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Autore: The Custodian ofthe Doors    30/06/2020    5 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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!Attenzione! Capitolo particolarmente lungo e denso.Di nuovo, sì, lo so che comincio a stavve sui santissimi.







Capitolo XI- Mother.
 
 
 
 
 
La stanza era buia e rossastra, aveva spento tutte le lampade e l’unica fonte d’illuminazione era il camino che crepitava quieto, le braci ormai quasi spente.
Le pareti erano tinte di bruno, l’odore del fuoco si mischiava quello flebile della persona che se n’era appena andata.
Si poggiò con la schiena contro la porta, facendo scattare la serratura alla cieca, storcendo il polso in una posa fastidiosa che però lo lasciò indifferente.
Era stanco, svuotato di ogni energia, di ogni forza, di ogni voglia. Perché era ancora in piedi? Perché non si era già lasciato scivolare a terra, addormentandosi sul pavimento come un cane da guardia?
Oh, suo nonno non l’avrebbe presa bene, per niente, e non dubitava che la servitù sarebbe corsa ad informarlo. Non voleva sentirlo, le lamentele, lo sguardo deluso, essere sgridato come un bambino che- che in fondo forse ancora era. Sedici anni sono così pochi per un essere umano eppure gli parevano una vita lunghissima ed estenuante.
Non voleva che sua madre si preoccupasse, pensò d’improvviso. Già se la vedeva davanti, seria e attenta, che gli domandava cosa ci fosse che non andava, perché si stava comportando in quel modo, perché pareva aver perso interesse per ogni cosa. Preoccupata, sì, come lo era sempre stata per lui, per loro, per la loro vita. Se solo avesse avuto anche un quarto della forza di sua madre non si sarebbe trovato in quella scomoda posizione.
Perché era ancora lì?

Batté le palpebre e poi le tenne spalancate, lo sguardo fisso nel vuoto, a sfocargli la visa, sino a far seccare l’occhio. Ma non li avrebbe chiusi, no, non l’avrebbe più fatto. La prossima volta che avrebbe chiuso gli occhi non sarebbe più stato lì, non sarebbe più stato in pericolo, non sarebbe più stato in quell’inferno. Avrebbe chiuso gli occhi solo una volta in salvo, questa era la sua intenzione, la sua silenziosa promessa a sé stesso.
Come un automa si volse e riaprì la porta, camminando con passi leggeri e lenti. Pareva un condannato a morte che si dirigeva al suo patibolo, pronto ad affrontare il giudice e tutti i giurati, pronto a vedersi elencare i suoi peccati e le relative pene.
Il corridoio era lungo, freddo, blu e vuoto, un contrasto incredibilmente stridente con la sua camera che ancora calda, profumata di vita e di fuoco, di una passione che si era accesa pian piano ma inesorabilmente, rossa e piena, piena di qualcosa che non l’avrebbe più riempita.
Nessuno sarebbe più entrato in camera sua, a trovarlo, non sarebbe più stato lì ma altrove, lontano da tutto il male che il mondo, l’uomo, sapeva generare. Lontano dai mostri che abitavano la sua città, il suo paese.
La sua meta era lontana come ogni cosa in quel palazzo silenzioso. Anche se circondato di mobili e pezzi d’arte di lusso non riusciva davvero a sentirsi felice, al sicuro,
a casa. I quadri avevano volti severi, sguardi freddi, i riflessi sui vasi opachi, i tendaggi alle finestre pesanti come una coltre soffocante.
Voleva solo scappare di lì, come il codardo che era, come il bambino spaventato che era.
Quando si fermò davanti alla porta decorata ad arte Jonas tentennò. Doveva farlo davvero? Non c’era altro modo per scappare? Non aveva alcuna alternativa? Avrebbe mai potuto combattere e vincere quella guerra? Quella vita che non andava bene, quel sogno così lontano, così fumoso, così… bello e doloroso. Se fosse rimasto, se fosse rimasto anche solo un altro giorno sarebbe morto di dolore, sarebbe caduto in basso, nel fango, percosso, umiliato, torturato ed ucciso… e non sarebbe toccato solo a lui.
La mano che si poggiava sulla maniglia congelata fu la fine di tutto. Da lì non c’era più ritorno.

 
 
 
 
Lea batté le palpebre, la vista che tornava lentamente al mondo crepuscolare dell’Ade, la sensazione dell’erba sotto le suole di cuoio, degli steli che le solleticavano le gambe.
Davanti a lei Jonas la fissava con la stessa espressione stupita e sconvolta con cui l’aveva raggiunta, la paura così palese nei suoi occhi da esser terrore puro.
Balbettò qualcosa che Lea non riuscì a capire, troppo stranita da tutta quella situazione, dal modo altalenante con cui parlava, come le parole sembravano incepparsi contro i suoi denti e nel modo in cui la erre scivolava tra essi più marcata, più sibilante. Jonas aveva la erre moscia? Davvero? Perché non se ne era mai accorta? Com’era possibile?
Con un colpo di fulmine a ciel sereno Lea si rese conto di non riuscire a capire quei balbettii perché il ragazzino aveva ricominciato a parlare in tedesco, come se la comprensione omnisciente dell’Inferno fosse scomparsa da lui, da loro. Le ci volle un attimo per ricordarsi che lei, il tedesco, lo sapeva, che anche se non lo sentiva più parlare da tantissimo tempo, quelle parole le erano estranee quanto famigliari.
Sentiva le proprie mani tremare, tanto erano forti gli spasmi che lo scuotevano in quel momento e la figlia di Apollo non ci mise molto a riconoscere i segni di una vera e propria crisi isterica.
Il volto di Jonas era pallido di morte e di paura, profondi cerchi viola contornavano i suoi occhi e le labbra quasi blu. C’era uno strato di sudore lucido sul suo volto, una patina sottile sulle sue mani. Il rumore dei denti che battevano una corona contro l’altra così forte che Lea ne era sicura, anche Cade da così lontano poteva sentirlo.
Jonas teneva le mani serrate sulla sfera ma anche sulle sue di mani, stringeva così tanto da infilarle le unghie corte e spezzate nella pelle, tanto da farle male, da graffiarla, da ferirla. Ci volle poco prima che le mezzelune rossastre si riempissero di minuscoli puntini rossi, neanche un minuto prima che il sangue salisse in superficie e formasse uno strato gonfio e tremolante lì dove le unghie del ragazzino erano slitte via graffiandola.

«Jonas? Jonas, tesoro, va tutto bene. Va tutto bene, ragazzo, tranquillo. Jonas?» l’infermiera provò a chiamarlo con voce ferma e sicura, come aveva imparato a fare così tanti anni prima da esser diventati secoli.
In sé, Lea aveva sempre covato una dualità che aveva fatto ridere di cuore suo fratello: era confusionaria, un po’ infantile, s’arrabbiava per le piccole cose e ti rispondeva come fosse una ragazzina. Di comportamenti da signorine ne aveva davvero pochi, le ripeteva Giuseppe, ed era molto più facile che rompesse o perdesse qualcosa piuttosto che azzeccasse un passaggio. Eppure, quando si trattava di medicare, di aiutarlo con i pazienti, di salvare vite, il medico non avrebbe voluto nessun altro al proprio fianco che non fosse quella sorellastra che, all’atto pratico, era diventata sua figlia. Perché Elena era confusionaria ed infantile, era tante cose, ma non appena c’era bisogno di lei, non appena la situazione si faceva difficile, si faceva seria e delicata, entrava in una modalità che dire “medica” era poco. Era proprio quello il termine “la versione seria e medica di Lea”, il momento in cui scattava l’interruttore e lei diventava un infermiera, una guaritrice, una figlia di Apollo votata alla salvezza e alla salvaguardia di chi aveva bisogno di lei.
Si scindeva in due parti, in due perfetti opposti, e se qualcuno si era domandato come fosse possibile, se qualcuno si era stupito, Giuseppe aveva sempre risposto la stessa cosa:
 
«Anche il sole ha due lati, due personalità. Bacia le terre fertili, scioglie la neve e porta la vita, ma d’altra parte brucia le terre arse, incendia la steppa, prosciuga le oasi. Il Sole non è mai solo buono e luminoso, se lo fissi per troppo tempo diventi cieco.»
 
Quell’interruttore era scattato ancora una volta dentro di lei e la ragazza allegra e gioiosa che era corsa incontro al compagno per consegnargli un ricordo perduto era appena scomparsa in favore della professionista che era in lei.
Veloce ed efficiente Lea tolse le mani dalla sfera, ignorando i graffi più profondi che si sarebbe procurata in quel modo, e strinse con sicurezza le mani attorno ai gomiti di Jonas, per poi costringerlo a sedersi a terra.
 
«Fai respiri profondi, solo con il naso, non respirare con la bocca. Distendi la testa, così, indietro, verso l’alto. Ti vuoi sdraiare?» glielo chiedeva con gentilezza, sfregandogli le mani sulle braccia tese all’inverosimile. Cosa diamine aveva visto di così scioccante in quel ricordo? Avevano visto la stessa cosa, la stessa scena, probabilmente condividendo gli stessi sentimenti e lo stato d’animo di quella notte, ma Lea non aveva visto nulla di sconvolgente, nulla di atroce. Che fosse stata quella porta, l’ultimo frammento di ricordo, a farlo tremare così nel profondo, in modo così feroce? Cosa si nascondeva dietro a quell’uscio?
La sua mente lavorava febbrilmente e nel frattempo, senza neanche rendersene conto, le sue labbra si muovevano appena mormorando canti curativi, calmanti, antidolorifici.
Che oltre quella porte si nascondesse la sua morte?
Aveva capito che Jonas voleva scappare da una situazione pesante e opprimente, che c’era una guerra che era convinto di non poter vincere, che il suo governo e i suoi stessi concittadini erano votati ad un male che avrebbe messo in ginocchio tutto il mondo. Era anche più che ovvio ormai che fosse quella la sua colpa: Jonas era scappato invece di affrontare la guerra, se si fosse trovato nell’inferno cristiano a quest’ora sarebbe stato immerso nel ghiaccio assieme a tutti i traditori perché fuggire lasciando famiglia e popolo a sé era ritenuta una delle più grandi onte possibili; quindi c’era il suo assassino in quella stanza?
 
«Continua a respirare, non ti fermare. Chiunque ci fosse dietro quella porta ora non può più farti del male, mi hai capito Jonas? Non può farti nulla, non può ferirti.» provò allora.
Il ragazzo però non accennava a volersi calmare o anche solo a sentir la sua voce.
Con un moto di stizza Lea si disse che probabilmente stava sbagliando qualcosa, che doveva trovare un altro modo per far star bene il suo paziente, per farlo calmare. Ma come?
Mordendosi la lingua si diede dell’idiota: volva tornare alla sua vecchia vita, dimostrare di essere alla pari di tutti quegli uomini che si erano potuti arrogare il diritto di essere medici mentre a lei era stato concesso solo di fare l’infermiera e ora non riusciva ad aiutare qualcuno che, all’atto pratico, reputava un amico?
Vedere Jonas così piccolo e così spaventato – di nuovo – la faceva sentire piccola e vulnerabile a sua volta, come quando da bambina vedeva cose strane, mostri demoniaci che non esistevano, non potevano esistere, e nessuno le credeva. Si sentiva impotente come troppe altre volte nella sua vita Ma ora non c’era tempo di autocommiserarsi, non c’era tempo per rivedere tutti gli errori della sua vita, poteva solo dare il meglio di sé e far sì che questo meglio bastasse.
Quindi la domanda era: cosa aiuta una persona a superare una crisi quando questa non ha nessuna soluzione fisica? Quando è tutta nella nostra testa?
La paura irrazionale che stava provando Jonas era tutta nella sua mente, non c’era nulla che potesse ferirlo, nulla che potesse fargli del male. Questo era un punto fondamentale.
 
«Jonas, ascoltami, continua a respirare ma ascoltami: non c’è niente attorno a noi, vicino, lontano, non c’è nulla. Siamo nelle Praterie degli Asfodeli, le sfere di Ermes sono disperse per tutti i campi, miglia e miglia, ettari ed ettari. Non c’è nessuno vicino a noi, nessuno che possa farti del male. Qualunque cosa ti abbia ferito, qualunque cosa ti abbia portato alla morte non è qui. Chi ti ha fatto del male non è qui, hai capito? Chiunque ti abbia ucciso non c’è più, non è qui, sei al sicuro. Ci siamo solo noi e-»

Cade.
 
Perché Cade non era lì con lei? Perché quello che sicuramente era il più vicino a Jonas, che l’aveva preso sotto la sua ala e teneva a lui tanto da esser scambiato per suo fratello, non era lì con loro? Perché non era inginocchiato vicino a quel ragazzino a tenergli le mani e dirgli che fosse tutto apposto, che non c’erano pericoli?
Lea voltò la testa per cercare il rosso con lo sguardo ma non lo trovò più, non lo vide da nessuna parte esattamente come non aveva più visto entrambi quando si era allontanata attirata dal fruscio di una lepre inesistente.
Dove diamine era finito Cade? Perché non c’era nel momento del bisogno?
L’immagine di due figure stagliate spalla a spalla, una voltata da un verso ed una dall’altro, le riaffiorò lentamente come un vecchio ricordo dimenticato.
Elena abbassò lo sguardo su Jonas, pallido, tremante, quasi cianotico in volto e si ritrovò a chiedersi come diamine fosse possibile che quel ragazzino riuscisse sempre a litigare con tutti nei momenti meno opportuni.
 
Dove diamine sei? Mi serve il tuo aiuto. Gli servi tu.
 
Il vento fantasma sfiorò i prati neri e mosse l’erba scura. Attorno a loro c’era solo il silenzio della morte.
 

 
*



«Che cazzo ha sta volta?»
Eliza sospirò e si voltò a guardare il suo compagno scocciata. «Ne senti proprio il bisogno?»
Nathan si strinse nelle spalle. «Sei stata anche tu nell’esercito, avrai sentito di peggio.»
La donna storse il naso. «Non me lo ricordare, gentilmente.» poi espirò più pesantemente. «A che cosa ti stavi riferendo?»
Il soldato neanche la guardò. «Il roscio, che problema ha? Sono di nuovo le Praterie? Questa è la volta buona che ci esce pazzo e lo possiamo mollare qui in questo posto di merda?»
L’altra scosse la testa. «Non impazzirà, questo è poco ma sicuro, non ho chiesto a Lea di andare con lui per caso.»
«E pure al moccioso.»
A quell’affermazione Eliza si volse a guardarlo con un sopracciglio alzato, un piccolo sorriso ad increspargli le labbra. «Fai molta attenzione a quello che succedere “al moccioso”. Hai deciso di prenderlo sotto la tua protezione?» gli domandò.
Nathan grugnì. «Non dire cazzate. Se dovessi prendere lui sotto la mia protezione mi prederei pure quella palla al piede di un pazzo irlandese. Tsz, dieci volte.» borbottò ironico.
«Non puoi darla a bere a me, Wright, riconosco quando un superiore tiene d’occhio un cadetto.»
«Ma lui non lo è. Anche se sono certamente più forte, più grande, più esperto, intelligente e gli dei solo sanno cosa più del marmocchio, questo non fa di me il suo superiore in grado e di lui il mio cadetto. Non ci sono gradi qui. Se ci fossero forse sarebbe un mozzo. Anzi, no, Cade sarebbe un mozzo e lui un soldatino appena spedito all’accademia militare da un paparino pieno di soldi.»
Di nuovo, però, Eliza non ci cascò. «Hai avuto tanti bambini sotto il suo comando quando eri al Campo?» chiese cono tranquillità spostando qualche ciuffo più altro per trovarvi in mezzo residui di sfere rotte. Strinse le labbra e andò oltre, quel ricordo, quell’anima, erano ormai perduti.
Un altro grugnito le fece capire di aver centrato il punto.
«Eravamo tutti bambini…»
La voce bassa, strascicata e nostalgica con cui lo disse la spinsero a fermarsi e voltarsi verso di lui.
Nathan teneva la testa alta, il portamento ritto e fiero che aveva sempre avuto da quando l’aveva conosciuto, eppure i suoi occhi erano vacui, persi chissà dove, in chissà quale ricordo, quale momento della sua vita in cui era un bambino con più paura che denti in bocca, quando non era ancora abbastanza forte per sopravvivere da solo, figurarsi per vivere una vita normale.
C’erano passati tutti, presupponeva, in un periodo della vita in cui non si era capaci di fare nulla, non si era in grado di alzare il capo e dire di no, di non esser sopraffatti.
Quando Eliza si era arruolata aveva dovuto rinunciare a tutto ciò che aveva, persino e soprattutto a sé stessa. Non era più stata Elizabeth Reed, figlia del Colonnello Philip Reed, era diventata solo uno dei tanti soldati di fanteria delle Colonie unite. La sua vita si divideva in due grandi parti, quando era solo la figlia di un militare, che passava la maggior parte del tempo sola, che si allenava come poteva con il sogno di rendere libero il suo paese proprio come faceva suo padre, quando scappava da mostri che una giovane ragazza dai capelli bianchi come neve le aveva detto esistere e quando era un soldato.
C’era stata una vita in cui faticava giorno e notte per essere forte ed una vita in cui, finalmente, quella forza poteva esser mostrata, poteva esser utile a qualcosa. 
Eliza non aveva mai avuto troppi amici, una femmina che fa cose da maschio non suscitava troppa simpatia, specie se quella femmina era lasciata allo sbaraglio, senza una figura maschile che potesse indicarle la giusta via da percorrere, senza una madre amorevole e devota che attendeva il proprio marito chiusa in casa a pregare per lui e crescere la loro prole.
Non c’era stato un momento in cui qualcuno le aveva spiegato davvero le cose, sua madre era apparsa una volta, le aveva detto chi era, com’era fatto davvero il mondo e poi era scomparsa, persa per anni prima di riapparirle sul campo di battaglia e dirle che aveva fatto un buon lavoro. Eliza non era stata addestrata, né come semidea né troppo come soldato. Era stata buttata in campo ed aveva combattuto con tutte le sue forze, come se non ci fosse un domani. Perché effettivamente, un domani, non era mai certa di poterlo vedere.
Guardò Nathan per un lungo momento e si chiese come doveva esser stato trovarsi tra propri pari, tra ragazzi e ragazze della sua stessa età, in grado di fare cose straordinarie, in grado di capire com’è sentirsi fuori dal mondo ma anche terribilmente dentro di esso, diviso tra due verità che pochi possono conoscere e che ancora meno riescono a comprendere.
Lei aveva combattuto fianco a fianco con giovani di tutte le età, in un periodo storico in cui andare in guerra a diciassette anni era la norma, in cui se c’era bisogno ne potevi avere anche sedici, anche quindici. Com’era stato esser protetto da qualcuno? Quando la tua unica colpa era l’esser troppo piccolo, non ancora abbastanza grande, e non esser nato donna? Cosa si provava a combattere vicino a fratelli e amici legati al tuo stesso destino da un filo invisibile, aver tutti le stesse possibilità, tutti lo stesso ruolo…
C’era solo una cosa che probabilmente non cambiava da qualunque prospettiva la si vedesse: tutti loro, i suoi compagni, quelli di Nathan, erano morti troppo giovani.
Che fossero ragazzini pronti a liberare l’America dagli Inglesi e dal Colonialismo o ragazzini pronti ad uccidere il prossimo mostro e liberare per un po’ quella terra di nessuno che era il mondo. Tutti loro, tutti quanti, erano morti troppo preso.

«Hai perso molti compagni? Semidei intendo.»
Nathan scosse la testa. «Non molti. Mi pare di avervelo già raccontato a te e al roscio malpelo, potevi uscire dal Campo e dalla sua cupola protettiva solo con una missione assegnata, e se non eri forte nessuno ti chiedeva nulla.» disse spiccio. «La maggior parte di noi, dei ragazzini che uscivano dal Campo per non farvi più riorno, erano quelli che tornavano a casa.»
Eliza si accigliò. «Tornavate a casa? Credevo che rimaneste sempre lì.»
Un altro scuotere di testa. «Dei dell’Olimpo, no, no. Forse sarebbe anche stato meglio, se non eri abbastanza forte era la tua unica possibilità di sopravvivere. Però le cose funzionavano così: arrivavi al Campo, se ti diceva culo tuo padre o tua madre ti riconoscevano, se no finivi nel carro bestiame di Ermes, sto stronzo alato, e rimanevi lì finché chi t’aveva messo al mondo non avesse finito di farsi fare la manicure e si degnasse di dire a tutti che “oh, sì, cazzo, è vero, ho procreato anche st’altro sfigato di merda”. Ti addestravano, almeno le lezioni base le dovevi fare e poi stava a te scegliere se continuare l’addestramento o meno. I periodi peggiori erano i mesi estivi, i mostri escono come le cazzo di zanzare, così ci facevamo tutti le vacanze lì. Poi a fine estate potevi scegliere se rimanere o tornartene a casa a fingere di avere una vita vera. Se decidevi di andare non era detto che tornavi.»
Forse non l’aveva mai sentito parlare così tanto e così velocemente da quando si erano incontrati ma ad Eliza non le ci volle molto per capire che, in un qualche momento della sua vita, qualcuno di caro a Nathan avesse deciso di uscire dal Campo Mezzosangue per non far più ritorno. C’era amarezza, c’era rimpianto nella sua voce, rimorso anche. Si colpevolizzava di qualcosa che forse avrebbe potuto evitare, molto più probabilmente no.
«Perdere soldati è normale, specie in guerra. Non so molto del nostro mondo ma so per certo che per noi semidei non c’è mai la pace. Né nella vita né tanto meno nella morte.»
Nathan strinse i denti e annuì. Aveva completamente ragione, ma non volle dirlo ad alta voce, non volle far sentire anche agli Dei quanto questa continua lotta gli fosse divenuta amara e odiata quasi cinquant’anni prima, quando il suo mondo era crollato.
«Sbrighiamoci a trovare queste sfere di merda, mi sono già rotto il cazzo di queste fottute Praterie.»

 
*
 


Quella nuova divisione delle coppie non gli era piaciuta, non gli era piaciuta per niente.
Úranus sospirò allungando il collo il più possibile per scorgere ciò che lo circondava: nulla.
Prati e prati neri, poche anime pallide che si aggiravano tra gli steli mossi dal vento fantasma e ancor meno sfere luminose sparse tutte attorno.
Se avesse dovuto dare un tempo avrebbe detto che erano lì dentro come minimo da un giorno, pescando dalla sua memoria i racconti di suo padre sullo scorrere delle ore nell’Ade avrebbe detto anche tre giorni. Era così difficile da capire e ancor più difficile era comprendere il bisogno spasmodico di cronometrare le proprie azioni come gli uomini avevano sempre fatto.
Era essenziale capire quanto servisse per svolgere un’azione, quando fosse il momento adatto per ogni mansione. Úranus ricordava la campana della chiesetta del suo paese suonare all’alba assieme al canto del gallo, quando Apollo raggiungeva lo zenit del suo pellegrinare ed in fine quando il sole calava.
Scandire il tempo.
Non aver più tempo.
Aver tutto il tempo del mondo.
La sua vita era stata tutta vissuta in attesa del momento giusto, un allenamento costante in vista di quella corsa finale che avrebbe decretato il suo trionfo o la sua morte. Il momento in cui i mostri l’avrebbero attaccato con più ferocia e si sarebbe dovuto difendere, avrebbe dovuto proteggere sua madre ed il bambino che portava in grembo. Era ironico che, alla fine, malgrado si fosse preparato a sfoderare la spada contro le bestialità del Tartaro, erano stati occhi di comuni mortali quelli che l’avevano condannato.
Non c’era stato tempo per pensare, per discutere, per ordire piani e fughe. Aveva visto tutto il suo tempo scivolare via, scorrere attraverso il lungo collo di quella clessidra che, improvvisamente, si era fatto largo come un pozzo e aveva fatto precipitare tutta la sua sabbia nella coppa inferiore, a terra, nella polvere, nuovamente polvere, la morte.
Ora non vi era più nulla da perdere, non vi erano astri che fuggivano la luce del Sole per rincorrere quella della Luna, non vi erano campane e canti di galli. Aveva tutto il tempo del mondo, così com’era sempre stato per Thanatos.
Il pensiero del tristo mietitore gli solleticò la mente con gentilezza, portandolo ad abbassare lo sguardo triste sulla polvere bianchiccia che s’alzava ad ogni passo. La vita era così effimera…
Più Crono muoveva gli ingranaggi delle sue spietate macchine, più le sfere diminuivano. All’avanzare nelle profondità delle Praterie i ricordi andavano affievolendosi ed Úranus si domandò improvvisamente se coloro il cui tesoro si nascondeva al limitare di quel regno fossero più soggetti alla sconfitta o se fossero destinati alla vittoria. Qual era la verità? I ricordi più distanti erano comunque perduti per sempre, poiché i loro possessori arrivavano troppo stremati e confusi per riconoscerli come propri? Oppure erano i ricordi dei più forti e valorosi, degli unici che sarebbero potuti effettivamente arrivare così lontano?
Sempre meno sfere, sempre meno gocce luminescenti in quel cielo nero.
C’erano anche i loro? Avevano ancora la possibilità di superare la prova? Le loro sfere erano già state distrutte dalla furia dei morti?
 
«Riesci a percepire qualcosa?»
La voce fredda di Jane lo costrinse ad emergere dalle acque più torbide dei suoi pensieri. Stava iniziando una discesa pericolosa, una spirale scura che avrebbe rischiato di trascinarlo a fondo e farlo cadere nell’afflizione, qualcosa di cui non aveva davvero bisogno.
Scosse la testa. «Ammetto di non aver neanche provato.» disse con tono basso.
Jane mosse appena le spalle. «Vuoi provarci o pensi di continuare a farti una passeggiata?» chiese con un pizzico di cinismo.
Il gigante rosso non provò neanche a guardarla.
Gli era sempre stato insegnato il rispetto verso ogni forma di vita ma il comportamento di Jane gli rendeva facile capire il perché delle risposte poco gentili di Nathan. Quella ragazza sembrava una statua, un golem, esseri vivi ma senza sentimenti, senza personalità, senza effettiva vita.
Jane era una lastra di ghiaccio che rifletteva solo pochi pallidi sentimenti umani, tutti quelli più sconvenienti e tristi ed Úranus non ne aveva bisogno, gli ci mancava solo uno specchio in cui osservare il male che covava in sé.
«Da quel che posso notare anche tu preferisci camminare piuttosto che usare i doni di tua madre.» le rispose comunque in modo più gentile possibile.
Jane storse il naso e si strinse le braccia attorno alla vita, colpita e affondata.
«Non ne sono capace. Non so fare cose del gente, nessuno me le ha insegnate a differenza tua. Sai, non siamo stati tutti così fortunati da aver il nostro genitore divino che ci teneva la manina, ci rimboccava le coperte e ci raccontava cosa fosse davvero questo schifo di mondo.» ribatté acida.
Úranus mantenne la sua posa stoica, lo sguardo puntato verso il nulla.
“Tenere la manina”? Avrebbe tanto voluto ridergli in faccia, avrebbe tanto voluto dirle perché suo padre gli era stato vicino per tutto quel tempo, perché gli aveva dovuto insegnare come usare i suoi poteri. Perché aveva dovuto insegnargli come non far cadere il mondo nella disperazione e nel dolore.
Ma era un uomo gentile, d’animo buono e corretto, era educato e soprattutto non avrebbe sfogato la sua personale frustrazione su un altro essere umano solo perché ne aveva troppa in corpo.
La voce lontana di suo padre gli ricordò quale fosse il fardello che aveva sostenuto sulle sue spalle e perché aver un’anima tormentata avrebbe solo peggiorato le cose.
Una voce molto più simile a quella di Elizabeth gli disse con fermezza: “Sii superiore, non farti trascinare nei loro giochi.”.
«Mio padre, nel corso dei secoli, ha avuto circa cento figli.» disse apparentemente estemporaneo, «Non gli era stato vietato di averne di più, ma la nostra nascita era ugualmente fonte di preoccupazione, di possibili sventure, coincideva con tragedie e disastri. Mio padre è stato al mio fianco per addestrarmi all’uso del suo retaggio divino, solo per questo. Tua madre ha centinaia di figli, molti non riconosciuti. In un qual modo sei stata fortunata, perché in tanti muoiono senza sapere chi li ha messi al mondo.»
Un verso sprezzante arrivò dal suo fianco. «Questo sì che mi rincuora! Almeno ha avuto la decenza di dirmi chi era.» la risata che ne seguì era sguaiata e quasi isterica. Úranus serrò le labbra e cercò di pensare ad altro.
«Sei solo stato schifosamente fortunato ma non vuoi ammetterlo perché ti hanno insegnato che essere umili è importante sopra ogni cosa.» lo sbeffeggiò con scherno. «Quindi lascia stare le scuse e vedi di renderti utile.» sputò infine con cattiveria.
Poi si fermò, le braccia ancora strette al corpo e lo sguardo vuoto fisso in quello ghiacciato di Úranus.
Il ragazzo la fissò di rimando e per la prima volta non vi era traccia di imbarazzo o di vergogna, o di gentilezza sul suo volto. Era freddo come lo erano i suoi occhi, era un crepaccio profondo apertosi su un ghiacciaio e Jane, senza saperne il motivo, sentì che tutto il dolore che aveva provato in vita era pronto a riaffacciarlesi nella morte.
Un brivido la scosse, una paura vecchia, passata, che si era trasformata da tempo nel fuoco rombante della rabbia ma che ora, improvvisamente, tornava ad esser freddo ed umido terrore.
Dentro di sé Úranus avvertì il ruggito della tempesta, il grido del vento.
Credere che la sua vita fosse stata semplice, che tutto fosse andato per il meglio solo perché suo padre era stato al suo fianco era ciò che di più sciocco ed errato una persona potesse pensare. Aver suo padre con sé non gli aveva impedito di rimanere isolato e tagliato fuori dal mondo, non lo aveva protetto dallo sguardo spaventato e cattivo delle persone, dalle loro parole velenose, dai loro sguardi di biasimo, di giudizio. Non l’aveva aiutato a farsi amici, non gli aveva dato una famiglia, una moglie, dei figli, non gli aveva dato un lavoro dignitoso ed una casa tutta per sé. Non gli aveva permesso di vedere suo fratello, o sua sorella, non gli aveva permesso di stringere la mano di sua madre, di aiutarla nel momento del bisogno. Aver suo padre al proprio fianco che non aveva impedito a quella gente di eleggerlo capro espiatorio di tutte le loro colpe, di tutti i loro peccati e le loro paure e di bruciarlo in un rogo sull’altare di un Dio che professava amore e accettazione quando i suoi seguaci non facevano altro che portare morte e distruzione ovunque.
La sua vita non era stata più semplice. La sua anima aveva conosciuto il terrore che le era proprio e quello che apparteneva a tutti gli esseri che lo circondavano.
Se quella ragazzina credeva seriamente che saper comandare il proprio potere fosse sinonimo di benessere si sbagliava di grosso e ora glielo avrebbe dimostrato.
Senza battere le palpebre Úranus richiamò tutta la concentrazione e la forza che aveva in sé, visualizzando ad occhi aperti le infinite trame e reticoli che collegavano le anime, i ricordi, le emozioni, i sentimenti, le morti. Non cercò però un sentimento generale, non cercò uno stato di paura, di dolore, di rabbia, ancora una volta Úranus fece qualcosa che suo padre gli aveva spesso sconsigliato di fare: si concentrò su una persona.
Esattamente come aveva fatto con il guerriero pelle rossa, Úranus ricercò la traccia di un’anima specifica, di chi era di fronte a lui e della persona che era stata.
Il frusciare di rami, il rumore dei boschi che lui conosceva tanto bene, gli solleticò la conchiglia dell’orecchio insinuandosi fino al timpano, per poi aleggiarvi sopra come una nebbia sottile. Il suono si disfece con facilità, come la trama sciolta di un telaio sbagliato, aggrovigliandosi su sé stesso sino a sfociare nel suono di una città in fermento, di un popolo in movimento, di una catastrofe già avviata.
Fermo in un angolo delle sconfinate ed infinite Praterie degli Asfodeli Úranus poté sentire chiaramente i ricordi di Jane Parris trasformarsi in ciò che era sempre stato in grado di percepire: emozioni, sensazioni, terrore, incubi. E come lui li avvertii parve che al contempo anche la ragazza si rendesse conto di ciò che il semidio stava facendo, stava sentendo.
Il volto inespressivo della giovane venne trasfigurato da una smorfia di sgomento, mentre la nera figura della paura si chinava su di lei per sussurrarle all’orecchio che, ancora una volta, aveva fatto il terribile sbaglio di credersi abbastanza forte, di reputare la persona davanti a sé debole e facilmente soggiogabile.
La Paura sorrise tirando le labbra fini e scoprendo i denti affilati.
Come si può sbagliare due volte, quando la prima ti ha portato alla morte?
 
 
*
 


Il richiamo lontano del vento portava con sé il rumore di una stanza vuota e silenziosa.
Era una contraddizione, era impossibile, era un suono che non esisteva, il silenzio.
Lui lo sapeva bene, l’aveva sentito tante di quelle volte, nascosto dietro ad un muro, sopra di un albero, nell’attesa che arrivasse il momento migliore per muoversi, per agire.
Il silenzio era un suono-non-suono, era qualcosa che c’era ma non c’era. Era come la morte: esisteva perché il tuo corpo cessava di vivere, di respirare e di battere; ma non c’era perché poi, dopo l’ultimo bacio dannato, c’era quello, c’era l’Ade.
L’inferno se l’era immaginato diverso, lo doveva ammettere, e soprattutto non avrebbe mai creduto che ci potessero esser piante e foreste, dolci colline e pallidi fiori luminescenti ad illuminare vecchie e nuove dimore. Non avrebbe mai immaginato di viver dentro alte mura bianche sorvegliate da un gigantesco portone e da un vigile occhio che tutto scrutava.
Ma il silenzio… quello se l’era aspettato ancor meno.
Nel suo immaginario l’inferno era un paesaggio roccioso e caldo, bollente, ustionante. C’erano vulcani, lava e fuochi, c’erano creature caprine dalle code affilate e le corna ramificate che brandivano fruste lunghe ed uncinate. C’erano le grida dei dannati e le loro lacrime, i singhiozzi ormai inutili e sterili come le loro speranze.

Speranza.
 
Quanto aveva votato, in vita sua, a quella parola? Forse tutto, forse nulla, forse solo l’eco lontano di una stanza vuota che lo chiamava a sé come il ricordo più amato tra quelli che ancora aveva. Ma il problema era proprio questo: lui, quel ricordo, lo aveva ancora, era inciso a sangue nella sua memoria, sulle pareti di quella scatola cranica fittizia, null’altro che la riproduzione di un corpo che ormai, da decenni, era tornato ad essere polvere e cenere, tornato alla terra, tornato a ciò che aveva creato la sua stessa gente eoni prima.
Nel silenzio che gli giungeva quieto alle orecchie vi era l’odore del bosco umido, del legno stagionato, delle braci spente e della paglia. C’era qualcosa di floreale, carne secca, polvere.
Sarebbe potuto essere l’odore di casa sua ma non sentiva quello dei mattoni bagnati, non sentiva l’odore del metallo, del sapone che comprava sua madre nella bottega all’angolo e di tutti i vestiti stesi per la sala, perché fuori non c’era più posto e loro erano in tanti e quella santa donna di sua madre rideva di gusto quando li vedeva tornare a casa tutti inzaccherati come bambini e li mandava sul retro ad infilarsi nella tinozza di peltro e togliersi via un po’ di fango mentre lei, con tanta pazienza, lavava le loro vesti. Che poi, alla fine, più che farsi il bagno in modo tranquillo finivano per fare a pugni per chi entrasse per primo nella vasca, finché l’acqua era ancora bollente, e poi per lanciarsi secchiate gelate inondando quel piccolo pezzo di giardino spoglio che il casolare offriva loro.
Gli mancavano quei rumori, gli mancava la lotta per la tinozza, sua madre che accendeva la stufa per scaldare pentoloni d’acqua, che gridava loro di smetterla di fare i bambini e di spogliarsi.
 
«Ti ho visto nascere, O’Bryan, è inutile che ora ti vergogni e ti copri, ho già visto tutto quello che c’era da vedere!»
 
E giù a ridere mentre il ragazzino si copriva con la camicia appallottolata e scappava in cortile con le orecchie rosse d’imbarazzo.
Gli mancavano anche le strigliate quando alla fine dei giochi, il retro, era diventato un riquadro di fanghiglia melmosa e per rientrare in casa dovevano farsi versare altra acqua sui piedi, correre scalzi sul pavimento di legno liscio e consunto, lasciando impronte bagnate ovunque, promettendo di dar una mano per rimettere tutto a posto. Gli mancava sollevare camicioni zuppi, pantaloni grondanti, giacche appese alle sedie per mantenere un minimo la forma delle spalle rigide.
Sorrise al vuoto che c’era davanti a lui e con amarezza si rese conto di sentire la mancanza di cose, oggetti, persone, vite, ormai sbiadite e lontane.
Non avevano più contorni i fili pieni di panni, non aveva più colore la tinozza di peltro, non aveva più consistenza il terreno fangoso, il pavimento su cui scivolava. La risata di sua madre era flebile, solo l’eco di ciò che era stata e c’era una figura piccola seduta sul piano della cucina che sarebbe potuta tranquillamente essere una persona, un animale o un oggetto troppo ingombrante.
Stava perdendo tutto, stava perdendo i ricordi e con loro sé stesso.
Si domandò se, recuperato il ricordo perduto, avrebbe smesso di dimenticare, ma per quanto potesse sperarci c’era una voce nella sua testa che sibilava disillusa quanto quello fosse un processo irreversibile.
Stava perdendo di nuovo tutto e sapere che quel suono-non-suono, quel silenzio che percepiva e che lo stava frastornando non era neanche il suo di silenzio, aveva spento quel minimo di fiamma che il vento aveva fatto riaccendere nel suo animo.
Aveva perso tutto, tutto quanto, tutti quanti, per qualcosa che non sapeva neanche se fosse riuscito o meno. Aveva lottato fino alla fine, la sua, con le unghie e con i denti, aggrappandosi a ciò che c’era di più importante al mondo per lui e poi…
Lo sapeva. Logicamente, sapeva che c’erano milioni di persone al mondo che la pensavano diversamente da lui, ma quello non se lo aspettava proprio, non l’aveva calcolato, non l’aveva visto arrivare. Soprattutto, non credeva che potesse arrivare da così vicino.
Aveva votato la sua vita a chi amava, a ciò che amava, alla sua patria, alla sua libertà e a quella di tutti i suoi fratelli. Aveva combattuto per giorni senza mai abbassare la guardia e quando la fine era giunta l’aveva guardata negli occhi. Aveva fissato la Morte in faccia e le aveva chiesto di farlo combattere finché anche l’ultima scintilla di vita fosse arsa in lui. Thanatos l’aveva accontentato ed era curioso che l’unica preghiera che si fosse mai azzardato a fare ad un Dio fosse stata rivolta a quello della morte e non al suo stesso padre. Un’ironia così smaccata da non aver nulla di ironico.
Il volto del suo amico, quello di cui non riusciva proprio a ricordare il nome e che gli strappava il cuore dal petto ogni volta ci ripensasse, stava diventando più sbiadito, come se la Foschia si fosse messa tra di loro. Aveva lottato anche per lui, perché sapeva d’amarlo come amava tutti i suoi fratelli, tutti i suoi amici, tutta la sua famiglia. Come amava il cielo e le nuvole, come amava il volo delle rondini e quello dei falchi, degli stormi e dei predatori solitari. Era morto per amore, credendo che quella fosse la morte più nobile che potesse desiderare uno come lui.
Aveva smesso d’innamorarsi di nuovo non perché non ne fosse più capace, ma perché nella morte aveva imparato che il tempo si dilata all’infinito e che prima di potersi “rifare una vita” – ironia ancora cinica e senza senso – doveva vedere in faccia quella che si era visto strappare tanto brutalmente.
Quella gara l’aveva costretto a rivedere i suoi piani, gli aveva bussato alla spalla e detto che forse, per una volta, poteva fare un’eccezione ed amare anche qualcuno che sembrava non averlo mai fatto.
Era stato così sciocco, così stupido da parte sua affezionarsi in quel modo ad uno sconosciuto, ma lui era fatto così, era fatto per spiegare le ali ed accogliervi sotto tutti coloro che necessitassero protezione, tutti coloro che avevano sempre fissato il cielo con il desiderio indomabile di potervi volare.
Si era detto che andava bene, che aiutare le persone e dar loro tutti i mezzi per poter spiccare il volo da soli era ciò per cui era nato. Perché chi amava la libertà l’anellava anche per gli altri.
Andava bene, andava davvero bene, poteva farcela, poteva aiutare qualcun altro, stargli vicino come non era riuscito a fare con i suoi amici, con la sua famiglia. Li aveva abbandonati anche se contro la sua volontà, anche se l’aveva fatto mentre faceva il suo dovere, mentre faceva la cosa giusta. Ma oh, oh… quanto lo rimpiangeva, quanto gli faceva male saper che per qualunque cosa, anche la più banale, lui non c’era più stato… quanto faceva male sapere di averli abbandonati…abbandonati…
E poi, nella sua schietta e cruda visione del mondo, era riuscito a farsi male ancora una volta.
Si sentiva così- stanco. Abbattuto, afflitto, triste, deluso…
Lui era morto per la libertà, la sua amata, amatissima¸ libertà. Ma soprattutto, era morto per quella degli altri, delle persone che amava.
E proprio quando aveva creduto di aver trovato, in quell’inferno di finta pace, un pezzo della sua quotidianità, una vecchia abitudine, un frammento di vita passata, quando aveva appurato che sì, forse aveva trovato davvero un altro fratello lì in mezzo, uno dei tanti che avrebbe amato come solo un fratello può fare-
La terra dell’Ade si era aperta in un crepaccio dai denti sparsi e grandi, aveva creato una voragine sotto i suoi piedi e l’aveva fatto cadere rovinosamente a terra come un piccolo pettirosso colpito dalla corrente sbagliata.
Era morto per ciò che amava e colui che sarebbe potuto diventare parte di quel qualcosa era morto scappando, abbandonando, proprio ciò per cui lui stesso era morto.
Si mosse ad agio, spostando i piedi senza alzarli troppo da terra, con l’inconscia preoccupazione di schiacciare le sfere.
I suoi pensieri cominciavano ad essere così fumosi, così affollati gli uni sugli altri, da non aver senso.
Cosa stava pensando? Qual era il sunto del discorso? Cosa l’aveva scosso così tanto?
Oh, vero, Jonas.
Aveva provato a consolarlo, a dirgli che la sua ragazza di certo non lo odiava, che se lo amava doveva conoscerlo abbastanza per sapere che la sua fuga era stata sofferta e- e ci credeva, ci credeva davvero ma- aveva una famiglia, una persona che lo amava… com’era riuscito ad abbandonare tutto? Come poteva aver fatto una cosa del genere? Lui sarebbe morto altre cento volte pur di rimanere solo un attimo di più assieme ai suoi amici, ai suoi fratelli.
Chiuse gli occhi ma non smise di camminare. Che senso aveva guardare dove stesse andando? Era il suono del silenzio ad attirarlo, a guidarlo tra quell’erba nera e secca.
Perché si sentiva così triste? Perché non aveva forze?
Come si poteva rinunciare a chi si ama? Come si poteva scappare dal proprio paese? Cade era convinto che piuttosto sarebbe morto arso con la sua amata Irlanda pur di non abbandonarla al suo destino.
Chissà se c’erano ancora sconfinate colline verdi, se ai bambini si raccontavano ancora leggende di folclore e magia, se piccoli passi e leste gambe non rincorrevano gli arcobaleni alla ricerca di pentole d’oro. Chissà se qualcuno ancora diceva loro che il vero tesoro stava nel correre liberi a piedi nudi sull’erba morbida ed umida di rugiada.
Si sentiva così vuoto, così solo… e lui non lo era mai stato, non era mai stato solo, sempre circondato da persone, da voci, da rumori. La strada trafficata, il rumore delle ruote di legno sul ciottolato, dei cavalli che nitriscono, scoppiettii e sferragliamenti, le urla del mercato, quelle dei bambini e dei venditori ambulanti.
Ora c’era solo il silenzio, la distesa nera delle Praterie degli Asfodeli e quella delle sue palpebre serrate.
I suoi passi erano sicuri ma traballanti, come potevano esserli quelli di qualcuno che non conosceva bene il terreno su cui si muoveva. Eppure era così simile alla sua di terra. Poteva sognare, poteva immaginare che il nero fosse verde ed il cielo roccioso fosse azzurro ed infinito, oltre le vette e le nubi, sino alle stelle.
Cos’era quello strano sfrigolio sotto i suoi pedi? Sembrava sabbia, di quella asciutta che si ritrovava sempre addosso quando tornava a casa dopo una giornata passata al porto. Ah, le sfere, i frammenti del vetro che rimanevano dopo averle rotte.
Aprì lentamente gli occhi, abbassando la testa per fissare il terreno appannato e luccicante, dove grani lucidi come zucchero brillavano come se fossero sotto i raggi del sole. Era la luce crepuscolare dell’Ade, quella che si insinuava in ogni anfratto senza però illuminarlo davvero. Cade alzò di nuovo la testa e spostò lo sguardo vacuo verso l’orizzonte.
Era tutto così silenzioso, così terribilmente vuoto.
 
Come me, come mi sento io ora.
 
Poi li vide. Nella sua visuale sfocata come la calura estiva si muovevano lievi figure opache e opalescenti. Sfioravano l’erba come se non la toccassero neanche ed era così, era sicuramente così perché quelle impronte bianche fluttuanti erano ciò che di più vicino ad un fantasma Cade avesse mai visto. Ma com’era possibile? Cos’erano? Che fossero –
 
Le anime dei perduti, degli Asfodeli, coloro che non avevano fatto troppo del male ma neanche abbastanza del bene.
I dimenticati dal mondo, dagli Dei e anche dai morti stessi.

 
I milioni, miliardi, di anime condannate alle Praterie degli Asfodeli si aggiravano con straziante lentezza sulla superficie erbosa di quello che era il regno a loro destinato.
Le Praterie erano il dominio più grande dell’Ade, si estendevano per una superficie ben maggiore dei Campi di Pena e anche di quelli degli Elisi. Avrebbero potuto contenere l’intera superficie delle terre emerse e ci sarebbe stato ancora posto per i mari, perché il luogo dedicato agli Elisi era infinitesimale, quello dei Beati ridicolo, mentre le terre dei Dannati si estendevano per profondità e non per raggio, in cerchi concentrici che scendevano sempre più giù, verso il nero denso e opprimente del Tartaro e delle viscere più ustionanti della terra.
Trattenendo il respiro Cade si domandò quanto avesse camminato, quanto si fosse allontanato dai suoi amici, da quell’anima che gli aveva ricordato la sua famiglia, che era riuscita a ferirlo con parole e ricordi, con domande mai espresse e grida soffocate per troppo tempo. Si era spinto fino alla fine della zona in cui Ermes aveva sparso le sfere, dove aveva abbandonato i ricordi delle anime morte.
Abbandonato… quella parola ricompariva in continuazione nella sua mente.
Anche il silenzio era una forma di abbandono, così com’era una forma d’amore, di rispetto, di rabbia, di dolore e di punizione.
Di chi era un ricordo così lontano? Che fosse stato lasciato lì perché nessuno poteva sentirlo? Perché in mezzo al clamore delle urla, degli spari, delle spade e delle bombe il silenzio non si sarebbe sentito?
Quel silenzio così rumoroso però non sembrava cattivo, non lo feriva, non lo faceva soffrire. C’era affetto, c’era sconforto, sì, ma anche speranza.
Abbandono e speranza.
Abbandono e speranza.
Come una preghiera quei due lemmi si rincorrevano l’un con l’altro senza senso logico.
Abbandonato così lontano dal centro della sfida quel ricordo non aveva speranza di esser ritrovato.
Forse… forse non ci sarebbe riuscito neanche lui.
Fissò le anime che si muovevano, soffiate via delle correnti dell’Ade, e si domandò se presto non si sarebbe unito anche lui a quelle schiere.
Deglutì improvvisamente a corto di ossigeno. Dov’era? Perché era così lontano? Perché era solo?
Si mosse a disagio, le gambe inferme e la mente sempre più annebbiata, la vista sempre più sfocata, il fiato sempre più corto.
Dove diamine era? Doveva allontanarsi da lì, tornare indietro, ma- dov’era indietro?
Si girò e rigirò, ruotando su sé stesso come una trottola impazzita, mentre le anime dei dimenticati di fondevano con la foschia che lenta ed inesorabile risaliva la valle.
Il silenzio divenne assordante, lo costrinse a portarsi le mani alle orecchie e socchiudere gli occhi, piegandosi in avanti nel vano tentativo di proteggersi da quel suono così alto, così molesto, così doloroso da spaccargli i timpani.
Qualcosa di umido gli colò tra le dita e fu con orrore che Cade tolse le mani dalle orecchie per vederle sporche di sangue.
Boccheggiando come un pesce fuor d’acqua osservò quei rigagnoli rossi che andavano ad infilarsi tra le venature della sua pelle, a coprire la ferita cicatrizzata ma recente che si era fatto da solo con il suo coltello.
Era vero, potevano sanguinare, potevano aver attacchi di panico, il fiato corto, il cuore a mille era come-
 
Come essere tornati indietro.
 
La macchia rossa s’allargò sfocando i suoi contorni e quelli delle sue mani.
Un uomo alto e magro gli si fece vicino silenziosamente. Le braccia lunghe e pallide stonavano a confronto con la pelliccia gonfia e scura che copriva la sua intera figura. Parevano le zampe di un ragno, dalle dita nodose e fini.
I capelli lunghi si confondevano con la sua veste, la frangia copriva i lineamenti spigolosi del suo viso smunto, le labbra così fini da sembrare quasi inesistenti, una maschera bianca pendeva molle dietro il suo collo, fuoriuscendo tra i capelli come un secondo volto posto sulla schiena.
Non un suono interruppe il rumore sordo del silenzio, il gorgoglio del sangue nelle orecchie di Cade, il mondo oscuro dell’Ade che diveniva un'unica chiazza d’olio sulla patina lucida dell’iride verde.
L’uomo si fermò alle spalle del semidio e allungò le braccia da insetto verso di lui.
 
Cade non riusciva più a distinguere nulla, né l’erba nera né tantomeno le anime dei dimenticati. Il sangue sulle sue mani si stava seccando, quello nelle sue orecchie continuava a ribollire assieme alle grida del silenzio. Così opprimente, così terribile… doveva andare via di lì, doveva tornare indietro e-
 
Le mani ossute si posarono sulle sue orecchie e Cade improvvisamente si fermò, congelato sul posto, reso pietra da una Medusa invisibile ed onnipresente chiamata paura.
Chiamata vuoto.
 
Perché sono qui?
 
*
 


Le sensazione dell’erba sotto le mani era qualcosa che gli era mancato.
Da bambino era solito sdraiarsi sotto ad alberi dalle alte fronte ed osservare il cielo tra le trame fitte delle foglie.
Erano lontani quei momenti, prima che la sua fanciullezza e la sua innocenza fossero brutalmente recise dalla sua stessa persona, strappate via come si farebbe con delle piante infestanti, ma dopotutto questo era parte del gioco no? Era ovvio che sarebbe successo, era scontato, se l’aspettavano tutti, persino la sua stessa madre.
 
«Sei così bello, amore mio, gli dei hanno baciato la tua venuta e ti hanno reso splendido sopra ogni cosa, sopra ogni mortale. Eri una gemma rigogliosa ed ora sei un frutto acerbo, ma non appena diverrai dorato e maturo saranno i molti a voler coglier quel pomo per primi. Chi è bello è destinato a questo, ad esser bello per gli altri, ad esser apprezzato, goduto da altri.
La tua fortuna sarà tutta in colui che per primo riuscirà a sfiorarti.»
 
Era normale, era logico, era così che andavano le cose.
Un moto di ribrezzo gli scosse le membra, il ricordo di come sua madre pensasse che fosse un evento inevitabile, che prima o poi qualcuno – più grande, più ricco, più potente, più saggio – sarebbe giunto a metter le mani su di lui gli faceva venire il voltastomaco.
Oh, ma Cicno ricordava perfettamente anche altro, ricordava l’arrendevolezza delle donne, la rassegnazione: cresciute con l’idea che solo un uomo avrebbe potuto decidere del loro stesso corpo, del loro stesso destino.
Per anni aveva atteso il momento in cui sarebbe toccato a lui scegliere per il corpo di altri, non essere più oggetto di quegli sguardi di lussuria, di disgustosa brama. Aveva atteso il momento in cui sarebbe toccato a lui guardare qualcuno e lusingarlo nel modo insinuante, quasi viscido che era sempre stato dedicato a lui. Si sarebbe ripreso la sua vittoria, sfogando su povere vittime innocenti lo stesso tormento che aveva provato in gioventù, che quelle ragazze stesse avevano subito, invero. Lo sapeva, sapeva perfettamente che il suo destino era stato lo stesso di tante ragazzine, di tanti altri giovinetti belli e delicati proprio come lui, quasi femminei… come se questa caratteristica sola potesse dare a chiunque altro il diritto di sentirsi superiori a loro.
La sua innocenza era probabilmente scomparsa assieme a quella di centinaia di migliaia di giovani di Tebe, corrotti dalle parole di miele, dalle promesse, dalla violenza.
Quando poi si era reso conto che nulla vi era di dolce, di appagante, che non provava senso di rivalsa alcuno su quelle ragazze inermi che gli si concedevano folgorate dalla sua bellezza, aveva deciso che si sarebbe imposto allora su chi, per volere divino, era stato designato come forte ed imbattibile fin dalla nascita, chi era modello del divino Ares e non del flessuoso Eros.
Erano state mani grandi e forti a chiudere definitivamente il nodo della sua infanzia e sarebbero state quelle stesse mai a macchiarsi dei peggiori crimini solo per il suo volere, per il suo godere, per il suo piacere.
Era crudele? Forse sì, forse lo era stato ed era questo il motivo del suo nome, ma Cicno era stato “un così bel bambino” per tanto di quel tempo che ora, anche nella morte, non desiderava che esser padrone del suo corpo, della sua bellezza, del suo fascino.
Esser l’amante prediletto di qualche console, di qualche nobile, di qualche grande comandante, scaldare un letto dentro ad una tenda accampata vicino ad una città nemica, rischiare di esser preso in ostaggio, dato in mano ai soldati, venduto o rivendicato dal combattente più forte… gli veniva la pelle d’oca al sol pensiero, al sol ricordo di quando uomini ben più grandi di lui si erano presi con la forza il diritto di litigarsi la sua innocenza ed i suoi servigi.
Non era poi quella la storia del mondo? Non era poi proprio quello che stavano facendo in quel momento? Tutte quelle anime erano lì ammassate per riavere la propria vita ma questa possibilità era stata data loro dalla noia e dalla crudeltà degli Dei che avevano loro concesso questa grazia. Ancora una volta un essere più forte di lui aveva deciso della sua vita.
 
«Che espressione cupa che hai.»
 
Il ragazzo volse il capo a destra e sinistra prima di reclinarlo all’indietro ed osservare l’uomo alle sue spalle.
Uomini, c’erano sempre uomini più grandi di lui che lo circondavano, i giovani di solito erano quelli che cadevano subito come mosche, pieni di buona volontà e di forza ma così sciocchi, così poco avveduti, così impulsivi.
«Ripensavo al passato, mio Signore, a ciò che avevo e che mi fu tolto.» disse con voce gentile, quel tono modulato ad arte che piaceva sempre così tanto ai potenti.
Avrebbe però dovuto rivedere i suoi giochi, si era già dimenticato che con quell’uomo non funzionava.
Lui alzò un sopracciglio. «Intendi la vita o altro?» domandò con tranquillità, avanzando sino a posizionarsi al suo fianco.
Cicno ci pensò su, poi si disse che non vi era nulla di pericoloso nel dire la verità. Non era più il ragazzino inesperto che si faceva cogliere di sorpresa, che non sapeva come volgere il gioco a proprio favore, ne aveva schiacciati a centinaia di uomini del genere sotto i suoi piedi.
«Altro. Ripensavo alla mia fanciullezza.»
Quello rise. «Perché, ti senti vecchio ora? Sei ancora un fanciullo, vorrei farti notare.» abbassò la testa e gli regalò un sorriso predatorio a cui Cicno non fece nulla per non rispondere.
«Mi state forse dicendo che mi trovate di vostro piacimento?» chiese innocente.
Uno sbuffo ironico fece piegare le labbra al semidio: se l’aspettava, cominciava a capire come funzionava quell’uomo.
«Hai bisogno di sentirti dire cose che già sai? Cicno il Crudele è noto per le sue prove difficile e mortali e per la sua incredibile bellezza che piegava tutti al suo gioco. Sbaglio?»
«No.» rispose soddisfatto. «Non avete idea di quanti sono caduti per me. Ve lo ripeto, siete fortunato ad avermi dalla vostra parte, mio Signore.» concluse però con un minimo di referenza, seppur beffarda.
Il suo padrone annuì riportando lo sguardo sulla distesa infinita delle Praterie.
«Lo so perfettamente, non ho scelto i miei alleati per caso, dopotutto.»
«E allora con quale criterio ci avete scelti?»
La curiosità non era mai stata sua, ma nella morte Cicno si era reso conto di voler sapere di più, di voler conoscere le pene ed i peccati di ogni anima dannata, di ogni essere infernale. Voleva godere della loro sofferenza per riuscire a sopportare meglio la sua. Che fosse quella che subiva nell’Ade o quella che aveva subito in vita.
Il velo nero dei ricordi si posò sul volto perfetto e gli fece stringere le labbra. L’uomo al suo fianco lo scrutò dall’alto e si mise le mani in tasca, drizzando la schiena e allungando il collo verso la volta rocciosa.
«In base alle vostre capacità, a ciò che sapete fare d’innato e che avete imparato in vita. Ognuno di voi ha delle doti che si sposano perfettamente con determinate necessità.» parlò con calma, con voce bassa e morbida.
Quel suono riuscì a sciogliere i muscoli delle spalle del semidio, la tensione del suo collo, diradano un poco i pensieri più cupi che andavano formandosi nella sua mente.
Erano le Praterie, dovevano essere per forza quelle a ferirlo in quel modo, ad indebolirlo.
Chiuse gli occhi e si poggiò sui gomiti, cercando i rilassarsi e prendere respiri profondi: da quando respirare era tornato ad esser utile Cicno ne godeva come mai aveva fatto in vita.
Respirò ancora e ancora e per un attimo, un folle e cieco attimo, desiderò trovarsi ancora nelle sue stanze, poggiato al petto dell’unica persona che avesse mai amato, stretto tra quelle braccia che gli donavano protezione senza chiedere nulla in cambio.
Quanto tempo era passato? Da quanto e per quanto nessuno l’aveva abbracciato senza secondi fini se non quello di farlo sentir dal sicuro?
Cicno davvero non lo ricordava.
Un fruscio di stoffe gli solleticò l’orecchio ma il giovane decise di non aprire gli occhi, di rimanere a crogiolarsi in quella mancanza, in quel ricordo d’amore che ormai era sterile e inutile in lui. Lo fece finché un braccio solido e lungo non gli cinse le spalle ed una mano grande e ruvida non gli sfregò il braccio.
Cicno lo ricordava il tocco pesante ed esigente di mani simili a quella, di uomini simili a quello, ma c’era qualcosa di completamente diverso nelle sue carezze.
Il biondo aprì gli occhi e lì puntò verso il volto del suo capo, tenendo le palpebre spalancate per non perdersi neanche una mossa. Da qualche parte, nella sua testa, qualcuno gli disse che quello era il tocco amico di una mano gentile, di una persona che non si stava approfittando di lui ma che gli stava semplicemente porgendo il suo aiuto.
Era quasi doloroso confrontare la sua mano a quelle che ancora sentiva addosso, sulle sue braccia magre, a contare ogni scalino delle sue costole, a sfregare le ossa sporgenti del bacino e risalire le gambe sino a stringersi con bramosia sulle cosce, affondando i polpastrelli e le unghie corte nella sua carne morbida.
Un altro conato lo costrinse a serrare le labbra, la sua testa iniziò a girare e Cicno si risentì piccolo ed impotente, bellissimo ma senza via di scampo.

«A cosa stavi pensando?» domandò d’improvviso l’uomo.
E Cicno si sarebbe voluto scansare, avrebbe voluto urlargli di non toccarlo ma le sue carezze erano così delicate, così gentili, come il tocco di un bambino sul capo di un cucciolo…
«A cose della mia vita- persone…» disse vago, facendo quasi fatica a metter le parole in fila.
No, no, non poteva far così, lui era Cicno il Crudele, lui era in grado di guardare la disperazione degli occhi e di sputarle in faccia, di calpestare i cadaveri dei coraggiosi e valorosi giovani che si erano immolati nel disperato tentativo di ottenere il suo amore; non poteva sentirsi così male, non poteva ricordare quelle cose, quei dolori, quei tormenti.
Il vortice nero si macchiò di rosso e le pene passate si sommarono a quelle che doveva sopportare ogni giorno, ogni momento, da secoli, lì nell’Ade. Non vi erano più ferite aperte e tagli, non vi erano lividi ed abrasioni, ma faceva male, faceva tutto così male.
«Persone di che tipo? Cosa ti hanno tolto?»
Cicno strinse i denti: non l’avrebbe detto, non avrebbe ammesso nessuna delle sue debolezze, non avrebbe ricordato i tempi in cui era così disgustosamente impotente, quando non era stato abbastanza forte per imporsi sugli altri, di decidere per sé, di dire no.
«Nulla che mi possa esser ridato.» soffiò però via, a denti stretti.
L’uomo fece solo un singolo cenno del capo, senza osar guardarlo e Cicno gliene fu infinitamente grato seppur con malcontento: odiava dover qualcosa a qualcuno e con quell’essere la lista si stava già allungando, ma quel minimo di dignità che gli era rimasta non l’avrebbe bruciata sull’altare della paura, della vergogna e del dolore.
«Ricordi i loro volti?»
Quella domanda lo spiazzò.
Cicno si tirò su a fatica, facendo forza con la spalla contro il fianco dell’uomo e lasciando che questo lo aiutasse a mettersi in posizione eretta.
Cercò con lo sguardo il suo e vi incatenò le iridi azzurre e cangianti. Il colore che lo fissò di rimando gli ricordò quanto quell’essere fosse potenzialmente letale.
«Non si dimentica mai il volto di un mostro.» disse con voce dura, pregna di rabbia, così simile a quella che era solito usare contro chi era in disaccordo con lui, contro chi lo indispettiva.
L’uomo non distolse lo sguardo, non ribatté in nessuno dei modi che Cicno si sarebbe aspettato. Annuì ancora e poi, con lentezza, piegò le labbra nel sorriso inquietante di una bestia.
 
«Ci sono troppe anime ancora in gara, non pensi che sia nostro dovere eliminare i pesi e lasciar solo i migliori in gioco?» chiese quasi con fare innocente, così in contrasto con il suo volto.
 
Ma Cicno era stato chiamato “Il Crudele” per un motivo e come altre volte gli era capitato, riconobbe immediatamente chi c’era davanti a lui.
Il fascino del suo sorriso era languido e sensuale come i movimenti di un serpente, il suo morso affilato e velenoso come quelle zanne.
 
Tra simili ci si riconosce sempre.

 
*
 


Il filo continuo dei pensieri che si erano insinuati nella sua mente lo trascinava come una corda stretta attorno alla via. Era impossibile non seguirla, così tesa e forte, sembrava quasi che lo stesse chiamando a sé.
Al suo fianco, cercando inutilmente di tenere il passo, costretta a correre quasi per stargli dietro, Jane pareva più pallida del solito.
Che si fosse resa conto del grandissimo errore commesso non c’erano dubbi, Úranus le aveva letto il terrore negli occhi, aveva fiutato la sua paura come i mastini avevano fiutato le anime più deboli.
Se si fosse concentrato troppo su di lei però c’era il rischio concreto che i sensi di colpa iniziassero ad aggredirlo con violenza.
Aveva fatto ciò che aveva fatto per dimostrarle che non era tutto oro quello che brillava, che solo perché aveva avuto la fortuna di vivere con suo padre, di imparare tutto sul loro mondo – sul loro mondo di quasi cinquecento anni prima a quanto pareva – non aveva segnato la sua vita come magnifica e priva di problemi, di imprevisti. Il dolore che aveva provato, l’inadeguatezza, la soggezione, la solitudine, la rabbia e la tristezza non erano miraggi, non erano incubi partoriti dalla mente del Panico, Phobos per una volta non c’entrava nulla con i suoi tormenti, era la crudele vita l’artefice di tutto.
Non aveva alcuna intenzione di rivolgerle la parola, in ogni caso: avrebbero potuto accusarlo di aver un comportamento infantile e sciocco ma non gli importava, era stanco di dover sopportare sempre tutto a testa bassa. Forse era l’influenza delle Praterie, si ritrovò a pensare, su di lui non avevano lo stesso effetto che potevano avere su un dannato visto che la sua anima, a quanto avevano detto a loro tempo i giudici infernali, era sporcata solo dalla fuliggine della sua morte. Stava però maturando la convinzione che l’erba nera si dilettasse ugualmente ad assorbire le forze e le speranze di ogni essere, così come i rami d’edera avevano assorbito i loro ricordi.
Ancora una volta si domandò cosa si era dimenticato, quale fosse il ricordo tanto importante, o minuscolo, così strettamente legato alla sua morte che Ermes gli aveva sottratto. O meglio, che Persefone gli aveva sottratto.
Era stano che gli Dei collaborassero a questo modo tra di loro, Úranus sapeva quando non amassero dover favori in giro, ma forse per il bene del “gioco” avevano fatto un’eccezione. Di certo questo lo metteva in guardia, chissà cosa potevano aver perso durante la sfida dei Mastini Infernali, o cosa avrebbero potuto perdere in quel momento nelle Praterie.
 
A parte te stesso, ragazzo mio?
 
Aggrottando le sopracciglia Úranus alzò di poco la testa, scrutando con sguardo attento le distese scure che lo circondavano. Erba nera e nero cielo, luce crepuscolare e pochi lumi sparsi come stelle morenti: le sfere erano sempre meno, i frammenti sempre più, ma le Praterie erano così vaste che ormai ogni anima si era perduta e non vi era traccia di persone o presenze nei dintorni.
Che si fosse immaginato quella voce? Che fosse forse legata ai ricordi di Jane, a quel nome che si ripeteva con forza nella sua mente, legato a doppio cappio alla corda che lo tirava nella giusta direzione?
Non poteva saperlo, non aveva mai usato il potere di suo padre in modo così specifico e quell’unica volta che era successo c’era stata Lea a distrarlo, con la sua voce tremante e la sua piccola scintilla luminosa che andava perdendosi.
Chissà come se la stava cavando la sua amica. Non aveva dubbio alcune che fosse al sicuro, era con Cade e tutti loro avevano potuto vedere cos’era in grado di fare, ma lo preoccupava comunque il fatto che ai due fosse stato accompagnato l’unico dannato della loro squadra.
Anche se non faceva fatica ad immaginare un ragazzo di sedici anni macchiarsi di qualche colpa, per quanto potesse esser assurda la cosa, non riusciva ad immaginare Jonas compiere un qualunque crimine.
Ma dopotutto, ad assistere alla sua esecuzione, ad incitare il boia e tutti gli altri membri del villaggio, c’erano anche bambini a cui doveva ancora cadere il primo dente.
La corda tirò più forte, due strattoni all’altezza dello stomaco, ed Úranus seppe per certo che erano arrivati, che la sfera con i ricordi perduti di Jane era lì, era vicina, più vicina di quanto non credesse.
La ragazza, che quasi gli correva dietro, aveva il fiato corto e le labbra pallide, gli occhi vacui e scuri parevano più spenti del solito se solo non ci fosse stata quella luce di paura ad illuminarle le iridi.
Non le disse che c’erano quasi, non le chiese se voleva prendere da sola la sua sfera, se poteva toccarla lui. La vide al primo colpo però, individuò quella sfera piccola ed un poco irregolare, colorata di un marrone freddo, come le mura di legno di una casa durante una giornata uggiosa.
Úranus accelerò il passo e quando lo fece anche Jane qualcosa di simile ad un moto di stizza gli salì alla gola: se avessero potuto far un confronto, la vita di chi, tra loro due, sarebbe stata la più cupa?
Allungando la mano e piegandosi in avanti d’improvviso riuscì a superare lo scatto ansioso di Jane e tirar su la sfera stringendola in una mano sola.
La presa però fu troppo forte, troppo violenta.
Un sonoro crack si diffuse nell’aria ed un fumo marrone, terroso come la polvere che si alza da un campo arido, si espanse tra loro.
Gli occhi vitrei di Jane si spalancarono all’inverosimile, le labbra aperte e tremanti da cui non riusciva a cavar fuori un solo suono.
Rimasero immobili a fissare la nube, una congelata dall’idea di aver perso per sempre quello che poteva essere il suo ricordo e l’altro dall’idea che l’unica volta che si era fatto prendere dall’infantile desiderio di rivalsa, di vendetta in un qualche modo, aveva finito per distruggere le possibilità di un’anima di tornare in vita.
 
La speranza, giusto?
 
La voce di prima gli soffiò nell’orecchio divertita.
Il ricordo s’accartocciò su sé stesso, come carta bruciata, come aveva fatto la stoffa dei loro vestiti, la loro stessa carne.
Il rumore di una pietra che rotola via, il suono di qualcosa di morbido e duro al contempo che veniva schiacciato sotto il peso di questa.
Il fumo si concretizzò in un lungo ago e senza preavviso s’impalò nel torace di Jane sino a scomparire del tutto.
La figlia di Ecate rimase senza fiato, le mani screpolate e sporche che s’allungarono di colpo verso Úranus in cerca di un appiglio per non cadere a terra, per non morire di nuovo.
L’ombra terrosa del passato le attraversò le iridi e come una scossa elettrica si propagò per tutto il suo corpo sino a quello del compagno.
Il buio calò.
 


La donna davanti a lei ha la pelle scura come il carbone, le labbra grandi e sporgenti, il naso tozzo probabilmente rotto più e più volte. Ha gli occhi buoni ma tristi, la sclera più scura di quella delle altre persone, sembra che in quel bianco giallognolo ci si possa leggere il dolore e la sofferenza di una vita distrutta.
Ha le vesti vecchie e sporche sul davanti, le è piombata in casa senza preavviso, strappandola alle faccende e agli ordini del suo padrone. Ma non importa, nulla di tutto quello importa mentre piange disperata e stringe la sua gonna tra le mani.
Non c’erano parole che potessero sfondare il muro del ricordo, le grida di Jane erano afone, il volto ancora tumefatto della donna contratto in un’espressione affranta.
Perché stava succedendo tutto quello? Era davvero colpa sua, era davvero una strega? Da quando Samuel e la sua famiglia erano arrivati a Salem era tutto peggiorato, era davvero stata la schiava di suo zio a portare il malocchio ed il demonio nella loro città?
Voleva risposte, voleva la verità, la verità ad ogni costo.
La donna allungò le mani martoriate e le strinse attorno ai suoi polsi, pregandola, implorandola di lasciar perdere, di tornare a casa da sua madre e piangere con lei. Non vi erano parole ma il significato di quel mormorio muto era chiaro, era cristallino e lampante come il significato di un sogno, la stessa certezza devastante.
Lo sguardo della donna si fece opaco di lacrime e le labbra tremanti mormorarono qualcosa che pietrificò Jane sul posto.
La ragazza fissava quella schiava che tanto l’aveva aiutata nei mesi passati come se le stesse raccontando il sogno più incredibile e assurdo del mondo. Ma c’era qualcosa, qualcosa nel profondo di quelle parole, che le suonava terribilmente vero, sincero, familiare.
I rumori che venivano dall’esterno erano discontinui, le ruote di un vecchio carro che giravano sulla strada sterrata, passi ritmati, strascicati, corse… ma nulla aveva importanza, nulla era vero, nulla era reale.
Non poteva essere, non era possibile.
Jane indietreggiò districandosi dalla presa stretta di quelle mani forti, abituate al lavoro faticoso, che mai avevano conosciuto la gentilezza.
C’era dispiacere negli occhi di Tituba ma c’era anche sincerità, c’era quella verità che lei voleva e che ora le faceva così male.
Si mosse a disagio nella stanza, la vista che si sfocava ogni qual volta cambiasse l’oggetto su cui si posava, come una trottola, come quei terribili giramenti di testa che la tormentavano dopo ogni brutto sogno. Quei sogni che ora avevano un significato, ora avevano un senso, ed era terribile.
Era colpa di quei due, seppe d’improvviso, la rabbia cieca e bruciante che le animava il corpo scosso dai brividi, dai tremori incontrollati che la facevano tendere come una corda. La colpa era di quei due, era di quell- quell’omuncolo privo di spina dorsale e quella sciocca bugiarda di sua figlia.
Non si volse neanche una volta mentre scappava il più velocemente possibile, mentre ignorava gli sguardi accusatori, indulgenti, dispiaciuti, penosi di chi incontrava sul suo camino.
Era vicina, vicinissima a casa, sarebbe entrata in pochi secondi e avrebbe potuto chiedere a sua madre se era vero, se quello che Tituba le avesse detto fosse la realtà e non qualche sciocca cattiveria che magari lo stesso Samuel le aveva detto.
Poggiò le mani sulla superficie ruvida dalla porta e la spinse con forza, agitata, il cuore a mille ed il respiro corto, la mente in subbuglio e la bocca secca.
Poi si bloccò: il suo sguardo venne come attratto da una forza soprannaturale. Gli occhi cupi si posarono sul pavimento pulito ma vecchio, sulle zampe del tavolino oltre le quali un corpo giaceva steso in modo rigido e scomposto.
Jane si mosse con lentezza, in trance, strusciando i piedi per terra come se fossero diventati improvvisamente troppo pesanti, come se ogni mossa, ogni azione fosse troppo faticosa.
Quanto il volto di sua madre gli apparve trasfigurato dal dolore qualcosa esplose in lei.
Era morta, era morta anche lei. Era sola, non aveva più nessuno, non c’era più nessuno al mondo che l’amasse, che si prendesse cura di lei, che l’accudisse. Non c’era più nessuno, erano tutti morti. E la colpa era solo di quei due dannati.
La scena divenne ancora più sfocata, mentre la prospettiva s’abbassava di colpo e con lei Jane si gettava a terra spalancando le labbra per gridare tutto il suo silenzioso dolore.

Avrebbe vendicato la sua famiglia, suo padre e sua madre, e l’avrebbe fatto facendo soffrire allo stesso modo quei due mostri che finalmente riusciva a vedere chiaramente davanti ai suoi occhi.

In giorno in cui giurò vendetta firmò la sua stessa morte.


 
 
Jane batté le palpebre, il volto pallido confuso e smunto. Le sembrava di aver corso per ore, di aver infilato la testa nell’acqua e non esser riuscita ad uscirne in tempo.
Alzò lentamente il capo, le mani premute sul petto, lì dove quella lancia di fumo si era infilata con crudele forza, provocandole più dolore di quanto non avrebbe mai creduto possibile.
Era morta, era morta dannazione, come poteva ancora soffrire in modo “fisico”?
I brividi che le scuotevano il corpo non erano paragonabili ad altro se non a quelli che le avevano stretto le membra quando il fuoco l’aveva lambita senza pietà. Si mosse a disagio, cercando di rimanere in equilibrio sulle gambe malferme e provando con tutta sé stessa il desiderio di non aver mai provocato in quel modo Úranus. Aveva infatti la netta sensazione che il suo ricordo avesse fatto così male nel tornare indietro solo ed unicamente perché chi l’aveva trovato l’aveva fatto seguendo quella scia di sofferenza che solo lui pareva vedere.
Chi diamine era il suo genitore divino? Come poteva generare un malessere tanto grade in lei e in tutti i suoi ricordi.
Úranus la guardava inespressivo e Jane si domandò se il fastidio, il nervosismo che quell’espressione piatta generava in lei era lo stesso che provocava il suo volto negli altri.
Ripagata con la sua stessa moneta, no?
Jane lo sapeva, non era stupida e sebbene avesse peccato di ingenuità da viva aveva poi capito quanto potesse essere crudele il mondo e quanto anche l’essere più insignificante potesse portare distruzione e morte.
Le bastò quello per tornare con la mente al volto pallido di Beth, quella stupida ragazzina, degna figlia di suo padre… se solo fosse stata in silenzio, se solo non avesse scatenato tutto quel putiferio per un po’ di fama e attenzione. La disgustava, quella situazione, quella ragazza, quel lurido traditore di suo zio-
 
No…non è tuo zio, quell’uomo non era tuo zio.
 
La rabbia che provava crebbe veloce in lei e tutto ciò che riuscì a fare fu guardar male Úranus, quasi con odio, e sputargli contro quanto quello stupido teatrino fosse stato del tutto inutile, che non dimostrava nulla, che le faceva solo capire come la gente fortunata come lui non comprendesse ciò che le persone normali avevano dovuto subire.
Continuò ad urlare, a farlo a pieni polmoni, senza sosta, finché non sentì il fiato mancarle, strizzato fuori dalla cassa toracica senza più alcun suono, proprio come lo era stato nel suo ricordo.
Úranus la guardò impassibile, impietoso e freddo. Le ricordò lo sguardo di quella donna, quella giovane che aveva incontrato nel bosco: aveva pietà di lei ecco cosa.
 
«Non osare guardarmi con quegli occhi! Ora che hai visto pensi di aver capito? Pensi di essere migliore di me?» gridò ancora
Il barbaro neanche scosse il capo, le labbra si mossero in modo quasi impercettibile. «Credi che continuerai a lungo?»
Quella domanda secca fece pietrificare Jane che, presa alla sprovvista, boccheggiò come un pesce fuor d’acqua.
«Comparare le tue disgrazie a quelle di un’altra persone ti fa sentir meglio?» continuò lui con quel tono piatto e pacato, quasi non gli interessasse davvero. «Hai vissuto con due genitori che ti hanno amato fino alla fine. Hai avuto l’affetto e la fiducia del tuo intero paese prima dell’oblio. Illuderti che la mia vita sia stata più semplice della tua ti aiuta ad andare avanti?»
Ancora nessuna parola, nessuna risposta.
«Non ho mai capito il bisogno degli uomini di poter dire d’esser stati in situazione più pericolose, più dolorose, più terribili. Sono cresciuto isolato dal mondo, dalla gente, dalla vita che tu hai condotto, la vita “normale”. Mi hanno insegnato a compatire chi ha avuto un destino più tristo del mio e a non odiare chi è stato più fortunato.» si fermò per un secondo, lasciando scivolare i resti della sfera a terra. «Non vi odio, Jane Parris. Non vi odio per aver avuto una famiglia felice e completa, per aver vissuto una vita tranquilla nel vostro villaggio, per aver ricevuto il sorriso sincero di ogni villico, per aver avuto amici e vi compatisco per aver dovuto vedere la morte dei vostri genitori. Temo che questo sia tutto ciò che mi rende più fortunato di voi: ho avuto il privilegio d’esser il primo a perire, ma questo ha significato non poter proteggere le persone che amavo. La morte non mi ha liberato dalla mia prigione.»
Sfregò i palmi tra di loro, leggera polvere traslucida cadde verso i grandi frammenti ai suoi piedi, poi li pulì sui pantaloni e volse il viso verso la sua destra.
Jane lo osservò in silenzio chiudere gli occhi ed ispirare profondamente. Gli sembrava quasi di sentire un alone di gelo sprigionarsi dal suo corpo e la cosa la stava confondendo ed infastidendo. Si sentiva demoralizzata, vuotata di ogni energia perché- perché per la prima volta in vita sua, alla propria rabbia, non aveva visto rispondersi altra rabbia, beffa, ma solo fredda calma.
L’avevano sgridata, l’avevano pregata in lacrime di calmarsi, le avevano urlato contro, l’avevano derisa ed ignorata ma… nessuno era mai stato così tranquillo, così saggio e… e sì, freddo.
Quando il fuoco si scontrava contro la montagna non poteva far altro che arrampicarsi lungo le pendici di pietra e sperare di riuscire ad arrivare in cima, per ardere con più forza e distruggere quelle stesse cose che lo alimentavano. Ma Jane non poteva certo sapere che più si saliva e più scarseggiava l’ossigeno.
«Sento una scia di terrore.» disse d’improvviso Úranus. «Sono sicuro che si tratti di Jonas e Lea. Dobbiamo muoverci il più velocemente possibile.» sentenziò in fine dandole le spalle ed iniziando ad incamminarsi verso la direzione da cui proveniva l’eco delle grida di Phobos.

Ancora una volta la voce del panico era più forte di quella di qualunque altro essere, ma cos’era successo per far cadere il ragazzo in un pozzo così profondo?
Úranus aggrottò di nuovo le sopracciglia, registrando solo in sottofondo i passi affrettati di Jane che si ritrovava sempre a correre per stargli dietro.
Lea non riusciva a calmarlo con i suoi poteri curativi? Però non erano in pericolo, non c’era nessuna minaccia, non era la paura verso un nemico quella che sentiva, ma era ugualmente profonda, radicata nel nucleo dell’anima di Jonas.
Erano molto lontani? Sarebbero arrivati in tempo? La sua presenza lì avrebbe rischiato di peggiorare solo la situazione, com’era successo con Nathan? Forse i suoi poteri e quelli di Jonas assieme avrebbero di nuovo fatto precipitare ogni cosa.
Nella marea di domande che ora affollavano la sua mente, assieme a quelle preoccupate, al chiedersi dove fossero Nathan ed Elizabeth, se stessero bene anche loro, se Jane lo avrebbe seguito, se avrebbe aiutato nel caso ce ne fosse stato bisogno, se sarebbe stata d’intralcio o meno, se lui stesso sarebbe stato in grado di portar soccorso a quelle persone verso cui sentiva già un vago senso di protezione; un quesito sopraffece tutti gli altri, potente e ripetitivo come i rintocchi di una campana:
Se Jonas stava male, perché Cade non era con loro?
E soprattutto: dov’era Cade? Perché non lo se-
 
Úranus si bloccò di colpo, alzando polvere e frammenti, ignorando il peso di Jane che gli si schiantò contro presa alla sprovvista.
 
«Che diamine ti prede! Prima mi dici di sbrigarmi e poi ti blocchi?! Ehi? Úranus!»
La figlia di Ecate gli girò attorno piazzandoglisi di fronte ed un brivido freddo, ancora, ancora dannatamente freddo, le scivolò lungo la schiena e dentro lo stomaco.
Deglutì a vuoto, la bocca secca per poter articolare anche solo un’altra parola.
 
«Non sento più Cade. Non c’è più.»
 
La polvere luccicante si ridepositò a terra, neanche la brezza fantasma dell’Ade si mosse. Era tutto fermo.

 
*
 


La luce non era molta ma lui sapeva perfettamente quanto quel patio fosse grande, quanto lo fossero le colonne esteriori a confronto con quelle fine e delicate che poteva intravedere tra le ombre.
Al centro della struttura si trovava una fontana, l’acqua cadeva con lentezza innaturale dal foro al centro della cupola, frammentandosi in centinaia di scintillanti riflessi a metà della sua caduta: si apriva così un pulviscolo finissimo di acqua vaporizzata, nelle cui gocce risplendevano immagini di ogni genere, vorticando veloci come la luce stessa.
Ad accogliere ogni stilla vi era una grande conchiglia perlacea, il rivestimento di un mollusco enorme e preistorico che ora risplendeva di delicate sfumature rosee e aranciate.
C’erano centinaia di cuscini di ogni dimensione ad accerchiare la conchiglia, depositati su spessi tappeti tessuti dalle zampe leste di una bestia che in molti spaventava, ma non la Dea a cui essi appartenevano.
Vi era solo un'unica pedana rialzata, la cui circonferenza era decorata anch’essa con conchiglie sgargianti e perle di mare. Lì sopra un cuscino particolarmente alto e dall’apparenza morbida fungeva da materasso. Coperto di seta finissima e lucida, il suo colore mutava a dispetto della prospettiva da cui lo si poteva osservare, colorandosi di tutte le sfumature del crepuscolo.
Con sguardo assente si ritrovò a pensare a quante volte si era sdraiato lui stesso su quel cuscino, quante volte vi aveva trovato altri adagiati sopra, quante volte sua madre l’aveva bonariamente ripreso per averci portato una delle sue conquiste. Ma cosa poteva farci lui? Era così morbido, pareva quasi esser fatto di nubi. O almeno questo era ciò che gli era stato detto. I mortali però erano così innocenti, così sciocchi, non sapevano le nuvole non erano morbide, che erano solo fredde, umide e bagnate, impalpabili come la nebbia.
Il colore del cuscino si sfocò, come potesse la vista di una divinità divenir sfocata nessuno lo sapeva, ma lui era stato talmente tanto a contatto con gli umani da aver imparato anche le loro piccole e stupide particolarità, come quella.
Batté lentamente le palpebre e si concentrò sulle migliaia di immagini che vorticavano nel pulviscolo d’acqua, scorgendo sprazzi di azioni, di situazioni, di visi.
Erano le Praterie, erano tutte quelle povere anime che si erano messe in gioco senza rendersi conto che le loro possibilità di vittoria erano infinitesimali, come lo erano loro stessi a confronto con tutti i morti del mondo.
Un sorriso affilato si aprì tra le labbra morbide come il cuscino, rosee come le sfumature della sua stoffa.
Tutte quelle anime però non gli interessavano minimamente, non avevano alcun valore per lui, in quel momento neanche i suoi figli avrebbero potuto attirare la sua attenzione, perché ciò che voleva vedere era ben altro, era ben più maturo dei suoi poveri figli morti adolescenti, forse appena adulti, più potente di tutti loro messi assieme, più interessante di qualunque cosa sarebbe potuta succedere.
Le iridi calde si posarono su di un frammento nascosto dietro tutti gli altri, sfuggendo l’immagine di un uomo completamente vestito di nero che si aggirava con calma per le Praterie come se non fosse lì per recuperare il proprio ricordo. Nel piccolo scorcio comparve la figura di un uomo seduto ad un tavolo di legno massiccio: teneva i gomiti impuntati sul piano, il volto dai tratti marcati sprofondato nelle mani grandi, le labbra tirate così come le guance, gli occhi socchiusi, le sopracciglia scure rilassate. I corti capelli neri parevano un poco arruffati ma a lui non importava, così come non importava la camicia dalle maniche arrotolate e leggermente stropicciata. Il suo vestiario era del tutto irrilevante quando la sua postura gli ricordava così duramente un passato incredibilmente vicino per lui ma estremamente lontano per l’altro.
Era la stessa identica faccia che aveva da ragazzino, il modo in cui i palmi schiacciavano le guance, come gli zigomi si spingessero verso gli occhi costringendolo a socchiuderli, come le lunghe dita arrivassero agli zigomi e poi alle sopracciglia. Se lo ricordava tendere i mignoli e lisciarsi le sopracciglia spesse, per poi giocare con la punta del naso. Lo ricordava piccolo e appuntito, sporco di polvere, di fuliggine, di grasso per auto, di farina alle volte, o di icore, semplice e bruciante icore. Quell’espressione, quello sguardo, quei modi di fare da bambino, Giordano non li aveva mai persi. Era diventato un uomo, era cresciuto in tutto e per tutto ma alle volte pensava seriamente che molti anni, molte tappe, le avesse bruciate malamente saltando da una guerra all’altra, mortale, divina, di questo mondo o degli altri. Giordano era nato dalla guerra, prima della guerra, nella guerra e dopo di essa.
Un triste destino, ma poteva capirlo: forse era l’unico a poterlo fare visto che anche lui era nato letteralmente dalla Guerra.

«Guardi ancora lui?»
 
La domanda arrivò leggera nel silenzio, certo non inaspettata. La voce che l’aveva pronunciata era morbida e delicata, dolce come il miele, letale come il veleno. Era la voce delle sirene e delle malie, una voce a cui nessuno avrebbe saputo negare nulla.
Ma lui non era “nessuno” e sapeva come leggere anche le minima inclinazione di quel canto: ora vi leggeva divertimento e curiosità.
Sorrise decidendo che, almeno per un po’, avrebbe potuto assecondarla senza far danni.
«Lo sai perfettamente.» rispose pacato.
La donna annuì, stiracchiandosi sul suo giaciglio. «Ti è sempre piaciuto tanto.»
«Oh, come se non fosse stato lo stesso per te.» ridacchiò voltandosi a guardarla, «Se le cose fossero andate secondo i piani, adesso potresti vantarti di esser la fautrice della sua nascita.» le disse facendole l’occhiolino.
Lei gli rispose con una risata cristallina. «Ma il merito non sarebbe stato tutto mio, ricordati che avevo una gentile alleata.» replicò lo stesso gesto ed i due si ritrovarono nuovamente a ridacchiare, complici.
C’era qualcosa di confortante nell’avere qualcuno capace di comprenderti così bene, così profondamente, sapeva fin troppo bene quanto fosse privilegiato.
«Cosa ne pensi?» le domandò quindi, curioso di sapere la sua.
La donna allungò le braccia oltre la testa, i lunghi capelli rosei parevano riprendere le sfumature del vespro, come ogni cosa in quella stanza.

L’alba, la speranza di un nuovo inizio.

«Di lui? Lo sai che mi è sempre stato simpatico il piccolo Gio, era un ragazzino così amabile e già così potenzialmente dannoso per noi.» disse deliziata.
«”Dannoso”? Sei seria?» chiese ridendo. Scosse la testa e si avvicinò alla fontana, allungando la mano per sfiorare le figure che, immediatamente, persero forme e colori.
«Assolutamente, te ne sei dimenticato? Abbiamo dovuto abbandonare ogni ambizione nel momento in cui i nostri Oracoli si sono resi conto delle conseguenze che sarebbero sopraggiunte. Ci fermammo perché sarebbe andato tutto contro di noi: invece di proteggerci, invece di renderci ancora più grandi e splendenti di quello che già eravamo, ci avrebbe portati alla distruzione.» gli ricordò con leggerezza.
Il dio annuì. «Noi o loro.» precisò con un fil di voce.
La donna batté con lentezza le lunghe ciglia scure, le iridi diamantine che scintillavano nel buio.
«Non potevamo correre il rischio e per di più, le predizioni erano fin troppo chiare: una parte sarebbe stata distrutta e l’altra ne sarebbe uscita a mala pena viva, nessuno c’avrebbe guadagnato.»
«In ogni caso, alla fine dei giochi, il Fato si è beffato di noi, di tutti, nessuno escluso.»
«Ma ha ritardato d’anni,» disse saggiamente, «t’immagini cosa sarebbe successo in caso contrario? Se non li avessimo tenuti così lontani per tutto quel tempo…»
«Probabilmente la guerra non sarebbe scoppiata, per lo meno non una delle due.» le fece notare. «Ma ormai credo che sia del tutto inutile ragionarci sopra, ciò che è fatto è fatto.»
Per un attimo il silenzio la fece da padrone, ma sapeva perfettamente che l’altra non avrebbe demorso e così fu.
«Sai che sono sempre stata dalla sua parte, anche se le mie intenzioni non sono sempre state delle più nobili.» disse con un sorriso incantevole a tenderle le labbra rosse.
«Le tue intenzioni non sono mai “delle più nobili”, ma temo sia una nostra prerogativa divina.» rispose ridendo.
Lei fece un gesto vago con la mano, sottolineando l’ovvio. «Sono comunque sempre stata dalla sua parte.»
«Concesso.» inclinò a testa, lo sguardo sempre puntato sull’immagine dell’uomo che fissava a sua volta una bolla d’acqua animata.
«Quindi se ti chiedessi a cosa mira, me lo diresti, giusto? Perché sai che sarei comunque dalla sua parte.» insinuò con un’invidiabile faccia da poker.
Anche il dio sorrise nello stesso incantevole modo e, dopotutto, suo padre gli aveva sempre detto che avevano entrambi lo stesso dannato ed amabile modo di sorridere.
«Cosa hai capito fino ad ora?» domandò invece.
Lei sbuffò, infastidita dal doverci ancora girare attorno.
«Che tutta questa gara ha un doppio scopo, qui ci siamo arrivati tutti, credo.»
«Concesso.» ripeté per la seconda volta.
«Che c’è qualcosa che si muove per l’Ade, che le anime scompaiono e poi riappaiono, che i vincitori perdono ed i perdenti vincono.»
«Mh-mh.»
«Che i nostri figli sono quelli che gli interessano di più, ed è del tutto comprensibile visto che sono quelli più utili, se vuole arrivare da qualche parte gli serviranno poteri di ogni sorta.» ragionò lei con tono leggero.
Il dio ghignò. «A chi?»
«Come a chi?» domandò lei confusa. «A Gio. È lui che sta facendo sparire le anime.» disse con fare ovvio.
Ma quando l’altro si voltò a guardarla quella certezza improvvisamente vacillò.
«Ma Gio è sempre stato nella Sala delle Macchine.»
Il ghignò che le regalò, che avrebbe avuto il potere di far imbestialire chiunque altro, fece semplicemente scoppiare a ridere la dea.
Con un movimento fluido ed elegante si alzò dal suo giaciglio, camminando scalza sui tappeti, tra i cuscini colorati che avevano ospitato esseri di ogni sorta, per infiniti motivi.
«Oh, tesoro mio, sai che sono una dea più antica e potente di quanto non sembri.» gli disse dolcemente, carezzandogli una spalla.
Lui annuì. «E voi sapete che molteplici sono le maschere che porto con me.» rispose sorridendole con un lieve inchino.
«Certo che sì, proprio per questo ti capisco.» gli baciò teneramente una guancia e poi spostò la mano sul suo collo, sulla nuca, giocando con i capelli. «Sarà qualcosa di grande e di magnifico, lo so bene, ma cosa c’entriamo noi?»
Il dio si abbandonò un poco a quelle carezze e chiuse gli occhi per godere al meglio del tocco morbido della mano dell’altra.
«Il motivo più antico del mondo.» rispose riaprendo gli occhi per guardarla attentamente. «Cos’è che spinge tutti gli esseri ad agire?»
Lei sorrise. «Potere, vendetta, desiderio.» il sorriso si ampliò. «Amore.»
«Puoi capire la mia ossessione, vero?» domandò ancora, per aver conferma che la dea avesse davvero compreso fino in fondo l’importanza di quella sua piccola azione, di quel suo schierarsi.
«Mi stai chiedendo di combattere, tesoro?»
«No, nessuno di noi combatterà, non penso ce lo permetterebbe, è la sua guerra, non la nostra.»
La dea fece scorrere ancora le mani sul capo del giovane, prendendogli il viso tra i palmi morbidi e delicati s’avvicinò a lui sino a sfiorargli le labbra con le proprie in un bacio leggero come il pulviscolo d’acqua che rifletteva tutte le prove dell’Ade.
«Oh, amore mio, lo sai che sono sempre dalla tua parte, anche quando non sembra così. Sono di certo colei che può comprenderti meglio di tutti.»
«Sarai dalla sua parte? Dalla mia, quindi?»
«Sono sicura che ci sarà da divertirsi, vero?» ammiccò con un pericoloso scintillio negli occhi aranciati come le conchiglie di mare.
«Ti sembrerà strano, ma non lo faccio per divertimento.» rispose però lui serio.
Un altro bacio ed il sorriso della dea divenne ancora più accentuato, lo stesso bellissimo sorriso che aveva piegato il mondo, che aveva messo in ginocchio il genio e la guerra. Lo stesso dannato sorriso che aveva corrotto secoli e creato ere.
«Lo so, so che per te è importante. Mamma ti capisce sempre.»

 
*
 


Seduto a terra, con le ginocchi al petto e la testa tra di esse Jonas cercava di prendere respiri profondi, malgrado Lea gli ripetesse che una posizione così contratta non aiutasse per niente.

«Fai solo peggio, Jonas, devi distenderti, capito? Allunga il collo verso l’alto, libera le vie respiratorie.» gli ripeté ancora.
Il ragazzo scosse la testa, senza aver il coraggio di alzare il capo, di aprir bocca, di guardarla negli occhi.
Aveva visto. Lea aveva visto tutto: la porta, il corridoio buio, la sua camera, il suo riflesso allo specchio-
 
Quegli occhi verdi.
 
No, non aveva visto solo gli occhi, aveva visto anche la persona a cui appartenevano.
Per un piccolo, folle momento, Jonas aveva pensato che magari la ragazza potesse capirlo, che potesse accettare ciò che aveva fatto, ma poi si era ricordato che Lea veniva da un’epoca ancora più vecchia della sua e che quindi non aveva speranze.
L’avrebbe guardato con rimprovero, se al posto suo ci fosse stata sua madre forse lo avrebbe addirittura schiaffeggiato per aver fatto una cosa così folle.
 
Per aver amato la persona sbagliata.
 
Non voleva piangere, Jonas non voleva farlo, l’aveva fatto troppe volte, sia in vita che in morte, non voleva piangere. Però… però era così triste, così difficile, così tremendo.
Avrebbe voluto aver la forza di alzarsi e scappare, mandare al diavolo tutto e tornare oltre i cancelli neri. Sì! Dannazione! Preferiva tornare lì, al posto a cui apparteneva! Perché se lo meritava, si meritava le pene dell’inferno perché non era mai stato buono a nulla, perché non era mai stato all’altezza della sua famiglia, perché non era alto e forte come i suoi compagni, non in grado di comportarsi da uomo, non era abbastanza attraente per esser considerato dalle ragazze, per trovare una buona compagna di vita, una buona moglie da cui avere dei figli forti e sani. Non era stato mai in grado di spiccare a scuola, non era stato buttato fuori a calci solo per il suo nome. Quella era la realtà! Era rimasto nella sua prestigiosa e costosissima scuola solo perché aveva il nome giusto. Ma che senso aveva appartenere alla perfetta famiglia tedesca se poi si era meno di una mela marcia?
Si sentiva sprofondare, come se gli si fosse aperta una voragine sotto i piedi, ed era assurdo perché come poteva andare più a fondo di dove già si trovava? Era stupido da pensare ma in quel momento avrebbe solo voluto sotterrarsi, nascondersi anche a sé stesso.
No, non avrebbe alzato la testa, nel suo orgoglio ostentato, nella sua cieca testardaggine non avrebbe permesso ad un’altra persona – di nuovo – di vederlo in quelle condizioni, con gli occhi lucidi, le guance paonazze, il fiato corto. Che si trattasse di una donna, di un’amica, di un’infermiera non gliene poteva fregar di meno.
Andassero tutti al diavolo!
Che cazzo ci faceva lì? Perché stava combattendo per tornare su? Cosa diamine lo aspettava?
Non c’era nulla per lui là sopra se non solitudine, dolore, abbandono.
 
Ciò che ho provocato io agli altri.
Lì ho lasciati soli, feriti, abbandonati.

 
«Jonas, per favore, respira.»

Perché Lea continuava a parlargli? Perché sprecava tempo con uno come lui? Con un reietto? Con uno scarto della società.
 
Abbandonati, li ho abbandonati tutti.
 
«Lasciami in pace.» soffiò fuori con un suono strozzato.
Sentiva i polmoni in fiamme, era possibile? Poteva seriamente morire soffocato? Ma lui era già morto, erano tutti già morti.
«Non hai fatto nulla di male.» insistette invece Lea. «Ascoltami, è normale aver paura e io- l’ho sentita, ho percepito la tua paura e la tua angoscia come se fossero le mie e non so come questo sia possibile ma è normale, capito? È normale aver paura.»
Un qualcosa simile ad una risata proruppe irruento dalle labbra serrate del ragazzo.
«Capisci? Tu mi capisci?» chiese divertito, il tono cinico, sprezzante.
Alzò finalmente la testa, gli occhi chiari cerchiati di rosso ed ardenti di rabbia.
«Come puoi capire?! Perché hai sentito? Perché hai vissuto il mio ricordo? Tu non hai idea di cosa significhi vivere costantemente con l’ansia che qualcuno si renda conto di cosa sei? Uno sporco traditore del tuo sangue, della tua patria, della tua famiglia!» sibilò velenoso. «Non sai cosa mi avrebbero fatto se avessero scoperto…» la voce gli si strozzò, un’espressione addolorata gli trafisse il volto e Jonas si ritrovò a strizzare le palpebre così forte da veder le stelle.
Lea invece si ritrovò a batterle le palpebre, confusa. Era per questo? Perché aveva tradito le aspettative della sua famiglia?
«Hai paura che ti avrebbero disconosciuto?» domandò cauta.
Jonas rise. «Disconosciuto? Come minimo mi avrebbero ammazzato sul posto se fosse diventato pubblico! Se qualcuno l’avesse scoperto l’unico modo per lavare la macchia sarebbe stato con il sangue, il mio… il suo… non so come tu-»
«Ero una donna, senza famiglia, un’orfana abbandonata palesemente perché inattesa ed indesiderata, frutto di un tradimento. Non so come se la cavassero lo donne al tuo tempo, ma al mio non potevi far gran ché, dovevi stare a casa, occuparti della famiglia, far figli. Se lavoravi significava che venivi da una famiglia povera e ne avevi la necessità. So com’è essere svantaggiati, anche se mio fratello mi ha amata.» gli carezzò lentamente la spalla, con delicatezza. «Tua madre ti amava, giusto? Ho- ho sentito che non volevi deluderla, che non volevi farla soffrire…»
«L’ho fatto comunque, di sicuro. Prima ha perso suo marito, poi me.» rise senza gioia, «Almeno non ha mia scoperto quale disgrazia io fossi.» mormorò piano.
Lea abbassò lo sguardo, prendendo un respiro profondo e sedendosi di fianco a lui. Provò ad allungare il braccio per stringerlo attorno alle spalle di Jonas ma il ragazzo si scansò, chiudendosi di nuovo in sé, nascondendosi ancora e ancora, come probabilmente era abituato a fare da tutta la vita.
E lei lo sapeva, sapeva come si viveva male nascondendosi, l’aveva visto con i suoi occhi, l’aveva provato sulla sua pelle.
Essere semidei ed esserlo così lontani da un luogo sicuro come il Campo Mezzosangue, significava vivere nella menzogna, nell’inganno, nella costante paura che la persona che ti sorrideva educatamente si potesse trasformare in un mostro pronto a sbranarti, a dilaniarti perché la tua unica colpa era quella d’aver un vago odore divino. Temere che i tuoi amici potessero trovarsi in pericolo perché la tua traccia era rimasta su di loro, perché era un modo sicuro per arrivare a te… e poi- poi aveva visto Giuseppe, aveva visto il terrore nei suoi occhi, il suo volto impallidire, le labbra tremolare.
 
«Lea… Lea, ti prego- per favore non- non andartene, aspetta, io… posso spiegarti…»
 
Oh, sì, certo che poteva spiegare, certo che lei era rimasta a sentire cos’avesse da dirgli, perché lo amava, perché Lea amava quel suo fratello che in realtà era stato all’atto pratico suo padre, l’uomo che l’aveva adottata e l’aveva protetta e accudita anche quando non andavano d’accordo i primi tempi. Apollo l’aveva obbligato a prendersi cura di lei, ma l’affetto che ne era nato dopo non era stato imposto loro da nessuno. E chi era Lea per rinnegare la sua famiglia solo perché per la loro società, per il loro popolo, amava la persona sbagliata?
Con un moto di disprezzo Lea si rese conto che, malgrado passassero i secoli, ogni impero, ogni regno, ogni dittatura, provava il desiderio irrefrenabile di stabilire i confini e le linee guida per la vita dei popoli: l’età sbagliata, il sesso sbagliato, il paese, la casta sociale, la pelle, la lingua, la discendenza, la religione, la fede politica… c’era sempre qualcosa che non poteva esser tollerato, qualcosa che era “sbagliato” per principio e non per motivazione valida.
L’avevano fatto gli Austriaci e a quanto pare anche i Tedeschi, anzi, da quel poco che era riuscita a capire dai discorsi di Cade, anche gli Inglesi non dovevano esserci andati leggeri.
 
Cade!
 
Diamine! Non poteva ricordarsi di lui in un momento del genere, in una situazione così delicata!
Ma dove cavolo era andato a finire quel caprone di un irlandese?
 
«Non puoi biasimare te stesso per una cosa del genere.» disse improvvisamente, l’ansia e la preoccupazione che, prepotenti, avevano spazzato via quella tristezza e quel senso di rassegnazione che l’avevano presa. «Io- non ho avuto grandi amori, ad essere onesta non ne ho proprio avuti,» sbuffò divertita, «che tristezza…però, però c’è stato un ragazzo, qualcuno che forse avrei anche potuto amare se fosse tornato da me, ma non è questo il punto. So di non essere la persona più adatta per parlare di queste cose, ma d’altra parte penso di poterlo fare molto meglio di tutti gli altri, dei nostri compagni intendo.»
Girandosi verso il ragazzino gli afferrò saldamente una spalla costringendolo a forza a girarsi verso di lei, a guardarla dritta negli occhi. Lo fece anche se sapeva che, in quel momento, Jonas voleva solo scapparle, voleva a tutti i costi nascondersi.
 
Come aveva sempre fatto.
 
Con un moto di stizza lui si scrollò la sua mano di dosso ma rimase ugualmente voltato, la prepotenza dell’orgoglio e della testardaggine adolescenziale che, in un altro momento, avrebbero fatto sorridere Lea ma che, allo stato attuale delle cose, la rendevano solo più convinta delle sue azioni.
La figlia di Apollo portò le mani in grembo, ostentando una posa rigida e formale, un qualcosa che le era rimasto della sua vita, quando doveva parlare di cose importanti, delicate.
«Non venirmi a dire che mi capisci, perché sono sicuro che non sia così.» le rispose comunque duro lui.
Lea alzò un sopracciglio: anche lei aveva ancora sprazzi di assoluta e stupida ribellione adolescenziale, ma soprattutto di moti di puro orgoglio.
«Perché, credi che quello che è successo a te non possa capitare ad una donna? Cosa c’è? Voi sì e noi no?» gli chiese con aria di sfida.
Jonas vacillò. No, certo che no… lui si era innamorato perdutamente dell’anima a cui appartenevano quei magnifici occhi verdi, non del suo involucro, del corpo, dell’etnia, dell’aspetto, del sangue, del credo o di qualunque altra cazzata. Il sentimento che l’aveva alimentato era stato così sincero, così violento, che non faticava a credere che anche una donna potesse provarlo dopotutto l’amore non guardava in faccia nessuno. Quello a cui non poteva credere era che fosse successo a lei, che lei lo potesse capire. E glielo disse senza mezzi termini o giri di parola.
Jonas poté giurare che sul volto di Lea si fosse aperto un sorriso irritato, di pura stizza.
«A quanto pare voi uomini continuate a credere di saperne più di noi anche nel futuro.» disse con voce sprezzante e dura.
Il ragazzino si ritrovò a battere le palpebre preso in contropiede. Si sentiva confuso da quelle parole, tanto da dimenticare l’ansia che l’aveva attanagliato poco prima. Lo stupore era così forte da aver fatto tabula rasa nella sua testa.
Cosa significava? Perché le diceva quelle cose?
Improvvisamente Jonas si rese conto di non aver mai conversato per così tanto tempo con una donna, con un’estranea; si rese conto che lui, del gentil sesso, non sapeva nulla se non l’apparenza che tutti decantavano, o criticavano, e qualche piccola informazione sparsa appresa quando “spiava” le domestiche lavorare per casa sua, quando parlava di cose futili con Virginia.
Guardando Lea con occhi completamente nuovi realizzò che quella donna non aveva mai parlato di nulla di quello che erano solite parlare le sue domestiche: niente marito, niente figli, niente commissioni da portar a termine. Certo, era un contesto del tutto diverso, ma per quanto se ne era interessato a suo tempo, era arrivato alla conclusione che la vita di ogni donna fosse relegata alla sfera famigliare, che il loro destino fosse tracciato per seguire solo quella strada.
 
Un po’ com’era segnato il mio.
 
Jonas batté le palpebre: aveva imparato a non mostrare compatimento verso la vita dell’intera popolazione femminile, indipendentemente che fosse dell’alta società o meno, rispetto e gentilezza verso le donne erano cose essenziali per un uomo di classe come lui, però… si sentiva così confuso dannazione! Cos’aveva detto di così strano? Di così sbagliato?
 
«Io- io non-» balbettò completamente incapace di replicare.
Lea gli regalò lo stesso sguardo sprezzante di prima, quel sorriso infastidito, tipico di qualcuno che si ritrova per l’ennesima volta in una situazione spiacevole già sperimentata.
«Tu cosa?» domandò assottigliando lo sguardo. Poi prese un respiro profondo ed espirò con forza. «Senti, questo non è il momento giusto per parlare di tutte le stupidaggini maschiliste che ti sono state insegnate.»
«Non mi è stata insegnata nessuna stupidaggine maschilista!» protestò subito indignato.

Oh, indignazione: il suo sguardo è indignato.
 
«Certo, come no! Però pensi che io non ti possa capire, giusto? Come potrebbe una povera donnetta come me, cresciuta in un convento e poi nella casa di un medico, poter capire i complicati giochi d’amore del cuore di un uomo, vero?» replicò con ardore. «Beh, allora fatti dire una cosa, ragazzino: questa donna, così come ogni altra al mondo, potrebbe capire anche meglio di te i tuoi stessi sentimenti, perché vuoi uomini siete stupidi ed ottusi e continuate a nascondervi a reprimere ciò che provate solo perché qualcuno prima di voi vi ha detto che è giusto così. Ti darò una notizia sconvolgente: ci vuole molta più forza e coraggio ad amare come fa una donna, perché nonostante tutto, nonostante il mondo intero ci dica che per amore dovremmo rinunciare a tutto, abbassare il capo ed eseguire gli ordini, noi continuiamo ad amare e a farlo a testa alta.» fece un gesto secco della mano per farlo tacere e Jonas gliene fu quasi grato perché malgrado la sua bocca si fosse spalancata per ribattere non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe detto.
«Oh, no! Non ci provare! Sei praticamente uno sconosciuto per me, non so da quanto siamo qui dentro, forse giorni, anni o solo minuti, ma vorrei farti notare che non mi sono mai tirata indietro per aiutarti, qualunque fosse la situazione. E sì, capisco che i tuoi terribili scatti d’umore siano dovuti al fatto che sei un adolescente, che sei spaventato e sei scappato da un luogo terribile, ma questo non ti giustifica, tu- Dio Santissimo padre dei popoli! Sei proprio come mio fratello, sei identico a Giovanni! Anche lui credeva che io non potessi capire, anche lui me l’ha nascosto per tutto quel tempo! E sai cosa? Scommetto che te lo sei portato nella tomba, vero? Non lo hai mai detto a nessuno! Voi uomini siete tutti uguali! Vi fingete forti, inscalfibili, perfetti come il vostro regno vi vuole, non sbagliate mai no? Dovete sempre dirci cosa è giusto o meno fare, cosa possiamo accettare e cosa no, come bisogna comportarsi, perché voi lo sapete! Ma la verità è che siete tutti dei codardi che non hanno il coraggio di guardare il mondo senza una maschera a nasconderli!» terminò con rabbia, con un risentimento covato in petto per anni, per secoli e ora esploso senza freno.
Lucidamente Jonas si rendeva perfettamente conto che quello sfogo non era diretto a lui, aveva capito di dover aver detto qualcosa di sbagliato, magari una frase che tempo prima doveva avergli detto proprio suo fratello e che aveva innescato qualcosa nei ricordi della figlia di Apollo che l’aveva portata ad urlargli quasi in faccia. Eppure quelle parole lo colpirono così duramente, così profondamente.
Da una parte c’era una donna del diciannovesimo secolo, che lo guardava arrabbiata e indignata perché, ancora una volta, qualcuno – un uomo, non importava l’età – le aveva detto che non poteva capire; dall’altra un ragazzino del ventesimo secolo che, parlando con quella stessa rabbia che ora attanagliava la sua compagna, si era ritrovato da predatore a preda, confuso e ferito.
Come c’erano arrivati a quel punto? Perché si erano detti quelle cose?

Per colpa mia, per colpa del mio ricordo. È sempre colpa mia, sempre.
 
Codardo.
 
Jonas abbassò il capo: perché doveva essere tutto così doloroso, così complicato?
 
«Come puoi capirmi, se non hai vissuto quello che ho vissuto io?» mormorò appena, sconfitto.
Il volto di Lea s’ammorbidì un poco, ma quel dolore latente ancora brillava nei suoi occhi.
«Mio fratello.» disse umettandosi le labbra e fissando l’erba nera. «Mio fratello mi ha nascosto la sua relazione per anni. Forse non si fidava di me, forse non pensava sarei stata felice per lui, forse- forse non mi credeva in grado di capire, esattamente come stai facendo tu.» mormorò infine amareggiata. «I segreti distruggono le persone, rovinano le famiglie…»
Jonas rimase immobile, gli occhi fissi nel vuoto. Uno strano suono gli riempì le orecchie, un ronzio vuoto e assordante allo stesso tempo, qualcosa che lo scollegava dal mondo e ce lo gettava nel mezzo.
C’erano altre persone nel mondo che avevano sofferto come lui, a cui avevano inculcato in testa che bisognava amare solo chi il proprio paese reputava adatto a noi, non chi si amava davvero. Aveva ragionato così tanto sui suoi sentimenti, sulle sue paure, ma non si era mai soffermato davvero su quelle degli altri. Certo, aveva avuto paura che la sua famiglia lo scoprisse, che l’onta li colpisse, aveva temuto di perdere la loro fiducia, il loro rispetto, il loro affetto… aveva temuto d’esser ripudiato, di provocar dolore in sua madre, in suo nonno ma- ma c’era anche qualcuno che avrebbe potuto soffrire per la sua mancanza di fiducia? Non sapeva com’erano le cose al tempo di Lea, ma Jonas si disse che per lui non era stata semplice sfiducia verso il prossimo, per lui si trattava di vita o di morte, se no-
No.
No, lui non avrebbe detto nulla in nessun caso, non avrebbe ugualmente avuto il coraggio di aprir bocca e dire liberamente ciò che provava.
Spostò finalmente lo sguardo su Elena e si domandò se, nella sua piccola famiglia, ci fosse ancora solo una persona che si sarebbe indignata. Si domandò se sua madre avrebbe pianto per il dolore di saperlo tra le braccia della persona sbagliata o se l’avrebbe fatto perché il suo unico e amato figlio non aveva avuto il coraggio di dirle d’essersi innamorato.
La sua mente s’aggrovigliò su sé stessa e Jonas non lo sapeva, non sapeva cosa pensare, cosa provare. Non sapeva e basta.
Lea doveva la vita a suo fratello, era lui la sua unica famiglia, non era la stessa cosa per lui, la situazione era diversa, lui non aveva nessuno con cui condividere un rapporto fraterno, forse solo-
Batté le palpebre, l’immagine di un volto gentile e sorridente, pieno di vita e di energia.

Oh, Ludwig.
 
Erano amici da quando erano piccoli, erano cresciuti assieme per i corridoio della magione della sua famiglia, era il suo migliore amico e gli voleva un bene dell’anima. Per anni era stato come un fratello per lui, il compagno di giochi e avventure immaginarie, di studio e di crescita.
Deglutendo a vuoto Jonas si domandò cosa sarebbe successo se… se Ludwig avesse saputo. Se Ludwig, il suo migliore amico d’infanzia, avesse saputo che aveva una relazione illegale.
Si immaginò il suo viso farsi serio mentre lui lo informava d’aver qualcosa d’importante da dirgli. Lo vedeva drizzare la schiena, assumere una posa più dritta, più adulta, matura. Lo immaginava ascoltare in silenzio, perché Lud non gli avrebbe mai parlato sopra, gli avrebbe lasciato il tempo ed il lusso di spiegarsi e poi-
 
Poi mi avrebbe dato un pungo perché ero stato così stupido da farmi mille fisime nel raccontargli una cosa così importante per me.
Mi avrebbe stretto. Mi avrebbe detto che sono un cretino. Che mi voleva bene, che avrebbe lottato al mio fianco, qualunque cosa fosse successa. Perché è questo che fanno gli amici.
 
Deglutì ancora.
Ludwig sarebbe stato al suo fianco fino alla fine.
Fino al momento del giudizio. Lo avrebbe difeso anche davanti all’ovvietà delle prove. Perché erano amici. Perché lo sarebbero stati per sempre se solo…
 
«Scusa.»
La sua voce era fievole come la luce dell’Ade, non voleva guardarla, non ora che aveva capito, anche se solo lontanamente, cosa avesse dovuto subire.

Non si soffre mai da soli.
 
Lea piegò le labbra in un sorriso amaro.
«Ora mi consola solo sapere che è stato amato. Per quanto possiamo dire dei nostri fratelli, per quanto possiamo insultarli o litigarci, alla fine vogliamo solo che siano felici.»
Jonas annuì. Non era proprio quello che intendeva, ma capiva che per lei il centro della storia fosse un altro. Meglio così, si disse, se poteva allontanare il discorso dal suo ricordo avrebbe fatto qualunque cosa, anche parlare della famiglia.
«Non ne ho la più pallida idea, non ho fratelli.» si arrischiò a dire sorridendo incerto.
Lea si voltò allora a guardarlo e gli sorrise con più convinzione: si sentiva ancora profondamente ferita dalle sue parole ma sapeva che non erano rivolte davvero a lei, che erano solo uno sfogo di dolore trattenuto e nascosto per troppo tempo.
«Beh, è bello e impegnativo, terribile e facile. Ogni fratello ha un rapporto diverso ma, se dovessi farti un esempio, è un po’ come il tuo con-» si bloccò.
Lea sgranò gli occhi, un pensiero fulminante che le balenò in testa, e si maledisse pesantemente nel suo bel dialetto natio.
Come cavolo aveva fatto a dimenticarselo? Com’era possibile che un momento prima volesse solo interrompere quella discussione per dire al ragazzino che il loro compagno era scomparso e l’attimo dopo si trovasse a litigare e raccontargli di Giuseppe?
 
«Dov’è Cade?» Domandò allora Jonas, cogliendo il riferimento interrotto e notando, solo in quel momento che l’amico non era con loro.
Poi si ricordò anche che avevano litigato, che stava litigando con tutti in effetti, proprio come farebbe un bravo adolescente vivo.

Elena si alzò di scatto, voltando la testa a destra e sinistra.
«Non lo so. Volevo dirtelo prima. Un momento era lì vicino a te, poi tu mi sei corso incontro, abbiamo assistito al tuo ricordo e quando siamo tonati indietro, quando siamo tornati qui, lui non c’era più.» continuò a cercarlo freneticamente ma era ovvio che il giovane non fosse lì.
La prateria era un enorme distesa con pochi avvallamenti e colline, nulla che impedisse all’occhio di perdersi sino alla linea dell’orizzonte. Un orizzonte bruno, appena visibile ma non buio. Un orizzonte vuoto.
Non c’erano più sfere luminose, non c’erano anime che vagavano alla ricerca del loro ricordo, non c’era nulla.
 
«Dov’è Cade?» la voce di Jonas vibrò, tremula di paura ed inquietudine.
Avevano litigato. Era corso via senza dargli una risposta, una spiegazione, anche se Cade non si era davvero arrabbiato con lui, anche se gli aveva detto che erano gli Asfodeli a parlare per lui. Cade non c’era più, era scomparso nel nulla.
 
Mi ha abbandonato?
 
«Dov’è?» chiese ancora, un sussurro nel vento fantasma delle Praterie.
L’erba si muoveva con lentezza per poi fermarsi, immobile, pietrificata. Nessuna macchia di colore se non il nero che il attorniava.
 
Cade?
 
*
 


«ELIZABETH!»
 
Quel nome le provocava l’urticaria anche quando era rivolto a qualcun altro.
Jane arrancò a corto di fiato, seguendo il dannato gigante che pareva invece perfettamente a proprio agio anche dopo aver corso per una landa desolata e dissestata com’erano gli Asfodeli.
Da lontano poté vedere la figlia di Nike alzarsi di scatto e voltarsi nella loro direzione. Forse stava cercando tra l’erba una possibile sfera, ma qualunque fosse l’oggetto della sua attenzione fu velocemente accantonato in favore del loro arrivo.
E del tono di voce palesemente allarmato di Úranus.
Qualche metro più in là, anche lui chinato ad esaminare frammenti di sfera che gli erano parsi per un momento intatti, Nathan alzò semplicemente il capo, aggrottando le sopracciglia chiare.
«Cazzo che potenza di fiato, non l’avevo mai sentito urlare prima.» constatò piatto.
«È successo qualcosa.» gli rispose Eliza, avanzando tra l’erba alta, improvvisamente agitata.
«Oh, che sorpresa!» ironizzò il soldato alzando le mani al cielo e tirandosi in piedi. «Che cazzo avete combinato?» gli urlò di rimando avvicinandosi anche lui.
Piegata su sé stessa, a riprendere fiato, Jane lo guardò storto. «Abbiamo ritrovato il mio ricordo, razza di cafone. Non abbiamo fatto nulla.» ringhiò di rimando.
«Non siamo noi il problema.» rispose Úranus fermandosi davanti ai suoi compagni. L’occhiata eloquente di Nathan lo spronò a continuare. «Avverto una scia ti terrore, di paura. Sono sicuro che si tratti di Jonas ed il vago eco di ansia che l’accompagna dev’esser Lea.»
«Il ragazzino è terrorizzato? Aspetta, tu capti il terrore? Che cazzo sei? Un radar?»
Úranus lo guardò confuso. «Non so di cosa tu stia parlando, Nathan, ma non è questo a preoccuparmi.»
«Sono in pericolo? Jonas è ferito? Lea non riesce a curarlo?» incalzò allora Eliza.
Il ragazzone scosse piano il capo. «Quello che sento è un sentimento interno, un tormento personale, dell’anima. Posso credere che siano riusciti ad entrare in possesso del ricordo di Jonas. Lea dev’essere preoccupata perché non riesce a calmarlo.»
«E che problema c’è? Di solito è quel roscio del cazzo di Cade a fare da camomilla al moccioso.» borbottò Nathan.
A quelle parole però Eliza si irrigidì. Lo sguardo fisso e freddo di Úranus, macchiato della stessa ansia che emanava la sua amica a chilometri di distanza, le diede una risposta prima ancora che il giovane potesse aprir bocca.
«Cade.» mormorò a bassa voce. «È successo qualcosa a Cade?»
«Che ha fatto sta volta lo stronzo?» domandò spazientito il biondo.
Úranus spostò lo sguardo da un soldato all’altro.
«Non lo sento più, non avverto più la sua presenza. È come se fosse scomparso dalle Praterie degli Asfodeli.»
Per un attimo rimasero tutti in silenzio, poi Nathan bestemmiò.
Jane lanciò un lungo fischio d’approvazione ed Eliza non poté che dargli ragione.
Che significava che era “scomparso dalle Praterie”? In che senso?
Il figlio di Ares drizzò la schiena e fece scrocchiare le ossa del collo, si inumidì le labbra ed espirò pesantemente. Avrebbe voluto imprecare ancora un po’ contro tutti gli Dei ed i santi che conosceva, ma non ne avevano il tempo.
«Okay, va bene. Come funzione il tuo potere? Come puoi essere così certo che non ci sia più?» chiese con incredibile calma.
Úranus lo guardò quasi con gratitudine, avere una mente fredda che pone domande logiche era sempre una buona cosa.
«Il potere di mio padre mi permette di sentire a livello emotivo le sensazioni ed i sentimenti altrui.»
«Tutti?» domandò Eliza.
Úranus strinse le labbra. «Solo dolore, paura e disperazione.»
Questa volta fu Nathan a fischiare. «Phobos?» chiese allora.
Per un lungo istante il gigante meditò se dire la verità, dire una bugia e lasciar credere a Nathan che suo padre fosse il dio della Paura, o se negare e non aggiungere altro.
«Senti bello, capisco che tu non abbia molta voglia di dire in giro di essere il figlio della paura, ma qui non gliene frega un cazzo a nessuno e dobbiamo capire come agisce il tuo potere, se non senti più roscio di merda perché è finalmente sparito dalla faccia della fottuta terra o perché è asceso al Nirvana e quindi è talmente in pace con sé stesso che non riesci più a sentirlo. Quindi: Phobos?»
«Se è il dio della Paura è possibile che Úranus non avverta più Cade perché non prova paura?»
«Potrebbe rintracciare i suoi ricordi.» s’intromise Jane. «Ha ritrovato il mio così.»
«In che senso?»
«Mi è bastato concentrarmi su di lei, ho sentito… l’eco del suo dolore tra i centinaia che aleggiano per le Praterie. Allo stesso modo percepisco il terrore di Jonas, l’ansia di Lea.»
«Puoi concentrarti su Cade e sentire la sua paura?» domandò Eliza.
Úranus scosse il capo. «Non sento nulla…»
Nathan alzò gli occhi al cielo a quel punto. «Cristo Iddio! Allora? Sei figlio di Phobos? Perché ho conosciuto una figlia di Phobos e so che se ti trovi nelle vicinanze di qualche fonte di tormento peggiore o a qualcosa che ti rende particolarmente nelle grazie degli Dei, allora la vostra capacità di percepire la gente si sballa e noi siamo del fottutissimo Inferno, quindi direi che di tormenti peggiori ne abbiamo quanti cazzo ne vogliamo.»
A quel punto Úranus espirò con violenza e fissò gli occhi in quelli di Nathan.
Voleva la verità, la voleva seriamente? Bene.
«Fobetone.»
Nathan non rispose. Rimase in silenzio per un lungo momento, mentre Eliza e Jane lo guardavano in attesa che l’unico ad esser andato al Campo Mezzosangue spiegasse loro qualcosa.

«Cazzo.»
 
«È grave?» chiese ingenuamente Eliza.
Nathan fece un’espressione tra il sorpreso e lo sconcertato. «Ma no, è solo uno degli Dei degli incubi, di quelli che si trasformano nelle tue peggiori paure e che si alimentano con quelle paure stesse. Terrore, ansia, dolore… cose del genere, tutta robetta leggera che proco il cazzo ora capisco perché hai sempre quest’espressione di merda stampata in faccia. Te credo che senti la scia della gente, senti tutti i loro tormenti.»
Jane lo guardò stralunata, incredula davanti ad una spiegazione del genere. «Hai detto che tuo padre ha pochi figli…» mormorò appena.
Fu di nuovo Nathan a rispondere però. «Grazie al cazzo, quando i figli di Fobetone entrano in modalità d’attacco sono pericolosi, ma se cadono nel panico, in quello vero, sono bombe nucleari che camminano. Immagina di avere un esercito pronto al combattimento e di punto in bianco ogni soldato cominciasse a vedere tutto ciò che teme di più al mondo. Si cagherebbero in mano e sarebbe uno scempio. O se poco poco uno di loro perde il controllo nel mezzo di una città! Una strage!»
Úranus storse il naso. «C’erano modi più gentili per dirlo.» constatò piano, poi si riscosse. «Rimane il fatto che non riesco più a percepire la scia della paura di Cade. Sento Lea e il ragazzo, sono vicini, ma non Cade.»
«Dannato roscio di merda, l’ho già detto?» borbottò estraendo la sua bussola.
«Anche troppe volte.» lo seccò Eliza. «Puoi portarci da loro il più velocemente possibile? Se qualcuno sa cos’è successo a Cade quelli sono di certo Lea e Jonas.»
Úranus la guardò serio. «Preghiamo gli Dei di non giungere troppo tardi.»
 

La bussola di Nathan non funzionava esattamente come avrebbe dovuto, o per lo meno questo era quello che continuava a ripetere Jane guardando malamente il biondo.
 
«Non è una fottuta guida turistica, non ti porta dove cazzo vuoi. Punta a nord come ogni altra dannatissima bussola con l’unica differenza che non viene influenzata dai campi magnetici generati dalla magia divina e da tutte quelle altre puttanate. Se poi c’è una forte fonte di potere punta da quella parte, chiaro?» ringhiò il ragazzo.
Jane continuò a fissarlo quasi disgustata. «Quindi non ci serve a nulla, perfetto.»
«Abbiamo Úranus che può individuare con esattezza la posizione di Jonas e Lea, non ci darà le coordinate precise ma ci porterà a destinazione.» tagliò corto Eliza seguendo il gigante che camminava sicuro.
Lui annuì. «Esattamente come sono riuscito a trovare il tuo ricordo.» affermò secco.
A quelle parole però qualcosa si accese nella mente di Nathan.
«Non hai una sfera con te.» le disse studiandola con occhio critico, «Sei riuscita a riassorbire il tuo ricordo?»
Jane eruppe in un verso di scherno. «Oh, sì, esatto. Il colosso qui ha ben pensato di romperla invece di darla a me.» soffiò con cattiveria.
Ma se lo sguardo di Nathan si fece solo poco convinto quello di Eliza s’alzò al cielo roccioso.
«In pratica lui l’ha visto prima di te, tu hai cercato di prenderglielo di mano e si è rotto, vero?» domandò il soldato ghignando. «Nessuno ti crederebbe mai se dicessi che lo ha fatto apposta. Stiamo parlando di Úranus, non di te. Tu sei una stronzetta che romperebbe di proposito le palle per far del male agli altri, non lui.» il ghignò si fece più ampio e Jane e Nathan si fissarono con occhi di fuoco per un lungo momento, ignorando dove stessero mettendo i piedi.
Eliza sospirò, inclinando il capo verso Úranus, come a volergli chiedere di dare una risposta che facesse tacere tutti.
Il ragazzo però era intento a fissare le praterie, a non perdersi quel filo di terrore tra i tanti presenti lì in mezzo. La paura di Jonas si era affievolita, sostituita da qualcosa che pareva molto rabbia, così come l’ansia di Lea si stava lentamente tingendo d’amarezza, di un senso d’ingiustizia che Úranus non riusciva a comprendere. Sapeva quanto fosse terribile da dire, ma se i due non fossero rimasti in quello stato emotivo lui non sarebbe più riuscito a sentirli.
«Dobbiamo sbrigarci, le loro emozioni stanno cambiando.» mormorò appena.
«Continui a non sentire rosso malpelo?» chiese Nathan avanzando fino al suo fianco.
L’altro scosse la testa. «Nulla, mi spiace.»
Il soldato annuì. «Non è colpa tua, non farti strane idee, è quel coglione che chissà dove si è andato ad infilare.»
Úranus lo guardò con riconoscenza, grato che qualcuno, il figlio di Ares per di più, si fosse premurato di dirgli che il non avvertire Cade non c’entrava nulla con le sue capacità.
Eliza si ritrovò a sorridere appena, mentre Jane alzava gli occhi al cielo e si lamentava di non riuscire a tenere il passo con tutti e tre.
Nathan le rispose in malo modo, ricordandole che l’ultima volta che aveva provato a portarla in spalla da qualche parte la ragazza per poco non si era spezzata l’osso del collo pur di scendere, quindi non c’avrebbe certo riprovato.
Quando i due iniziarono a battibeccare, a sprecare fiato avrebbe detto in un’altra vita, la figlia di Nike cercò di estraniarsi dalla conversazione, concentrandosi su ciò che aveva attorno, così come Úranus si stava concentrando sui loro compagni.
Per un attimo Eliza si domandò come fosse possibile che Cade avesse perso di vista Jonas, se avessero incontrato dei problemi, qualcuno contro cui combattere. Ma no, Úranus aveva assicurato loro che non era così e sebbene la donna non sapesse come funzionassero i poteri dell’altro, si fidava comunque di lui.
Chissà cos’era successo allora, chissà cosa aveva spinto i tre a dividersi, ad allontanarsi. Era logico per lei pensare che in caso di pericolo o di necessità, Cade avrebbe costretto gli altri due a fuggire assieme e si sarebbe fatto carico del combattimento, del problema. Eliza non era una sciocca, aveva visto cos’era in grado di fare l’irlandese, come sfruttava i suoi poteri divini, come sembrava “volare” ogni volta che spiccava un balzo. Ricordava la spinta gentile e ferma del vento contro la sua schiena, l’aria risucchiata e spinta via nell’Area Cani, ma aveva anche notato che Cade era tutto velocità ed agilità. Aveva paura che in uno scontro diretto contro un nemico, armato o meno, avrebbe rischiato di rimanerci secco, che il suo scattare a destra e sinistra sarebbe stato facilmente neutralizzato da qualcuno che avesse una buona conoscenza del combattimento. Non poteva dire con certezza di conoscere tutte le abilità del suo compagno, poteva credere che sì, sapesse come cavarsela in una rissa, magari anche in qualcosa di più grosso: ma uno scontro uno contro uno?
Quel deficiente sarebbe stato capacissimo di farsi ammazzare pur di non gridare aiuto, lo sapeva per certo, e la cosa le metteva addosso più ansia del dovuto.
 
Dannato rosso, dannatissimo rosso!
 
Neanche l’avesse chiamato la voce lontana del ragazzo le sfiorò la mente, tanto che Eliza credette di aver riportato alla memoria qualcosa che il giovane le avesse detto in precedenza. Erano parole sussurrate piano, sottovoce, un mormorio tipico di quando non si vuole svegliare qualcuno, di quando non si vuole rovinare la pace tanto attesa.
Qualcosa che loro due non avevano mai condiviso.
Poi arrivò un secondo rumore, qualcosa di strano, come il picchiettare dell’acqua su una superficie dura, il gocciare continuo di un’infiltrazione.
 
Pioggia?
 
Eliza rallentò il passo, finendo in retrovia, lasciando che Jane la superasse arrancando mentre teneva sollevata la gonna logora del vestito che indossava sin dalla sua morte.
Si voltò a destra e sinistra, cercando di non fermarsi, di osservare il paesaggio che la circondava senza perdere d’occhio i suoi compagni: non voleva che scomparissero anche loro di punto in bianco e ormai aveva maturato l’idea che Cade fosse scomparso proprio così, distraendosi un attimo di troppo e finendo diviso dagli altri per colpa della Foschia.
Eppure quel rumore di pioggia era troppo intenso, quel mormorio troppo chiaro, la chiamavano come una sirena fa con i marinai dei poemi antichi, nelle leggende di mare. Eliza sapeva cos’era, non poteva esserci altra soluzione se non quella:
 
Il ricordo di Cade.
 
Ma aveva senso recuperarlo? Non sapeva neanche se il suo amico fosse ancora “vivo” o meno, se, una volta lasciato solo, le Praterie degli Asfodeli si fossero accanite di nuovo su di lui cancellando ogni traccia di memoria e ricordo dalla sua anima. Aveva ancora senso?

 
“Ha senso attendere un amico fino alla fine? Ha senso sperare nel ritorno di un soldato sino alla fine della guerra? O è già perduto appena partito?”
 
 
Eliza volse di nuovo il capo, cercando ora quella voce che le aveva sussurrato beffarda all’orecchio.
Aveva senso? Le aveva chiesto. Un soldato è perduto appena partito?


“Anni dopo di te, qualcuno, un uomo di guerra e di lettere, avrebbe detto che ‘non tutti gli erranti son perduti’. Cosa vuoi fare? Spetta a te deciderlo, Elizabeth.”
 
 
Spettava a lei deciderlo. Ma chi glielo stava dicendo? Chi era?
Si fermò di botto, lasciando perdere gli altri, dimentica di quegli stessi buoni propositi che si era appena ripetuta, cercando febbrilmente l’uomo che le parlava nella testa.
Poi lo vide.
Lontano, sul limitare dell’orizzonte, completamente vestito di nero, con un lungo cappotto che lo copriva sino ai piedi. Non poteva distinguere i suoi tratti con chiarezza, ma avrebbe giurato che gli occhi di quell’uomo fossero chiari, luminosi, cangianti.
Dietro di lui qualcosa si mosse, la figura vaga di un giovane dalle vesti candide, i capelli chiari, il corpo fine e longilineo, così in contrasto con l’uomo che lo copriva da esser quasi fastidioso.
Con una sicurezza incredibile Eliza seppe per certo che il giovane le stava sorridendo, scommise anche che le avesse fatto l’occhiolino, e subito dopo la voce dell’uomo – perché doveva per forza essere la sua – le parlò di nuovo con fare divertito.

 
“Tu pensa al suo ricordo, alla salvezza della sua prova. Noi penseremo a quella della sua anima.”


Da dietro la schiena il giovane estrasse qualcosa, un oggetto che brillò come una pietra preziosa sotto il sole.
 
«Eliza! Che cazzo hai! Ti senti male?»
La voce di Nathan, sempre estremamente gentile ma per una volta anche sorprendentemente preoccupata, la fece scattare verso il compagno che la stava raggiungendo marciando, tornando sui suoi passi velocemente quasi pensasse di doverla soccorrere in qualche modo.
Sorpresa da quella preoccupazione genuina, probabilmente Nathan pregava che non impazzisse anche l’unica persona sana di mentre oltre a lui, Eliza si voltò di nuovo verso il punto in cui erano apparsi di due, ora svaniti nel nulla.

«Ehi?» il tono del soldato ora era più basso, quasi serio. «Che ti prende?»
La donna però non gli rispose subito, continuò a tenere lo sguardo puntato verso l’orizzonte sino a quando la sua vista non si sfocò e qualcosa di luminoso catalizzò tutta la sua attenzione.
Facendo cenno a Nathan di seguirla s’incamminò veloce verso la luce, da lontano Jane imprecò a mezza bocca ed Úranus le chiese gentilmente di non mettercisi anche lei.
«Cos’hai visto?» domandò ancora il biondo.
Eliza s’accucciò a terra e, proprio come aveva immaginato, trovò una sfera tra l’erba.
Probabilmente, se non fosse stato per quei due, non l’avrebbe mai potuta vedere: la sfera era un globo di vetro nero, pareva quasi onice tanto era denso, ma era innegabile che fosse uno dei ricordi della prova.
Si tirò su con lentezza, mostrando l’oggetto al compagno.
«Ma che cazzo-?»
Eliza annuì, incapace di dire alcun ché o di rimproverarlo ancora per il suo vocabolario.
Quella sfera era completamente diversa rispetto a tutte quelle che avevano visto sino a quel momento: non c’erano immagini a vorticavi dentro, non c’erano persone che parlavano senza voce, mute nonostante le loro bocca si muovesse. In quella sfera d’onice non si poteva veder nulla, ma da dentro di essa provenivano rumori - lo scrosciare dell’acqua, il ticchettio della pioggia sui mattoni, sulle tegole, il rumore degli scarponi sui selciati bagnati, sulle strade fangose -  e voci -  il mormorare quieto di qualcuno che ha necessità di parlare, di rompere quel silenzio fittizio ma al contempo desidera non rovinare in alcun modo la pace tanto agognata -  e soprattutto, un senso di freddo e di umido, di vento bagnato sulla pelle, sui vestiti zuppi.
Nathan spostò lentamente lo sguardo dalla sfera ad Eliza, ignorando gli altri due che li chiamavano, Úranus che ricordava loro che dovevano muoversi prima che la traccia scomparisse.

«È quello che credo che sia?» domandò piano.
Eliza annuì. «Sì, è il ricordo di Cade.»
«Come cazzo c’è finito qui? Perché non si vede niente e soprattutto chi cazzo ce lo ha fatto trovare?»
La figlia di Nike lo guardò stupito e lui fece un verso infastidito.
«Un sfera nera, che emana freddo, umidità, rumore di pioggia e mormorii. Se non avessi riconosciuto la voce non ti ci saresti avvicinata e di certo non l’avresti vista a colpo d’occhio qui in mezzo. Quindi: chi voleva che la trovassimo e perché?»
«L’uomo in nero.» disse lei. «Ho visto un uomo completamente vestito di nero, laggiù.» indicò l’orizzonte.
Nathan inarcò un sopracciglio. «Lo sai, vero, che non è possibile distinguere un uomo da una donna a quella distanza.» le chiese retorico.
Ma lei scosse il capo. «Ti assicuro che era un uomo, ho sentito la sua voce nella mia testa.»
A quell’affermazione il soldato si fece più attento ed imprecò a denti stretti. «Cazzo.»
«Che succede?»
Úranus e Jane si erano avvicinati agli altri, uno preoccupato e ansioso e l’altra solo annoiata.
«Eliza ha visto un uomo che le ha fatto trovare questa sfera, è il ricordo del coglione, e le ha anche parlato nella testa.»
«Il coglione?» domandò Jane sogghignando.
Úranus sospirò. «Stai diventando incredibilmente maleducata anche tu.» le fece notare senza però ottenere nessuna risposta.
«No, l’uomo in nero. E se l’ha sentito vuol dire che era come minimo un semidio, se non direttamente un dio visto che è scomparso nel nulla.»
Jane saltò improvvisamente sull’attenti, curiosa e guardinga. «Un uomo in nero? Intendi vestito completamente di nero? Con una lunga giacca che lo copriva fino ai piedi?» domandò ansiosa.
«L’hai visto anche tu?» le chiese Eliza sorpresa.
Jane annuì. «Ma non ora, non qui. Lui… è moro? Ha i capelli corti, è alto e massiccio, e gli occhi-»
«Era distante, non può saperlo.» tagliò corto Nathan. «Dove lo hai visto?»
«Qui nelle Praterie degli Asfodeli. Beh, nella mia parte delle Praterie. È stato lui a darmi il biglietto per partecipare.»
Come se solo allora si fosse ricordata della presenza del ticket, Jane estrasse il talloncino dorato dallo scollo del suo vestito, mostrandolo con reverenziale cautela agli altri.
Il numero “1” spiccava come una macchia di carbone su di un lenzuolo bianco.
«Tu… sei la prima ad essersi iscritta alla gara?» domandò flebilmente Eliza.
Nathan ringhiò. «Probabilmente è la prima delle Praterie. Ma se è vero quello che dice-»
«Lo è dannazione! Perché dovrei mentire?»
« allora significa che l’uomo che hai visto è immischiato nella gara.»
«Ma perché portarmi il ricordo di Cade? Come poteva sapere che noi siamo suoi compagni, che glielo avremmo riportato?»
«Perché ci spiano come se fossimo nel fottuto 1984
«Che cos’è un-»
«È un cazzo di libro dispotico su un regime che controlla pure quante volte puoi pisciare.» abbaiò innervosito. «Se il tipo è lo stesso che ha dato a te il biglietto vuole dire che ti ha tenuta d’occhio fino ad ora, vuol dire che con tutta probabilità non ci siamo incontrati per caso e che porco Zeus qualcuno vuol qualcosa da noi.»
«Una gara elitaria solo tra semidei.» mormorò piano Úranus.
Nathan annuì.
Eliza si umettò le labbra. «Questo- questo vuol dire che Cade è ancora in gara? Se ci controllano e possono “aiutarci” come vogliono, che senso avrebbe consegnarmi il suo ricordo se poi lui non può continuare il gioco?»
Il soldato annuì ancora. «Penso di sì, non lo so.» ammise alla fine, di mala voglia.
Rimasero per un momento in silenzio a riflettere, poi la figlia di Nike si ricordò di un piccolo particolare.
«Non era solo.» disse d’improvviso. «C’era un giovane con lui.»
«Un aiutante? Ma che cazzo.»
«Ma chi è? Chi potrebbe mai andare in giro a scovare semidei senzienti tra gli Asfodeli e riportar ricordi a persone fidate?» domandò Úranus aggrottando le sopracciglia. «E parlare nelle menti delle anime.»
«Probabilmente la stessa persona che può mettere al tappeto una decina d’anime senza farsi vedere.» sentenziò Eliza.
Nathan annuì, avevano pensato la stessa cosa.
«Ne discuteremo anche con gli altri, magari hanno sentito qualcosa pure loro e se non sbaglio il dannato rosso aveva detto d’aver sentito le voci, no?»
«Sì, Jonas dice che lo ha spaventato, ma credevamo entrambi fosse per via delle Praterie.»
«Beh, se non ci muoviamo non lo sapremo mai.» sbuffò Jane, la mente ancora rivolta all’uomo vestito di nero ed al modo in cui l’aveva chiamata.
 
Ladybug, come mi chiamava papà…
 
«Mi duole dir qualcosa del genere, ma forse Lea sta riuscendo a calmare Jonas, non riesco più a percepirli come prima.» disse preoccupato Úranus.
«La rompi palle ha già il suo ricordo e con tutta probabilità pure il moccioso, non possiamo neanche attaccarci a quello.»
«E allora a cosa?» domandò Eliza ricominciando a camminare nella direzione di prima, le sfera nera ed uggiosa stretta con attenzione tra le mani.
«Di questo passo c’attaccheremo solo che al cazzo.» sogghignò Nathan felice. «Me l’hai servita su un piatto d’argento.» disse mostrandole il sorriso ampio.
Eliza quasi gli ringhiò contro.
«Ricordati che Elena ha minacciato di tagliartelo e che io sono capacissima di farlo.»
La minaccia, chiara e palese, ebbe la forza di far ridacchiare il figlio di Ares, la figlia di Ecate e far sospirare affranto quello di Fobetone, che cercò subito di legarsi il più strettamente possibile a quel vago filo che ancora riusciva a percepire.
La triste verità dei fatti era che più si agitava e più i suoi poteri erano forti, che la calma e la concentrazione potevano servire solo poche volte e che Úranus temeva d’averle già sprecate. Con una nota di triste ironia si disse che l’ansia che gli stava crescendo nel petto, quella che provava per Lea e Jonas, soli e senza protezione, e per Cade, disperso chissà dove, per una volta sarebbe stata d’aiuto.
Sempre che non lo sopraffacesse distruggendo tutto – o tutti – quello che aveva attorno.
 
 
*
 


Le case degli Dei, per quanto lussuose e particolari, per quanto diverse, specchio dell’animo del loro padrone, condividevano tutte una stessa stanza simile: la stanza del trono.
I semidei credevano che l’unico luogo in cui vi fosse il dorato seggio degli Dei fosse la Sala del Trono, con la maiuscola – entrambe le parole – ma non era così.
Ade aveva la sua sala personale, lì, nelle profondità dell’Inferno, nel centro di esso, colonna portante di un sottomondo che ospitava tutto ciò che c’era di più scuro e tetro in quel pianeta, prigione e luogo d’eterno riposo.
Poseidone aveva la sua sala nelle profondità del mare, sul sabbioso terreno compattato sino a trasformarsi in lucida pietra, immerso nell’acqua salmastra e fredda.
Zeus aveva il suo tra tutti i dodici più importanti, ma poi, in ogni Casa, in ogni proprio dominio, gli Dei avevano altri.
Entrare nella Casa di un dio significava entrare nel suo tempio primo, nel luogo in cui giungevano tutte le preghiere, tutti gli insulti e i sacrifici. Era il fulcro del potere di un dio, più del suo oggetto sacro, più del suo trono dorato.
In ogni Casa c’era una stanza centrale, circolare, dall’alto soffitto a cupola, circondato di colonne fini e decorate, così come lo erano i cassettoni del soffitto. C’era un’apertura sulla sommità della cupola, un foro circolare come la sala, un punto che permetteva alla luce, all’aria, agli spiriti e alle magie di mobilitarsi. Un’apertura che permetteva all’essenza divina, enorme e incontenibile, di sostare dentro ad una piccola – grande – stanza senza per questo esserne soffocata.
La stanza del trono in cui si trovava ora gli era incredibilmente famigliare, forse perché tante volte era stato accolto tra quelle mura, tra quelle colonne, sul pavimento levigato e lucido come uno specchio. I suoi piedi parevano quasi scivolare sulla superficie perfettamente liscia, il vago ricordo di quando, ancora adolescente, vi si era gettato sopra per poter slittare e giocare con quei pochi amici che l’Olimpo gli aveva concesso: grandi e potenti Dei tornati all’aspetto di mocciosi solo ed unicamente per potergli far compagnia, per poterlo intrattenere, dargli un volto amico della sua età, come non ne aveva mai avuti.
Ricordava anche il volto gentile della donna che li ospitava, che li guardava spazientita ma anche segretamente divertita, che gli urlava contro come avrebbe fatto una madre.
 
Come aveva fatto per troppo poco tempo la sua.
 
Gio sorrise a quei pensieri dolceamari, quanto tempo era passato ormai…
Le suole consumate delle sue scarpe migliori non facevano la minima frizione contro le lastre del pavimento, Giordano si ritrovò a ridacchiare, rendendosi conto solo in quel momento che, malgrado gli anni, ogni volta che doveva presenziare davanti alla Dea che dimorava in quella Casa si vestiva sempre al meglio.
Era un piccolo ma banale particolare che lei aveva sempre amato.
Si mosse ad agio sino a raggiungere il centro della stanza, dove un enorme bacino verde ospitava acqua così pura da sembrare inesistente. Era un unico e massiccio blocco di malachite, scavato ed inciso, freggiato come un bicchiere di cristallo nel suo guscio esterno e perfettamente levigato all’interno, dove neanche un’increspatura muoveva la superficie trasparente.
La prima volta che l’aveva visto aveva subito capito cosa fosse, prima ancora che glielo spiegassero, prima ancora che chi lo accompagnava al tempo – Ade, sempre lui – potesse dirgli che non era un pozzo.
Quanti avevano osato far quella domanda? Chiedere alla Divina perché avesse voluto un pozzo di malachite nella sua stanza centrale? Oh, ma lei non doveva una risposta a nessuno, la Regina degli Dei poteva fare ed ottenere tutto quello che voleva, sempre.
 
Tranne la fedeltà di suo marito, del suo fratello più piccolo.
 
In quanti dimenticavano che Zeus era il più giovane dei grandi fratelli, che Era fosse invece una delle sorelle più grandi? Ancora troppe persone. Così come in troppi vedevano in lei solo una figura crudele, capricciosa e meschina, corrotta dalla gelosia e dall’invidia.
 
Ferita nel profondo. Madre di figli che testimoniavano i tradimenti del marito. Signora di un regno che non poteva davvero governare. Protettrice di un’istituzione corrosa, malandata. Dea del matrimonio che le aveva messo le catene ai polsi e l’aveva umiliata.
Come si può difendere qualcosa che ci ha fatto così tanto male? Come può dirsi Dea della fedeltà coniugale quando questa stessa le è sempre stata negata? È come un condannato a morte che difende la pena capitale.

 
Glielo aveva detto, ne avevano parlato a lungo quando lui era più piccolo, quando aveva pensato anche di essersi innamorato, di volersi sposare un giorno. Le aveva chiesto come potesse ancora credere nel matrimonio quando Zeus aveva ridotto il loro ad una semplice facciata.
 
«Solo perché qualcosa fa del male a noi non vuol dire che non sia fonte di salvezza e felicità per altri.»
 
Aveva mormorato con gentilezza.
 
«Difendi ancora le cause perse?» domandò invece lui ad alta voce. «Scruti ancora il mondo attraverso il tuo specchio?»

Era se ne stava poggiata ad una delle tante colonne della sala, la veste candida che le ricadeva morbida e semplice addosso, la spalla premuta contro la superficie incisa, il bracciale d’oro che s’infossava nella carne colorita. Teneva lo sguardo fisso verso l’esterno, le grandi arcate oltre cui scrutava il mondo non avevano finestre ma il vento che si muoveva sinuoso e rapido fuori di esse non s’azzardava ad entrare nella dimora della sua Signora.
I capelli castani erano raccolti sulla nuca, perfettamente in ordine come sempre, come tradizione voleva.
Le ricordava gli anni ’50, quando delicati cerchietti e perle tondeggianti le adornavano capo e collo, le gonne a ruota le sfioravano a mala pena le caviglie e le scarpe erano sempre abbinate alla pochette che portava al gomito. L’aveva conosciuta così, dopotutto, vestita come i mortali, forse con il proposito di non spaventarlo o scandalizzarlo troppo, ma Gio, al tempo, aveva già avuto il piacere di incontrare il fratellastro di Al, vestito di tutto punto come tradizione voleva, quindi non gli avrebbe fatto alcuna differenza vederla con gli abiti greci che le erano propri.
Con calma Era si distaccò dalla colonna per avvicinarsi al bacino.
 
«Non ho molto altro da fare, specie in questo periodo.» gli rispose tranquilla.
Gio sorrise. «Non ti godi la gara? Mi era parso di capire che l’idea ti allettasse, che ti fosse piaciuta.»
Lei annuì. «Per quanto io non sopporti determinate persone, siano esse mortali o semidivine, l’idea di fare una strage solo per intrattenere fratelli, figli e nipoti non mi aggrada minimamente. Hai proposto una soluzione perfetta e malgrado Ade se ne lamenterà sino alla fine dei tempi, in questo modo molte anime stanno andando scomparendo definitivamente, gli Inferi si libereranno un poco.» disse quieta. «Soprattutto se continui ad eliminare chi tu non sopporti.» precisò infine guardandolo con fare di rimprovero.
Giordano rise apertamente e poggiò le mani sul bordo di malachite: sapeva perfettamente che grande privilegio fosse, spesso neanche a Zeus era concesso sfiorare il bacino di pietra.
«Se lo meritavano, lo sai perfettamente. Solo perché tre deficienti o qualcuno in più reputano la tua vita degna non vuol dire che questa lo sia stata veramente. Negli Elisi ci sono “eroi” che sarebbero dovuti morire tra le pene dell’inferno.»
«Ma erano i prediletti di qualcuno di noi e si sono salvati, lo so. Almeno io non verro mai tacciata di simil accuse, io mi limito ad ostacolarli in vita.» abbozzò un sorriso drizzando la schiena orgogliosa.
Gio rise ancora ed il sorriso sul volto della Dea s’ampliò.
Lo scrutò poi con più attenzione, scorgendo segni di stanchezza su quel volto tanto famigliare, la solita ed immancabile luce triste che si nascondeva dietro quelle iridi cangianti.
Avrebbe voluto chiedergli cosa ci fosse che non andava, perché stava agendo a quel modo, ma in fondo già lo sapeva.
«Ci sei tu dietro tutto questo, Giordano, stai favorendo i semidei?» gli chiese comunque.
Lui sospirò. «Sono sempre stato nella Sala delle Macchine.»
«Non mentire a me.» lo ammonì benevola. «Stai cercando di rimediare agli errori del passato, ma questi non sono stati “errori” né tantomeno sono stati colpa tua.»
«I semidei hanno più possibilità di vincere. Più si va avanti con le prove peggio sarà. Gli altri Dei vogliono vedere le lotte, il sangue. Presto lo avranno. Di certo Atena ed Ares non negheranno loro questa gioia.» rispose con una smorfia.
Ma Era non demorse, aveva troppa esperienza alle spalle per farsi sviare in questo modo.
«Ciò che è successo ai tuoi nipoti, a tua sorella, alla tua famiglia, non è stata colpa tua. Così come ciò che è successo a tutti gli altri. Se stai cercando loro, tra le anime dell’Ade, non li ritroverai. Lo sai Giordano, è stata l’unica imposizione di mio fratello, non ti avrebbe permesso di crogiolarti per sempre nel rimpianto e nella desolazione.»
«Sono così tante le storie che meritano di esser corrette, di avere un finale diverso. È così sbagliato voler giustizia?» le domandò guardandola dritta negli occhi.
Era sentì un brivido sfiorarle la pelle, non era più abituata ad aver il suo sguardo puntato addosso, non era più abituata a dover fronteggiare occhi come quelli. Ve ne erano molti di simili ai suoi, che condividevano lo stesso colore, ma nessuno, nessuno, era uguale a quello.
 
Solo uno e Giordano sarà per sempre il monito di ciò che abbiamo rischiato per colpa della nostra sete di potere.
 
«Giustizia per chi?» domandò allora.
Gio scosse piano la testa, non era la prima persona che gli poneva quella domanda, seppur in un contesto diverso. La risposta non cambiava ma poteva esser espressa in modo diverso.
«Giustizia per coloro che la meritano.» rispose pacato.
«Secondo chi?» insistette lei. «Secondo la coscienza di chi?»
«La mia.»
Non aveva esitato neanche un attimo a dirlo ed Era ne fu segretamente compiaciuta: lei stessa era stata una delle persone ad insegnargli a non abbassare mai il capo davanti alle proprie idee, a reputarle sempre buone e giuste.
 
«Quando un’idea germoglia in te, lasciala crescere, mettila in atto. Non dubitare del tuo pensiero e se poi si rivelerà esser stata fallimentare, ricorda che non vi è fallimento alcuno, invero, ma solo prove e prove prima della riuscita finale. La tua idea, il tuo credo, il tuo intelletto e la tua volontà sono validi come e più di quelli di chiunque altro. Rammenta questo e non dubitare mai.»
 
«Sai-» proruppe lui d’improvviso, «questa vasca mi ha sempre ricordato una fonte battesimale.»
Era annuì. «Ne è rimando, sì.»
«Le suore dicevano sempre che il battesimo è il sacramento più importante di tutti, perché lava via il peccato originale e ci rende tutti fratelli e sorelle. L’acqua purifica il nostro spirito, quell’anima innocente ma già macchiata di tutte le colpe del mondo. Peccato non funzioni sempre.»
La Dea avanzò ancora, avvicinandoglisi sino a poggiare la mano perfettamente curata su quella dell’uomo.
Il contrato tra le loro pelli era minimo, Giordano aveva sempre avuto quel bel colorito mediterraneo ed Era, madre suprema e discendente della Madre Terra stessa, aveva sempre conservato una carnagione del medesimo tono.
 
Florido e fecondo. Come la terra. Che crudele ironia.
 
«Quali peccati vorresti lavarti via?» domandò a bassa voce, come farebbe un prete durante una confessione. Dubitava però che il suo fedele avrebbe potuto ricevere l’assunzione delle colpe con facilità. Così come ognuno di loro.
Quello che scappò dalle sue labbra tese somigliò molto al risolino di un bambino preso con le mai nella marmellata.
«Se provassi a bagnarmi in una fonte renderei l’acqua torbida come il fango.» scosse piano la testa e poi, quasi con titubanza, strinse la mano della Dea. «Tu già lo sapevi, vero?»
Era ricambiò la stretta e gli carezzo piano una guancia con l’altra mano.
Il volto di Giordano regredì nel tempo, tornando ad essere quello del bambino sorpreso e sconcertato da un mondo, una verità, più grande di quanto non potesse comprendere a fondo.
Se solo sarebbero potuti tornare indietro e fermarsi in quei magici e surreali anni in cui ancora nessuna guerra era scoppiata, in cui era ancora tutto in stasi…
«Una madre sa sempre tutto, a tace.»
«Perché?» la sua voce era tornata ad esser quella acuta ed infantile dei suoi quattordici anni, quando ancora non era mutata nel vocione profondo che l’avrebbe caratterizzato per il resto della sua vita.
Teneva la testa reclinata verso l’alto, per poter guardare Era in faccia, puntandole addosso quei suoi enormi e dannati occhi confusi.
 
Sì, c’è stato un tempo in cui la confusione era la tua unica maestra.
 
«Perché ogni figlio dev’esser in grado di rischiare, di cadere e rialzarsi con le sue sole forze.» spiegò dolcemente. «Te compreso.»
Il ragazzino abbozzò un sorriso. «Sono caduto tante di quelle volte da aver abbassato il livello del fondo.» disse quasi imbarazzato. «Ma ho anche imparato come saltare di nuovo fuori dalla fossa.»
La confusione scomparve d’improvviso e malgrado il suo aspetto rimanesse quello di un adolescente, i suoi occhi erano fermi, seri, determinai e penetranti come quelli dell’uomo che era diventato.
Un modo di puro orgoglio esplose ruggente nel corpo della Dea.
«Non so cosa farai per raggiungere il tuo obbiettivo, ma non ti fermerò. Ho piena fiducia in te.»
Le dita lunghe e fini di Giordano si strinsero ancora di più nella mano morbida di Era.
«Grazie, madre.»
 
*
 


«Quindi non servi a un cazzo.»
Eliza alzò gli occhi al cielo.
Dei dell’Olimpo, ora avrebbe picchiato entrambi.
«Solo perché tu sei stato addestrato non vuol dire che lo siano stati tutti.» rispose Jane con acidità.
«Che c’è? Pensi che sia stato con le mani in mano finché non mi hanno portato al Campo? Io mi sono sempre allenato da solo, con mia madre, al parco, in palestra. Non sono stato a grattarmi il culo finché qualcuno non mi ha detto che potevo fare fuoco e scintille con un’arma in mano.»
«Il mio mondo er-»
«Puttanate!» la interruppe Nathan marciando in salita verso la sommità della collinetta. «Stai sparando un botto di puttanate solo per pararti il culo! Quando sei un semidio lo sai! Magari non lo sai per certo, magari non sai come ti chiami, come devi definirti, ma lo senti che sei diverso, cazzo, lo avverti dentro. Quindi non venire a raccontarmi stronzatine varie solo perché sei debole e non hai mai pensato di allenarti. Porcod-»
«Okay! Le bestemmie no!» sbottò la mora dietro di loro.
Jane e Nathan la ignorarono bellamente.
«Non è stata colpa mia!» ringhiò ancora lei.
«Certo, come no! Se non sai andare in bicicletta è perché non c’hai mai provato, non perché nessuno te lo ha insegnato! Non so da che cazzo di mondo vieni tu, ma sappi che per imparare a fare qualcosa devi per prima cosa alzare il culo e smetterla di aspettare che arrivino gli altri a fare quello che vuoi.» continuò Nathan sempre più agguerrito.
«C’era la caccia alle streghe da me!» si giustificò ancora la ragazza. «Non potevo mettermi ad allenarmi con la magia. E che diamine è una bicicletta?!»
«Lo vedi? Sei anche contraddittoria! Prima dici che nessuno ti ha insegnato, “Uh-uh! Sono una povera bambina nata con poteri speciali, che ha vissuto una cazzo di vita normale senza intoppi e che quando ha dovuto affrontare il primo problema vero della sua vita non sapeva come fare!”. Poi mi dici che non l’ha fatto perché c’era la caccia alle streghe. Mi pare che pure Golia qui dietro fosse nella tua stessa merda!»
«Lui aveva suo padre che lo addestrava e stava con lui!» ringhiò furiosa.
«Per l’ultima volta!» esplose d’improvviso Úranus. «Mio padre non “stava con me”. È un dio e come tale ha degli impegni da portar a termine-»
«E fare cagare in mano la gente mentre dorme è una cosa davvero impegnativa. E non ti sto prendendo per il culo, giuro che ti sto dando davvero ragione.» lo interruppe al volo Nathan.
«- giungeva di tanto in tanto ad addestrarmi per far sì che i miei poteri non straripassero e non si accanissero sulle genti del mio villaggio.»
«Che vuole dire-» provò Jane alzando gli occhi al cielo.
«Che vuole dire che suo padre andava lì di tanto in tanto porco Zeus! Non che se l’è cresciuto! Mi sa qui in mezzo sei tu l’unica che è cresciuta in una cazzo di porco Olimpo impestato di famiglia normale! Io non ho mai avuto un padre!» urlò Nathan alzando le mani al cielo.
«Io ho incontrato mia madre solo due volte, in una neanche mi ha parlato.» borbottò Eliza.
«Quindi non cagare il cazzo! Smettila di nasconderti dietro a mille scure perché- Porca troia statti zitta e fammi finire di parlare invece di interrompermi sempre! Ti stai nascondendo dietro a mille scuse! Se non sai usare la porca puttana di magia di tua madre è perché sei scarsa! Non ti sei mai allenata per farlo, hai avuto tutta la fottuta morte per farlo ma ti sei rigirata i pollici!
Niente coniglio dal cilindro, proc-»
«La mia situazione era difficilissima! Ma cosa puoi capirne tu? Tu sei stato addestrato a sopravvivere, io no!»
«Io neanche.» sbuffò Eliza stringendo tra le mani la sfera di Cade. «Non mi hanno mai dato nessun tipo di addestramento divino. Quello che sta cercando di dirti Nathan, seppur ormai lontano dal centro del discorso perché voi due litigate fin troppo facilmente, è che non puoi dire di non aver dei grandi poteri perché “nessuno ti ha insegnato”. Per sviluppare una qualunque abilità ti devi allenare.»

Úranus sospirò, accelerando il passo e lasciando a Jane il suo posto di fianco ad Eliza.
Nathan, alla sua sinistra, gli lanciò un’occhiata sbieca.
«Dimmi che le hai fatto pagare le pene dell’inferno per ritrovare quel fottuto ricordo.» masticò a mezza bocca.
L’altro sospirò. «Non ne vado fiero. Temo di essermi fatto prendere la mano. Mi ha accusato di aver avuto una vita facile e felice, che ho avuto tutte le fortune. Se solo sapesse…»
«Oh, aver avuto l’aiuto del proprio genitore divino non è nulla di cui vergognarsi o per cui scusarsi.» gli disse subito serio.
Úranus annuì. «Ne sono consapevole, ma ti ringrazio lo stesso.» poi ci pensò su. «Sei molto più gentile ed onesto di come appari.»
Nathan ghignò. «Mamma. Sorvolava su tutte le amenità che m’uscivano di bocca, non sempre, ma non transigeva sulla verità. Un essere umano si definisce in base alla sua onestà. Sempre.»
«Mia madre invece mi ripeteva che nell’Ade saremmo stati giudicati per la capacità del nostro animo d’amare il prossimo.»
«Abnegazione.» annuì Nathan. «Tua madre però non era un soldato come la mia.» ammiccò.
Úranus gli sorrise. «Mia madre era un’erborista. Lei creava unguenti e medicine con le piante.
È per tua madre che sei diventato un soldato?» domandò poi curioso, prendendo ampie boccate per contrastare il leggero fiatone che stava iniziando ad accusare.
Nathan scosse la testa. «Eravamo entrati in guerra, dovevo andare a fare la mia parte. Ho scelto la marina.»
«I marinai? Nel futuro ci saranno dei soldati solo per le navi?»
«Una sottospecie, sì. I marines sono i soldati che stanno sulle navi, ora le chiamiamo portaerei, incrociatori. Sono nei sommergibili e simili. Però sbarchiamo anche a terra, ci paracadutiamo se ce n’è bisogno, facciamo anche le cose che fanno i normali soldati.» si fermò per un secondo. «Ovviamente noi siamo i migliori, cazzo.»
Úranus si ritrovò a sorridere ancora. «Sembri molto fiero.»
«Lo sono. Sono un figlio della Guerra, sono fiero dei miei compagni e delle nostre imprese.»
«Spero che le cose ora siano cambiate, una volta l’arrivo di soldati stranieri non era mai una buona cosa. Mi hanno insegno a diffidare delle divise.»
Con un grugnito Nathan non poté che dargli ragione. «Se. Siamo sempre i cattivi di qualcun altro, è così. Guarda rosso malpelo, lui non sopporta nessun tipo di soldato, neanche un poliziotto reggerebbe, perché gli Inglesi gli hanno invaso la terra.»
«Eppure si è fidato di voi due, e sia te che Eliza siete in divisa, seppur così diversa.»
Nathan stette in silenzio, la mente volata verso quel battibecco che avevano avuto nel Labirinto. Solo – quanto? Un giorno? Due? Settimane? Ore? Anni? Minuti? Solo due prove prima avrebbe abbaiato contro chiunque quanto cazzo fossero sbagliate le idee di Cade, ora che avevano affrontato assieme ben tre ostacoli, che aveva visto cos’era in grado di fare – con i suoi poteri e con le persone – e che era scomparso d’improvviso, non gli andava più molto di lamentarsi di lui.
O meglio: sì che gli andava di lamentarsi di lui, ma lo sentiva lui stesso che non aveva più la stessa animosità di prima.
 
Come quando discutevo con qualche coglioncello della Cabina 11. Mi ci incazzavo ma non volevo davvero spaccargli la testa sino alla morte. Solo sbatacchiarli un po’.
 
«Quella testa di cazzo fa sempre pessime scelte, per una volta che ne ha fatta una giusta non mi sembra il caso di rimarcarlo.» borbottò in fine facendo sorridere ancora Úranus. Se era un sorriso poi quella roba strana sotto la barba rossa.
«Dovremmo starci ora, vero? Alle brutte hai detto che se non li senti più tu la rompi palle potrebbe trovarci di suo, ve?» cambiò discorso con disinvoltura.
«Certo, avrà sicuramente voglia di rivedere uno come te.» gli soffiò dietro Jane.
Ma non continuò oltre quando si beccò l’occhiataccia di Eliza.
«Cristo iddio! Non vedo l’ora di rivederla, ci credi? Preferisco mille volte lei a te.» le sputò contro il biondo voltandosi oltre la propria spalla.
«Potrai dirglielo di persona, perché sono molto vicini.» disse Úranus allungando il passo.
 

Gli ci vollero quelli che, a sensazione, Eliza avrebbe chiamato “venti minuti”.
Lea e Jonas se ne stavano fermi a terra, seduti l’uno davanti all’altra a parlare sottovoce, neanche dovessero nascondersi a qualcuno.
Non appena li videro però, Lea saltò in piedi e corse verso Úranus, gettandogli le braccia al collo per abbracciarlo al meglio.
L’unico che non sembrò minimamente turbato da quell’azione fu probabilmente Nathan, visto che Jane si espresse in un’espressione quasi disgustata, Eliza di una sorpresa e Úranus in una completamente imbarazzata e scioccata. Jonas li guardava da lontano, nessun particolare sentimento ad illuminargli il volto.
 
«Siano ringraziati gli Dei! State bene? Siete feriti? Avete trovato qualche sfera? Noi abbiamo trovato quella di Jonas ma ora abbiamo un problema più grande! Cade è -»
«Scomparso.» la interruppe Úranus posandole le mani sulle braccia e spingendola delicatamente indietro.
«Golia dice che non lo sente più. Capta ansia, paura e terrore come un fottuto radar e spero vivamente che tu stia per dirmi che lo stronzo è asceso al paradiso.» s’intromise Nathan.
Lea lo guardò per un lungo istante, poi lasciò uscire un pesante respiro.
«Dannazione, mi sono preoccupata anche per te!» esclamò d’improvviso assestando una poderosa pacca sulla schiena al biondo.
«Gli sei mancata anche tu. Preferisce litigare con te che con me.» la informò Jane atona.
La figlia di Apollo la fissò per un momento, poi guardò Nathan. «Beh, me la sarei presa davvero a male se avresti preferito lei a me, sarebbe stato un vero insulto.»
Il soldato non poté impedirsi di scoppiare a ridere, in modo fragoroso. Alzando gli occhi al cielo Eliza si disse che forse, forse, li preferiva quando litigavano e non quando si alleavano contro Jane.
Forse.
«Come sta Jonas?» domandò per evitare di cadere in lunghe ed inutili discussioni.
Lea tornò seria, mordendosi un labbro e voltandosi verso il ragazzino ancora seduto a terra.
«Non bene. Il suo ricordo lo ha scosso molto, non sono riuscita subito a calmarlo e-»
«Solo il roscio ci riesce al volo, sì, lo so.» tossì. «Sappiamo. Lo sappiamo.»
Elena alzò un sopracciglio. «È questo che hai cercato di fare l’altra volta? Consolarlo?»
«Volevi dargli una pacca ma non sei capace e lo hai picchiato?» chiese maligna Jane.
«Posso darla a te se vuoi, ma questa volta sarebbe intenzionale. Se solo mia madre non mi avesse insegnato a non picchiare la gente più debole di me…»

«Abbiamo litigato.»
 
Jonas si era alzato ed aveva avanzato qualche passo verso di loro, pur mantenendosi a debita distanza. Tutta la confidenza guadagnata in quei momenti trascorsi assieme spazzata mia con un colpo di spugna.
«Gli ho detto perché sono morto. Non per una nobile causa, se vi interessa.» disse a bassa voce.
Nathan lo guardò serio. «Non vedo come questo possa averlo fatto incazzare. Ormai sei morto, non è che puoi cambiare le cose.»
«Sono scappato.» affermò deglutendo un improvviso eccesso di saliva. «Sono scappato dalla situazione in cui mi trovavo perché ero troppo debole per continuare a mentire. Quindi sono un bugiardo e un codardo. La mia terrazza era proprio quella, l’ottava.» abbassò il capo perché non voleva guardarli negli occhi, ma al contempo non voleva più mentire ai suoi compagni, a quelle persone che, nonostante tutto, l’avevano accettato anche senza voler spiegazioni in cambio.
Glielo doveva. A loro e a sé stesso, e poi…
 
Da solo non sarei mai in grado di ritrovare Cade e devo chiedergli scusa, devo ripagarlo ancora per tutto quello che ha fatto per me, anche se non vorrà più esser mio amico.
 
Dio, si sentiva un tale moccioso a pensare quelle cose, però era così: Cade era l’unica persona, anima, che si sentisse di chiamare così, di definirlo suo amico. E per colpa del suo carattere del cazzo, di quel dannato filtro bocca-cervello che si attivava solo in presenza degli adulti, Jonas aveva come sempre complicato le cose, distrutto tutto.
 
«Sai,» disse Lea avvicinandoglisi, lo sguardo gentile e triste, proprio come l’aveva quando gli aveva parlato di suo fratello. «io sono scesa in strada per salvare delle vite. C’era un ragazzo ferito, aveva la febbre alta e io volevo curarlo. Sono arrivati dei soldati e mi hanno intimato di allontanarmi, che non meritava l’aiuto di nessuno. Ho detto di no, mi sono rifiutata e sono morta. Ti potrà sembrare che io abbia fatto qualcosa di nobile ma la verità è che sono uscita di casa disobbedendo a mio fratello, litigando con lui per questo, e quando mi sono trovata davanti qualcuno da aiutare, mi sono fatta uccidere. Non trovi che sia un po’ ridicolo? Sono morta e non ho concluso nulla.» gli prese le mani nelle sue, sorridendo. «Come ha detto Nathan, e sappi che ho i brividi al sol pensiero che gli sto dando ragione-»
«Io ho sempre ragione, cazzo!»
«Quel che è stato è stato. Ormai siamo morti e non potrai mai cambiare le cose. Ma possiamo riscattarci, tornare su e riprendere la nostra vita da dove si è interrotta.»
«Potrà farlo solo uno di noi.» intervenne Eliza. «Ma ci giocheremo questa possibilità fino alla fine.»
«Ti prego di non pensare che Cade sia scomparso per causa tua.» diede loro manforte Úranus. «Ora la cosa più importante è ritrovarlo.»
«E rinfacciargli a morte che si è perso come un cazzo di ragazzino ai grandi magazzini.» sbuffò Nathan.
«E che stiamo perdendo tempo per uno come lui.» concluse Jane, sorprendendo positivamente gli altri, seppur con un commento poco gentile.
Úranus si avvicinò a Jonas, guardandolo fisso negli occhi, due tonalità di azzurro chiaro e freddo a confronto.
«Fuggii anch’io, tempo fa. Sarei potuto rimaner fermo nella mia dimora, usare quei poteri tanto temuti per proteggere la mia famiglia, ma ho scelto di non farlo, per codardia. Questo anche è un tipo di riscatto, Jonas. Questa volta, non scapperemo.»
Il ragazzino non riuscì a distogliere lo sguardo, come ipnotizzato dal ghiaccio che penetrava in profondità la sua anima, da parte a parte, limpido come l’acqua, come un’anima senza colpe, senza peccati.

No, quella volta non sarebbe scappato. Lui era Jonas Friederich, era forte e orgoglioso, avrebbe affrontato quell’ennesima sfida e l’avrebbe vinta.
 
«Come individuiamo Cade? Jane può usare la sua magia?» domandò serio.
Nathan grugnì. «Non ci tira fuori un cazzo di coniglio da quel cilindro, figurati se può tirarci fuori una testa di cazzo rossa.»
 
«Si può sapere che diamine è un cilindro?»
 
*
 


Si mosse a disagio, scosso dai tremori deliranti della febbre e dell’incoscienza, rigirandosi su sé stesso.
Faceva caldo ma brividi di freddo gli tormentavano le membra, mentre il sudore colava lungo la sua fronte aggrottata.
Una mano benevola gli carezzò gentilmente il capo, scostandogli i capelli fradici, tirandoglieli indietro. Era così fresca quella mano, abbastanza grande da coprirgli tutto il volto se solo avesse voluto.
Ma di chi era? Perché stava così male? Dov’era finito? Cosa stava succedendo?
 
«Ssh… è solo un sogno, solo un brutto sogno. Resisti ancora un po’, gli incubi potranno sembrarti terribili ma quando riesci ad aprire gli occhi tutto scompare.»
 
Un sogno? Di che tipo? Un incubo? Ma di chi? Suo?
 
«Non può farti del male, è solo un ricordo e così com’è comparso svanirà nel nulla.»
 
Nel nero pesto del sonno vaghe scie colorate cominciarono a prendere forma, finché davanti ai suoi occhi serrati iniziò a comporsi la scenografia di una casa, una storia che forse avrebbe dovuto già conoscere o forse che avrebbe visto per la prima volta in vita sua.
 
 
 
La donna davanti a lui sorrise con gentilezza. Era sempre stata così dolce, così sicura, così affettuosa; gli occhi azzurri parevano dello stesso colore dell’acqua sul letto di un fiume ciottoloso, cristallina e in fermento. Era impossibile, lo sapeva perfettamente, gli occhi degli uomini non potevano mutare in quel modo, non potevano esser acqua tirata dalla corrente, ma per lui era sempre stato così.
Gli occhi di sua madre gli davano tranquillità, ispiravano la calma del bosco dopo le ore più calde della giornata, dopo il calare del sole. E come acqua erano lenitivi per ogni sua ferita, per ogni suo dubbio ed ogni suo dolore.
La stanza in cui si trovavano in quel momento era silenziosa, il mondo attorno a loro lo era, non uno stormir di foglie, non il canto di un uccello, lo scricchiolio di un ramo. Nulla. C’erano solo loro due, i suoi singulti mal trattenuti ed il sorriso morbido di sua madre.

 
«Non devi dar loro peso, amore mio, non devi lasciar che le loro parole ti feriscano.»
«Ma madre,» riuscì a dire con voce sorprendentemente ferma, «Hanno ragione. La ragione è con loro, la mia presenza sola riesce a trasformare un soleggiato mattino in un cupo giorno. Non posso biasimare nessuno se ad ogni mio passo corrisponde l’indietreggiare della gente.»
La donna mosse con grazia la mano, allungandosi oltre il tavolo usurato per poter carezzare il viso di suo figlio. Lui alzò il capo e posò a sua volta la propria mano su quella più piccola e delicata.
«Vi chiedo perdono, madre, sono un uomo adulto che ancora piange sulle vostre gonne.
»
Ma il sorriso non si spense, lo sguardo non divenne più duro, non gli diede ragione, lo fissò soltanto, lasciando che si sfogasse, che dicesse ciò che pensava, com’era giusto che fosse.
«Vorrei solo poter camminare per il villaggio senza spaventar nessuno, che sia per la mia statura o per la mia presenza. Non sono di alcun aiuto, già hanno così tanti pregiudizi su di noi ed io non riesco neanche ad esser più gentile e farmi apprezzare.
»
Allora sua madre scosse la testa, decisa. «Più gentile di così, mio tesoro, diverresti un frutto maturo e succoso e tutti ti scambierebbero per una pesca, morbida e vellutata.» rise divertita ma il suono non si propagò per la stanza, non produsse alcun rumore neanche lo sfregare della sedia sul pavimento battuto. «La paura è irrazionale, è il soffio di un dio malevolo che un tempo era chiuso dentro di un magico scrigno dorato. Sai la storia, tuo padre te l’ha narrata, non è colpa degli uomini se possono covare in sé tanto c’è di brutto e di meschino. Ma tu puoi esser più forte di tutto questo. Siete tu, tuo padre e i tuoi fratelli sparsi per questo grande mondo, ad aver il potere di imbrigliare la paura e renderla un’utile alleata. Pensa ai potenti eserciti che tu, da solo, potresti fermare senza dover versare una goccia di sangue, pensa a cosa saresti in grado di fare. Se nel cuore di ogni spietato assassino albergasse d’improvviso la stessa paura che coglie le sue vittime nessuno cadrebbe più per il volere ed il potere di uno sporco criminale.»
Ma lui abbassò gli occhi, dolorante al sol pensiero. «Ma qui non vi sono mostri, madre. In queste terre non ci sono spietate armate di crudeli siri, vi sono solo uomini spaventati e accecati dalla loro stessa mortalità. Non c’è nessuna guerra da combattere, non ci sono vite da salvare.»
Il pavimento era terra battuta e paglia, era ormai duro sotto le suole degli stivali da cacciatore, scavato nei solchi dove la sedia e lo sgabello erano stati trascinati.
Osservò con insistenza quei fili erbosi secchi divenuti marroni per tutte le volte che li aveva calpestati, che aveva portato dentro casa la terra del bosco, quella del villaggio. Il bordo della gonna di sua madre scivolava sui sandali, spazzando il terreno e sporcandosi sempre di più. C’era sempre quella perenne linea marrone sul bordo della gonna di sua madre, malgrado la donna lo pulisse ogni volta con attenzione.
Se solo non avesse fatto così tanta paura a tutti i popolani avrebbe potuto trovarsi un lavoro, magari dal fabbro vista la sua stazza, o dal taglialegna. Avrebbe potuto portare a casa qualche moneta in più, denari sufficienti per comprare ciò che non potevano procurarsi da soli, qualcosa in più di quello che guadagnavano con le erbe medicinali raccolte da sua madre, qualcosa che avrebbe potuto permetterle di comprarsi un nuovo vestito, senza dover filare la lana, o il cotone, e tessere le stoffe da sola. Era lui l’uomo di quella famiglia, avrebbe dovuto darle molto di più, ripagarla di ciò che lei aveva invece dato a lui per tutta la vita.

 
«Amore mio. Mio splendido e gentile e dolce figliolo.» disse richiamando la sua attenzione. Non volle comunque alzare il capo, rischiare di intrecciare il proprio sguardo al suo.
«C’è sempre qualcosa per cui combattere, ci sono sempre delle vite da salvare. Alcune sono già su questa terra e vanno preservate, altre devono ancora vedere la luce del sole e vanno custodite. Per loro bisogna lottare ogni giorno affinché il domani che le vedrà nascere sia migliore e più splendente di quello in cui sono state attese con tanto fermento e tanta ansia.
»
Gli prese con lentezza le mani e le unì, baciandole per poi stringersele al cuore e posarle, in fine sul ventre coperto dal grembiule macchiato di verde.
«Non siamo soli. Hai me e io ho te. Tuo padre è con noi. Vostro padre è con noi. C’è ancora qualcosa di buono e di giusto per cui combattere. C’è ancora speranza. C’è ancora vita.
»
 
 
*
 


Il piano era semplice, davvero basilare: così come Úranus aveva rintracciato la scia del ricordo di Jane, di Jonas e Lea, così avrebbe cercato di nuovo di individuare quella di Cade.
La speranza era quella di riuscire a seguire quel filo invisibile ora che erano così vicini al punto in cui, presumibilmente, Cade era scomparso. Ma in fondo, anche se aveva detto che sì, forse era possibile, dentro di sé Úranus sapeva perfettamente che questa volta non avrebbe funzionato.
Con un sospiro pesante scosse la testa.
 
«Non sento nulla, mi spiace.» ammise sconfitto.
«Prova a concentrarti di più.» lo pregò Jonas guardandolo apprensivo.
L’uomo però sospirò ancora. «Purtroppo i miei poteri s’accrescono con stati d’animo affini. È stato un caso più unico che raro che io sia riuscito a trovar il ricordo di Jane concentrandomi su di lei. Voi, per esempio, vi ho avvertiti più facilmente perché mi ero reso conto della scomparsa di Cade e sentivo la vostra ansia sommarsi alla mia.»
«Allora basta spaventarti o farti crollare. Possiamo insultarti se vuoi.» sorrise angelica Jane.
Nathan sbuffò un verso di scherno. «Certo, così si trasforma nel tuo peggior incubo e poi voglio vedere come cazzo ti salviamo dallo scappare via a gambe levate.»
Lea alzò un sopracciglio. «Nel tuo peggior incubo?» domandò rivolta ad Úranus.
L’amico le sorrise imbarazzato. «Il retaggio divino di mio padre.»
«Fobetone è il dio degli incubi, mettiamola così.» buttò lì il soldato. «Imparentato con Ipno, figlio suo, due palle, tra lui e il padre non sai mai chi fa più danni, cazzo.»
Ma la figlia di Apollo continuava a guardare l’amico sorpresa. «Hai detto loro chi è il tuo genitore divino?» chiese ancora.
Mortificato, Úranus non sapeva cosa risponderle. Lea era sempre stata estremamente gentile con lui, non gli aveva mai messo pressione sotto questo punto di vista e poteva capire che si sentisse ferita per non esser stata la prima a saperlo, o per lo meno per averlo saputo per vie traverse.
Nathan sbuffò ancora. «L’abbiamo obbligato noi, praticamente, non l’ha fatto proprio di sua spontanea volontà.»
Eliza gli sorrise beffarda. «Oggi ti stai comportando in modo davvero esemplare, seppur con il tuo terribile vocabolario.» mormorò bassa al suo orecchio.
Il terzo sbuffo fu seguito da una bestemmia. Eliza rise.
«Quindi? Cosa facciamo? Come lo troviamo?» incalzò Jonas.
«Potreste unire i vostri poteri!» saltò su Lea. «Quando ci siamo incontrati le prima volta siete riusciti a farmi ricordare un vecchio evento della mia infanzia, forse assieme potreste riuscire a trovare Cade.»
Il biondino la guardò allarmato. «Non è andata bene l’ultima volta che c’ho provato, lo sai meglio di me.»
Lea batté le palpebre. «Veramente non lo sapevo. Mentre ci provavi ho notato qualcosa, vi sembrerà assurdo ma credevo di aver visto una lepre e così l’ho rincorsa. Ho trovato così il tuo ricordo.»
«Perché è andata male?» domandò invece Eliza.
Jonas scosse il capo, stringendosi nelle spalle. «Ho visto- sentito, delle cose, rumore, bombe, vetri infrante, urla, lingue diverse e poi sensazione che avevo provato in vita, ad un passo dalla morte.»
«Hai avvertito il tuo stesso ricordo e te la sei fatta sotto, ci sta.» concluse Nathan. «Ma ora il tuo ricordo ce l’hai, no? Quindi non farai fatica a trovare altro.»
«Non funziona proprio così… io non “avverto” i sentimenti negativi o simili. Le persone… non sono di mia competenza. Credo.» cercò di spiegare.
«E allora cosa lo è?» sbuffò annoiata Jane. «Puoi esserci utile o no?»
«Di certo lo è più di te.» ringhiò Nathan.
«Non ricominciate voi due.» li ammonì Eliza. «Puoi sempre provarci però, non pensi?»
Jonas la guardò palesemente sconfortato, scuotendo la testa. «Hai visto cos’ho fatto a Nathan l’altra volta.»
«Questa sarà diversa. Dovrai solo prestarmi il tuo potere. Tu sentirai ciò che puoi sentire e io seguirò quella scia, so come si fa.» disse sicuro Úranus, una sicurezza che non aveva fino in fondo.
Quella parole però sembrarono convincere il ragazzino che fece un vago cenno con la testa.
«Se lo dici tu.»
«Forza Jonas! Un po’ d’amor proprio e fiducia in sé stessi, ecco cosa ti serve!» lo incoraggiò Lea battendogli una pacca sulla schiena.
Il biondo la guardò crucciato. «Da quando dai pacche così forti?» domandò cercando di massaggiarsi la parte lesa.
Lei sorrise. «Le ho sempre date, ma di solito erano solo per Giuseppe, quindi sono abituata ad andarci giù pesante. Ma bando alle ciance! Mettiamoci al lavoro e ritroviamo il nostro caro folletto Irlandese!»
 

Come per la maggior parte delle cose, la teoria risultò essere di gran lunga più semplice della pratica.
Úranus e Jonas se ne stavano fermi immobili, l’uno davanti all’altro, le mani strette sull’avambraccio del compagno, gli occhi nei suoi.
Jonas deglutì a disagio, una presa così ferrea e sicura, serrata sulle sue braccia fini e fin troppo deboli per i suoi gusti, gli dava la sensazione che avrebbe potuto spezzargliele in un attimo.
Cercò di ricordare ciò che gli aveva detto Cade, di liberare la mente, di respirare e seguire la corrente, ma d’improvviso gli parve che nulla più si muovesse in lui.
Forse era stato il suo amico a risvegliare qualcosa in lui, a sciogliere quel blocco che aveva sempre avuto in petto. O forse erano i suoi sensi di colpa a parlare, ripensare a quel momento, a ciò che gli aveva detto.
Sapeva che rimuginare sul passato non aveva senso, era morto per l’amor del cielo, non avrebbe potuto porre rimedio a nessuno dei suoi errori, non avrebbe potuto modificare in alcun modo le abitudini di una vita precedente, ma non poteva far a meno di pensare, di ripetersi che se Cade era sparito era tutta colpa sua.
Se non avessero discusso in quel modo all’arrivo di Lea Jonas non l’avrebbe lasciato solo. O forse sì, forse si sarebbe messo ugualmente a correre verso la ragazza ma Cade l’avrebbe seguito, non sarebbe rimasto fermo in mobile a guardarlo andare via. Non avrebbe preferito mettere una distanza di sicurezza tra di loro.
Se non avesse detto quelle cose Cade l’avrebbe preso per un braccio e l’avrebbe accompagnato in uno dei suoi salti micidiali, di quelli così alti che neanche nelle ore di atletica lui sarebbe stato in grado di fare. Sarebbero arrivati tutti e due da Lea e forse-
 
Forse anche Cade avrebbe visto il mio ricordo e allora non mi avrebbe più voluto parlare di sicuro.
 
Elena aveva detto di poterlo capire, ma per quel che ricordava di storia Lea non aveva vissuto sotto il regime totalitario nazista, non aveva le giubbe nere che giravano per le strade, facendo retate, spaccando vetrine e aspettando solo che qualcuno facesse la spia per poterlo fucilare o peggio…
 
I campi di lavoro
 
Jonas deglutì a vuoto. Lea forse l’aveva davvero capito, era una donna per altro, era risaputo che avessero un animo più gentile, più permissivo, per questo suo nonno gli ripeteva sempre che un vero uomo doveva essere cresciuto da un altro uomo e non da una donna, perché non avevano la stessa spina dorsale, lo stesso pugno di ferro. Se quindi Cade avesse visto il suo ricordo non sarebbe stato tanto indulgente come lo era stata la figlia di Apollo.
Con orrore si rese conto che, per lui, era stato un vero colpo di fortuna perdere Cade, perdere l’unica persona che sentiva di poter chiamare amica – o forse che in passato poteva chiamare tale – perché in quanto uomo non avrebbe mai potuto accettare la sua debolezza.
Una risata vaga aleggiò nella sua mente: cosa si aspettava? Era ovvio che Cade non avrebbe approvato, era ovvio che l’avesse preso sotto la sua ala solo perché lo vedeva come un giovane alla deriva. Veniva anche da anni più lontani dei suoi, dio santissimo!
Era un bene. Aveva appena perso il suo unico amico e questo era la cosa più fortunata che gli fosse mai successa dalla sua morte.
Che mostro era? Come poteva trarre giovamento da una perdita?
 
Non sono diverso da quella gente, non sono diverso dai soldati. Anche io sono un mostro. Lo sono sempre stato.
 
 
«Jonas. Perché ti vedo con gli occhi verdi?»

 
A porgli quella domanda, del tutto estemporanea ed incomprensibile, fu Nathan.
Il soldato era posizionato alla sua destra, la posa rigida, la mascella contratta, i pugni serrati, lo sguardo duro.
Non aveva detto “perché hai”, ma “perché ti vedo” perché lui sapeva che non poteva esser vero. Sapeva che gli occhi del ragazzino non potevano mutare e soprattutto sapeva che non erano i suoi occhi perché appartenevano a qualcun altro.
 
Lucy.
 
«Non sta funzionando.» disse secco. La voce inflessibile ma con una nota rabbiosa. «Smettetela di fare qualunque cosa stiate facendo perché non sta funzionando.» continuò più concitato.
«Fate come vi dice.» gracchiò la voce terrorizzata di Jane.
La ragazza teneva lo sguardo puntato verso il vuoto, lontano da loro, verso il nulla, dove solo i suoi occhi potevano individuare la sagoma sporca di sangue di un uomo che aveva conosciuto fin troppo bene in vita. Il torace ampio pareva incavato in sé stesso, come se qualcuno glielo avesse sfondato a calci. O con una pietra gigante.
Úranus volse il capo nella stessa direzione, l’ombra dell’uomo che prendeva lentamente forma davanti ai suoi occhi e a quelli di Jane, mentre Jonas, voltatosi di scatto verso Nathan, vide sul suo volto lo stesso dolore che per anni aveva visto nei suoi compagni di tormento.
 
Lo sto facendo di nuovo. Sto di nuovo facendo soffrire gli altri!
 
Con un movimento brusco e repentino Jonas si sottrasse alla presa di Úranus, trovandola incredibilmente più gentile e delicata di come se l’era aspettata.
Saltò via da lui, distogliendo lo sguardo da Nathan, coprendosi gli occhi, il volto, con le mani rovinate, sino ad infilarsi le unghie corte nella pelle tesa della fronte.
 
«Non ci riesco!» uggiolò in preda ad un improvviso dolore interno, una morsa soffocante che gli si era stretta attorno alla trachea, allo stomaco, ai polmoni.
Frammenti di una vita non sua gli scorsero davanti alle palpebre chiuse.
Un campeggio estivo, un arco di legno. Piante di fragole e una donna con i pantaloni che lo fissava fiera e malinconica. Un letto a castello a tre piani. Un padiglione in stile antico. Il ponte, le canoe, il lago. Il viso sorridente di una ragazzina dai capelli neri ed i grandi occhi verdi che gli porgeva qualcosa. Due spade che si incrociavano. Una porta distrutta. Qualcuno che piangeva. Un corpo esanime sul pavimento imbrattato di sangue. Morte.
Con un verso soffocato Jonas si accasciò a terra, nascondendo la testa tra le gambe, tirandosi i capelli con forza.
 
«Cos’è!? COS’È?! Fatelo smettere! Perché vedo queste cose? Perché vedo quelle persone?»
Lea gli fu vicino in un istante, inginocchiandosi a terra e posandogli le mani sulla testa, mormorando veloci e concise litanie curative.
«Nathan siediti a terra e non ti muovere! Úranus, allontanati da Jane! Eliza-»
«Ci penso io a lei!» gridò di rimando la soldatessa prendendo la figlia di Ecate per le spalle e scuotendola con fermezza.
«Jane? Jane! Nulla di quello che vedi è reale! È solo nella tua testa! È solo la tua immaginazione.»
La risata che seguì a quelle parole fu intermittente ed isterica, le risa di un folle, così come lo era lo sguardo della ragazza.
«Certo che è nella mia testa! È sempre tutto nella mia testa! Sono solo incubi, non devo dirlo a nessuno se no poi penseranno che ho il demonio dentro e verranno a prendermi! Crederanno che una strega mi abbia fatto un sortilegio e invece sono proprio io! Sono proprio io la strega! Ero l’unica vera strega del mio villaggio e nessuno l’ha mai scoperto! Hanno ucciso i miei genitori che erano innocenti e io che ero l’unica strega, no! Una caccia alla strega senza la strega! Che brucia all’inferno, brucia nel fuoco purificatore di Dio ma io no! Io non mi sono purificata! Il fuoco non mi ha fatto niente! Niente!» continuò a ridere, gli occhi sgranati, le pupille ristrette al massimo.
Eliza lanciò uno sguardo d’aiuto ad Elena ma la ragazza era troppo impegnata ad aiutare Jonas che ancora implorava di far smettere tutto quello, qualunque cosa fosse ciò che vedeva.
Se non poteva aiutarla in modo gentile allora avrebbe usato quello militare, si disse la mora caparbia.
Lo schiaffo che tirò dritto in viso a Jane si sarebbe potuto sentire a miglia di distanza. Le risate cessarono immediatamente mentre gli occhi della giovane si riempivano di lacrime e, tremante e allo stremo delle forze, si gettò tra le braccia di Eliza, piangendo singhiozzi potenti e incontrollati.
Eliza la strinse forte contro il suo petto, cercando lo sguardo di Nathan che a mala pena la stava guardando. Quando riuscì a stabilire un contatto il soldato batté velocemente le palpebre.
«Poi danne uno pure a me.» mormorò solo.
 
Fermo immobile, con le mani lungo i fianchi, privo di forza, pieno di sensi di colpa e sconforto, Úranus osservava i suoi compagni distrutti da una semplice, stupida e velocissima interazione tra lui e Jonas.
Chi era il genitore divino del ragazzo? Perché mescolare i loro poteri era così pericoloso, così dannoso?

 
Non lo è, non lo sarebbe di norma. Ma tra di voi ci sono troppe anime con troppi conti in sospeso.
La colpa è vostra solo perché avete trovato al vostro fianco terreno fertile per il lato peggiore del vostro essere. Non te ne crucciare troppo.


 
L’Islandese chiuse gli occhi, abbassando il capo in segno di ringraziamento verso le parole gentili e rassicuranti di suo padre.
Era con lui, si prendeva ancora cura di lui anche se da lontano. Lo stava osservando, lo vegliava.
Allora, che forse…
 

Attendi. Il vostro compito in questo luogo non è ancora finito.
Il giovane ragazzo, quando smetterà di vedere una vita, ne sentirà un’altra.

 

Úranus guardò allora Jonas, indeciso se riferirgli quello che Fobetone aveva appena detto a lui.
Aveva la vaga sensazione che suo padre non stesse parlando di Cade, ma di altro.
Si volse verso i suoi compagni domandandosi chi, tra di loro, non avesse ancora ritrovato il suo ricordo.
Quando smetterà di vedere una vita ne sentirà un'altra. Per quanto Úranus potesse sforzarsi non gli pareva ci fossero suoni mancanti dai suoi ricordi, ma ovviamente, se non li rammentava, non poteva saper della loro dipartita.
Doveva dirglielo, forse aver uno scopo, un compito che solo lui poteva portare a termine, l’avrebbe aiutato a riprendersi.
Si mosse appena nella sua direzione, un passo neanche e Jonas scattò in piedi, liberandosi dalle mani di Lea e indietreggiando con fare barcollante.
 
«Non mi toccate! Mi sembra solo di sentirne di più, di vederne di più! Chi cazzo è? È un campo estivo? È il famoso “Campo”? Sono i tuoi ricordi Nathan? Perché ho i tuoi cazzo di ricordi Wright?!»
Il soldato lo fissava imbambolato, senza saper cosa dire, come fare.
«Chi- chi vedi? Com’è? Descrivimelo!» sbottò poi saltando in piedi ed avventandosi sul ragazzino.
«È una donna? Una ragazza? Una giovane? È mora? Ha gli occhi verdi? La vedi? Cosa vedi?» lo tartassò di domande cercando di afferrarlo per i polsi.
Ma Jonas era più veloce, era piccolo, scattante, scivolava via dai pericoli, dai problemi.
 
Saltare gli ostacoli!
 
Così aveva detto Cade.
Cade. Lo stesso Cade che era scomparso per causa sua ma che era stata una fortuna vederlo sparire.
Era colpa sua. Era sempre colpa sua!
Jonas scosse la testa, lo fece con violenza, cercando di scuotere via anche quei ricordi, quelle sensazioni, quel vuoto che gli si era allargato in petto.
Sofferenza, dolore, sensi di colpa –
 
Amore.
 
Il ragazzo si bloccò, alzando lentamente il capo verso Nathan che lo fissava in attesa, le mani ancora protese in avanti, una supplica silenziosa in quello sguardo che, per la priva volta, pareva perduto, fragile.
Jonas non aveva la più pallida idea di chi fosse quella giovane, poteva intuirlo, poteva ipotizzarlo, ma l’unica cosa certa era che Nathan l’aveva amata, l’aveva amata immensamente.
 
E l’ha perduta.
 
«Mi dispiace…» mormorò con voce lagrimosa. «Mi dispiace tanto. Non volevo, non volevo vederlo, non volevo vederla…» continuò indietreggiando, gli occhi che si riempivano di lacrime, la gola che si stringeva. Gli stava andando a fuoco, era secca, proprio come gli succedeva quando piangeva in vita.
Così debole, così inutile… gli altri ragazzi della sua età non si piangevano addosso, non erano come lui, così fifoni, così codardi… stava piangendo per qualcosa che neanche lo riguardava, troppo sensibile al dolore altrui come se stesse vivendo il suo.
«No- no! Non è colpa tua, non lo stai facendo apposta. I poter dei nostri genitori, non sempre li possiamo tenere sotto controllo. Non sei tu. Devi solo- solo dirmi com’è, solo questo. Descrivimela, com’è?» provò Nathan con voce incrinata, piano, timoroso ma anche incredibilmente bisognoso di sentire quelle parole, quelle poche parole che avrebbero confermato il suo ricordo.
Jonas tirò su con il naso, cercando di togliersi le lacrime dagli occhi, stropicciandoli con forza.
Com’era? Com’era?
Non poteva dirglielo, non poteva dirgli come la vedeva.
 
Com’è?
Morta.

 
Era a terra, era in una pozza di sangue, le mancava un braccio, strappato via. Era sul pavimento di una cucina, il muro era distrutto, la porta come esplosa. Qualcuno urlava, piangeva. C’erano macchie dorate a terra, che si mischiavano lente con il rosso denso.
Non poteva dirglielo. Non poteva. Non poteva. Non poteva.
 
«Non posso…» gracchiò.
«Sì, sì che puoi. Devi solo- solo dirmi com’è?»
«Non dovrei vederlo, perché vedo queste cose? Perché non smette?!»
«Non sei tu. Jonas, non sei tu. Ma ora, ti prego, dimmi com’è? È mora? Ha gli occhi verdi?» provò ancora ad elencargli quei particolari ma il ragazzino era rimasto catturato da altro, da delle parole che Nathan aveva ripetuto più volte.
 
Non sei tu.
 
«Non sei tu, sono le Praterie.»
 
Invece sì, sono io. Sono sempre io.
 
Mosse appena la testa, un cenno, una bugia bella e buona perché gli occhi della donna erano vitrei, erano più simili ai suoi che ad altro, ma non poteva ricordargli ancora com’era morta. Se Nathan non lo sapeva, se quelli fossero solo pensieri arrivati così, per caso… forse il soldato non aveva assistito, forse non l’aveva visto, era arrivato a cose già fatte, quando l’avevano giù uccisa. L’aveva già trovata morta.
 
Come devono aver trovato me.
 
Una scossa elettrica gli attraversò la testa, un dolore lancinante che non sentiva più da tempo, potentissimo e velocissimo. Un colpo unico che l’aveva abbattuto come uno sparo.
Avevano trovato anche lui così? Immerso nel suo sangue, sporco, con gli occhi spalancati e vitrei? Era stata sua madre? Era stato suo nonno? Le cameriere? Qualche guardia? Degli sconosciuti? Il maggiordomo? Gli amici? I colleghi di suo nonno? Era stato Ludwig o magari Virginia?

No, no, no… Dio no. Ti prego, no.
 
Non riuscì a sopportare lo sguardo di Nathan un solo secondo di più. Gli volse le spalle, scosso dai singhiozzi che cercava inutilmente di soffocare dietro le mani, assieme ai conati di vomito che gli risalivano la gola. Era un cadavere quello che vedeva, un cadavere martoriato.
L’avevano trovato con la testa fracassata? I capelli biondi divenuti rossi, un ammasso nerastro?
Era stata quella l’ultima immagine che avevano avuto di lui i suoi cari?
Mosso qualche passo, piano, incerto. Gli occhi improvvisamente asciutti, lo shock che aveva cancellato anche la forza di piangere.
Lentamente le immagini che vedeva dentro la sua testa, quei flash di una vita non sua, cominciarono a sbiadire, distrutti da un altro tormento: il suo.
Un ronzio basso gli invase la mente, non riusciva più a pensare, a ragionare. Tutto il suo intero essere o quel che ne rimaneva erano protratti verso quella semplice e stupida domanda:
Che immagine avevano avuto i suoi cari di lui? Come l’avevano visto per l’ultima volta?
Provò ad immaginarlo, ad immaginare il volto sgomento di suo nonno, imperturbabile di solito ma sorpreso dalla notizia. Poteva immaginare sua nonna portarsi una mano alla bocca, mormorare qualcosa e sua madre-
 
Mamma urlare. Posso immaginare mamma urlare e correre da me, chiamarmi a gran voce.
Potrebbe esser stata l’ultima volta che ha pronunciato il mio nome…

 

«JONAS!»
 


«ANDERSON!»
«ALEXANDER!»
«JOHNSON!»
«ATTENTO!»
«DI QUA! È FERITO!»
«ALEXANDER?! ALEXANDER?!»
«JOHNSON! FERMATI! PER L’AMOR DEL CIELO!»
«ADUNATA! ADUNATA! ARRIVANO DA SUD!»
 
 
Jonas batté le palpebre sconvolto. Non era la voce di sua madre, erano voci maschili e lui non ne conosceva neanche una. Chi erano quelle persone? Perché urlavano in quel modo.
Girò su sé stesso, come una moneta lasciata in aria, cercando la provenienza di quei rumori ben conscio che potesse esser una sola.
 
Eccola!
 
La individuò a colpo d’occhio, alzando solo di poco il raggio della sua ricerca, forse ad una decina di metri di distanza. Era assurdo come quella sfera fosse sembrata incredibilmente luminosa, come avesse attratto il suo sguardo malgrado fosse nera. Completamente nera.
Jonas inclinò la testa, ancora una volta la sua mente era saltata da un pensiero all’altro, da uno stato d’animo all’altro, un eterna altalena di cui non riusciva a tenere le redini.
Camminò verso il ricordo come ipnotizzato, mentre suoni d’esplosioni si susseguivano le une con le altre. C’erano grida basse, lontane, il rumore metallico del tamburo di una pistola, no… un fucile?
 
Un moschetto.
 
Un moschetto? Come diamine faceva lui a spere che suono avesse un moschetto? Era roba antica, un pezzo d’antiquariato, roba-
 
Della guerra di Secessione!
 
Con quella nuova consapevolezza si riscosse dal suo torpore, iniziando a correre verso la sfera, sordo alle voci dei suoi compagni che lo chiamavano, che gli gridavano di non allontanarsi, di non scappare.
Ma non stava scappando, per una volta in vita sua Jonas non si stava allontanando dal doloro o dalla paura ma ci si stava letteralmente lanciando contro. Aveva come la sensazione che se solo avesse aspettato un attimo di più, se avesse distolto lo sguardo dalla sfera, questa sarebbe sparita nel nulla, ingioiata dall’oscurità dell’erba e dell’Ade.
Quando un’improvvisa folata di vento mosse gli steli, minacciando di coprire il globo, Jonas si lanciò in avanti, pronto a prenderla.
 
 
 
Nathan rimase immobile, osservando il ragazzino che indietreggiava, che piangeva rumorosamente come lui aveva fatto poche volte in vita sua.
Cosa vedeva? Era davvero Lucy? Era davvero la sua Lucy?
Lo sapeva, sapeva perfettamente com’era fatta la giovane, ma voleva sentirselo dire, voleva che Jonas gliela descrivesse e che confermasse i suoi ricordi.
Non gli interessava sapere perché lui potesse vederla, non gliene fotteva un cazzo. Voleva solo rivederla un attimo, solo per un momento, anche attraverso gli occhi di un altro.
Delle mani insolitamente calde gli si strinsero attorno al braccio, togliendolo dal precipizio del pozzo che era divenuta la sua mente. Gli occhi chiari di Lea, verdi come la salvia, quasi con una sfumatura argentata, gli diedero un senso di vuoto, lo stesso che provava ogni volta che cadeva dal muro d’arrampicata al Campo.
Vuoto.
Solo vuoto.
Non era il verde giusto. Non era il verde forte e brillante di Lucy. Non era il verde giusto neanche quello smeraldino di Eliza, che tenendosi Jane stretta la fianco l’aveva aiutata ad alzarsi e si era avvicinata a loro, pregando silenziosamente Lea di prendersi cura della ragazza, di far qualcosa per calmare il suo pianto.
Con ironia Nathan si rese conto che, tra quei pazzi che gli erano capitati come compagni, l’unico che avesse un colore d’occhi simile alla sua Lucy era proprio il pazzo che era scomparso. Con orrore si rese conto che, in quel momento, gli sarebbe andato bene anche lanciare uno sguardo di sottecchi a Cade e usare la sfumatura delle sue iridi per ricordarsi quelle della donna che aveva amato.
Ma ora anche il rosso malpelo era scomparso, ora non aveva più niente per ricordarsi di quel bellissimo verde se non ricordi sbiaditi e senza consistenza.


«Jonas?»
 
La voce di Úranus, che era rimasto a debita distanza ma si era ugualmente fatto un po’ vicino, lo costrinse ad alzare il capo. Le mani calde di Lea abbandonarono il suo braccio per posarsi delicatamente attorno alla vita di Jane. Con l’aiuto di Eliza la prese tra le braccia e l’aiutò a sedersi nuovamente a terra, i palmi delle sue mani iniziarono a brillare fiocamente, asciugando le lacrime e facendo scomparire i rossori tipici del pianto.

«Jonas? Ti senti bene?» domandò allora Eliza superandolo di qualche passo in direzione del ragazzino.
«No che non si sente bene… nessuno di noi ci si sente.» mormorò atono Nathan.
Eliza lo guardò per un attimo con sguardo duro. «Vuoi ancora quello schiaffo o pensi che non ce ne sia bisogno? Mi servi sveglio e attivo, non smorto e debole.» l’avvertì.
E Nathan gliene fu immensamente grato perché sentire quelle parole così impietose gli diedero non tanto la forza quanto il desiderio di rizzare la schiena e tornare ad essere lo stronzo energico e implacabile di sempre.
«Non mi faresti niente lo stesso.» borbottò però ancora con voce troppo piata.
La velocità con cui Eliza torse il braccio per rifilargli un manrovescio in viso fu incredibile e Nathan le avrebbe anche fatto un applauso, se solo lo schiaffo non se lo fosse beccato lui.
Gli fece girare il capo per la forza che ci mise, ma assieme al dolore crebbe in lui anche un’improvvisa rabbia, quella che gli prendeva sempre prima di ogni combattimento, quella che sua madre l’aveva addestrato a reprimere, a vincere, a sopportare.
 
Disciplina. Ordine. Forza. Coraggio. Strategia.
 
«Non ti ringrazierò, ma non ti insulterò neanche.» le ringhiò contro con tono rabbioso.
Eliza sorrise. «Prego.» ma non poté far altro, non poté mostrargli il sorrisetto compiaciuto che le tirava le labbra perché in quel momento Jonas prese a girare su sé stesso, come impazzito.
«Jonas!» lo chiamarono di nuovo in tre.
«Che cazzo ha?!»
«Deve essere ancora l’influsso del potere di suo padre.» disse Úranus allarmato.
«Perché fa-» Lea non riuscì a finire la frase che il ragazzino si fermò, lo sguardo puntato nel nulla. Poi iniziò a correre.
 
«Porca troia!» ringhiò di nuovo Nathan, coprendo la voce di Lea che urlava loro di non avvicinarsi al ragazzo e slanciandosi verso di lui, così come Úranus, ma entrambi non andarono lontano.
Con una forza disumana che il soldato conosceva già, ma di certo il figlio di Fobetone no, Eliza afferrò entrambi per la spalla e se li spinse dietro, mandandoli lunghi distesi a terra, scioccati e doloranti.
Scattò in avanti, la forza che aveva impresso a quel primo passo fu tanta che ciuffi d’erba, terriccio e polvere brillante volarono in aria. Corse con quanto fiato aveva in corpo e qualcosa di più, malgrado sentisse le gambe bruciare per l’improvviso sforzo si disse che non era vero, che non poteva sentir dolore perché era già morta e se ne convinse a tal punto da non sentire più niente.
Guadagnò terreno velocemente, si protese in avanti, ad un soffio dal fianco del ragazzo, quando questo si gettò tra l’erba e lei, per puro riflesso incondizionato, fece lo stesso, placcandolo.
Rotolarono in avanti, Jonas piegato su sé stesso, a stringere qualcosa contro il petto, poi lo stomaco, come se potesse proteggerlo meglio da quell’impatto desiderato.
Malgrado tutto accadde in poco tempo, malgrado le voci alte e concitate dei loro compagni, il rumore della corsa, il silenzio assordante dell’Ade, Jonas ed Eliza poterono sentire perfettamente il crack di una sfera di Ermes che andava in frantumi.
Pietrificati, i due non osarono muoversi, ancora stretti in quella specie d’abbraccio non voluto, il volto di Jonas puntato verso il suo ventre, quello di Eliza premuto contro la schiena del ragazzino.
Una leggera nebbiolina biancastra si alzò dal groviglio di corpi, mentre voci straniere ed estranee si liberarono dell’aria.
Ma lo erano solo per uno dei due.
Per Eliza quelle voci erano famigliari, erano conosciute, erano amiche.
 
Sono le ultime parole che mi hanno detto i miei compagni prima della fine.
 
Il fumo la trafisse come avevano fatto quei maledetti proiettili e con lei, anche Jonas.














   
 
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