. «Ma sai, alcune cose sono proprio cazzate. Dio, pagherei per aver fatto conoscere… per averglielo fatto conoscere come si deve, ecco. » Aveva paura di pronunciare il suo nome, come se appartenesse già ad un’altra dimensione. E forse era così.
«Non riesco a smettere di darmi la colpa. »
«Fidati, nessuno ci riesce. »
«Sì, ma se io…»
«Cazzo, guardami. Questo posto è mio. Quest’inaugurazione era mia. Come pensi che possa sentirmi? »e dopo un attimo di pausa, «Cazzo! » urlò.
Per un po’ nessuno parlò, bastavano i lumini ad illuminare la notte e il vento a portarsi via un po’ di fumo.
«E’ diventato un dolore… fisico. Capisci? » ammisi. «La testa che gira e il cuore stretto in una morsa inspiegabile. Non è… solo una cosa che si avverte dentro. »
«Eh, già. Lo hai notato che ormai… lui è ovunque? Cioè, da quando è… è morto, mi sembra di ritrovarlo in ogni cosa. »
«Cazzo, sì. E a volte mi chiedo sai… lo conoscevamo? Lo conoscevamo davvero, cazzo? »
Johnny calpestava la cicca con un po’ più rabbia del necessario. «E perché? »
«Perché lui… lui non è il tipo da morire di overdose, o di insufficienza cardiaca o come cazzo vogliono definirla. » Sospirai, mentre il fumo abbandonava le mie labbra.
«Era. »
«Era, ‘fanculo. » e prima che potessi accorgermene, una lacrima solitaria mi stava rigando la guancia.
«Ehi, ehi… lo vuoi un drink? » mi fissava così intensamente, come se volesse scavarmi dentro e trovare tutta la verità. Che tutti ci stavamo sforzando di nascondere.
«No, Johnny. Sono stanco di fare cazzate. »
 
 
«Lo sai che avevamo delle prove? »
«Buon per voi. »
«Cazzo, Flea, fai ancora parte di questa fottuta band. » La voce di Anthony è gracchiante dall’altra parte del telefono. «Lo so che lui è morto… ma tu non lo sei. »
«Ma che cazzo ne sai tu! Che cazzo ne sai, eh?! »
«Flea-»
«No, nessun Flea, cazzo. Io… » sentivo i singhiozzi, fermi in qualche angolo della gola, che mi impedivano di respirare. «Io non vengo, cazzo. Toglietemi pure dalla band. Sai quante cazzo di persone  ci sono che sanno suonare il basso? »
« ‘Fanculo, vuoi ragionare? »
«No, cazzo, no! » stavo piangendo e tremavo e sospettavo che da lì a poco sarei caduto a terra come un fottuto ubriaco.
«Sei ubriaco? » Appunto.
«Non… non voglio più saperne di alcol e di droga e… e…»
«Flea, ascolta: è triste, okay? E’ fottutamente triste. Però… bisogna andare avanti. Bisogna continuare, perché tu avevi una vita, una band, un obiettivo. E non credo che lui vorrebbe che tu abbandonassi tutto così. »
«Tu credi, eh? Però lui non è qui. Che strano! Cazzo, tutti sanno quello che voleva, però lui è morto di inaspettata, fottuta overdose e non è qui! La sai la verità, eh? ‘Fanculo, la sai la verità? » la mia voce era salita di qualche ottava, e sentivo i sospiri di Anthony attraverso la cornetta. «Non lo conoscevamo! Ecco, cazzo, l’ho detto. Ecco qui! Nessuno di noi lo conosceva, nemmeno un po’. »
«Non dire queste stronzate che mi fai imbestialire. »
«Anthony, se voi riuscite ad andare avanti, buon per voi. Io non ci riesco. E forse nemmeno voglio. Non voglio che ci sia un avanti, un dopo, un  qualcosa, senza di lui. »
«Flea-»
Chiusi la chiamata. Sapevo di essere in mezzo alla strada, al centro di un marciapiede vuoto, dove il passaggio di poche macchine generava un soffio di vento abbastanza forte da scombussolarmi; ma mi stesi. Mi stesi proprio lì, al centro del marciapiede, sotto gli occhi di tutti e alla mercé del vento e delle intemperie. Ancora singhiozzante e tremante. Ancora distrutto.
Flea, il bene e il male sono convenzioni. Non dobbiamo pensarci. Dai, abbracciami, tu fai sempre la cosa giusta. E avrei voluto che la sua voce riempisse tutti i miei vuoti, ma non ci riusciva perché era troppo lontana.
 
 
«Sai che, l’Ikigai, è la ragione per cui ti svegli ogni mattina, è il tuo scopo, una persona per cui vivi. E tutti ne hanno uno. E’ l’equivalente giapponese della “ragione per esistere” » mima con le dita.
«Tutti ne hanno uno? Per forza? »
«Certo! Cioè, pensaci. Vivere è un gran bel peso. E’ così difficile, a volte, sostenerlo. Ecco, se hai uno scopo, se hai una ragione, tutto ha un senso. Ma senza un Ikigai, nulla lo ha. »
E mi sorride, come sa fare solo lui.
«Beh, adesso ti dico una cosa. Ciò che mi fa svegliare la mattina è il solo fatto di essere vivo. Non ho un Ikigai, perché non ne ho bisogno! Io colgo l’attimo. » ridacchio, e lo sfido all’estremo.
«Forse adesso non ci fai caso. Ma ti dirò di più: senza il tuo Ikigai, vivere ti riesce impossibile. »
E a quel punto mi svegliai, di soprassalto. Come cadere nel vuoto. L’orologio ticchettava piano,  e quella notte silenziosa non voleva saperne di scivolarmi di dosso.
Non era un sogno, era un ricordo. Avrei voluto riavvolgere il tempo. Sarei voluto tornare indietro, perché stavo capendo tutto.
Ma senza un Ikigai, nulla ha un senso.
Senza il tuo Ikigai, vivere ti riesce impossibile.
Non ho un Ikigai, perché non ne ho bisogno!
Forse adesso non ci fai caso.
Mi arrivavano addosso, veloci, come scaglie. E quel dolore che mi teneva attanagliato il petto, si stava diffondendo. Mi impediva di pensare con lucidità, di respirare correttamente.
Il mondo stava girando così veloce e io volevo semplicemente scendere: nulla aveva più senso.
Chiamai John, più volte, senza ottenere alcuna risposta. E ogni volta, gli lasciavo un messaggio in segreteria; dicevano tutti la stessa cosa: Non lo conoscevamo.
Faceva solo tutto troppo male. Volevo tornare indietro, dirgli: Tu sei il mio Ikigai, quindi resta.
Ma avevo sbagliato tutto. L’avevo lasciato andare. L’avevo perso. Lui non c’era più, e io non avevo più ragione di vivere.
Così, nel buio della solitudine, scivolai un po’ di più, e steso su quel letto vuoto, con il volto rigato da lacrime, riuscii solo a sussurrare: «Anche oggi mi son svegliato per te, ma tu non ci sei. »
 
 
Summer mi fissava, come se volesse scrutarmi dentro. Era la notte del quattro novembre e, per me, era tutto finito.
«Rain è intrattabile, è davvero shockata… »
«E’ colpa mia. »
Lei rideva amaramente, iniziando ad osservare le stelle, tanti puntini luminosi, sparsi nel buio, che un tempo portavano speranza. «No, che non lo è. Non è colpa di nessuno: forse di tutti, forse solo sua. »
«E’ così fottutamente triste. »
«Già, è proprio fottutamente triste che le persone muoiano. Però sai, alcune persone non ci lasciano mai. »
«Sono stronzate. Sarà sempre nel tuo cuore e veglierà su di te. Stronzate! »
Summer rideva forte, sinceramente, e poi iniziava a scuotere il capo: « No, no, no, no. Non in quel senso! Ecco, ci sono cose che superano la morte: i colori, i profumi, i ricordi, l’amore. Tutti noi siamo qui e tutti noi non ci saremo più. Ma stiamo tutti scrivendo qualcosa. Qualcosa che neppure la morte potrà cancellare. Cioè, siamo stati qui tutti. E quindi conta qualcosa. »
E poi, ci fu un minuto di silenzio. Un minuto in cui ci furono solo i nostri due respiri e il vento freddo di un quattro novembre che stava per concludersi. Solo una terrazza e due anime perse.
«Okay, quello che dici è poetico. Ed è molto bello, sai. Però, vorrei anche che fosse vero. »
Tornava a guardarmi, sorridendo. «Ma lo è! Sai, da… da quando è morto io mi sveglio e lo sento. Sento che verrà a darmi il buongiorno come faceva sempre o che sarà in cucina a preparare la colazione. E so che non c’è, e fa schifo. Però poi lo ritrovo, in quei modi di dire che aveva inventato lui e che adesso ci accomunano, nel suo profumo sul cuscino, nel sorriso delle foto alla parete. Lui… lui non se n’è andato. Okay, potrà essere morto, potrà essere stato appena cremato, ma lui non se n’è andato.  Limitarsi ad un non c’è più, sarebbe ingiusto. Noi conoscevamo River. Sapevamo quanto fosse speciale. Sapevamo quanto amore si portasse dentro. Conoscevamo il suo piatto, il suo colore e la sua canzone preferita! Il suo sorriso, i suoi occhi… Tutto questo, può diventare un semplice non c’è più? River ci ha lasciato qualcosa. E l’ha fatto consapevolmente. Perché lui ci amava, tutti noi. E noi lo amavamo. E questo, tutto questo,  va oltre la morte. »
Summer era così forte, neppure una lacrima aveva solcato il suo volto. Io, invece, stavo piangendo così forte.
Tornavamo entrambi a rivolgere lo sguardo al cielo.
«Mi manca. Tanto. » ammisi.
«Anche a me. » Fui sorpreso da quella risposta, ma la trovai lo stesso perfettamente coerente con ciò che aveva detto.
«Sai, credo che se la meriti una stella.» mi disse. «Ecco,» indicando un puntino luminoso giusto accanto all’Orsa maggiore, «quella è la stella di River. »
Sorrisi.
Quattro novembre. Il corpo di River è stato cremato, ma lui è ovunque e da nessuna parte.
 
 
 
Da quando il mio Ikigai se n’era andato, non riuscivo a fare più nulla. Non riuscivo a dormire, mangiare, pensare. A volte persino respirare era difficile.
A volte, il dolore era così fisico da farmi piegare, urlare, piangere. Ma non serviva a niente. Lui era così lontano, così irraggiungibile. Ed era la consapevolezza che non l’avrei mai più guardato in quegli occhi che erano un cielo sereno, che non mi avrebbe più abbracciato come sapeva fare solo lui, che non avrei più sentito la sua risata cristallina, ad uccidermi.
Tutti quelli che conoscevo – a partire dalla band- cercavano di starmi vicino, di farmi stare meglio. Ma, in quel momento, avevo bisogno solo di lui. Nulla mi avrebbe fatto sentire meglio. Solo lui. Lui e tutto ciò che lo caratterizzava.
Così, fermo in strada, con abiti troppo leggeri, con poche gocce di pioggia che mi bagnavano il viso insieme alle lacrime, fissavo il Viper chiuso, con tutti i fiori, i graffiti, le foto, le dediche. Continuavo a pensare a ciò che Summer mi aveva detto la sera prima, ma non ne trovavo un senso.
Il suo corpo non c’era più. La sua anima non c’era più. Lui non c’era più.
E io? Io chi potevo essere senza lui? Io come potevo continuare ad esistere?
«Sto cercando di capire se ti senti in colpa o sei semplicemente triste. »
Mi voltavo, spaventato da quella voce: «Anthony…»
Non so come, mi aveva raggiunto. Mi aveva trovato. Silenzioso, sotto la tempesta di pioggia e sentimenti.
Il cappuccio tirato su e alcune ciocche di capelli troppo lunghe che sfuggivano, il volto serio: «Sì, era troppo ovvio che tu fossi qui.» E rispondeva così alla domanda che nessuno aveva chiesto, ma che alleggiava nell’aria.
Restavo in silenzio, tornando a fissare il Viper. Come se aspettassi che apparisse lì da un momento all’altro.
«Flea, sono passati quattro giorni. Non pensi sia ora di smetterla? »
«Non è vero che il tempo cura le ferite.»
Si passava una mano sul volto. «No. Il tempo non cura un cazzo. Sai cosa cura le ferite? Le persone. La gentilezza. Le lacrime che vengono asciugate. L’amore. Perché le carezze, sui graffi, si sentono di più. »
Lo guardavo, confuso: «Che intendi? »
«Che devi finirla! Con questo tuo crogiolarti nei dolori. Con questo tuo chiuderti e restare solo col dolore! Che devi tornare a suonare, a parlare, a dormire, a mangiare. Devi smetterla di venire qua ogni notte. E devi lasciare che gli altri curino la ferita che lui ha lasciato. »
«Solo lui può curare la ferita che lui ha lasciato. »
«Ed è qui che sbagli. Ti sbagli fottutamente. Perché sei convinto di questa cosa, e invece non è così. Lui non c’è più. Non sarebbe in grado di curare neppure le sue di ferite! Lascialo andare. Starai meglio. »
«No! » urlavo. «No, no, no, no… »
«Ehy, ascolta: dimenticare non vuol dire cancellare, ma ricordare senza soffrire. »
Ci pensavo. Ma non trovavo un senso. Poiché nulla aveva un senso. Poiché un mondo, senza River Phoenix, non era pensabile.
«Forse lui era troppo per questo mondo. Forse non ce lo meritavamo. »
«Ecco. Vai già meglio. »
Anthony accennava un sorriso. Ma io non ce la facevo: non andava affatto meglio, anzi stavo precipitando in un baratro.
 
 
«Rain ci vuole vedere, tutti. » Johnny si rigirava il bicchiere di vetro tra le mani.
«Tutti chi? »
«Tutti quelli che erano al Viper quella sera. Vuole sentire la nostra versione dei fatti. » Imitava la voce della ragazza.
Io non riuscivo a guardarlo negli occhi, erano così vuoti. Prendeva un sorso, e continuava: «Okay, la mia versione è che è schiattato. Lo è pure la tua. E quella di John. E così via. Quante cazzo di versioni possono esserci? »
«Magari, vuole spere come è morto. »
Johnny era già un po’ brillo. «Perché, questo cambia le cose? Lo riporta qua? Non mi sembra. »
«Forse vuole giustizia. Forse gli manca. »
«Giustizia? Quale giustizia? Che giustizia ottiene? Ti dirò cosa è ingiusto: è ingiusto che River sia morto. Ora, sentircelo dire, lo fa tornare qua? A mangiare, scherzare, accarezzare animali? A me non pare! »
Iniziavo a piangere. «Non lo so. » Dicevo, tra i singhiozzi. «Non lo so, okay? Non me ne fotte. Io… mi manca. Non sto bene. Sto impazzendo, sto perdendo la testa! Perché ci ha fatto questo? »
Johnny sorrideva, dolcemente. «E’ così ragionevole. Cazzo, mi ricordo come eri innamorato di lui. »
«Cosa? »
«Cioè, lo ammiravi, tanto. Ed eri grato di averlo come amico. Il modo in cui lo guardavi, gli sorridevi, lo abbracciavi… trasmetteva così tanto. Avevate un rapporto che a volte invidiavo. Perché River era fantastico, era capace di unire il gruppo, di farci sorridere sempre. E tutti avremmo bisogno di una persona così nella vita. Ma sai,  non tutti la meritiamo. Tu la meritavi, Flea. Tu meritavi River. E insieme, eravate parte di qualcosa. Quindi, non so perché ti è stato fatto questo. »
Restavo per un attimo in silenzio. «Smettila di bere, Johnny. »
«Non puoi scappare da questo, Flea. »
«Ero serio. »
Lui mi restituiva il mio sguardo duro. «Anche io. »
«Quindi, domani, tutti quanti a dare la nostra versione a Rain Phoenix. »
«Eh già. Quella ragazza è un uragano. »
«E’ una cosa di famiglia. »
E prima di voltarmi per andarmene, notavo il sorriso di Johnny. 





 
   
 
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