Capitolo 34
La di lui dipartita
“L’amore
è un gioco con delle regole strane. Puoi perdere più del dovuto e amare più di
quanto avresti pensato.”
Fabrizio
Caramagna
Immagine
dal film “La conseguenza”
“Sarah”, riprese Davide
apprensivo, pronto a porle la fatidica domanda, “non mi dire che…”
E non c’era bisogno di
fargli aggiungere altro, poiché Sarah sapeva perfettamente cosa stava per
chiederle. Davide aveva letto bene nei suoi occhi, nel suo cuore.
“Sì”, ribatté
prontamente e la sua voce divenne un roco sussurro, “è successo.”
Sarah si era legata al
suo aguzzino in un sentimento amoroso e, adesso, per la di lui dipartita, una
seconda lacrima le rigava il viso pallido. Il dolore che traspariva dai suoi
occhi color miele e dal suo corpo inerte fece stringere il cuore di Davide che
si pentì per la compiaciuta freddezza con la quale le aveva dato la notizia,
tragica per lei. “Mi dispiace”, le disse.
Un istante dopo, Sarah
interruppe la sua silenziosa immobilità e, intrecciando sul tavolino le mani e ponendo
su di esse lo sguardo, iniziò a tormentarsi le dita per trattenere un pianto
che, se esploso, sarebbe stato interminabile. Si fermò non appena giunse
all’anulare sinistro e, estraniandosi dalla confessione qualche attimo prima
proferita e ostentando indifferenza per la notizia appresa, sollevò il capo per
incontrare gli occhi di Davide e mostrargli un’espressione diversa.
“Tra due settimane mi
sposo”, esordì seria, quasi austera, più per ricordarlo a se stessa che per
annunciarlo a Davide. Poi l’emozione vibrò nella sua voce e addolcì il suo
sguardo, mentre, commossa, gli chiedeva: “E vorrei che mi accompagnassi tu
all’altare.”
“Ne sarei onorato e
felice”, le rispose, frenando a stento le lacrime al pensiero della sua povera
figliola e di una nuova paternità simbolicamente donatagli da Sarah.
Ma lo stato d’animo
della ragazza non aveva smesso di turbarlo.
Berlino
Nulla era andato secondo
i suoi piani. Al confine con la Svizzera, i documenti e l’esitazione mostrati
da Hermann non avevano convinto gli agenti francesi e soltanto grazie al
provvidenziale, umiliante intervento di un suo ex subalterno, che lo aveva
prontamente riconosciuto, era potuto tornare a casa, risparmiandosi un altro
calvario.
«Hauptsturmführer[1], non lasci la Germania.
Presto il Großdeutsches Reich[2] risorgerà dalle rovine»,
gli aveva detto il ragazzo poco più che ventenne con un tono tra il
supplichevole e l’esaltato, seppur sottovoce.
Sentendosi chiamare
rispettosamente – quasi devozionalmente – con il grado delle SS che non aveva
mai potuto esercitare, una scossa di orgoglio e compiacimento gli percorse la
spina dorsale e, anche se non aveva alcuna intenzione di restare in Germania
per perseguire un’ideologia sconfitta nella quale non credeva più e ritardare
il ricongiungimento con la sua Sarah, si sorprese ad annuire, contraendo i
muscoli facciali nell’espressione fiera e altera di un tempo.
«Heil Hitler», gli
soffiò l’ex soldato all’orecchio nel salutarlo ed Hermann ricambiò con la
stessa risolutezza, ma non permise a quel veleno d’insinuarsi ancora nelle sue
vene.
E adesso, a una
settimana dalla mancata partenza, era di nuovo a letto, febbricitante e in
preda a una forte tosse che, a tratti, pareva togliergli il respiro e con sua
madre che, ponendogli un panno bagnato sulla fronte, si prendeva cura di lui
con la freddezza e il distacco di chi svolge soltanto un mero dovere verso un
estraneo. Ma, in fondo, per Birgit, il suo unico figlio non era mai tornato
dalla guerra e, in un angolo della casa, conservava ancora l’altarino a lui
dedicato con tanto di fotografia in divisa, cero e vasetto con i fiori.
La sentenza del dottor
Schneider gli arrivò come una doccia fredda e lo sconvolse: la diagnosi di
polmonite lo condannava a rimandare il suo ritorno in Italia, a sentire il
proprio corpo debilitarsi una seconda volta, a ripetere gli sforzi per
rimettersi in sesto, a prolungare la permanenza in quella casa abitata da
sconosciuti e la lontananza dalla sua amata.
«Tutti questi
impedimenti», lo aveva ragguardato suo padre a braccia conserte, con una nota
di cinica soddisfazione nella voce, «non credi che siano un segno?» Karl
sembrava quasi contento nel vedere suo figlio costretto di nuovo a letto,
anziché saperlo alla ricerca della sua amante ebrea. In realtà, sperava ancora
che il tempo lo avesse rinsanito dalla sua ossessione.
Ed Hermann finì col
credere a quelle parole e, provato da un crollo emotivo, iniziò a temere un
possibile rifiuto da parte di Sarah, motivo per il quale, forse, il destino gli
aveva impedito di partire. E nella testa, sprofondata nel cuscino appoggiato contro
la spalliera del letto, i pensieri diventavano tormento, chiedendosi cosa le
avrebbe raccontato, se fosse tornato da lei.
Si augurò di morire al
più presto, giurando a se stesso di non provare mai più a cercarla, poiché come
le avrebbe spiegato il suo compiacimento per la nomina a Hauptsturmführer e la
sua risolutezza nel far ritorno in Germania, senza neanche assicurarsi che lei
stesse bene con i partigiani? Della Battaglia di Berlino sarebbe stato più
onorevole raccontarle della sua iniziale, strenua resistenza al nemico o del
suo nascondersi in un canale di scolo delle fogne, intuendo l’imminente
sconfitta? A lei che non si era mai scomposta, brava a contenere le emozioni di
sofferenza, come avrebbe confessato tutte le lacrime che non aveva saputo trattenere
a Sachsenhausen sotto le percosse dei russi e, in ultimo, il suo visibile
tentennamento per paura al confine sorvegliato dai francesi che gli era costato
la partenza?
Mosso da un impeto d’ira
verso di sé, per l’uomo vigliacco e fisicamente troppo debole che era
diventato, raccogliendo le poche forze che la polmonite ancora gli consentiva,
allungò un braccio verso il comodino e rovesciò tutto ciò che vi era sopra, tra
cui alcune scatole di medicine e un bicchiere vuoto. Questi cadde per terra,
frantumandosi in mille pezzi e ripetendo lo stesso rumore di un piatto che
s’infrangeva sul pavimento della cucina di Fossoli.
Nella mente gli
risuonarono lo schiocco cadenzato del suo frustino sullo stivale e l’eco della
sua voce dura e astiosa contro Sarah. Ne rivide gli occhi lucidi ma fieri e
l’espressione orgogliosa, mentre, piegata sulle ginocchia ma non spezzata dal
dolore al braccio e dalla paura che lui ben riusciva a incuterle, raccoglieva i
cocci nel grembiule. A differenza sua, lei non recitava alcuna parte e, allo
scomparir del sole sulle baracche, nella luce soffusa della sua stanza divenuta
loro alcova, non nascose il suo dissenso. Si chiuse a una sua carezza tra le
gambe e a lui si negò, incoraggiandolo così a intraprendere la strada che
condusse al loro primo bacio. E fu amore, senza farlo.
Fossero passati altri
cent’anni, lui l’avrebbe ritrovata.
“La
lontananza è peggio di una malattia.
Se
ami qualcuno che non c’è,
in
nome dell’amore non buttarlo via.
Qualcuno
ne morirà, se non ritrova te.”
Ivana
Spagna, Gente come noi