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Autore: Heliconia    24/06/2020    1 recensioni
"Era solo un piccolo uomo che stringeva tra le mani un pugno di mosche, nella speranza che un giorno si trasformassero in farfalle."{Archer}
Storia partecipante al contest "Some are born heroes and some are born villains. Or maybe not?" indetto da AleDic sul forum di EFP. [FUORI CONCORSO]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Archer
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Note♫♪ dell’autrice
Dunque, caro lettore: la cosa è andata più o meno così.
Una notte mi ritrovo a leggere "Le ferite originali" di Eleonora C. Caruso – aka CaskaLangley – e sono talmente presa dalla storia che penso: Cavoli… Ora ho voglia di scrivere qualcosa anch'io.
A darmi la spinta finale, però, è stato Davide Mina: vittima numero uno della mia momentanea fissa per l’antica Grecia e primo lettore di questo delirio notturno – che è, a sua volta, il primo racconto di senso compiuto battuto al pc dopo secoli.
(Per questo, ragazzuoli, vi dico GRAZIE. Avete salvato centinaia di alberi dalla mia furia foglivolanticida).
Se hai visto Fate/Stay Night “Unlimited Blade Works”: perdona eventuali incongruenze, please.
Se hai letto il poema che non spoilererò, ma che avrai già intuito se fai parte della categoria sopracitata: sì, ho riscritto alcuni pensieri e azioni dei personaggi, per meglio adattarli alla storia e alla presenza stessa del protagonista. Tuttavia, come potrai notare, mi sono mantenuta fedele alla loro indole e all’opera da cui sono tratti.
Se non conosci Fate/Stay Night “Unlimited Blade Works” e hai intenzione di vederlo: ti consiglio di non leggere, per evitare spoiler. Qualora tu voglia procedere comunque, non potrò che esserne felice!
Enjoy!

Parole: 2987
Citazione: “Che cos'è un eroe? È un individuo dotato di un grande talento e straordinario coraggio, che sa scegliere il bene al posto del male, che sacrifica se stesso per salvare gli altri, ma soprattutto... che agisce quando ha tutto da perdere e nulla da guadagnare.” ~ dal film Lo chiamavano Jeeg Robot
 


 
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«Fateli uscire, non hanno fatto niente!»
«Zitto! Di’ solo un’altra parola e ti taglio la lingua, verme!»
Bastava anche solo un sospiro perché quell’omone butterato si scagliasse su di lui con tutta la sua furia. Gli vomitava addosso insulti e imprecazioni a denti stretti, mentre nei suoi occhi sfavillava un represso impeto di morte. Se avesse potuto stringerlo tra le mani, lo avrebbe sicuramente ammazzato.
Ciononostante, il giovane continuava a richiamare la sua attenzione, protetto dalle stesse sbarre che lo imprigionavano. La sua presenza gli era più sopportabile della solitudine, che lo costringeva a fare i conti con la propria colpa…
Non sono riuscito a salvarli.
Lo chiamò ancora.
«Liberateli, sono stato io!»
E quello si fiondò di peso sulle sbarre. Non lo vide nemmeno arrivare. Perse l’equilibrio e, dacché era accovacciato, cadde seduto nel tentativo di sfuggirgli. L’uomo si abbassò alla sua altezza e gli sputò in faccia.  
«Zitto, schifoso!! Hai capito?! Ti taglio quella cazzo di lingua, ti taglio tutta quella cazzo di testa!!»
La bestialità che gli trasfigurava il volto lo fece retrocedere definitivamente verso il fondo della cella. Rimase lì per giorni, con la schiena schiacciata contro la parete di pietra, senza muovere un muscolo, sperando che l’oscurità di quel buco lo rendesse invisibile.
Smise di dormire. Da tempo, non gli davano più da mangiare. Meditava sulla forma di quel posto: così basso da impedirgli di stare in piedi, lungo a malapena due passi, stretto al punto da rendere impossibile ogni movimento. Quando si rassegnò alla supplica delle sue membra indolenzite e si distese, con i piedi rivolti verso il ferro e la testa premuta contro il muro, ebbe la sensazione di trovarsi in una bara. Forse la cella aveva quella forma apposta: per far sentire il prigioniero morto prima ancora di essere giustiziato.
La guardia non si avvicinò nemmeno una volta, né per insultarlo né tantomeno per assicurarsi se fosse ancora vivo. Il giovane restò così anche quella mattina, quando lo trascinarono fuori afferrandolo per le caviglie: immobile come un cadavere.
Lo portarono in corridoio. Provarono a metterlo in piedi, ma il suo corpo si era rammollito, come se lo scheletro e i muscoli che lo sorreggevano si fossero di colpo liquefatti. Lo schiantarono sul pavimento. Iniziarono ad urlare, poi qualcuno lo colpì con un calcio nelle coste. Solo a quel punto si ricordò di essere ancora vivo e sussultò, stretto nella morsa del dolore.
Gli ammaccarono la faccia, gli pestarono le mani; la punta di uno scarpone gli spezzò le dita. Pianse, urlò, finché la voce non gli morì in gola. Cercò di difendersi con le braccia, come un bambino che tenta di fuggire invano dalle ombre che lo terrorizzano nel cuore della notte.
Un grido frenò la furia dei soldati, che lo lasciarono sul pavimento, trincerato nel suo gomitolo di carne lacera. Sentiva una fitta tremenda all’addome e immaginò che qualcuno lo avesse pugnalato con una lama, ora lì, conficcata nelle viscere. Poteva percepirla, ne delineava la sagoma ad ogni doloroso respiro, ne era così consapevole che avrebbe potuto replicarla. Non aprì gli occhi per appurarsi della sua esistenza, ma tastò lì dove gli faceva più male per cercare di estirparla. Sentì il sapore ferroso del sangue e si rese conto, nell’istante in cui qualcosa premette contro la sua bocca, che gli avevano rotto i denti. Si distese prono e, dopo aver indugiato ancora un po’, si mise carponi. Intanto si rigirava le schegge sulla lingua, l’unico movimento che riuscisse a compiere agevolmente. Cercò di espellerle piano, socchiudendo appena le labbra, ma quelle scivolarono via in un rivolo di saliva che si spalancò in un getto di vomito. Barcollò.
Due soldati lo sollevarono, tenendolo per le ascelle. Un ronzio gli sfondò i timpani, gli pervase le ossa del cranio. Una vampata di calore gli investì il viso; non riusciva a respirare bene né ad aprire l’occhio sinistro. Provò uno strano conforto, nell’allontanarsi dallo schifo che aveva appena rigettato… L’incarnazione definitiva della sua sconfitta.
Lo aiutarono ad attraversare il corridoio. Fu raggiunto da un gorgoglio di voci che si fece passo dopo passo sempre più ostinato, fino a trasfigurare in un mugghio inquietante che gli fece tremare le gambe. Il suo animo rassegnato vacillò. Non ebbe il coraggio di proseguire oltre, al che i soldati combatterono la sua riluttanza alzandolo definitivamente da terra. Il caos lo annebbiò.
Lo misero sulla scala e, senza neanche rendersene conto, cominciò a salire. Quando fu in cima, li vide. Alcuni di loro piangevano. Altri cercavano di mantenere di fronte alla fine un contegno traballante, ma non riuscivano a trattenere del tutto i singhiozzi. Altri ancora si erano rintanati nella propria mente, dove avevano scavato pozzi talmente profondi da dare le vertigini persino alla morte, che impaziente si era già concessa una fugace occhiata prima che il boia ne mollasse le redini.  La vita aveva già abbandonato gli occhi di costoro; molto probabilmente i più simili ai suoi.
Cercò di inseguire il senso di tutto quel dolore, nelle maglie ruvide della corda che si avvicinavano al suo viso. Cercò di rincorrerlo, nella memoria che cominciava a diradarsi.
Il senso di quella colpa.
Di quell’ideale.
Di tutti quei sacrifici.
E all’improvviso…
 
Una fitta alla schiena mi rimestò i pensieri. Ero lì, acquattato con gli altri arcieri tra i merli delle mura.
Prendevo parte al massacro che si consumava davanti alle porte serbando, in un angolo segreto della mia mente, la preghiera che nessun altro nemico provasse ad avvicinarsi. Non volevo che altra gente morisse per mano mia.
Corsi lungo la colonna vertebrale con le dita, sul punto che mi doleva e oltre, ma non trovai nulla. Tirai un sospiro di sollievo. Mi feci ancora più piccolo e guardai verso la città: era da lì che mi avevano colpito. Il che mi lasciava perplesso.
Ma ecco un soldato, con una pietra in mano. Subito la lasciò cadere, paonazzo in volto.
«N-necessito udienza…!» disse, stringendosi nelle spalle.
Ed io lo raggiunsi con un balzo, incalzandolo con una smorfia.
«Non potevi aspettare? Non so se hai notato, ma c’è una guerra là sotto!»
Stupefatto per il mio gesto atletico, l’uomo si prostrò con urgenza, implorando il mio perdono. Lo squadrai da capo a piedi, con un ghigno soddisfatto. Il suo corpo alto e forte si era fatto tutto a un tratto minuscolo, eclissato dallo scudo di cuoio nero gettato dietro le spalle.
«E va bene, concesso. Sentiamo, con chi ho il piacere di parlare?»
Alla mia domanda tolse immediatamente l’elmo, mostrando i lunghi capelli neri legati dietro la nuca, il viso sbarbato, gli occhi scuri ed espressivi.
«Ettore. Figlio di Priamo, Re di Troia. Lode a te!»
Oh, cavoli…
«Lode… anche a te.»
Mi invitò a camminare all’interno della città ed io mi limitai ad annuire, senza aggiungere altro. Mi scrutò con un leggero disagio, una o due volte, ed io cercai in tutti i modi di evitare il suo sguardo. Ciononostante, esibiva un portamento regale, ben più deciso rispetto a quello di suo fratello Paride, che avevo avuto modo di incontrare in precedenza. L’arciere, pur essendo rinomato in tutta la Grecia per la sua abilità, era additato come un essere vile e codardo, un uomo senza carattere. Al cospetto del suo valoroso fratello, l’immagine che avevo di lui mi apparve ancora più insipida.
«Dunque…»
Dopo una manciata di minuti, Ettore rallentò il passo fino a fermarsi. A giudicare dal modo in cui torturava l’impugnatura della lancia, sembrava molto teso.   
«Onorato Febo!»
«…Eh?»
Silenzio.
«Eh-ehm… Febo Sminteo!»
«Non ho capito…»
Sospirò, lanciandomi un’occhiata incerta. Posò lo scudo e la lancia a terra e, dopo aver tirato un profondo respiro, allargò le braccia. 
«Mio signore Apollo, di Tenedo possente imperatore! Se hai a cuore questa città, che con grassi sacrifici ti ha giovato, ebbene: odimi. Voglia, quest’oggi, veder la mia bella sposa riabbracciar il suo marito e il mio pargolo…»
«…A-Apollo?»
La solennità di Ettore si smontò di colpo. Scrollò le spalle, con uno sguardo stralunato e uno sbuffo trattenuto a fior di labbra. 
«Senti, voglio affrontare uno dei loro a duello per risparmiarci una carneficina», tagliò corto. «Voglio finirla qui, oggi»
Esitai, confuso.
«Oh… Beh… dillo subito, no?»
«Mi serve la tua benedizione.»
Ma che…?
«Ehm… Va bene.»
«…Va bene?»
«Si, insomma, sei tu che comandi, fa’ quello che vuoi!»
«Oh… Grazie.»
«Prego.»
Altro silenzio.
«Hai già pensato a qualcuno?»
«Sarà l’avversario a scegliere.»
«Capisco…»
«…Ho, ad ogni modo, scrutato e riflettuto a fondo sui figuri che animano la guerra stamani.»
Ma perché gliel’ho chiesto?
«Manca il Pelide Achille: colui che ha sterminato intere legioni nell’Egeo, imponendo il grande nome suo su ben undici città e dodici isole. Molto probabilmente, Menelao si proporrà al posto di costui; ma Agamennone non gli permetterà di battagliare. Il cuor suo stracolma di fraterno ardore verso il Re degli Achei, che sarà per giunta stremato, giacché poco avvezzo alla battaglia.»
«Si… Ha senso....»
«Ci sarebbe, perlopiù, Ulisse. Uomo astuto: voglia il fato liberarci dalle perverse spire del suo ingegno! Ma non credo accetterebbe questa sfida in particolare. Aiace di Telamone, monumentale: lui potrebbe farlo!»
Chissà perché “monumentale” non mi ispira…
«E, possa tu assistermi, sono pronto ad affrontare una prova simile per il bene del mio popolo. Non sottrarrò altri uomini alle famiglie di Troia, quest’oggi! Li proteggerò, costi quel che costi!»
Ripetei nella mia mente quelle parole. Costi quel che costi
«Pensavo, non sarebbe meglio se…»
D’improvviso, un grido animalesco mi fece sobbalzare. Ettore non si mosse. Mentre le mie orecchie sussultavano ad ogni scontro di scudi o sfavillio di lame, le sue erano allenate a procacciarsi forme nascoste di quiete nel rumore. Guardai verso le mura, immaginando Aiace che spazzava via, in un sol colpo, decine di soldati con quelle braccia robuste come travi. Allontanandoci il caos si era affievolito, ma quel ruggito era riuscito a raggiungerci e ci ricordò che, a breve, saremmo dovuti tornare ai posti di combattimento.
«Dicevo… Se davvero lui accettasse la sfida come dici, non potrebbe essere un problema? È grosso, anche troppo per te.»
«Egli è imponente, vero, ma poco sveglio da quel che ho potuto osservare. Voglia tu imbrigliare la fortuna e renderla a me favorevole con la tua somma benedizione. Ti renderò in dono la mia vittoria!»
Tirai un sospiro, nella speranza di non mandarlo a morire col mio benestare. 
«E va bene, Ettore.»
Lui continuava a guardarmi, come in attesa.
«Si, insomma va’, fa’ quello che vuoi, io sono con te!»
Solo a quel punto, sfoggiò un sorriso smagliante.
«Grazie, Febo Apollo. Grazie!»
«Ma non ringraziarmi, d’ora in avanti… E non ti inchinare, lascia perdere!! Non fare così, su, andiamo…!»
 
Uscì correndo dalla città e abbassò la lancia, segnalando così ai suoi di deporre le armi. Il furore della battaglia si spense all’istante e, in quel momento stesso, prese la parola.
«Oggi ho deciso di andare incontro al mio destino!» esordì e, quando dichiarò il suo intento, i soldati di entrambe le fazioni si ritrovarono a condividere la medesima sorpresa. A incrociare gli sguardi come nel chiedersi: “ma è impazzito?”
Ettore aveva previsto tutto: i suoi attori si mossero con una puntualità impressionante; tranne uno. Aiace di Telamone. Proprio quando la pantomima da lui minuziosamente calcolata stava per volgere al termine, costui venne meno al suo ruolo e, sul campo, calò un lungo e imbarazzante silenzio. Agamennone si allontanò da Menelao, furente di rabbia per il suo esercito di conigli, e raggiunse un gruppetto di guerrieri. Questi, dopo un breve mormorio, si fecero avanti uno dopo l’altro. Li fissai: nessuno di loro sembrava davvero all’altezza di Ettore, tranne pochi che parevano, in ogni caso, preoccupati.
Aiace li sovrastava in tutta la sua possanza, senza esprimere alcun intento. 
Il principe, stupito e nel contempo compiaciuto, viaggiò con lo sguardo da un uomo all’altro, finché uno strano figuro non si avvicinò ad Agamennone, chiedendogli l’elmo. Vi buttò all’interno una manciata di sassi e la agitò.
«Deciderà la sorte!» disse.
Pescò e, senza neanche guardare il risultato, si avvicinò direttamente ad Aiace. Il guerriero strinse il sasso nella sua mano, grande il doppio rispetto a quella del commilitone, e sogghignò prima di sbirciarlo e gettarlo a terra.
«Mia la fortuna, amici miei» urlò, «oggi schiaccerò il glorioso Ettore! A me le armi!»
Scorsi chiaramente la smorfia amara con cui si avviò a riceverle. Il soldato del sorteggio e Ulisse si scambiarono uno sguardo soddisfatto. Un giovane arciere, con indosso un arco e una faretra troppo grandi per il suo corpo minuto, si lanciò verso Aiace e gli strinse il polso. Il gigante si abbassò e gli scompigliò i capelli. Lo sguardo carico di tenerezza.
«Sta’ tranquillo, andrà tutto bene.»
I compagni fissarono la scena infastiditi. Lui non se ne curò.
Ebbi una sorta di déjà-vu.
Due macchie sbiadite.
Il pallore cadaverico di una, piccola e fragile, e la gargantuesca stazza dell’altra, pervasa da una ferocia senza fine.
La disparità dei loro corpi imperfetti, grande quanto la forza del loro legame.
Un topolino e il suo orso. Tagliati fuori dal mondo, uniti da un affetto che loro soltanto erano in grado di comprendere.
Era un ricordo o solo una sensazione distorta? Non potevo saperlo.
 
«Nessuno avrebbe mai sfidato Ettore, la cui forza fa tremare persino Achille lo sterminatore, di sua spontanea volontà!»
«Vero, anch’io ho udito della sua indicibile potenza!»
«Commisurata a quella di voi troiani, forse!»
«Siete proprio sicuri che Achille non tremi di noia, di fronte al vostro Ettore?»
Il campo mormorava, intanto che i due si preparavano a combattere. Il principe osservò in silenzio Aiace che, inalberando la sua lancia e l’improbabile scudo, ghignava come un leone che stava per fare un sol boccone della sua preda.
«Veglia su di me, Arco d’Argento.»
Gettò quelle poche parole lì, nella polvere. Poi si allontanò, ineluttabile come una foglia che si stacca da un ramo in autunno e vola via. Le medesime meccaniche muovevano gli eroi come lui verso un duello come quello. In fondo, che cos'è un eroe se non un individuo dotato di un grande talento e straordinario coraggio; che sa scegliere il bene al posto del male, che sacrifica sé stesso per salvare gli altri; ma soprattutto... Che agisce quando ha tutto da perdere e nulla da guadagnare? Ettore non poteva evitarlo. Rischiare la vita per il suo popolo era il suo compito. Combattere contro Aiace era il suo destino.
«Ettore!!» lo istigò quello. «Scoprirai che ci sono eroi ben più valorosi di Achille tra gli achei!»
«Zittò e combatti!» si limitò a rispondere lui.
Inspirò forte. Gli occhi appuntiti, arpionati sull’avversario. 
Caricò la sua lancia. Vidi i suoi muscoli tendersi all’inverosimile… Tirò.
La lama squarciò l’aria con una tale veemenza da farla vibrare. Neanche la vidi partire. Andò a conficcarsi nello scudo di Aiace, penetrò il cuoio coriaceo che lo ricopriva, ma non arrivò a colpirlo. Silenzio.
Gli occhi del gigante tremarono per un brevissimo istante. Gli occhi di tutti lo fecero.
Il giovane arciere smise di respirare. 
Aiace rinvenne e subito carico il suo colpo… Ettore impallidì. Quando l’avversario lanciò, il principe si gettò di lato. Il suo scudo cadde al suolo in mille pezzi. Non avrebbe potuto evitare la lancia, se non in quel modo. Gli achei trattennero un grido.
Tutti tranne il ragazzo, che se ne stette ad osservare indignato. 
Lo guardai per un attimo e, subito, mi intercettò. Non smise più di fissarmi. Mal celava un’amara trepidazione. Glielo lessi subito in faccia: nelle labbra serrate a fatica da un morso che stava per sanguinare, negli occhi carichi di frustrazione. Così aggrappati ai miei da farmi provare disagio. Di tanto in tanto si scollava da me per seguire le mosse di Aiace, come per vegliare su di lui. Poi tornava a cercarmi. Difficile definire il confine tra l’odio smisurato per Ettore e la totale adorazione per quel mostro: entrambi palpabili, come se li stesse sbandierando ad alta voce. Quel corpo minuscolo, una muscolatura appena accennata, capelli ricci e grandi occhi chiari, non appartenevano ad un guerriero. Ma io? Perché guardava me?
«Bastardo!!»
Un urlo ci calamitò di nuovo sulla battaglia. Di colpo, le lance erano sparite per fare spazio alle spade. Due soldati afferrarono gli sfidanti per le braccia, tentarono invano di bloccarli.
«Non è ancora finita!!» urlò Aiace, mentre Ettore lentamente si riebbe e fissò il sole. Stava tramontando: anche in guerra, la notte andava rispettata. Digrignò i denti.   
Quando entrambi si furono calmati, presero a ciarlare come due buoni avversari che si rispettano l’un l’altro e a scambiarsi doni. Il principe sfilò trionfante tra i suoi uomini, con una cintura stretta tra le mani, e il mio cuore si colmò di orgoglio.
Sì, un eroe era proprio quel genere di persona: quella che da sempre speravo di diventare. Un individuo che non si lascia frenare dalle proprie incertezze, ma agisce con il solo ed unico scopo di salvaguardare il suo prossimo, gettandosi anche nelle imprese più assurde. È lo splendore coraggioso di questa sua missione a guidarlo nelle avversità, a rendergli onore, a fargli sopportare ogni fatica, ogni dolore. È lì il senso del suo sacrificio, tutto lì: nel bellissimo pensiero di offrire la propria vita agli altri. Ignaro delle perdite che affronta ad ogni battaglia, noncurante del guadagno: la sua mano è ferma, la sua mente è lucida. Nessun dubbio è tanto grande da compromettere il suo credo. Egli è il suo credo.
Aiace tornò tra gli achei con una magnifica spada e, mosso da un impeto incontrollabile, l’arciere gli andò incontro e lo abbracciò. L’uomo poggiò una mano sulla sua schiena, coprendola tutta come uno scudo, mentre con la coda dell’occhio invitò gentilmente chiunque lo stesse fissando a levarsi di torno.
 



 

Note finali♫♪
Piccola delucidazione sul contesto storico: all’epoca vigeva la cosiddetta “cultura della vergogna”: il parere dell’opinione pubblica contava più di qualunque altra cosa e determinava il passaggio dallo status di eroe a quello di codardo. Ergo, rifiutare una sfida era un comportamento Disonorevole con la D maiuscola; motivo per cui i soldati si sono fatti di colpo tutti avanti, pur essendo titubanti, dopo aver “chiacchierato” con Agamennone. Anche Aiace, eroe che non scende a patti con nessuno – compresi gli dei – non è immune a questo modo di pensare.
Per quanto riguarda il giovane arciere – il cui nome verrà rivelato più avanti, – egli è molto legato al gigante, come avete potuto vedere e come vedrete ancora. Ho cucito su di loro, al di là del déjà-vu di Archer, l’immagine di Ilya e Berserker. È una riscrittura che mi è riuscita molto naturale e spero non ti abbia fatto storcere il naso.
Gli appellativi dati da Ettore ad Archer sono gli stessi usati dal sacerdote Crise, per invocare Apollo nel primo libro dell’Iliade. Da momento solenne a comico è stato un attimo…
Detto questo: grazie per aver letto il primo capitolo di In the face of death!  
   
 
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