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Autore: _candyeater03    25/06/2020    4 recensioni
{Clementia Dovecote} {OneShot; 3213 parole}
***
Dal testo:
No mamma, no papà, avrebbe voluto dire, perché dovrei essere felice per qualcuno se poi a perdere sono io?
E invece faceva sì con la testa, va bene, diceva, scusa. A poco a poco imparava a separare i propri pensieri dai propri discorsi, a riflettere di una cosa e pronunciarne un’altra, senza sforzo. E mentre, negli anni, la voce dentro di lei diveniva sempre più cattiva, più velenosa, più insopportabile, lei ricercava parole sempre più dolci, sempre più gentili, che potessero compensare. A tratti era quasi come un calcolo matematico, una curiosa, determinata scoperta dell’equilibrio. Quasi come un gioco.
Qualche volta questo pensiero ancora la tormenta, la sveglia con affanno nel cuore della notte e le buca lo stomaco. Lei sa, nel profondo, di detestare quello che sarebbe diventata da sé. Sa di essere stata salvata dalla propria educazione, ed è una consapevolezza che la solleva, ma la terrorizza allo stesso tempo.
È falsa, lei, una persona falsa.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Clementia sa che dovrebbe pensare ad altro, in questo momento.
Dovrebbe pensare alla bellezza maestosa di Heavensbee Hall, agli stendardi neri, ai candelabri brillanti, dovrebbe concentrarsi sul ritmo affilato dei suoi tacchi che si fanno strada verso il podio.
Dovrebbe pensare al diploma, ai suoi bei voti, al futuro, dovrebbe immaginare l’università. E dovrebbe pensare alla foto di gruppo, lisciarsi la gonna, controllare che la pettinatura sia perfetta.
Dovrebbe pensare ai compagni seduti accanto a lei, con cui ha imparato a scrivere e giocato a nascondino, con cui ha ballato alle feste d’istituto, con cui ha studiato in lacrime nel cuore della notte.
Dovrebbe pensare agli anni della scuola ormai finiti, ricordare quanto sembrassero tediosi, interminabili. Le si dovrebbe gonfiare il cuore, pregno di quella vibrante nostalgia che ora dovrebbe provare.
 
Lo sa che dovrebbe pensare ad altro, in questo momento. Però adesso non ci riesce, non ci riesce proprio.
Mentre avanza lungo la navata dell’aula magna, è come se non si sentisse nemmeno lì. Sente la testa leggera, distante dalla realtà, bloccata in una fastidiosa catena di ragionamenti che per qualche motivo deve portare a termine, ma che sono fuori dal suo controllo.
 
Non è la prima volta che le succede. In verità accade abbastanza spesso.
Ma perché proprio oggi? È da tutta la vita che sogna questa cerimonia, accidenti!
 
Certo che quella camicia è davvero orribile, pensa, quasi per caso, mentre stringe la mano del signor Plinth.
Chissà perché, quell’insignificante considerazione è l’unico pensiero più o meno coerente che adesso il suo cervello riesce a digerire. Le si incolla in testa, la riempie, aleggia tutt’intorno alla sua coscienza. Ora non riesce più a pensare ad altro.
 
Mentre l’uomo le consegna il premio, lei fa un grande sorriso.
No, pensa, in realtà il problema non è la camicia in sé.
La camicia va bene.
Sarà che sta male a lui.
 
Certo che sta male a lui, pensa.
Non è uno di noi, dopotutto. Dovrebbe smetterla di fingere in questo modo.
Che se ne ritorni al Distretto 2, prima che quello stronzetto di suo figlio decida di farci fuori tutti.
 
La ragazza deglutisce. Non ci crede di averlo pensato davvero.
Non è raro per lei perdere il controllo sul proprio flusso di coscienza.  La sua mente tende a vagare da sola, si spinge fino a rivelare ciò che pensa davvero. Oppure ciò che teme di pensare davvero. Quale sia dei due non l’ha mai capito, eppure in ogni caso finisce sempre per sentirsi una persona orribile.
Quasi per fare ammenda dei suoi pensieri Clementia china il capo con gratitudine, allargando ancora di più il sorriso.
 
Perché lei è una persona così cortese, non è vero?
No, pensa, mentre si dirige verso il tavolo dei professori. I suoi genitori sono persone cortesi.
Lei li ha ascoltati e basta.
 
“Ti sei dimenticata di ringraziare.”
“Quello che hai detto non è molto gentile.”
“Dovresti essere felice per il tuo amico.”
 
No mamma, no papà, avrebbe voluto dire, perché dovrei essere felice per qualcuno se poi a perdere sono io?
E invece faceva sì con la testa, va bene, diceva, scusa. A poco a poco imparava a separare i propri pensieri dai propri discorsi, a riflettere di una cosa e pronunciarne un’altra, senza sforzo. E mentre, negli anni, la voce dentro di lei diveniva sempre più cattiva, più velenosa, più insopportabile, lei ricercava parole sempre più dolci, sempre più gentili, che potessero compensare. A tratti era quasi come un calcolo matematico, una curiosa, determinata scoperta dell’equilibrio. Quasi come un gioco.
 
Qualche volta questo pensiero ancora la tormenta, la sveglia con affanno nel cuore della notte e le buca lo stomaco. Lei sa, nel profondo, di detestare quello che sarebbe diventata da sé. Sa di essere stata salvata dalla propria educazione, ed è una consapevolezza che la solleva, ma la terrorizza allo stesso tempo.
È falsa, lei, una persona falsa. 
 
Alla prima estremità della cattedra siede Valeria Dover, la svampita professoressa di filosofia.
La ragazza stringe la mano anche a lei, mantenendo il suo sorriso luminoso. Non ha mai sopportato la filosofia. Troppo subconscio, troppo stato di natura. Le dà la nausea.
 
Eppure in pagella ha avuto nove. Sarà perché ha sempre finto che le piacesse?
Anche questo le dà la nausea.
 
Dopo aver salutato tutti gli insegnanti seduti al tavolo, che seguono fin dalla prima gli studenti del suo anno, le viene consegnato il diploma dal decano Highbottom in persona. Lei lo ringrazia con un piccolo inchino, mentre nella sala si leva un applauso di circostanza.
 
Clementia lancia uno sguardo verso le prime file del pubblico. Sono occupate dai compagni che conosce meglio, quelli dei corsi avanzati, quelli dei Giochi, quelli che forse sono più suoi amici di tutti gli altri.
Applaudirebbero lo stesso, se potessero leggere dentro di lei? È per i suoi modi che la ammirano: in lei non c’è altro. La vedono radiosa sul palco, dolce, perfetta come sempre, mentre l’unica cosa a cui sta pensando è quanto sia orribile la camicia del signor Plinth. E che in realtà lei quel premio non se lo meritava.
 
Povero Corio, pensa, mentre ritorna al proprio posto. Doveva essere lui a vincere.
Un brivido di rimorso le corre lungo la spina dorsale. Si era tanto arrabbiata con lui per non averle fatto visita in ospedale, eppure da quando è partito lei non lo ha mai cercato in nessun modo.
 
Aveva pensato di unirsi, quando alcuni compagni si erano accordati per andare a parlare con la sua famiglia, ma alla fine non l’aveva fatto. Si sono già organizzati tra loro, aveva pensato, non vorrei dar fastidioE poi magari nemmeno lui vuole vedermi, dopo quello che gli ho fatto passare. Si era limitata a chiedere a Lysistrata, da cui aveva saputo che Corio era partito per il Distretto 12, e che sarebbe diventato Pacificatore.
Sa che ora dovrebbe scrivergli una lettera, e qualche volta ci ha già provato. Ma magari non mi vuole parlare, magari a non farmi viva gli faccio un favoreNon vorrei dargli fastidio, finisce sempre per pensare.
 
Lo schermo sul retro del palco sta trasmettendo in presentazione una libreria di immagini, come da sfondo per la cerimonia. Si tratta perlopiù di fotogrammi tratti dai decimi Hunger Games, compresi di interviste e preparazioni. Ora che è ritornata a sedersi in platea, la ragazza non può evitare di guardarlo. Splendido.
Per appena un secondo una fotografia di Mortifer compare sul fondale, come se fosse ancora in diretta, vivo per davvero. Sta in piedi accanto al suo piccolo cimitero, stringendo tra le mani un lembo della bandiera.
 
Il cuore di Clementia ha un sussulto. Sembra così piccolo, visto da vicino. Non somiglia per nulla al ragazzo che era pochi giorni dopo la Mietitura. Gli si potrebbero contare le costole.
 
In un attimo, la ragazza sente il proprio volto surriscaldarsi con violenza. Il peso degli sguardi che percepisce su di sé è tale da bagnarle le palpebre, anche se in realtà non la sta guardando nessuno. Il grande schermo è ora occupato da un primo piano di Lucy Gray, ma l’immagine di prima le è come rimasta impressa negli occhi.
Guarda come si è ridotto! È morto per colpa miaSono io ad averlo ucciso.
 
Non ricorda perché avesse pensato che non mandargli nulla sarebbe stata una buona idea. Non ricorda proprio cosa stesse pensando. Credeva di essere previdente? Credeva di essere furba?
Non lo ricorda, per quanto tenti. Per quanto desideri saperlo. Le piacerebbe essere certa di non averlo pensato davvero, di aver avuto un buon motivo, le piacerebbe poter dire che in realtà era stata solo colpa del veleno, e non colpa sua. Era quello di cui si erano convinti tutti, o no? L’avevano detestata e poi l’avevano perdonata. Perché era colpa dell’influenza.
 
La verità è che probabilmente sono solo scuse. Lei nel profondo lo sa.
Per quanto l’incidente avesse trasfigurato il suo corpo, a quel primo risveglio in ospedale non si era poi sentita troppo diversa. Forse un poco confusa, un poco scomposta. Quello sì. Ma in fin dei conti era sempre lei. Sapeva di esserlo. Che la malattia non avesse solo mostrato l’essere spiacevole che era veramente, sotto ogni velo di cortesia? Si era comportata come una bambina. Una stupida bambina orgogliosa.
 
Prima Clementia non badava alla morte, ma adesso ci pensa sempre. Pensa sempre a lui.
Chissà che fine ha fatto. Chissà dov’è ora. Solo a pensarci le gira la testa, le tremano le mani.
 
La ragazza ricorda le lacrime di terrore egoista che l’avevano tenuta sveglia fino al mattino, nelle ore dopo la morte di Aracne. E ancor di più ricorda il buio, il silenzio, l’odore pungente dei suoi giorni in ospedale, quando era convinta che volessero ucciderla. Aveva pianto, pianto e pianto, per giorni e notti, tremando rannicchiata sotto il lenzuolo di carta. La sua mente correva in tondo. Cosa voleva dire, poi, morire? Una vita eterna? Un Paradiso? E se Dio non fosse esistito? E se non ci fosse poi stato nulla?
 
Nulla. Nulla! Come poteva lei immaginare il nulla, il non esistere? E come poteva, allo stesso modo, immaginare di esistere per sempre? Non poteva. Non lo voleva. Non voleva andare da nessuna parte. Voleva solo restare ancora lì, voleva solo poter vivere di nuovo, voleva solo rivedere casa. E per giorni e notti piangeva, tremando rannicchiata sotto il lenzuolo di carta. Si aggrappava con forza al materasso duro, finché le nocche non le diventavano bianche, sudava freddo. Non voglio morire, non voglio andare!
Chiedeva troppo?
 
In quei giorni di convalescenza, in cui la paranoia la divorava e i segni del veleno le si allungavano sulla pelle, sapere che anche Corio era lì era la sola cosa che la confortava. Nei momenti in cui sentiva di non avere più speranza, e il terrore le toglieva il respiro, era bello pensare di avere un amico nella stanza di fronte. Immaginava che colori avessero le sue pareti, in che modo stesse sdraiato, che cosa sognasse mentre dormiva. E per un poco si distraeva da tutto il resto.
Poi non le era bastato più, immaginarlo da un’altra parte. Quanto sarebbe stato bello se fosse venuto da lei, oltre ogni ostacolo e ogni divieto! Se fosse venuto a portarla in salvo, come un principe delle fiabe. Ogni ora immaginava quella sua porta aprirsi, però non si apriva mai. Se non per far entrare qualche infermiere.
Era così sbagliato, così assurdo sperare che lui volesse vederla? Che la desiderasse? Era il suo nome che lei sussurrava, quando si toccava nella notte. Immaginava le sue dita accarezzarle il volto, e il collo, e le clavicole, e poi ancora soffermarsi sui seni, sui fianchi. Immaginava le sue morbide labbra danzare insieme alle proprie, sfiorarle la pelle, ridisegnarle una per una tutte le curve del corpo. Perché era così strano? Così inconcepibile?
Clementia era ben cosciente di essere bella. Forse anche più bella di Persephone, e Persephone piaceva a tutti. Perché allora nessuno la guardava? Perché non la guardava lui?
 
Mentre dal microfono chiamano il nome di Lysistrata, sul fondale si forma di nuovo la figura di Lucy Gray. Questa volta l’immagine, risalente alla sera delle interviste, la ritrae nell’atto di suonare una canzone con la chitarra. Con il suo volto espressivo riesce chissà come ad irradiare un fascino disarmante anche da ferma, quasi sfocata. Come sempre, al centro della scena.
 
Clementia riconosce subito il contesto della fotografia. L’ha visto in televisione.
Come non ricordare quella splendida interpretazione, quella tecnica perfetta, quel timbro unico! E ancora quella melodia struggente, quel testo così intimo, così evocativo! Più di tutto la ragazza ricorda il modo in cui Corio era sbiancato, ascoltando l’avanzare delle strofe.
 
Allora si era detta che non avrebbe dovuto serbare invidia, a maggior ragione verso una ragazza che stava per morire. Ma alla sua mente non importava. Al suo cuore non importava. Era invidiosa e basta.
Ti sta bene stronzo, pensava. Senti che dice, hai sentito? Ti sei innamorato di una puttana, con tutta la scelta che avevi. Hai abbandonato me per una puttana. Ma vaffanculo.
 
E poi le veniva da piangere, iniziava a singhiozzare senza controllo. Erano pensieri che le facevano male.
La solitudine la avvelenava, più che il veleno stesso. Perché non poteva dire niente per compensare.
 
Quando era stata dimessa dall’ospedale, poche ore dopo, il dottore le aveva intimato di non raccontare nulla dell’incidente. Del resto non c’era bisogno di scomodare nessuno. A tutti era stato detto che avesse avuto una forte influenza, e per questo nessuno era venuto a trovarla. Ma ormai era finita. Ormai stava bene.
Stava bene, sì. Non contando le scaglie sulla clavicola, non contando la pelle secca, non contando gli occhi giallognoli. Non contando le emozioni troppo forti, non contando i repentini sbalzi d’umore. Stava bene. Nemmeno i suoi genitori sospettavano nulla. Nessuno aveva detto niente.
 
Clementia era furente. Perché Corio non aveva detto nulla? Perché non era mai passato a trovarla?
Eppure lei era venuta a cercarlo! Era venuta a pregarlo con le lacrime agli occhi e la voce spezzata dalla paura, e lui non l’aveva ascoltata. Perché non aveva fatto nulla? Perché si era dimenticato della sua esistenza, proprio quando lei aveva implorato di non farlo?
 
La mattina del lunedì era andata a parlargli di persona, poco prima che iniziasse la trasmissione dei Giochi.
Ne aveva abbastanza di quel suo teatrino, di tutte quelle bugie. A che importava essere cortese? Dentro di sé aveva solo rabbia. Ed era andata da lui per sputargliela in viso, per fargliela capire, per dirgli tutto, dirlo veramente. Forse il veleno le aveva abbassato le difese, le inibizioni, ma lei ne era sicura. Era tutto vero.
E allora perché, ad ogni passo che faceva, sentiva la voce dentro di lei farsi sempre più silenziosa?
 
“Grazie per essere venuto a trovarmi, Corio”, gli aveva detto.
Ma in realtà non era quello che intendeva. Se n’era resa conto nel momento stesso in cui aveva iniziato a parlare. Continuava a percepire quel distacco, quella familiare discordanza di sempre. Che era successo?
Non poteva fuggire da quel suo teatrino, da tutte quelle bugie. Stava pensando altro, anche allora. Un’altra verità. Mi sei mancato Corio, aveva pensato, perché non c’eri? Lo so che ti disturbo, che non me lo merito, che non avevi motivo di venire, che non dovresti preoccuparti per me. Sono una stronza e una bugiarda. Ma sarei stata contenta. Avrei avuto meno paura. Avrei tanto voluto che ci fossi, Corio.
 
“Grazie per aver chiamato i miei genitori. Grazie per avergli fatto sapere dov’ero”, aveva continuato.
Nel suo delirio Clementia aveva ricordato quelle bambole russe che sua nonna teneva in casa, quando lei era ancora una bambina. Quelle che continuavano ad aprirsi, rivelando copie sempre più piccole. Verità sempre più intime. E se non fosse mai arrivata alla fine? Se non fosse stata altro che infiniti strati di false verità?
I miei sono brave persone, aveva pensato, lo sono davvero. Avrebbero fatto di tutto pur di difendermi, se avessero saputo. Lo so di non meritarli. Forse hai fatto bene a non dire niente, Corio.
 
Lui aveva provato a giustificarsi. Dopotutto si stava ancora riprendendo dall’esplosione.
Lei non provava rabbia, a sentirlo arrampicarsi sugli specchi. Solo triste vergogna, chissà perché.
 
“Davvero?” gli aveva detto. “Sembravi in ottima forma all’intervista. Tu e il tuo tributo.”
Lo so che lei è meglio di me, aveva pensato. Non posso pretendere nulla. Vorrei essere lei, Corio. Vorrei che mi guardassi anche solo una volta come guardi lei tutti i giorni. Lo so che è stupido, lo so di non meritarlo. Però vorrei che mi guardassi così, anche solo una volta. Come se fossi l’unica in tutto il mondo.
 
Alla fine Festus era intervenuto per rimproverarla, e lei si era allontanata verso le prime file.
Nonostante lo sdegno che le brillava in volto, Clementia ricorda che avrebbe voluto scoppiare in lacrime.
 
Un lungo applauso, che accompagna la traversata del decano Highbottom verso il microfono, suggerisce che la cerimonia sia quasi finita. La ragazza vede lo schermo sul fondale spegnersi per un attimo, per poi illuminarsi dopo qualche istante del raggiante stemma di Panem.
Viene chiesto a tutti di alzarsi in piedi: è il momento dell’inno. Subito gli studenti rispondono al comando, scambiandosi tuttavia a vicenda qualche sguardo allarmato. La moda di cantare l’inno è nuova, all’Accademia. È la prima volta che avviene anche durante la consegna dei diplomi. Nessuno conosce il testo, non tutto.
 
Corio lo conosce, però. Chiedevano sempre a lui di cantarlo.
Mentre la base strumentale risuona nell’aula magna, accompagnata da frasi confuse e sgradevoli stonature, Clementia riesce quasi a sentire la sua voce. Non è bella, non è perfetta, ma l’inno lo sa. Lo sente.
 
Nelle sue reminiscenze, la ragazza sorride appena. Alla fine hanno fatto pace, in ogni caso.
Era venuto lui stesso a parlarle, una mattina in cui nessuno dei due riusciva a dormire. Aveva posto le sue scuse, come ci si aspettava, e come ci si aspettava lei le aveva accettate. Dopotutto non era poi arrabbiata veramente. Era solo un’altra delle sue molte maschere.
Gli aveva detto che lo capiva, che in realtà avrebbe dovuto scusarsi anche lei. Gli aveva chiesto se la ritenesse una persona orribile.
 
“No”, le aveva risposto, “sei coraggiosa, ecco cosa sei.”
Clementia si era domandata se lo intendesse davvero, oppure se anche lui stesse solo ripetendo ciò che sapeva di dover dire. Magari, aveva pensato, loro due erano simili davvero, anche così. Magari aveva sbagliato a cercare di nascondersi per tutto il tempo. Che ironia!
 
Si erano divisi un dolcetto a metà e avevano continuato a parlare, almeno per un po’. Quando avevano smesso gli altri stavano ancora dormendo, ma gli uccelli avevano già iniziato ad intonare flebili canti nel buio.
In quel silenzio complice, perfetto, avevano osservato le tenebre ritrarsi dai volti stanchi l’uno dell’altra, finché non si erano prosciugate del tutto. Avevano visto i primi raggi dell’alba illuminare le vetrate di Heavensbee Hall, rifratti e amplificati in una curiosa miriade di colori. Per una volta lei si sentiva lì, lì davvero, si sentiva una persona normale. Anche se guardava e basta.
 
Clementia ricorda quello che avrebbe voluto dirgli, e forse è quello che vorrebbe dirgli anche ora.
Aveva pensato di raccontargli di sé, della sé stessa reale, di condurlo giù, giù lungo quelle sue catene di ragionamenti che per qualche motivo doveva portare a termine, ma che erano fuori dal suo controllo. Aveva pensato di mostrargli il proprio flusso di coscienza così com’era, senza filtri, disvelando uno per uno tutti i suoi infiniti strati di pensiero. Come una di quelle bambole russe.
Aveva pensato di chiedergli se anche per lui fosse lo stesso, se potesse capirla. Gli avrebbe chiesto come fosse vivere nella sua mente, dentro di sé stesso, gli avrebbe chiesto quali ossessioni lo tenessero occupato e quali idee dovesse nascondere. E lo avrebbe lasciato parlare, parlare di ricordi, e di emozioni, e di pensieri, perché lei amava pensare a sé stessa, ma ancor di più amava lui. Ti amo Corio, voleva dirgli, e per una volta non avrebbe pensato altro. Voleva dirgli che lei sarebbe rimasta lì anche per sempre.
 
Ma magari non gli importa di questo, aveva pensato.
Magari non gli importa di me, aveva pensato.
Magari gli darei soltanto fastidio, aveva pensato.
Non vorrei mai disturbarlo. Perché dovrei?
 
Ed era rimasta in silenzio.







NdA:
Ehilà, tributi di EFP!
Sono io, Candy. Dubito fortemente che quelle tre persone che leggevano la mia roba cinque anni fa siano ancora qui, o quantomeno che stiano vedendo queste note. Però lo dico lo stesso. Oltre ogni previsione sono tornata, almeno per una oneshot, nel fandom di Hunger Games. Sono contenta di essere qui :3
La mia passione è stata risvegliata, come immagino sia stato per molti, dall'uscita del nuovo libro. Mi sembra inoltre che questa che sto pubblicando sia la prima fanfiction relativa al prequel qui su EFP, quindi ho l'onore di aprire le danze ^^
Il personaggio di Clementia non è troppo importante in realtà, ma mi ha ispirata comunque. L'ho vista in un certo senso molto simile a me, nella vaga caratterizzazione che le è data. Ci ho girato un po' attorno, certo, ma non è bello proprio per questo scrivere di personaggi secondari?
In questi anni, avendo attraversato un numero importante di crisi esistenziali (tra cui una proprio nel mezzo della stesura :'3), il mio modo di scrivere emozioni e pensieri si è evoluto verso qualcosa di molto più intimo. Probabilmente questa ff apparirà abbastanza diversa da quelle che scrivevo ai tempi, spero soltanto che sia in meglio e non in peggio, lol.
Concludo qui, dato che sono le cinque di mattina e magari dovrei anche dormire. Ringrazio chi è giunto fino a qui, e chiedo venia per eventuali idiozie scritte in mezzo a queste note. Sono pur sempre le cinque di mattina, lolol. xD
Ci vediamo!

Candy<4
   
 
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