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Autore: KomadoriZ71    27/06/2020    2 recensioni
È ormai mezzanotte, l'ispettore Javert vorrebbe rincasare dopo una lunga giornata lavorativa, ma un certo imprevisto lo farà piuttosto virare alla Rue de L'Homme-Armé, dove risiede l'ex galeotto Jean Valjean.
E il resto è un po' di Valvert malcelata.

Genere: Comico, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Javert, Jean Valjean
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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* Note autore e altri chiarimenti in fondo *





 

                                                              

 

Il giro di pattuglia, quella notte, era stato assai estenuante per l'ispettore Javert, che aveva trascorso le ultime ore serali ad inseguire criminali con i suoi gendarmi. Era ormai mezzanotte, e per quella giornata aveva concluso il proprio dovere, per cui imboccò la strada che l'avrebbe condotto a casa, bastone sottobraccio e bicorno in testa; la sua abitazione non era poi così distante dal dipartimento di polizia, dal momento che per lui non vi era una profonda scissione tra la vita privata e quella lavorativa, le due realtà erano strettamente legate, su ogni piano, anche quello fisico.

Arrivato al portone dell'edificio che ospitava il suo appartamento, un edificio grezzo, anonimo, in una via poco illuminata e angusta, calò la mano destra, con gesto meccanico, nella medesima tasca del pesante carrick per afferrare il mazzo di chiavi, l'affondò, frugò, ne scandagliò i visceri, ma nulla. Fece lo stesso con le sinistre, ma ancora nulla. Possibile che l'avesse perso durante un inseguimento, senza accorgersene? Il pensiero lo mandò nel panico, ricordava a menadito le strade che aveva battuto durante quel turno, ma sarebbe stata un'impresa titanica ripercorrerle a ritroso alla ricerca dell'oggetto smarrito. Un mazzo di chiavi per terra, a quell'ora, aveva vita breve, le probabilità di ritrovarlo erano pari a zero.

Mentre percorreva avanti e indietro, freneticamente, quel vicolo striminzito, per ruminare qualche soluzione possibile, ebbe come un déjà-vu: dopo il pranzo, prima di recarsi al lavoro, a causa del clima particolarmente freddo di quel giorno, aveva scambiato il pastrano più leggero, nel quale vi erano riposte le chiavi, con quello più pesante che indossava attualmente, dimenticandosi per l'appunto di portarsi dietro le chiavi, e se da un lato questa rimembranza lo rincuorava (almeno non erano finite tra le mani di un malvivente), dall'altro non riusciva a perdonarsi una simile svista, come aveva potuto quell'uomo così metodico e preciso essersi lasciato scappare tale sventataggine? Ma soprattutto: adesso come ci entrava in casa?

Alzò uno sguardo alle stelle, sbuffò due sospiri e pensò mille accidenti.

Tutti gli altri condomini erano ormai a dormire, mettersi a urlare sotto le loro finestre per farlo entrare sarebbe stato assolutamente ridicolo e sgarbato, non era un monellaccio. E pure che gli avessero aperto il portone? Poi come sarebbe entrato in casa sua? Avrebbe passato la notte a dormire sul pianerottolo, ginocchia al petto, schiena alla porta, che certo era meglio del selciato umido e gelido, ma non si sarebbe potuto far trovare così l'indomani mattina.

Fece qualche passo indietro, per osservare da un'angolazione più ampia l'intero complesso abitativo, come un turista di fronte ad un imponente monumento che voglia coglierne la sua interezza, e ne studiò la superficie: le mura, assai rovinate dagli agenti atmosferici e dal tempo, presentavano delle crepe tra una bugna e l'altra, che avrebbe potuto usare come appigli per le mani e appoggio per i piedi, così da scalare la facciata fino al cornicione, e lì il gioco era fatto.

«Tutti dormono…» ripeté tra sé e sé.

Nessuno l'avrebbe visto, e chi l'avesse visto non l'avrebbe riconosciuto probabilmente, alla fioca luce dei lampioni a gas, ma provava ugualmente remora e vergogna al solo pensiero di cimentarsi nell'impresa degna di un ladruncolo scassinatore.

Ammettere la sbadataggine di aver dimenticato le chiavi era una cosa, essere avvistato appeso ad un balcone, un'altra.

Deglutì, serrò le palpebre per qualche secondo, come assorto in una preghiera di buon auspicio,  posò i palmi guantati sul muro e un piede sul battiscopa, iniziando a darsi la spinta per aggrapparsi alla bugna successiva. Sentiva già i calcinacci sgretolarsi sotto i tacchi, e la presa delle dita perdere forza, fino a farlo scivolare rovinosamente giù: le pareti erano troppo scivolose per consentirgli una grip sicura. Fortunatamente non era nemmeno arrivato al primo piano e la caduta non gli aveva procurato danni fisici ingenti, se non qualche piccolo strappo sui vestiti e una lieve contusione. Il tonfo, tuttavia, venne udito e l'ispettore, ancora a terra, si accorse di alcuni lumi che man mano avevano preso ad accendersi dietro le invetriate, insieme ad un vociare confuso.

Qualcuno si era svegliato.

In un gesto fulmineo, Javert si tirò in piedi, raccolse le proprie cose e, ignorando il dolore momentaneo, arrancò via dalla stradina, immergendosi in quella principale. Si sentiva un completo idiota, in quel momento. Possibile che Valjean l'avesse influenzato a tal punto da fargli tentare un'azione così sconsiderata? Già, proprio Valjean, quel galeotto che gli aveva salvato la vita…

«Valjean!»

Esclamò dal nulla, con la stessa enfasi con cui Archimede pronunciò il suo "eureka" immerso nella  vasca da bagno; aveva finalmente trovato una soluzione al problema, come il matematico siceliota aveva trovato la formula per calcolare il peso d'oro della corona di Gerone. Chi meglio di Jean avrebbe potuto scalare un edificio?

Tempo una mezzora, e Javert era presso la residenza dell'uomo.

La Rue de L'Homme-Armé era anch'essa piuttosto angusta, tanto che nemmeno le carrozze potevano infilarvisi, eppure la casa in cui risiedeva l'ex galeotto era molto più moderna rispetto alla stamberga di Javert; costruita con lo stile "Impero" (quello  Haussmann, che oggi tutti conosciamo, doveva ancora imporsi), risultava raffinata, ma al tempo stesso sobria, perfetta per ospitare una buona famiglia borghese.

Anche lì la città era sopita, l'unica stanza da cui proveniva un lieve bagliore era proprio quella di Jean. L'uomo, infatti, era ancora sveglio, seppur in camicia da notte, e sedeva alla scrivania, intento a scrivere una lettera sotto la fioca luce di una candela. Javert poteva scorgerne giusto la sagoma, ma capì subito che si trattava dell'uomo desiderato. Avanzò sicuro verso il portone e batté due lievi colpi col pomello del rompitesta, il giusto per attirare l'attenzione dell'unico elemento desto della famiglia.

Valjean levò la testa dalle proprie carte e si acquattò dietro la tenda, com'era ormai abituato a fare, per spiare chi fosse quel visitatore notturno: anche lui riconobbe immediatamente la figura alta e fiera di Javert, ed ebbe un fremito di terrore nel constatare che fosse vestito con la divisa da lavoro e tenesse in mano il manganello. Che avesse improvvisamente avuto un ripensamento e dunque si fosse presentato lì per arrestarlo, nonostante tutto? A quell'ora della notte, poi, certo di trovarlo in casa, senza preavviso, impreparato? Il tutto, mentre lui era ancora occupato a replicare ad una sua missiva?

No no, suvvia, impossibile. Jean scosse il capo per liberarsi di quei pensieri nefasti provenienti dal suo lato da galeotto, che non si era mai estinto, e prese in mano la lucerna, così da scendere giù e vedere di persona che cosa volesse l'altro. Riflettendoci con più calma, inoltre, Jean realizzò che Javert era da solo, nessuna scorta con lui, e che non l'aveva mai visto indossare abiti più informali, al di fuori dell'incontro alla barricata mesi prima. Tirò un sospiro di sollievo e aprì la porta.

«Javert, a cosa devo questa visita? Non ho ancora finito di rispondere alla vostra lettera, siate paziente…» esclamò il più anziano, stropicciandosi una palpebra con la mano libera, come a fargli intendere che avrebbe gradito riposarsi, dopo la mezzanotte.

«È una questione assai impellente e scomoda, Valjean, credetemi se vi dico che mi preme oltremodo dover bussare al vostro uscio, ma siete la mia ultima sponda» rispose l'altro, con voce bassa, il mento affossato nel bavero a causa dell'imbarazzo.

«Santo cielo Javert, cosa sarà mai successo? Qualcuno è forse finito sotto un carro?» chiese, ora più vigile e preoccupato.

«No no, è che…» si fermò, guardando in basso e mordicchiandosi nervosamente il labbro; la situazione lo metteva  a disagio, ma ormai il dado era tratto, non poteva tirarsi indietro «casa mia, non ci posso entrare. Ho dimenticato le chiavi all'interno, Valjean! Vi rendete conto? Ecco, mi servirebbe che voi…»

«Oh, non preoccupatevi Javert, passerete la notte qui, non posso lasciarvi fuori con questo clima! Entrate entrate, vi farò anche preparare…»

«Valjean no!» una presa ferrea piombò sull'avambraccio dell'ex detenuto, trattenendolo «vi ringrazio, sul serio, ma non è questo il caso… devo tornare a casa, il prima possibile, ma ho bisogno delle vostre capacità»

«Ispettore Javert, ne siete sicuro? Per noi sarà un piacere ospitarvi, non darete alcun fastidio a Cosette, ormai vi conosce, sapete? Non avrà paura di voi»

«Proprio perché mi conosce, dovrebbe invece temermi… ma adesso basta chiacchiere, Valjean, vi prego di seguirmi, ho già perso troppo tempo!»

Jean era ancora un po' sbalestrato di fronte all'atteggiamento di Javert, non lo aveva mai visto così irrequieto per una questione che non riguardasse direttamente la giustizia. Forse Javert aveva dimenticato una candela accesa, o il camino, questo spiegava tutta quella fretta, e probabilmente non voleva ammetterlo, orgoglioso com'era, dunque non gli restava altro da fare che aiutarlo. Il "come", ancora gli sfuggiva, e non osava chiederlo.

«Ah, siete sempre il solito! Credetemi, se vi dico che la mia figliola non vi ha in odio… l'odio non rientra tra gli insegnamenti che le ho impartito» spiegò con un sorriso bonario.

«Valjean, approfondiremo questa faccenda in un secondo momento, adesso dobbiamo andare» insistette l'altro, e quasi lo strattonò  per la manica su cui aveva la morsa delle dita. Gli veniva ancora impossibile immaginarsi  l'ex galeotto alle prese con l'educazione di una bambina. Insegnamenti? E cosa le aveva potuto insegnare, lui? A scalare le pareti e saltare dalle finestre? A fabbricare monetine contenenti minuscoli marchingegni utili ad evadere? Trattenne a stento una smorfia di ilarità, che camuffò con un colpo di tosse, nell'immaginarsi la giovane Cosette cimentarsi nell'arte del padre.

«Calmatevi ispettore, datemi il tempo di indossare i miei abiti…» ma l'impellenza di Javert gli diede giusto un minuto per infilare un paio di calzature e gettarsi addosso un lungo cappotto, poi lo tirò letteralmente via per l'avambraccio.

Le strade erano oscure, la fastidiosa foschia occludeva la vista, dunque Javert, per paura di far perdere Jean, il quale non conosceva affatto l'ubicazione del suo domicilio (le missive venivano infatti scambiate tramite un galoppino, che consegnava il tutto all'ufficio del gendarme), lo teneva stretto al pari di una madre col bimbo al momento dell'attraversamento.

Imboccarono finalmente il vicolo di Javert, dopo una sfrenata corsa furtiva tra le diramazioni parigine, entrambi col fiatone che si condensava in dense nebule vaporose a contatto con l'aria autunnale.

«Ah, datemi un attimo di tregua, Javert… dunque è qui che abitate? Al secondo piano, avete detto?» esclamò il più anziano, iniziando a perlustrare il perimetro della costruzione, mentre l'altro se ne stava piegato con le mani sulle rotule per riprendersi. Era peggio di quel che pensava, Jean… possibile che l'ispettore di Parigi vivesse in quella topaia tutta diroccata? Forse per quel motivo non l'aveva mai invitato a prendere un tè, e non perché trovasse sdegnoso avere in casa la sua presenza, bensì per le condizioni della casa stessa. Comprensibile, da parte di uno come lui.

«Sì, al secondo piano, quello lì…» replicò, indicandogli col bastone una delle impannate che davano sul viottolo.

«Capisco… e dunque, cosa vi aspettate che io faccia?»

«Dovete scalare, Valjean, arrampicarvi, entrare dalla finestra… come facevate trent'anni fa al Bagne de Toulon!»

«Ma Javert!» espettorò con un'espressione incredula in volto «non sono più un giovanotto, ho ormai sessant'anni, e se dovessi cadere da quell'altezza?»

«Vi prenderei io»

«Con tutto il rispetto Javert, ma ho una certa stazza, vi fareste male anche voi…»

«Intendevo, se finirete a terra, vi trascinerò di persona a La Morgue, non potrei certo lasciarvi qui!» replicò il gendarme, stizzito, temeva che Jean stesse solo temporeggiando. Cos'erano due piani di una palazzina, messi a confronto con le precedenti avventure di Valjean, l'uomo che pochi mesi prima aveva portato un giovane uomo sulle spalle, ripercorrendo tutte le fogne a ritroso?

«Javert… non è facile come pensate, ci avete provato, almeno?» domandò, appena appena spazientito. Poteva sopportare tutto di Javert, ma quando si faceva prendere dall'irrequietezza era davvero pesante.

«Assolutamente no!» asserì, sdegnato «sono un uomo per bene, non farei mai una cosa simile!» e intanto si stava ripulendo gli abiti dai residui d'intonaco rimasti.

«No ma certo, un galantuomo come voi…» ridacchiò sotto i baffi alla manifesta menzogna. Litigavano, ma sottovoce, come due scolari seduti ai primi banchi per non farsi sentire dal professore di spalle.

Jean si accostò nuovamente alla facciata e iniziò a tastarla, a impastare tra le dita i detriti di calcinaccio che si scollavano, ne controllava la consistenza e lo spessore.

«L'umidità la rende molto scivolosa…» fu il verdetto dell'ex galeotto, avvicinatosi all'ispettore per fargli vedere il frammento pastoso che teneva sul palmo della mano «ma ci proverò ugualmente, non sopporto di vedervi così rabbuiato»

Javert si rasserenò un pochino all'ultima affermazione del compagno, sciolse la posizione e alzò la testa, per guardarlo negli occhi: «siete un uomo dalle mille risorse… ma state comunque accorto, non voglio avere un altro morto sulla coscienza» gli sussurrò, la sua voce distillava gratitudine e mitezza.

Jean allora annuì, più sicuro di sé, e si tolse le scarpe, poi si appigliò alle prime bugne, coi piedi ben saldi sui battiscopa. Reggeva.

«Ah, Javert… posso cortesemente chiedervi... di guardare altrove?» chiese all'improvviso, fissando il poliziotto con la coda dell'occhio.

«Altrove? Perché?»

«Perché… perché! Non mi avete dato il tempo di indossare un paio di calzoni, mio caro ispettore, e sono un uomo riservato, così come voi siete un uomo pudico» spiegò, non senza vergogna; il lungo cappotto gli arrivava giusto a mezza coscia.

Javert si sentì avvampare all'improvviso e ringraziò che fosse notte, affondò ugualmente il naso nel bavero e gli diede le spalle.

«Avete ragione, perdonatemi…» biascicò in risposta, strabuzzando le  pupille a destra e sinistra, per assicurarsi che Jean non rientrasse in alcun modo nella sua visuale. Non poteva mentire a se stesso: Javert moriva dalla voglia di vedere Jean in azione, aveva solo sentito raccontare delle sue rocambolesche fughe da terzi, ed ancora non riusciva a capacitarsi di come fosse riuscito a scavalcare i muri del Petit-Picpus, quando lui l'aveva messo alle strette con un'imboscata molti anni prima. Voleva ammirare quei muscoli erculei intrecciarsi e pulsare sottocute per lo sforzo, le vene affiorare dalla pelle, le membra tese e coordinate, lo sguardo attento e spavaldo… ma il rispetto per la richiesta di Jean valeva  più di tutto ciò, per cui rimase lì, girato di schiena, irremovibile, quasi fosse un Orfeo in procinto di ritornare dagli inferi, con la promessa di non voltarsi mai verso la sua Euridice, pena la rottura del patto.

Dopo cinque minuti che gli parvero cinque secoli, udì il richiamo di Valjean e si voltò, con un sospiro di sollievo: l'uomo era a cavalcioni sul davanzale della finestra, sano e salvo.

«Ve l'avevo detto che sarebbe stato facile, per voi! Su, adesso apritemi!» mormorò, più coi gesti che con le parole.

Valjean restò seduto il tempo di riposarsi e di far svanire la sensazione di bruciore ai palmi di mani e piedi, poi saltò all'interno della casa, ancora più buia dell'esterno. Non conosceva l'ambiente, doveva orientarsi alla cieca, procedeva molto piano, a tentoni, tastando con le dita i contorni dei mobili che sfiorava, incespicando di tanto in tanto. Arrivato in quella che doveva essere la camera da letto di Javert, avvertì una strana sensazione, come se qualcuno o qualcosa fosse lì ad osservarlo. Si voltò di scatto, riuscendo giusto a cogliere un rapido movimento e poi due fessure gialle, catarifrangenti, fisse su di sé. Ma ciò non lo spaventò più di tanto, "sarà uno dei demoni di quell'uomo" pensò istintivamente. Quando sfiorò con il braccio il comodino, s'accorse che vi era una lampada ad olio, posata lì sopra, e non esitò a brandirla per accendere un piccolo lume; la tenne alta, così da illuminare una porzione di spazio più ampia, e si guardò attorno: inaspettatamente, la stanza di Javert, seppur povera e spoglia, era in perfetto ordine e, soprattutto, estremamente pulita. Il letto matrimoniale era aggiustato per la notte, i lenzuoli di lino candidi e piacevolmente profumati di Marsiglia, le varie divise da lavoro appese in un armadio, ordinatamente stirate, e gli abiti civili in un altro, anch'essi stirati. Sullo scrittoio vi erano i materiali da cancelleria e delle lettere aperte che Jean non osò leggere, poiché riguardavano il suo mestiere. Oltre a quello, vi era un tavolino più piccolo con specchiera, lucidissima, che doveva fungere da angolo della toeletta, poiché vi erano pettini, rasoi e qualche unguento. Doveva ammettere che, nonostante l'apparenza burbera e grezza, Javert aveva una certa cura per la sua persona: non l'aveva mai visto con le basette o i capelli scarmigliati, prima di quella sera. Mentre guardava come imbambolato il proprio riflesso nello specchio, scorse nuovamente la presenza adocchiata in precedenza e, grazie all'illuminazione, capì di cosa si trattava: un gattino. Nulla di cui preoccuparsi, ma trovava strano che Javert non gliene avesse parlato. Scrollò le spalle e tornò a perlustrare gli altri ambienti, non voleva far aspettare il gendarme più del dovuto. Giunse nella cucina che fungeva anche da soggiorno, anticipato dal felino che aveva iniziato a miagolare per attirare la sua attenzione, e trovò il pastrano con le chiavi appeso ad una sedia: afferrò il mazzo, trionfante,  e andò ad aprire prima la porta, poi, scese le scale, il portone esterno.

«Ah Valjean, quanto ci avete messo?» borbottò l'altro in tutta risposta, era rimasto sull'uscio con le braccia conserte, impaziente, le scarpe di Valjean pendenti da una mano; si infilò poi celermente nello spiraglio aperto da Jean.

«Il giusto, sapete? Uno dei vostri demoni mi ha guidato!» ridacchiò, mente risalivano i gradini.

«Che demone?»

«Un demone con pelliccia e occhi gialli, Javert… è vostro, quel gatto?»

«È una gatta, tanto per cominciare» sbuffò, lanciando a Valjean un'occhiataccia, segno che quell'argomento un po' lo metteva a disagio «non l'avete vista? È una tortoise, e le tortoise sono tutte femmine» esplicò, con un briciolo di saccenteria, ma un po' più tranquillizzato « e comunque sì, è mia».

Una volta entrati all'interno, Javert avanzò per primo, in automatico, senza neppure bisogno dell'illuminazione fornita da Valjean, forse per la meccanicità di quella routine che portava avanti da anni, o forse perché ormai le sue pupille si erano adattate alle tenebre, dopo miriadi di ronde notturne, ma ad ogni modo la metodicità e la precisione dei suoi movimenti lasciarono stupito Jean, rimasto un po' più indietro, ancora sullo stipite dell'entrata.

«Valjean, non restate lì impalato, venite dentro, non voglio che qualcuno vi veda così, sareste sospetto» lo incoraggiò il poliziotto, che intanto si era messo a ravvivare la brace nel camino con un tizzone, ignorando le feste euforiche della gattina che si era alzata sulle zampe posteriori e stava cercando di salirgli sulla gamba.

«Posso davvero, Javert?» domandò in tono retorico, chiudendosi l'anta alle spalle. Osservò in disparte, deliziato, quella scena: Javert, dopo aver attizzato il fuoco, vi aveva posto lì vicino un contenitore e una brocca in terracotta, probabilmente contenenti delle vivande, per farli riscaldare prima del consumo, e per terra, sempre lì vicino, una ciotolina più piccola, vuota, destinata sicuramente all'animaletto. Spostò poi due sedie, mettendole di fronte al focolare, e su una di esse appese il cappotto e il bicorno: ormai la temperatura si era alzata.

«Accomodatevi, Valjean, le vostre gambe saranno intirizzite» disse con calma, senza voltarsi. Il più anziano annuì e prese posto, il freddo e l'umidità gli erano penetrati nelle ossa e nelle giunture, causandogli un certo fastidio.

«Vi ringrazio, ispettore… ma non dovete…»

«Ah, tacete Valjean, mi avete fatto un grosso favore quest'oggi, vi offrirei di più se potessi, ma come potete ben vedere, ho poche cose. Ma buone» rispose l'altro che, seppur un po' impacciato non essendo avvezzo a ricevere ospiti, aveva preso un vassoio d'argento con un cognac e due snifter e l'aveva posato sul tavolo.

«Gradite, Valjean?»

«Non sono un bevitore, Javert, ma ne accetterò un goccio per cortesia..» replicò educatamente, brandendo uno dei calici per farselo riempire dal gendarme.

«Questo lo so, e nemmanco io… » rispose secco l'altro, riponendo la bottiglia. Nel frattempo, i due contenitori in coccio si erano scaldati il giusto, e Javert prese prima la brocca, per versare un po' di latte caldo nel piattino della gatta, e poi la pentola, che appoggiò sul desco; «era una delle cose che mi colpiva di voi, al Bagne de Toulon… che non spendevate mai quei pochi nichelini né in tabacco, né in liquori. Non avevate vizi, al contrario degli altri detenuti» spiegò nel mentre, con pacatezza.

«È stato questo ad… attirare la vostra attenzione?» osò chiedere l'altro, che beveva a piccoli sorsi l'alcolico.

«Anche, non lo nego. Erano tante le cose di voi che mi ossessionavano e che tuttora mi tormentano, Valjean…» sospirò, stanco e pensieroso, dopo essersi seduto anche lui, osservando oziosamente lo scintillare delle fiamme.

Valjean rimase un po' interdetto dall'ultima frase, faticava a decifrare le parole dell'agente, non capiva se avessero un'accezione negativa o meno, ne era mortalmente curioso, ma forse non era il caso di approfondire, temeva di vederlo crollare una seconda volta, dopo gli eventi della barricata.

«Capisco… ma non parliamo del passato, non voglio rattristarvi. Raccontatemi piuttosto della gatta, come si chiama?»

«Si chiama con un fischio» cioncò Javert, aveva improvvisamente ripreso l'asprezza di sempre, e aveva girato la testa in modo da non guardare il suo interlocutore negli occhi. Valjean storse un po' il naso, da quel poco che aveva visto i due interagire, aveva dedotto che Javert ci teneva alla creaturina, e che gli aveva fatto fare tutta quella corsa e l'arrampicata solo per premurarsi di darle il nutrimento, quando avrebbe potuto benissimo restare a dormire da lui. Possibile dunque che non le avesse neppure dato un nome?

«Intendevo, qual è il suo nome proprio… sapete, agli animali da compagnia si dà un nome, è un modo come un altro per renderli più vicini e parte della famiglia...»

«Non è un animale da compagnia… » asserì, ancora voltato « mi serviva un gatto… per acchiappare i sorci»

«Oh Signore, avete i topi in casa?»

«Forse»

«Javert…?»

«Cosa volete?»

«Oh, nulla, solo complimentarmi con voi per la pulizia e l'ordine di questa casa, mi ha davvero sorpreso… e dubito fortemente che ci siano i sorci»

Il gendarme rimase in silenzio per svariati minuti, scanditi solo dal crepitare delle braci. Il fatto che Jean si fosse detto "sorpreso" della pulizia dell'abitazione lo aveva leggermente urtato, dava per scontato di apparire come un uomo indipendente e capace di mantenersi da solo, senza una fantesca, l'idea che Jean avesse fino a quel momento pensato di lui come un uomo sciatto e disordinato, che non sa prepararsi un pasto o rifarsi il letto da solo, lo feriva. La realtà, ovviamente era un'altra: la sorpresa di Jean era dovuta ad un motivo più semplice, ovvero: non credeva che Javert avesse anche del tempo per pensare alle faccende domestiche, dopo tutto il lavoro extra di cui si caricava giorno e notte, e non che non ne fosse capace.

«Javert?» si alzò per riporre il bicchiere vuoto sul vassoio, poi posò una mano sulla scapola dell'altro, dandogli una gentile pacca, per assicurarsi che non si fosse addormentato.

«Scusatemi, ero soprappensiero» farfugliò, con una scrollata di spalle.

«Siete stanco?»

«Sembra di sì» i suoi occhi erano lucidi, ma preferì dire di aver sonno, piuttosto che ammettere di aver provato emozioni contrastanti.

«Lo immagino, il vostro lavoro è estenuante e rischioso, e io per questo vi ammiro molto, Javert. Non nego che la vostra dedizione alla giustizia mi abbia messo i bastoni tra le ruote per trent'anni, ma ormai è acqua passata, e non provo alcun rancore verso di voi. Grazie alla vostra costanza, Parigi è un posto molto più sicuro, per tutti, e di questo ve ne sono grato… ma adesso, fatemi un favore»

Le parole di Jean erano sincere, provenivano dal suo cuore ed erano dirette alla sua anima. Non poté nascondere un effimero sorriso di soddisfazione, Javert: ricevere un complimento del genere dalla sua nemesi aveva un impatto molto più intenso, rispetto a quello di un suo collega qualsiasi.

«Che favore, Jean?» domandò, col suo tono un po' rude. L'aveva persino chiamato per nome, senza accorgersene.

«Vorrei che mangiaste, ne avete bisogno… avete pensato alla vostra gattina, ma chi pensa a voi?» lo esortò, in modo incoraggiante, aprendo la cloche del tegame che conteneva un intingolo raddensato, al cui interno vi erano immerse delle costine di montone, che riempirono la stanza di un invitante profumino. Anche la gatta lo avvertì e si avvicinò a Valjean, strusciando i fianchi contro le sue caviglie.

«Avete ragione, certo… non è buona cosa saltare i pasti» si limitò a dire, passivamente, anche se le premure di Valjean lo rincuoravano e gliene era grato.

Si mise dunque a sedere al tavolo, afferrò uno dei pezzi di carne e si piegò per posarlo nella ciotola del felino, poi tuffò delle fette di pane raffermo nel sughetto, lasciando che si imbibissero.

Jean, per non metterlo in soggezione, conoscendo la riservatezza dell'uomo, preferì sedersi su uno sgabello e concentrare le proprie attenzioni sulla gattina, intenta a divorare voracemente la sua porzione tra mille miagolii.

Solo allora, più tranquillo, Javert iniziò ad addentare la sua cena; nonostante il vuoto allo stomaco che si protraeva da diverse ore, mangiava con calma, con gesti lenti e ponderati, senza mai abbuffarsi. Era contenuto in tutto, anche nella fame; finito di ristorarsi, raccolse le stoviglie sporche e le mise in una bacinella riempita con acqua e aceto, per lavarle. Era ormai l'una di notte passata, ed entrambi si lanciarono un'occhiata che voleva dire "è tardi, dunque che si fa?" ma fu Jean a parlare per primo: «Javert, devo chiedervi una cosa ma ho paura di farvi arrabbiare»

«Ah, se già cominciate così, potrei arrabbiarmi il doppio…»

«Per venire a recuperare le vostre chiavi, ho dimenticato le mie… » mormorò, ora lievemente imbarazzato.

«Dunque?»

«Dunque non posso tornare a casa e svegliare Cosette o la signora Toussaint…»

«A quello servono i portieri, Valjean, vi farete aprire da lui…» sbuffò Javert, incrociando le braccia al petto e fissandolo con un'espressione affettatamente seccata.

«Javert… cosa dirò al portiere se mi vede tornare alle tre di notte senza calzoni? Voi cosa gli direste in una situazione  simile?»

Effettivamente. Javert avvampò di nuovo, ricordandosi delle condizioni in cui l'uomo era uscito di casa. Questa volta poteva incolpare il calore del camino per il suo volto rubicondo.
«Potrebbe pensar male di voi, e le vostre donne potrebbero far altrettanto. Se poi avete vicini pettegoli, è persino peggio…» gli disse, annuendo con la testa, mentre camminava avanti e indietro per la stanza alla ricerca di una soluzione, come aveva fatto prima.

«Dunque Javert, volevo chiedervi di poter passare la notte qui» fece subito ad arrivare al punto.

«Santo cielo!» quell'esclamazione fu l'unica risposta. Avrebbe semplicemente voluto prestargli un paio di pantaloni, ma le loro taglie erano diverse, Javert era più alto e un po' più snello di lui, mentre Jean era più robusto, la differenza si sarebbe notata assai.

«Valjean, non saprei dove farvi dormire, non posso lasciarvi sul tappeto…» borbottò, visibilmente confuso, guardandosi attorno.

«Al Bagne de Toulon mi lasciavate dormire sulla dura pietra, il vostro tappeto è più che un lusso…» replicò l'ex galeotto, con una risatina un po' amara.

«Almeno vi lasciavo dormire! Non come voi, disgraziato, voi e le vostre fughe alle quattro di notte, che ci facevano destare tutti quanti al suono della sirena!» la fronte dell'ispettore era corrugata, ma l'intonazione, inaspettatamente, non gli era uscita poi così severa, anzi, Jean ebbe proprio l'impressione che Javert lo volesse motteggiare un po'.

«Ah, basta basta, non rivanghiamo certe memorie, non ora… piuttosto, ispettore, e se dormissi su quella poltroncina là?» chiese, e gli indicò la poltrona in pelle poco lontano dal camino. Il cuoio nero che la rivestiva, seppur di ottima fattura, presentava diversi graffi e strappi, molto probabilmente causati dal felino.

«No no, non se ne parla… appartiene a Bijou!»

«Bijou! Dunque è questo il nome della gattina! Ah ma non temete, Javert, non mi darà fastidio!»

«Valjean, non avete capito: voi dareste fastidio a lei» sbuffò, innervosito dall'essersi lasciato sfuggire il nomignolo non prettamente aitante della micia. L'aveva chiamata così perché gli era stato detto che le gatte con quel manto erano particolarmente rare, dunque gli era parso appropriato chiamarla come un gioiello, e perché la sua compagnia gli era preziosa. Tutte cose che non avrebbe mai esplicato ad un altro essere umano.

Rimasero lì, a fissarsi a vicenda, in un gioco di sguardi.

«Comunque, Javert…»

«Che volete, adesso?»

«Dovreste passare più tempo con Bijou… sapete, forse si sente un po' sola e per quello vi graffia i mobili, ha bisogno di uno sfogo…» gli spiegò con estrema calma, prendendo in braccio la gatta che aveva appena finito di mangiare. Javert li osservò, doveva ammettere che Jean aveva le mani d'oro, con qualsiasi cosa, bambini, animali, piante… ogni creatura sembrava gioire sotto il suo tocco. Lui, invece, era ancora un po' impacciato con le dimostrazioni di affetto, esse erano una delle tante cose che avrebbe voluto imparare da Jean, ma che non aveva il coraggio di chiedergli.

«Già, ma il mio lavoro sa essere imprevedibile, in certi giorni…»

«Lo so lo so, e non vi biasimo…ma qualora ce ne fosse bisogno, Javert, non fatevi remore a lasciarci Bijou per un po', Cosette si divertirebbe molto a giocare con lei. Sapete? Da piccola mi chiedeva sempre di prendere un cagnolino, o un gattino…»

«Sì, sì, ho capito, va bene…» lo interruppe subito, non voleva farlo continuare, gli avrebbe detto che a causa del suo pedinamento non si era mai potuto permettere un animale da compagnia, non l'avrebbe potuto abbandonare per una fuga improvvisa dalle grinfie degli sbirri.

Ancora attimi di silenzio, quasi che i due non volessero affrontare la questione principale, ma piuttosto attendere il sorgere dell'alba, ignorando i segnali che i loro cervelli impartivano. Il sonno era preziosissimo per Javert, che l'indomani mattina presto si sarebbe dovuto far trovare al dipartimento, e ne aveva già perse tre ore. Non poteva permettersi di farsi trovare al commissariato con occhiaie e sbadigli, questo era indiscutibile. Con un gesto risoluto si sciolse il nastrino che gli teneva i lunghi capelli chiusi in una coda, liscia ed elegante, lasciandoli ricadere dietro la schiena, e si avviò con passo deciso verso la propria camera da letto.

«Valjean, fate come volete, non posso stare qui appresso a voi per un altro minuto. Volete dormire sul tappeto? Bene. Volete dormire sulla poltrona? Ancora meglio. Vi suggerisco soltanto che il mio giaciglio ha due posti. Bonne nuit».

 

 

 

 

~Angolo dell'autore~


Bene. Se siete arrivat* fin qui, complimenti, è la seconda fiction che scrivo sul fandom ed è già un delirio, yuppie!

Dunque, la storia è ambientata in un what if/ post- barricate, in cui il nostro ispettore è ancora vivo, al contrario del romanzo. Lo so che far sopravvivere Javert è come ammazzarlo due volte, ma d'altronde le fiction esistono anche per questo, no? Per scrivere ciò che non è contenuto nell'opera originale. Non ho granché da dire a riguardo, se non che ormai ci ho preso gusto a scrivere autoconclusive su questa adorabile coppia, dunque ve ne sorbirete altre, tempo e ispirazione permettendo (?)

Sono ancora indeciso tuttavia se lasciare questa one-shot così come sta, o se provare ad avviare una vera e propria storia a più capitoli, e dunque dedicarmi ad un seguito partendo dal finale di questa... buh, voi che dite?

Non ho nient'altro da aggiungere, uh... ah sì, la fanart messa in testa alla pagina ovviamente non appartiene a me, link all'artista originale: https://twitter.com/genderfeel/status/1263119384832327680?fbclid=IwAR2kR3l1Z9yJX_m-aIcsdljae-l9_Q0PXbmgxzbXXI-9zZJTc7PQKpcu9Lg

Se volete lasciare un commento ve ne sarò grato, comunque!

Alla prossima!

~ Xavier
   
 
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