Per un pugno di
Cho-Rai
Rupert
Metrys fece l’ultima rampa di scale con il fiato in gola. Sei
mesi. Sei mesi
che stava dietro a quel furfante. Sei mesi in cui aveva smesso di
dormire,
mangiare e avere una vita.
Da
quando quel diabolico genio del computer aveva preso di mira la
città, aveva
perso interesse per tutto il resto. Infatti non aveva più
una vita sua.
Non
che prima fosse tutto questo po’ po’ di roba. A
quasi cinquant’anni, separato e
con alle spalle più vita da poliziotto che da altro, Rupert
aspettava la
pensione come un traguardo sulla strada della corsa.
Da
tempo aveva perso interesse per il suo lavoro, ossia da quando le nuove
tecnologie avevano sostituito le buone vecchie maniere: telecamere,
lettori
digitali, registratori che riconoscevano le voci… Tutte cose
che si potevano
già fare, ma ora, secondo gli
altri venivano
fatte meglio. Il nuovo secolo aveva cambiato troppe cose.
Rupert
invece la pensava diversamente. Era fedele alla vecchia scuola: forza e
potere.
Da
quando si erano inventati tutte quelle regole sul rispetto e la
riservatezza,
il mondo della polizia non era più lo stesso. Rupert pensava
che iniziassero a
esagerare con tutte quelle restrizioni: stai attento a questo, non fare
quest’altro… Sicuramente era cambiato un sacco il
mondo dell’arma da quando
aveva cominciato l’accademia. E lui non ne poteva
più. Aveva iniziato
a non far più bene il
suo lavoro, a lavorare dalle nove alle cinque e a non interessarsi
più a
niente. Pensava anche di mollare la polizia.
Poi,
questo hacker, che si faceva chiamare Alph4_0c, aveva iniziato a
prendere di
mira Chicago: manifesti pubblicitari digitali, semafori e sportelli
bancomat
erano state le prime cose che aveva attaccato.
Poi erano arrivate le altre: tabelloni degli orari
della metropolitana, database delle banche, piani di voli degli
aeroporti… Per
fortuna non era mai successo niente di irreparabile.
Rupert
sbuffò
e salì l’ultimo gradino. I suoi indizi, quelli che
non aveva svelato a nessun
altro e che aveva cercato con i vecchi metodi, lo avevano portato
lì, in quel
vecchio edificio nella prima periferia abbandonata della
città. Aveva iniziato
a dubitare dei suoi colleghi e di alcuni superiori, per non parlare del
suo partner.
Gli era sembrato che ogni volta che il ladruncolo fosse vicino, gli
scappasse
dalle mani come sabbia in una rete da pesca. Non poteva essere
così bravo: ci
doveva essere per forza una talpa. E finché non
l’avesse scovata, non poteva
fidarsi di nessuno.
E
ora si trovava lì da solo: davanti a una porta marrone da
dove non proveniva
nessun suono.
“Sì,
così!” gridò qualcuno da dentro.
L’esclamazione si sentì rimbombare per la
tromba delle scale, facendo trasalire Rupert: era il suo uomo.
Con
uno sguardo deciso posò la mano libera sul pomolo e lo
girò, pensando di dover
sfondare la serratura per poter passare.
Un
errore: la porta era aperta e lui non se lo aspettava. Allora la
spalancò
lentamente, tenendosi di lato e puntando la pistola in alto, cercando
di
guardare dentro la stanza.
L’odore
di chiuso gli stava invadendo le narici insieme a
qualcos’altro: sudore, forse,
e anche odore forte di scarpe da ginnastica usate molto.
L’interno della
stanzetta, non tanto grande, era occupato in parte da una scrivania con
quello
che a Rupert sembrò un computer, ma non ne era sicuro:
c’era più di un monitor
e lui non sapeva quanti ne potesse avere un solo computer. Doveva esser
lui.
“Sì!”
gridò ancora l’hacker, seduto di spalle su una
sedia con le ruote e alzando un
pugno al soffitto. Aveva una voce strana: sembrava…
In
quel momento il furfante si alzò in piedi e Rupert rimase
pietrificato: era
basso e mingherlino. Quando si voltò notò che i
suoi lineamenti erano lisci e
quasi infantili. Le braccia di Rupert caddero da sole, la pistola a
puntare il
pavimento.
“Ma
sei un ragazzino!”
Il
ragazzino in questione spalancò la bocca e una gomma da
masticare cadde sul
pavimento.
Come
lui si mosse, Rupert tornò vigile e gli puntò la
pistola reggendola con due
mani. “Fermo lì!” gridò.
Il
giovane non fece opposizione e alzò le braccia a candeliere iniziando a
balbettare:
“Non spari. Aspetti. Non mi spari…”
“Zitto!”
esclamò ancora il poliziotto. Quando il ragazzo
iniziò a tremare, capì che non
sarebbe andato da nessuna parte e gli indicò la sedia da cui
si era appena
alzato: “Siediti”.
“Devo
finire…” iniziò il ragazzo, sedendosi.
“Tieni
in alto le mani!”
disse
ancora Rupert. “Non toccare niente!” Si
guardò intorno: cartoni di fast food,
carte di snack e fumetti erano sparsi ovunque.
“Sei
tu l’hacker?” gli chiese tornando a guardarlo.
Il
ragazzino alzò le spalle e sorrise. “Io sono
Alph4_0c…” disse orgoglioso.
“Ma
che razza di nome è?”
Rupert
guardò il ragazzino passarsi una mano fra i capelli: cosa
avrebbe dovuto fare? Doveva
portarlo in centrale? E doveva mettergli le manette? Lo
osservò con l’occhio
esperto del poliziotto: era minorenne senz’altro.
Il
rumore di una porta che si apriva alle sue spalle sorprese Rupert e si
girò di
soprassalto, quasi infastidito di non aver controllato prima il
perimetro; il
ragazzino lo aveva sconvolto.
“Sono
qui, Brian… Oh, agente Metrys!” esclamò
una donna, visibilmente incinta, entrando nella stanza e spalancando
gli occhi,
riconoscendolo.
“Brett!”
Rupert non riusciva a credere ai propri occhi: Erin Brett occupava la
scrivania
proprio dietro la sua, ma era stata mandata in un altro ufficio appena
si era
saputo della sua gravidanza. Era lei la talpa?
Rupert
agitò la pistola senza cognizione, non capendo bene la
situazione. La donna
sbuffò e alzò gli occhi al soffitto.
“Rupert, metti giù la pistola non vogliamo
danni” disse.
L’uomo,
sempre più stupito, fece di nuovo ricadere il braccio.
“Ma che succede?”
chiese.
“Lavoro
per la polizia” spiegò il ragazzino. Come? Rupert
aggrottò la fronte e si voltò
verso Brett, che si stava massaggiando la schiena.
“Che
significa?” chiese a lei direttamente. La donna,
però non lo stava ascoltando:
il suo viso si trasformò in una smorfia di dolore e
spalancò gli occhi mentre
raddrizzava la schiena.
“È
un cazzo di test, Metrys. Il ragazzino lavora con noi… Per
noi… Contro di noi…
Argh! Il bambino!”
Erin
si appoggiò di nuovo la mano sulla schiena e
gridò, piegandosi in avanti.
Rupert spalancò gli occhi al suo grido. “Devi
andare in ospedale?” le chiese.
“Buonasera,
sono Alfred Hitchcock. La mia vicina di casa Erin sta per partorire
prematuramente. Siamo al 523 di Marble street.”
Rupert
si voltò verso il ragazzo mentre chiamava i soccorsi.
“Ma quanti anni hai? E
perché hai dato quel nome?”
Il
ragazzino si sfilò le cuffie e si avvicinò a
Erin, spiegando verso l’uomo: “Ho
sedici anni. Se dai un nome, uno qualsiasi, ti prendono sul serio.
Altrimenti
ti fanno troppe domande e il soccorso arriva in ritardo. Ho visto mia
zia
partorire prematuramente…” Rupert si
ritrovò ad annuire. “Portiamola giù,
così
fanno prima” disse ancora.
Per
un attimo pensò che il ragazzo volesse approfittarne per
scappare, ma poi Brett
tirò fuori un cellulare da una delle tasche e
parlò con qualcuno della polizia,
così si ricordò quello che aveva appena detto:
lui lavorava con loro. Rupert
sapeva che stava parlando con il suo superiore
quando lei lo chiamò per nome.
Quando
la donna gli passò il telefono, lo prese. “Metrys?
Sei lì?” chiese Roots, il
suo capo,
gridando dal
cellulare.
“Sì,
capo, sono io…” Roots confermò quel
poco che aveva detto Brett e gli ordinò di
occuparsi di Brian. “Chi è Brian?”
chiese, sempre più confuso.
“Sono
io” confermò il ragazzo.
Andiamo
bene.
***
Dopo
aver lasciato Brett nelle mani dei paramedici, Rupert decise di fare
quattro
chiacchiere con Brian.
“Figliolo,
non hai nemmeno la patente e lavori per la polizia?” gli
chiese, accendendosi
una sigaretta e prendendo un sorso di caffè, seduti in uno
squallido locale
sempre aperto.
Brian
alzò le spalle. “Un anno fa sono entrato nel
database della mia scuola e…”
Rupert
annuì. “Volevi alzarti i voti?” lo
interruppe.
Brian
arricciò il naso. “Volevo abbassare quelli dei
ragazzi della squadra di
football…” Rupert annuì ancora e lo
osservò lasciandolo spiegare: da come si
comportava, e lui sentì il poliziotto che era in lui tornare
fuori come non era
successo negli ultimi mesi, capì che era in soggezione. Lo
ascoltò senza dire
niente.
“…Devo scontare
due anni. Due anni in cui devo simulare attacchi per vedere la reazione
dei
vari centri operativi”. Alzò le spalle.
“Come hai fatto a trovarmi?” chiese
infine.
Rupert
gli fece vedere la bustina che aveva in tasca: Cho-Rai. Chicchi di
uvetta
ricoperti di cioccolata. Non piacevano a tutti. Anzi, a nessuno.
“Ne ho trovato
uno nel tuo ultimo covo e ho seguito la traccia. Ne hai ordinati
parecchi…”
“Sei
stato il più in gamba, allora” si
complimentò il ragazzo, tirandone fuori un pacchetto e
prendendo un Cho-Rai.
“Sembra
proprio di sì” rispose Rupert, rubandogli il
cioccolatino e mettendolo in
bocca.
Quando
il silenzio si impadronì di nuovo di loro, Rupert
domandò, come se fossero
entrati in confidenza: “I ragazzi della squadra…
Ti rendono la vita difficile?”
Brian spalancò gli occhi, stupito che qualcuno lo avesse
capito. Non lo aveva
detto a nessuno, probabilmente. Annuì guardando la tazza del
caffè, ancora
piena, fra le sue mani. “Non devi vergognarti. I bulli ci
sono sempre stati.
Anch’io a scuola venivo pestato da Henry Prutt. Era grosso e
totalmente stupido,
ma forte. Aveva il pugno più pesante di tutta la scuola.
Forse perché era ripetente
e aveva quasi l’età per
bere…” Rupert si lasciò andare ai
ricordi e non si
accorse che il ragazzo lo ascoltava con interesse.
“E
come ha fatto?”
Rupert
si batté una mano sulla pancia. “Quando non ne ho
potuto più, mi sono ribellato
e gli ho rotto la mandibola. Ha sputato due denti. Uno ce
l’ho ancora io…”
L’uomo sorrise ancora.
Brian
si morse una guancia e annuì distrattamente. Rupert
alzò il braccio per farsi
riempire la tazza di nuovo e nello stesso momento il campanello sulla
porta
suonò, rivelando l’entrata di qualche altro
cliente notturno.
Quando
il ragazzo si voltò e vide il gruppetto di giovani che era
entrato, sbiancò e
tornò a guardare dritto davanti a sé.
“Per favore… Possiamo andare via?”
chiese.
Rupert
osservò Brian e poi guardò i ragazzi che erano
entrati nel locale: quattro giovani
con il giubbotto della squadra di football della scuola e tutti
palesemente
brilli. Fare due più due non fu difficile. “Sono
loro? I ragazzi che ti
tormentano?” Brian annuì, sempre senza staccare lo
sguardo dalla tazza.
“Non
andiamo via. Andiamo là” disse, alzandosi.
“No!”
esclamò spaventato Brian. “Non è
questione di fare a botte… Io non sono capace…
Loro…”
Rupert
alzò un sopracciglio e sussurrò. “Non
si risolve tutto con la violenza, sai? A
volte basta un po’ di inventiva…” Essere
un poliziotto era una buona cosa, se
poteva aiutare. Si incamminò verso il fondo del locale.
Arrivò vicino al tavolo
occupato dai suoi compagni e fece vedere il distintivo quando un
ragazzo fece
qualche battuta fuori luogo. Poi
alzò lo sguardo verso
Brian e disse: “Collega, vieni qui a vedere chi
c’è!”
Subito
il ragazzo era spaventato, ma poi, mentre camminava verso di loro,
lentamente un
sorriso gli coprì il viso. Quando li raggiunse chiese:
“Ehi, Boss, li conosco.
Le stanno dando fastidio?”
Sorrise
anche Rupert. Era ancora un poliziotto.
***
“…Perché
è un bravo ragazzo…” Il coro dei
colleghi alla sua festa di pensionamento lo
fece quasi commuovere.
“Tutto
bene, Boss?” Brian si era avvicinato posando una mano sulla
spalla di Rupert,
che si affrettò ad annuire e a coprirsi gli occhi.
Il
ragazzo si sedette vicino a lui e gli allungò una birra,
facendola tintinnare
con la sua.
“Devo
ringraziarti. Se non fosse stato per te, non sarei mai entrato in
polizia”
disse Brian, guardando davanti a sé.
“Fidati,
ragazzo, sono io che devo ringraziare te. Se non ti avessi incontrato,
non
sarei rimasto qui.”
“Allora
è merito delle Cho-Rai!” esclamò il
ragazzo e Rupert sorrise prima di bere. La
loro amicizia durava da allora.
Merito davvero delle Cho-Rai.
***Eccomi sono tornata!!! Vi mancavo? Ok, scherzo... Allora, anche questa volta è una Os su traccia, ma questa volta è una Challenge del mio gruppo Telegram! Abbiamo deciso di giocare e allora... giochiamo.
MAx 2000 parole (e io le ho usate tutte, anche se ho dovuto cancellare tanto, forse troppo...) la traccia la lascio qui in versione grafica, grazie alla mia gentilissima Beta/Amica/insostituibile supportatrice Chantal.