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Autore: blackjessamine    30/06/2020    7 recensioni
[Homer Landmann (OC)/Ole Nissen (OC)]
Distanze fatte a brandelli con un battito di ciglia.
Parole come ricami a ricucire strappi.
Ci sono legami che sopravvivono anche al silenzio.
[Raccolta partecipante alla "Things you said – Challenge", indetta da Juriaka sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Titolo: Naufraghi
Lunghezza: one-shot
Rating: arancione
Genere: romantico, malinconico
Avvertimenti: lime; la storia contiene spoiler del capitolo 6 di “Surya Namaskara", ma può essere letta anche autonomamente.
Prompt: 1. Things you said when we were scared



 
 
Naufraghi
 
 



Quando avevano lasciato la spiaggia sferzata dal vento, c’erano solo i ricci di Homer a farsi nido per le dita di Ole.
In quella camera d’albergo non c’era più spazio per le carezze in punta di dita: niente più vento, niente sabbia umida e compatta a cedere sotto i loro movimenti scomposti. C’era il mare, sulle labbra di Homer: un mare in tempesta, onde lunghe e assalti privi di ogni pudore mentre il materasso cedevole si faceva porto per quella nave alla deriva che erano le loro braccia intrecciate.
Dita ad annaspare lungo quelle cime di salvataggio che erano le loro spine dorsali, nell’ondeggiare inquieto di labbra dischiuse e sospiri soffocati in un gemito.
 
C’era il mare, sulle labbra di Homer, e Ole aveva fatto naufragio. Aveva fatto naufragio, e ad ogni assaggiarsi era come morire, morire d’una morte dolcissima nonostante i grani di sale. Avrebbe dovuto combattere, affondare le unghie in quei residui di consapevolezza che gli sussurrava che era tutto sbagliato, che lasciarsi annegare a quel modo era una follia: non c’era ritorno da quel naufragio e quei respiri salati stavano soffocando il legame di una vita. Avrebbe dovuto combattere perché niente cambiasse, perché il loro legame conservasse sempre quell’equilibrio capace di farli ritrovare identici oggi come ieri, a dispetto della distanza e del tempo.
Oppure avrebbe dovuto soccombere, soccombere a quella bramosia cucita fra una carezza e l’altra, a quelle dita che tracciavano confini e valicavano barriere di stoffa e pudore con la stessa forza inarrestabile del vento di burrasca. Ole avrebbe dovuto soccombere, lasciarsi trascinare alla deriva da quell’incontro ubriaco, attribuire l’audacia dei suoi sospiri al vino bevuto come una medicina e poi dimenticare. Fingere che quel goffo ruzzolare su un materasso estraneo a entrambi fosse solo un sogno sbagliato. Fingere che non sarebbe importato, che niente sarebbe cambiato, perché l’indomani sarebbe stato solo un giorno di addii e loro sarebbero tornati a misurare la distanza tracciando segni incerti su mappe troppo lontane.
Ole avrebbe dovuto combattere, ma Homer era un’àncora che avrebbe voluto ancóra, ora e sempre e poi di nuovo, e Ole combatteva contro mulini a vento cui non faceva nemmeno indossare la maschera di un nemico. Vincere o perdere avrebbe cambiato tutto e non avrebbe cambiato niente: la distanza avrebbe divorato ogni cosa, speranze e imbarazzi, macerie e carezze.
 
C’era il mare, sulle labbra di Homer, un mare che era solo grani di sale, il sale delle lacrime di Ole.
Lacrime sgorgate in silenzio, nascoste dalla stoffa degli abiti che si faceva barriera sempre più sottile, baluardo ormai inservibile.
Lacrime che erano l’unico segno tangibile che una battaglia era stata combattuta: vincitori e vinti erano bagnati dallo stesso mare, annegati nella stessa onda lunga di risacca.
Le labbra di Homer e quelle di Ole erano ciglia dischiuse: se uno assaggiava grani di sale, anche l’altro doveva assaporare quel golfo di lacrime. Ole lo sapeva, ma non era disposto ad ammetterlo, e fu con un gesto reso brusco dalla vergogna che si sottrasse a quell’abbraccio convulso.
Avrebbe voluto nascondersi – fuggire, sparire, forse un po’ anche morire – ma quella spoglia camera d’albergo non offriva appigli per celare le lacrime.
“Ole…”
Ole non voleva vedere il viso di Homer reso sottile dallo sgomento. Homer che non aveva mai paura, Homer che non conosceva il disagio, Homer che il mondo se lo rigirava nel palmo di una mano come se fosse un gioco da bambino.
“Ole”.
Homer che ora era tutto occhi spalancati, sporcati da una paura nuova. Homer che era solo mani protese in una carezza rifiutata, Homer che non si rassegnava allo sguardo di Ole che lo fuggiva.
“Ole, scusami, io…”
“Non toccarmi!”
Ginocchia strette al petto e capo chino a tentare di difendersi da un assalto che era solamente panico immotivato. Ole si fece quanto più lontano possibile, dando le spalle alla figura svuotata di Homer, e cercò di soffocare il suo affanno in quel silenzio carico di imbarazzo. Di imbarazzo, e di tutte quelle parole che negli anni erano rimaste sospese, di quei gesti soffocati a metà per non spezzare la bellezza fragile di un’amicizia che aveva sempre sporcato i suoi piedi in qualcosa che non s’erano mai detti, ma che c’era sempre stato.
 
“Ole… dimmi cosa posso fare per farti stare meglio”.
Stringimi fino a quando non riuscirò più a pensare.
“Dammi un minuto…”
Il pianto aveva reso quell’implorare ridicolo, ma a Ole non importava: come poteva importargli di non risultare ridicolo, quando la loro amicizia stava per essere soffocata – era già stata soffocata – da ciò che per anni non si erano detti, e che ora era esploso fra le loro dita come uno scherzo riuscito male.
 
E poi una mano, una mano calda nonostante il tremore cercò e trovò quella di Ole, stringendola forte.
“Ole… guardami, per favore. Per favore…”
Il tremore in quella voce di solito così ridente, così sicura e capace di resistere intatta a qualsiasi colpo della vita convinse finalmente Ole a mettere ordine fra i suoi respiri e abbandonare il rifugio delle proprie ginocchia per andare incontro al viso di Homer.
“Vuoi che ti riporti a casa?”
Casa era un posto fatto di disagio e silenzi sbagliati, un posto dove il mare urlava discorsi muti, e dove nessuno sembrava capire cosa significasse avere le labbra spaccate e coperte di sale.
C’era il mare, sulle labbra di Homer, e i suoi occhi erano fari così luminosi che Ole non li riusciva a guardare.
“Quando hai il volo per tornare a Singapore?”
Ole lo sapeva, ma aveva bisogno di una scusa. Di un appiglio a cui agganciare la propria volontà per trovare il coraggio di pronunciare le parole che gli ardevano in gola.
“Domani, alle tre”.
“Vuoi che ora me ne vada?”
Se Homer avesse annuito, forse sarebbe stato tutto più semplice. Forse sarebbero stati ancora in tempo per considerare quel bacio sulla spiaggia uno scherzo alcolico, e ci sarebbe stato ancora spazio per una mareggiata che salisse a cancellare ogni traccia di quel loro cercare il mare anche fra le lenzuola.
“Vorrei che tu restassi con me fino a quando salirò su quel maledetto taxi che mi porterà in aeroporto. Vorrei che l’ultima immagine che mi porterò a casa da Portland fossi tu. Vorrei non dover mai più ripartire. Ma più di tutto, vorrei saperti sereno”.
La stretta delle loro dita si allentò per il tempo che a Homer servì per far scivolare la sua carezza a raggiungere la guancia di Ole, un’onda lunga di risacca dai contorni morbidi.
“Ho paura".
Le carezze di Homer si fecero dita che tracciavano disegni leggeri, a tratti esitanti, sulle palpebre serrate di Ole, sulla sua fronte, fra i suoi capelli che ancora conservavano l'impeto del vento.
“Non cambierà niente, e lo sai, perché sono sempre io, e sei sempre tu, e siamo sempre noi che ci troviamo anche quando viviamo nei continenti sbagliati".
Ole aprì gli occhi, leggendo in quelli di Homer tutta la luminosa verità di quelle parole: non sarebbe cambiato niente, o forse sarebbe cambiato tutto. E l'indomani ci sarebbe stato un taxi che Ole avrebbe guardato partire, gli occhi fissi sulla massa bruna dei riccioli sul sedile posteriore. E ci sarebbe stato un aereo, e tutte quelle miglia di cielo e di mare che avrebbero scavato solchi di sale sul suo viso, e quelle miglia lui le avrebbe maledette tutte, tutte tutte.
Ci sarebbero stati altri anni di silenzio, anni fatti di vite ormai autonome vissute con un angolo di cuore sempre rivolto a un nome sottolineato con la penna rossa su una cartina geografica. E poi ci sarebbe stato un altro incontro casuale pianificato con cura, e forse avrebbero imparato ad assaggiare il mare l'uno sulle labbra dell'altro.
 
Non rifletté, Ole, ma il suo sottrarsi alle carezze di Homer fu solo un istante. Il tempo di un respiro, prima di tuffarsi in quel mare tiepido e sentire il corpo di Homer lasciarsi sospinge con malcelata soddisfazione all'indietro, lasciarsi premere contro quel materasso estraneo, senza riuscire ad essere davvero sorpreso dalla vorace disperazione di quel bacio che non lasciava spazio nemmeno al pensiero.
 
C'era il mare, sulle labbra di Homer, e quella notte avrebbero imparato ad annegare cento e mille volte, assieme.
 
 



 
Note:
Ho un po' di cose da dire su questa storia in particolare e sulla raccolta in generale.
 
Innanzitutto, questo è il mio (maldestro) tentativo di rispondere all’obbligo suggeritomi da Rosmary nell'ambito del gioco “Obbligo, verità o salvataggio" organizzato dal gruppo Facebook “Il Giardino di EFP, dove lei mi aveva chiesto di scrivere una drabble o una flashfic (mi sono fatta un po' prendere la mano) ispirata alla citazione “Vi hanno detto che è bene vincere le battaglie? | Io vi assicuro che è anche bene soccombere, che le battaglie sono perdute nello stesso spirito in cui vengono vinte” tratta da Il canto di me stesso di Walt Whitman.
 
Il titolo della raccolta si rifà a un verso della canzone “Dimmi” dei Sulutumana, che io trovo particolarmente adatta a raccontare il personaggio di Homer.
 
La raccolta fa parte della serie “Surya Namaskara", che prende le mosse dalla long omonima: dopo lunghissime riflessioni e cambi di idee ho deciso di pubblicare questa raccolta nella sezione dedicata alle storie originali perché, sebbene i personaggi siano nati nell'ambito di una fanfiction su Harry Potter, sono del tutto originali, e l’ambientazione canonica non inciderà minimamente sulla raccolta. Così facendo ho dovuto ovviamente apportare qualche modifica al mio stesso universo narrativo, ma si tratta di dettagli di poco conto.
La raccolta sarà di natura piuttosto variegata, toccando lunghezze e generi piuttosto diversi e prendendosi la libertà di piegare il “mio” canon alle situazioni di cui voglio parlare; per ora mi sono tenuta sul rating arancione, ma preferisco chiarire subito che non escludo a priori di alzarlo a rosso, in seguito, quindi nel caso giustamente non vi andasse di iniziare una lettura che in seguito non potreste proseguire vi avverto subito che esiste questa possibilità.
Infine, questo capitolo in particolare è da intendersi come un vero e proprio missing moment che va a raccontare quanto taciuto al termine del sesto capitolo della long, ma che spero sia comprensibile anche da solo: nel caso, vi lascio giusto due coordinate rapidissime: dopo anni di separazione e di sforzi per mascherare il loro legame da semplice amicizia, Ole e Homer si ritrovano assieme per una sola notte, a fare i conti con un legame che è sempre esistito ma che rischia di rovinare ogni cosa.
 
 

 
   
 
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