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Autore: alga francoise14    03/07/2020    10 recensioni
Perché ogni anima, anche la più nobile, nasconde un lato oscuro...
Genere: Avventura, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Victor Clemente Girodelle
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scarti d’amore
 
Il sole aveva da poco iniziato a calare quando lasciandosi alle spalle l'imponente profilo delle torri di Notre Dame, un'elegante carrozza imboccò Pont Marie, e fiancheggiando la Senna si diresse verso Place Royale. Al suo interno, nascosto dal profilo delle tende scarlatte che bordavano i finestrini,  Jean de Grammont guardava le strade impregnarsi della luce calda del tramonto che come una nuvola d'oro, calava sulla città abbracciando  con uguale amore miseria e bellezza. Tuttavia, preso dai suoi pensieri, egli non vedeva tutto quello splendore: non notava quanto straordinario fosse il gioco dei raggi del sole morente che, tuffandosi nella Senna, facevano vibrare di luce dorata le sue acque frementi e finanche le pozzanghere fangose delle vie. 
Jean era cupo, come la notte che di lì a poco sarebbe calata su Parigi, e spento l'oro in torbido viola, avrebbe ingoiato tutto nel suo manto oscuro.
Se qualcuno lo avesse visto in quel momento, certamente si sarebbe meravigliato nello scoprire fino a che punto la semplice contrazione di un muscolo della mascella potesse alterare i tratti di un volto tanto bello e rivelare con così incredibile chiarezza il demone nascosto dietro una maschera d'angelo. 
Jean de Grammont sentiva la collera scorrergli nelle vene come un veleno. Incapace di trattenere oltre lo sdegno che lo divorava, lasciò andare un sibilo da serpente mentre la sua mano destra, abbandonando il  soffice  velluto della seduta su cui fino a quel momento era stata adagiata, si mosse alla ricerca dell'elsa della spada e la strinse tanto da far divenire bianche le nocche. In quel momento il più fausto dei suoi pensieri contemplava la morte, non la propria, ovviamente...
Lentamente scosse il capo mentre per l'ennesima volta da quando aveva lasciato Palazzo Jarjayes si domandava come... Come aveva potuto lasciare che quello che doveva essere burattino diventasse burattinaio.
Come era potuto accadere che si fosse fatto stordire dai proclami di pentimento del Generale e da quelle patetiche storie sulla possibilità di scelta che non aveva avuto, sul rimpianto, sulla volontà di rimettere ogni cosa al proprio giusto posto. 
Credeva di essersi liberato da tempo dal bisogno di consenso così come dalle catene di scrupoli e legami che condizionavano la vita degli uomini. E invece, a quanto pareva, si sbagliava. A quanto pareva, avere l'approvazione di quel vecchio bastardo che lo aveva messo al mondo lo aveva rimbecillito al punto da fargli perdere se stesso e fargli dimenticare quello che da tempo si era prefisso: assaporare il delizioso piacere della vendetta, e tutto ciò solo perché quell'uomo era suo padre.
Padre... era sempre stata una parola che aveva sillabato con disprezzo, anche solo nel pensiero, una parola che gli suscitava odio fin nelle ossa. Il primo uomo che aveva chiamato a quel modo era stato colui che l'aveva cresciuto a suon di umiliazioni e botte, un vigliacco che lo prendeva a calci per poi ridere delle sue lacrime di bambino. L'ultima volta che aveva pianto era stata anche l'ultima in cui quell'uomo avesse riso.  Era ubriaco fracido Charles de Grammont, quella  sera ormai lontana, quando preso dalla foga, mentre per chissà quale inezia lo colpiva selvaggiamente,  era inciampato in  un tappeto e perdendo l'equilibrio era caduto  urtando violentemente la testa contro lo spigolo di pietra alla base del camino. Ricordava perfettamente di averlo guardato strabuzzare gli occhi mentre una macchia di sangue, si era andata allargando lentamente sul pavimento all'altezza della nuca, ed egli, con un lamento incoerente aveva allungato, in cerca del suo aiuto, la stessa mano che poco prima aveva stretto la cinghia con cui l'aveva colpito. Ancora stordito dalle percosse, Jean lo aveva fissato, poi, senza dire una parola gli aveva voltato le spalle e presa una sedia l'aveva avvicinata. Si era asciugato le lacrime, si era seduto davanti a lui e avvertendo ad ogni suo rantolo un crescente senso di sollievo, senza rendersi ben conto di quel che faceva, era rimasto a guardarlo morire. Aveva poco meno di dodici anni. Qualche mese dopo quella sera, questa volta in piena consapevolezza, si era preso la sua prima vita piantando con tutta la rabbia che aveva in corpo, un coltello nello stomaco di un tizio che si era permesso di chiamarlo moccioso, meravigliandosi nel farlo, di quanto fosse facile, di quanta soddisfazione gli desse e di come fosse stato sciocco a non farlo con suo padre, invece che lasciare al caso la sua morte.
Quello era stato il giorno in cui aveva chiuso con ogni residua traccia di innocenza e non aveva più permesso a nessuno di prendersi gioco di lui. Da allora, anche quando le necessità lo avevano costretto ad abbassare la testa, o ad agire in un modo che non era frutto della sua più autentica volontà, lo aveva fatto sempre e solo per un suo scopo, ma mai, mai per debolezza né tanto meno per uno stupido bisogno di approvazione.
Eppure quando aveva incontrato l'uomo che gli aveva dato la vita, era accaduto qualcosa di imprevedibile, poiché colui che si era trovato innanzi era distante mille miglia dall'idea che si era fatto.
Il generale Jarjayes non era l'arrogante e vacuo, presuntuoso che si era immaginato, né tanto meno uno stupido che sarebbe stato facile abbindolare con qualche chiacchiera, un paio di lettere false e poche energie. Il Generale era un galantuomo... un uomo d'onore, dall'animo nobile e la mente fredda e acuta. Sempre attento e misurato, di maniere squisite ma mai affettate, vestiva con la stessa severa eleganza con cui viveva e parlava. Era stimato, rispettato e proprio il suo rigore e la sua integrità gli avevano consentito di fare ciò che nessun altro avrebbe potuto senza perdere la propria credibilità.
Il generale Jarjayes era agli antipodi di colui che lo aveva cresciuto e quanto più il suo patrigno gli era apparso bieco e spregevole tanto più il suo vero padre gli sembrava degno di stima, un uomo che ogni figlio sarebbe stato fiero di poter chiamare padre.
Così il desiderio di piacere al Generale aveva lentamente iniziato a farsi strada nell'animo di Jean soppiantando quello di vendetta.
E quando un giorno Augustin gli aveva detto di essere fiero di averlo come figlio riconoscendogli quel valore che egli aveva sempre pensato gli spettasse, aveva messo definitivamente da parte il suo proposito, spostando unicamente su Marguerite de Jarjayes ogni colpa e nemesi.
Mai, fino a quella sera aveva pensato che le parole del Generale potessero non essere state autentiche.
Conosceva abbastanza l'animo umano da saper cogliere una lusinga quando la sentiva e nulla nelle parole di suo padre, nei suoi modi, nel tono e nella fermezza della sua voce,  aveva mai saputo  di finzione. Quando gli aveva detto che gli avrebbe restituito tutto quanto gli appartenesse per diritto di nascita, Augustin lo aveva fissato dritto negli occhi e scandito senza esitazione alcuna, ogni singola parola. Il non aver messo tempo tra parole e fatti nella ricerca della strada da seguire era stata, poi, un'ulteriore prova.
 Solo quella sera si era reso conto di quanto si fosse sbagliato, di quanto fosse stato stupido a fidarsi...
Era furente, non sopportava l'idea di essere stato abbindolato, eppure quella era la realtà.
Si era lasciato affascinare al punto di dimenticare che quello stesso uomo che appariva ora così integro e retto, che gli parlava della sua volontà di rimettere le cose a posto e dell'importanza del loro legame di sangue, era lo stesso uomo che per insoddisfazione se non per puro divertimento, aveva sedotto una ragazzina affidata alla sua casa e alla sua tutela  per poi disinteressarsene, rimettendo  il suo destino alle trame della legittima consorte e quindi alle mani di un bruto; ma soprattutto era lo stesso uomo che  era stato capace di stravolgere  le regole basilari della società al punto da riuscire ad imporre la propria volontà sulle più forti  convenzioni sociali. Un uomo del genere, aveva di ammirevole unicamente la capacità di ottenere ciò che voleva e per questo andava osservato con attenzione e sospetto, e non certo con fiducia.
Che stolto era stato a bersi i suoi proclami di innocenza e pentimento e a credere al valore, che il Generale attribuiva al tanto decantato sangue dei Jarjayes!
Con un gesto nervoso tamburellò con la punta del piede il fondo della carrozza, poi un pensiero gli attraversò la mente strappandogli un sorriso amaro: era il cuore e non il sangue a rendere padri e figli e a quanto pareva nessuno era o sarebbe mai stato nel cuore di Augustin de Jarjayes quanto la sua ultimogenita...
La mia Oscar... Mia figlia!
Con quanto orgoglio aveva pronunciato quelle parole. Con quanto sentimento, quanta preoccupazione e quanto dannatissimo amore!
Quelle poche parole, dette sovrappensiero in risposta al suo consiglio di lasciarla alla vita che si era scelta, erano state una rivelazione.
Mentre le pronunciava il suo viso si era oscurato, e non per rabbia ma per dolore.
Era evidente che il generale Jarjayes non poteva lasciarla andare così sua figlia, cancellarla dalla sua vita, dimenticarsi di lei senza sapere cosa ne sarebbe stato; non avrebbe mai permesso che sparisse nel nulla, ingoiata da un futuro incerto, né si sarebbe dato pace finché non l'avesse ritrovata e portata a casa… e tutto questo  perché, in definitiva, non c'era figlio maschio, erede di diritto, o qualsiasi altra cosa che potesse soppiantargli nel cuore la sua Oscar..  Sua figlia...
In pratica, metabolizzata la rabbia per l'inganno subito e fatto i conti con la volontà e il carattere di sua figlia,  tanto simile al proprio perché  potesse rinunciare a ciò a cui teneva,  Augustin aveva evidentemente stabilito che non poteva, né in fondo gli importava davvero costringerla all'obbedienza.
A quanto pareva, l'unica cosa che gli interessava, era sapere che stesse bene, offrirle il suo perdono e con esso la possibilità di trovare una soluzione che le consentisse di vivere la sua vita con colui che aveva scelto, senza per questo doversi nascondere come una reietta chissà dove. Era sua figlia... La sua Oscar, il suo orgoglio, e non voleva che lei, né i suoi figli, qualora ne avesse avuti, si potessero perdere nelle maglie di una vita anonima, a prescindere dal nome che avrebbero portato.
Ebbene, in virtù di tutto questo sua sorella doveva morire! Lasciarla in vita era stato un errore, anche se oramai era lontana, finché avesse respirato Oscar sarebbe stata un pericolo, un possibile ostacolo, alla concreta realizzazione del proprio interesse. Il tempo della magnanimità che l'aveva infettato come un morbo era finito.  Da quel momento sarebbe tornato al suo progetto originale e semmai il destino gliene avesse fornito l’occasione si sarebbe liberato di lei come presto avrebbe fatto con Madame Jarjayes, e avrebbe annientato suo padre brindando alla loro disfatta in quella stessa casa che era stata il teatro della rovina di sua madre e di cui egli sarebbe diventato unico padrone.
Padre... Non significava nulla
Padre... era sempre stata una parola che aveva sillabato con disprezzo, anche solo nel pensiero, una parola che gli suscitava odio fin nelle ossa, e nulla era cambiato...
 
Seduta innanzi allo specchio e alle sue bugie, Aurore fissava il viso della giovane dama che si lasciava intrecciare file di perle, nastri di seta e fiori tra le morbide onde dei cappelli artisticamente sollevati sulla fronte, e i perfetti riccioli raccolti sulla nuca. Il lavoro del parrucchiere era complesso e durava ormai da un paio d'ore, e la giovane, poco abituata alle lungaggini della moda parigina, cominciava ad essere insofferente. Tuttavia, per quanto volentieri avrebbe congedato l'artista e disfatto quella creazione che le solleticava fastidiosamente la testa, non osava muovere un muscolo dal momento che era stato Jean ad averglielo mandato, riuscendo chissà come, ad ottenere che ad acconciarla per quell'esclusiva serata, fosse nientemeno che Villenoue detto il 'bel Julien', ovvero il cugino del divino Leonard[1].
Fu per questo che, quando finalmente  indietreggiando di un passo, dopo aver osservato attentamente, e da ogni angolazione, la sua opera, il rinomato coiffeur si dichiarò soddisfatto, Aurore tirò un sospiro un po' troppo profondo.
"Forse non vi piace Madame?" domando l'artista turbato.
Un leggerissimo rossore pervase le guance di Aurore "Oh no... no! Che dite mai! È bellissima" esclamò pronta con il tono più convincente di cui era capace, mentre osservandosi allo specchio voltava il capo, da un lato e poi dall'altro, per meglio ammirare il trionfo di riccioli e onde che le incorniciava il viso, così che, il bel Julien, non avesse dubbi sulla sua effettiva soddisfazione e si convincesse definitivamente che non potevano esserci ulteriori margini di miglioramento alla sua opera.
"Sì, in effetti lo penso anch'io" convenne compiaciuto il parrucchiere "La foggia dell'acconciatura esalta la vostra bellezza e le perle sparse tra i fiori richiamano il candore della vostra pelle come la seta opalescente dell'abito che indosserete" disse volgendo lo sguardo  alla sontuosa veste adagiata sul letto  che attendeva d'essere indossata "Bene, dunque  se vostra grazia è soddisfatta posso dire di aver  finito e lasciarvi  alle cure della vostra domestica".
Aurore sorrise e complimentandosi un'ultima volta per la perfetta interpretazione dei propri desideri congedò il bel Julien, che profondendosi  in un elegante inchino,  uscì seguito dal suo assistente, che frattanto  aveva raccolto tutti gli attrezzi del mestiere. Tuttavia prima di giungere alla porta, si fermò innanzi alla cameriera della contessa, in attesa di poter vestire la sua signora "Mi raccomando ragazza" la ammonì con voce severa e uno sguardo di superiorità "fate attenzione! "
Quando fu finalmente fuori, Aurore sospirò pesantemente e lasciandosi cadere in una poltrona si portò una mano alla tempia destra e chiese alla cameriera un grattoirs[2]. La ragazza annuì e con  un sorriso comprensivo  si avvicinò alla toilette dove  estrasse da un cassettino, un astuccio d'argento contenente alcuni bastoncini di avorio cesellato.
"Dobbiamo affrettarci Madame" disse porgendogliene uno che terminava con una piccola foglia dorata "si è fatto tardi, tra poco il Signor Conte sarà di ritorno e voi dovete ancora vestirvi,lo sapete che lo irrita attendere troppo..."
Aurore gettò uno sguardo all'orologio dorato a forma di lira sulla mensola del camino. "Si, hai ragione Camille, facciamo in fretta" disse e sollevandosi slacciò la veste da camera che le scivolò ai piedi lasciandola in corsetto, camiciola e calze di seta[3].
Aveva appena finito di indossare il sottogonna di lino sul piccolo panier fissato ai fianchi quando, annunciato da due rapidi colpi alla porta, Jean fece il suo ingresso nella stanza.
"Aurore! Ancora non siete vestita! Il concerto inizia alle..." esclamò allargando le braccia, visibilmente contrariato.
"Mi dispiace Jean, ma il coiffeur ci ha messo tantissimo..." si affrettò a giustificarsi lei, facendo cenno alla domestica di continuare.
“Capisco. I capricci della moda necessitano del proprio tempo" osservò Jean, accomodandosi in una poltrona e accavallando le gambe con un sospiro "ma aggiungono un indiscutibile allure a ciò di cui  la natura vi ha tanto generosamente fatto dono" disse quindi con una punta di compiacimento che gli distese il viso, ancora incupito dopo l’incontro con il Generale.
Aurore sentì il cuore balzarle nel petto ed abbassò lo sguardo sulle mani abili della cameriera, che aveva iniziato a fissare sul davanti del bustino una pettorina ornata da un trionfo di nastri e ruche di pizzo. Pensò con amarezza che quel  turbamento che ancora provava quando suo marito le rivolgeva un complimento, non era più la semplice e pura  emozione che sentiva i primi tempi del suo matrimonio, quando un solo sguardo del suo affascinante  sposo la mandava in confusione, ora quel sentimento  era inquinato da una  implacabile e neanche tanto sottile vena di paura, ora che le sue illusioni erano cadute, ora che il sogno sempre più sembrava perdersi nelle ombre dell'incubo.
 "Avete avuto modo di parlare col Generale di quella questione che vi stava a cuore?" domandò, per dissimulare i suoi pensieri, avendo imparato quanto Jean fosse abile a leggerle il viso.
 "Da quando vi interessate alle mie  questioni…" ribatté il marito corrucciando la fronte.
"Oh..." sillabò confusa Aurore mentre la cameriera incrociava il suo sguardo dilatando impercettibilmente gli occhi per raccomandarle attenzione. "Io... Io l'ho domandato solo... solo perché mi siete parso pensieroso ed ho pensato che magari... Insomma... è dovere di una moglie interessarsi agli affanni del proprio marito, e alleviarli se possibile con ..."
"Dunque me lo avete chiesto solo per dovere? Non per sincero interesse..." domandò Jean con un mezzo sorriso sulle labbra.
Un brivido gelido corse lungo la schiena di Aurore. "No certo che no..." disse sparendo per un attimo nella gonna di seta damascata che la cameriera la stava aiutando ad infilare dalla testa, per poi ritrovarsi faccia a faccia con il marito che alzatosi dalla poltrona l'aveva raggiunta ed ora la fissava sorridendo apertamente.
"Andate" ordinò Jean alla cameriera quando ebbe finito di fissare i nastri che chiudevano la gonna "finirò io di aiutare madame"
"Ma... Jean..." azzardò Aurore guardando la ragazza, che le rivolse uno sguardo rammaricato prima di inchinarsi ed uscire senza osare un soffio.
"Dubitate che ne sia capace mia cara?" rispose ironico l'uomo prendendo la veste poggiata sul letto, mentre la domestica si chiudeva la porta alle spalle "Aiutare una donna ad indossare un abito non è poi tanto diverso che aiutarla a liberarsene, i passaggi salienti son gli stessi, sapete" disse ponendosi alle  spalle della moglie  per aiutarla ad infilare le strette maniche dell'abito e posando al contempo un bacio sulla pelle candida tra una spalla e il collo .
Aurore a quel contatto deglutì e svincolandosi dalla presa del marito avanzò di un passo.
"Vi prego Jean” disse con leggero affanno, portandosi una mano al petto, “non è il momento, arriveremo tardi e sarebbe un peccato non sentire l'aria di apertura, il colonnello Girodelle mi ha spiegato che è una delle più belle" aggiunse cercando di darsi un contegno, prendendo da uno scatolino delle piccole spille con cui iniziò ad appuntare il davanti dell'abito al corsetto.
"E quando di grazia avreste incontrato il colonnello Girodelle?" domandò Jean, inarcando un sopracciglio.
Aurore impallidì.
"Sarà stato una settimana fa, forse dieci giorni..." rispose confusa rendendosi conto di essersi appena cacciata in un vespaio "L'ho incontrato casualmente una mattina in cui ero andata a passeggiare al Parc Monceau. Allora neanche sapevo che saremmo stati invitati al concerto della Loge Olimpique, l'argomento venne fuori casualmente, parlando di musica..."
"Di musica! che cosa piacevole!" esclamò il marito con un’amabilità così sfacciatamente fasulla che Aurore si sentì divorare dalla più  tetra angoscia "E di cos'altro avete parlato?" domandò quindi con un interesse che sapeva di condanna.
"Non ricordo esattamente..." rispose incerta Aurore con un filo di voce "di... di disegno! Sì! Di disegno. Io stavo dipingendo un acquerello quando l'ho incontrato e lui si è complimentato..."
"Ma certo, lo immagino! Del resto il colonnello Girodelle è notoriamente un gentiluomo galante" osservò Jean calcando il tono sull'ultima parola  "Dunque, musica, disegno, e... null'altro?" domandò rendendo palese il suo fastidio.
"No..." rispose Aurore mentre un tremito iniziava a percorrerle le membra  al pensiero  della premura  con cui  il gentiluomo  le avesse chiesto come stesse e come andassero le cose, dopo le tristi circostanze del loro ultimo incontro sul ponte Neuf.
"Siete certa?" la incalzò Jean.
La giovane, ormai in panico, non rispose ed egli allora la fissò con uno sguardo così penetrante che Aurore pensò che in qualche modo lui avesse capito che il nocciolo dell'interesse del colonnello Girodelle fosse stato tutt'altro che musica e disegno. Sentendosi in trappola svelò dunque un altro dettaglio di quanto si erano detti, un dettaglio che, pensò, potesse dimostrasse che la loro conversazione pur avendo toccato anche un piano più personale, era rimasta comunque nel limite richiesto da una conversazione di circostanza.
"Ovviamente gli ho chiesto nuove sulla salute di Madamigella Oscar, e abbiamo accennato al conseguente annullamento delle loro nozze... "
"Immagino fosse molto dispiaciuto..."
Aurore annaspò "Sì, certo..."
"E vi ha fatto tenerezza? "
La ragazza aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì ad emettere alcun suono, la mano di Jean la precedé abbattendosi con violenza sul suo volto. Cadde a terra portandosi una mano alla guancia infuocata, fissando suo marito con gli occhi sbarrati pieni di paura.
"Immagino lo abbiate consolato" ringhiò Jean stravolto di rabbia "siete così sensibile agli animi in pena..."
"Cosa dite... Jean... Io non... "
"Alzatevi!" le ordinò incombendo minaccioso sopra di lei.
 Tremante, col volto che le pulsava per il dolore dello schiaffo, Aurore indietreggiò sul pavimento.
 "Vi prego Jean..." lo implorò.
 "Vi ho detto di alzarvi!"
Aurore obbedì, un singhiozzo le sfuggì dalle labbra mentre aggrappandosi ad una  sedia si tirò su cercando disperatamente di trattenere le lacrime che sapeva avrebbero ulteriormente irritato suo marito.
"Piangete ora ?!"
"Jean, per l'amor del cielo..."
"Perché non me ne avete parlato prima! " tuonò
"Io... io..."
"Non provate a giustificarvi... Ve lo dico io piccola civetta: il suo interesse vi lusinga!"
"No, non è vero, io... Amo solo voi Jean, voi siete tutto per me è solo il vostro interesse che cerco, solo a voi ambisco piacere!”
"Ne siete certa?"
"Oh sì Jean, sì..."
Per un momento Jean sentì la rabbia spegnersi, Aurore sembrava sincera, le parole accorate, lo sguardo limpido, esattamente come quelle del Generale…
Improvvisa una rabbia incontenibile gli esplose nel petto ed esondò rovinosamente assieme alla frustrazione che aveva dovuto reprimere quel pomeriggio, all'odio che sentiva divorarlo.
"Credete di potervi prendere gioco di me?" gridò schiaffeggiandola nuovamente. Aurore incespicò all'indietro ma lui la afferrò per una spalla "Credete davvero di poterlo fare?!" e la colpì ancora.
Aurore sentiva la testa girarle e il viso pungerle di dolore.
"Jean... Vi... vi prego, non fatemi male..." lo supplicò guardandolo con occhi pieni di lacrime e paura mentre un rivolo di sangue iniziava a scenderle dal naso, ma lui le rivolse uno sguardo di disprezzo e senza dar conto a lacrime e preghiere la colpì allo stomaco con un pugno.
Aurore sentì le gambe piegarsi e un senso di nausea avvolgerla, mentre la mano di Jean che fino a quel momento le aveva stretto la spalla come una tenaglia, allentava la presa, lasciandola scivolare sulle ginocchia. Allora le afferrò i capelli e facendola piegare la testa all'indietro si chinò su di lei.
"Voi siete mia!" le sibilò all'orecchio "Ricordatelo sempre."
Quando la lasciò andare con uno strattone, Aurore si accasciò priva di sensi. Jean rimase a guardarla per alcuni istanti, quindi si avvicinò allo specchio, dove poco prima la ragazza si era seduta per farsi pettinare, e poggiando le mani sul piano ingombro di spazzole, profumi, pomate e belletti, fissò la sua immagine, finché d'un tratto con un colpo secco fece volare via tutto. Lasciò andare un profondo respiro, mentre il rumore degli oggetti caduti si spegneva, assieme alla rabbia. Si voltò a guardare Aurore, che gli apparve come una fragile bambola di porcellana abbandonata sul pavimento.
Un senso di tenerezza misto ad una strana commozione lo avvolse. In fondo non poteva avergli mentito, come avrebbe mai potuto la sua dolce, docile sposa alzare lo sguardo su un uomo che non fosse lui, preferirgli addirittura quel damerino. Le si avvicino e chinandosi su di lei, le accarezzò piano i capelli per poi pulirle con il pollice il sangue che le sporcava il viso. Forse si era sbagliato, forse aveva esagerato, ma oramai era fatta, pazienza... In fondo un'azione preventiva non era mai da considerarsi un errore. Si sarebbe fatto perdonare. La prese in braccio e la portò sul letto, con premura la adagiò tra i cuscini. La guardò ancora per un momento, quindi volse lo sguardo all'orologio. Si era fatto dannatamente tardi. Suonò il campanello per chiamare la cameriera che arrivò pochi istanti dopo.
"Madame ha bisogno di voi" disse con indifferenza, quindi volgendo un ultimo sguardo ad Aurore sospirò "Un peccato dover andare da solo" e con passo tranquillo uscì dalla stanza.
 
 
Lo scuro manto della notte aveva ormai sostituito il tramonto, quando la berlina dei Girodelle varcò i cancelli del Palazzo delle Tuileries per arrestarsi infine, con uno scossone, davanti al padiglione centrale dell’imponente costruzione.
All’interno dell’abitacolo il Colonnello Victor de Girodelle si riscosse bruscamente e alzò lo sguardo verso le finestre del piano nobile, illuminate a giorno, da cui giungeva, ovattato, il suono penetrante e un po’ nasale degli oboi e quello più dolce e vibrante dei violini.  Un’espressione di disappunto gli adombrò ancor più il viso tirato: era decisamente in ritardo, constatò, il concerto della Loge Olimpique doveva essere iniziato da almeno un’ora e probabilmente il buon Conte d’Ogny[4], suo amico di vecchia data nonché cofondatore della compagnia, si stava chiedendo dove diavolo fosse finito. La sua assenza, infatti, non poteva certo essergli sfuggita, dal momento che quella sera solo una ristretta cerchia degli oltre seicento abbonati alla Loge – un’elite costituita dai più influenti esponenti della Corte e, soprattutto, dagli amici più cari del Conte  – avrebbe avuto l’onore di ascoltare in anteprima i due brani di Haydn[5] a lui dedicati, dopo l’esecuzione della celebre “Reine”, che tanto successo aveva riscosso a Parigi negli ultimi mesi… senza contare che Victor era solito passare da lui per un saluto prima di ogni esibizione.
Il gentiluomo sospirò. In realtà, avrebbe fatto volentieri a meno di presenziare a quel concerto, troppi ancora erano i pensieri che gli affollavano la mente dal mattino, dopo le incredibili rivelazioni del giovane Marcel. A dispetto delle parole di rassicurazione che aveva rivolto al ragazzo prima di congedarsi, infatti, ancora non aveva idea di come assicurare quel miserabile di Grammont alla giustizia senza mettere in pericolo le persone coinvolte in quella storia, prima fra tutte Aurore… e se nell’enfasi del momento si era persuaso che sarebbe bastato sfruttare la testimonianza di Marcel e coinvolgere l’influente Guillaume de Bellecombe, nel corso delle ore aveva maturato il più realistico timore che la denuncia potesse non avere l’esito sperato. Senza ulteriori prove, in fondo, era soltanto la parola di un ragazzino contro quella dell’ultimo discendente di una casata, che per quanto avesse visto tempi migliori apparteneva comunque alla più antica nobiltà di Francia. Seppure Jean fosse finito davanti al Parlamento di Parigi[6] per rispondere delle accuse mosse nei suoi confronti, c’era la concreta possibilità di un suo completo proscioglimento...  e, in quel caso, Aurore sarebbe stata perduta.
“Signore… Siamo arrivati”.
Perso in quelle cupe riflessioni, Victor alzò appena lo sguardo verso il suo attendente, che, seduto di fronte a lui, lo scrutava perplesso.
“Sì, lo vedo, grazie Alphonse” replicò laconico, sollevandosi dalla seduta “Resta pure, non è necessario che mi accompagni” aggiunse subito dopo, vedendo che l’uomo si apprestava a seguirlo “Piuttosto, riferisci a Tristan di lasciare la carrozza in cortile, senza condurla nelle scuderie… non credo che ci vorrà molto, vista l’ora”.
“Come volete, signore. Vi attenderemo qui”.
Ancora sovrappensiero, l’ufficiale si limitò ad annuire e scese dalla vettura, affrettandosi a raggiungere l’ingresso dell’edificio e a imboccare, al suo interno, la rampa del maestoso Grand Escalier.  La musica si era improvvisamente arrestata, si rese conto in quel momento, udendo l’eco secca dei suoi passi sul marmo risuonare in un insolito silenzio; tuttavia, gli bastò raggiungere la porta dell’immensa Salle des Cents Suisses[7] per essere investito dal brusio degli spettatori, amplificato peraltro dalla considerevole altezza del soffitto e soprattutto dalla massiccia presenza di legno nella stanza, che ne garantiva l’ottima acustica. Lignea era difatti l’ingegnosa struttura rimovibile, disposta su tre lati della sala e destinata ad accogliere il pubblico più altolocato, così come di legno erano il palco rialzato dell’orchestra, il pavimento e persino la volta a coste che tanto colpiva chi si trovava ad ammirarla per la prima volta.
Victor si guardò intorno, cercando di abituare la vista alla luce quasi accecante dei lampadari, nove sontuosi portacandele in cristallo di Boemia che facevano risplendere i rilievi dorati dei palchi. Nessuno sembrava aver notato il suo ingresso, considerò con una punta di sollievo… inoltre, fatta eccezione per la platea, di fatto semivuota, il pubblico era più numeroso di quanto si sarebbe aspettato e occupava tutti gli eleganti palchetti del secondo ordine. Magari Ogny non si era accorto del suo ritardo, d’altronde talvolta era capitato che lo raggiungesse dietro le quinte solo nell’intervallo… rinfrancato, consegnò il mantello a un valletto e avanzò verso il palco per raggiungere la porta dell’attigua Salle des Gardes.
Era questa una sala di dimensioni più modeste ma comunque spaziosa, dal soffitto mirabilmente affrescato, che durante i concerti veniva  utilizzata dai musicisti come camerino e per riporre le custodie dei propri strumenti. In quel momento non era particolarmente affollata, molti membri dell’orchestra erano usciti a prendere un po’ d’aria o avevano preferito rimanere nelle loro postazioni, pertanto Victor non ebbe difficoltà a individuare l’amico, impegnato  a conversare con due gentiluomini davanti ai tavoli del piccolo rinfresco che era stato allestito per gli artisti in fondo alla stanza.
“Victor… finalmente!” esclamò questi vedendolo a sua volta e facendogli cenno con una mano di avvicinarsi.  
Neanche il tempo di illudersi, sorrise rassegnato il Colonnello, intuendo dall’espressione preoccupata di Ogny che il suo posto vuoto non era passato inosservato; tuttavia, non appena ebbe raggiunto il piccolo gruppo e i due interlocutori del Conte si furono voltati, quello stesso sorriso mutò in una smorfia.
“Signori… buona sera” mormorò a denti stretti, nascondendo la sua espressione stizzita con un breve inchino.
Il Generale Jarjayes s’irrigidì a sua volta, nel ricambiare il saluto, mentre Grammont, insolitamente taciturno, rispose appena con un cenno del capo, dandogli l’idea di essere con la mente altrove. Poco male, dopo ciò che aveva appena scoperto su di lui, solo incrociarne lo sguardo gli faceva ribollire il sangue e dubitava di poter mantenere la calma se gli avesse rivolto una delle sue battute affilate. Quanto ad Augustin de Jarjayes, ne riusciva a tollerare la presenza soltanto perché negli ultimi tempi si erano ritrovati a collaborare, spinti dalla comune volontà di preservare le rispettive famiglie dallo scandalo, ma senza dubbio con la fuga di Oscar i loro rapporti si erano definitivamente guastati. Nulla era rimasto, infatti, della reciproca stima, e se il Generale covava rancore nei confronti del mancato genero, ritenendolo complice dei due fuggiaschi, dal canto suo Victor stentava a celare il profondo disprezzo verso il medesimo uomo che, per anni, aveva considerato un fulgido esempio di rigore e moralità da cui trarre ispirazione.
 “Sono così felice di vedervi, amico mio!” esordiva nel frattempo Ogny, del tutto ignaro della tensione tra i suoi ospiti “Credevo che non sareste più venuto…”
“Sono davvero mortificato, François, ma purtroppo non sono riuscito a liberarmi prima dalle mie tediose scartoffie… non ho avuto neppure il tempo di cambiarmi, come avrete notato” replicò contrito il Visconte, indicando l’uniforme che aveva ancora indosso.
“Non avete nulla di cui essere mortificato, Victor… anzi, in un momento come questo non eravate nemmeno tenuto a partecipare!” ribatté con calore il Conte d’Ogny “Non riesco ancora a capacitarmi… quando sono partito per Amiens, due settimane fa, dalle vostre parole avevo inteso che si trattasse di un banale malanno… invece il Generale Jarjayes mi stava giusto dicendo che è oramai impossibile che le nozze possano essere prospettate a breve”.
“Purtroppo non siamo padroni di nulla, caro François” commentò il Colonnello Girodelle, dissimulando dietro un sospiro il disagio sottile che, talvolta, gli procurava recitare quella ridicola pantomima. Era stato il Generale ad avere l’idea di utilizzare la scusa di un'improvvisa quanto imprecisata malattia della futura sposa per giustificarne la scomparsa e motivare il rinvio delle nozze, contando anche sul fatto che frattanto che l'avesse ritrovata, perché sembrava esser certo che vi sarebbe riuscito, l'interesse per la vicenda si sarebbe sgonfiato e l'annullamento  definitivo delle nozze non avrebbe suscitato particolare clamore. Ovviamente, pur avendo accettato di stare al gioco onde evitare che la situazione si complicasse ulteriormente, Victor non poteva fare a meno di avvertire il peso dell’inganno ogni volta che si trovava a mentire a una persona cara, che fosse la sua smaliziata genitrice o un amico leale come il conte d’Ogny.      
“La vostra promessa sposa si è dunque aggravata?” domandava intanto questi, visibilmente turbato.
 “Sfortunatamente sì, anche se c’è stato un lieve miglioramento da quando si è trasferita in Normandia” rispose Victor “A questo punto, non ci resta che confidare nella sua tempra e nel clima mite di Étretat… oltre che nell’aiuto del buon Dio, ovviamente”concluse abbozzando un sorriso.
“Étretat?” ripeté il gentiluomo con aria interrogativa.
“Si tratta di un piccolo villaggio di pescatori nei pressi di Fécamp” intervenne il Generale “Ho diversi possedimenti in quella zona, tra cui la villa di famiglia dove risiede ora mia figlia”.
“Soggiornare dinanzi all’oceano non potrà che giovare alle sue condizioni” chiosò Ogny con un sorriso “E vedrete che tornerà a Versailles più bella e fiera che mai, la vostra Oscar! Dico bene, Conte de Grammont?”
“Come? Oh, sì, senza alcun dubbio” si affrettò a rispondere Jean, colto di sorpresa, riscuotendosi dal suo pensoso mutismo.   
 “Detto questo, signori miei… “ proseguì Ogny, spostando improvvisamente lo sguardo verso la porta d’ingresso della sala “Vedo che il buon Saint Georges[8] già freme per tornare sul palco… purtroppo devo lasciarvi”.
“Sarà il caso che anche noi torniamo a sedere” osservò il Generale.
“Oh no, non è ancora necessario, non inizieremo prima di un quarto d’ora” lo rassicurò bonario il musicista “Piuttosto, approfittate del rinfresco… avete tutto il tempo di assaggiare il rum che il Conte de Grammont ha fatto gentilmente consegnare ieri sera. Vi assicuro che ne vale davvero la pena, signori miei,  è un vero nettare degli dei… a nome della Loge non posso che ringraziare ancora il Conte per il suo gradito omaggio”.
“In verità sono io che dovrei esservi grato… se non fosse stato per la vostra intercessione, non avrei mai potuto assistere all’esibizione di stasera, non essendo ancora un vostro abbonato” replicò con sussiego Jean “Una cassa di rum è ben poca cosa rispetto all’onore di sedere in questa sala”.
“L’onore è solo mio” sorrise affabile Ogny, prima di congedarsi definitivamente con un inchino.
Finalmente si spiegava la presenza di Grammont a un evento tanto esclusivo, constatò a quel punto Victor, mal celando la sua irritazione dinanzi all’espressione di serafico compiacimento spuntata sul volto dell’uomo alle parole del Conte. Jean de Grammont era come la gramigna, riusciva a insinuarsi dappertutto… la tentazione di punzecchiarlo fu più forte di qualsiasi buon proposito atto a evitare lo scontro.
“Ammetto di non essere un estimatore di liquori esotici, ma considerando che vi ha spalancato le porte della Loge, sono curioso di assaggiare il vostro mirabolante rum, conte de Grammont!” esclamò pertanto con un sorriso forzato, facendo cenno a un valletto di versargli da bere “Volete provare anche voi, Generale?”
“No, vi ringrazio” declinò Augustin “L’ho già fatto e pur apprezzandone il sapore corposo, credo che sia più adatto alla fine di un lauto pasto che a digiuno…”
“Sì, forse avete ragione…” riconobbe il gentiluomo sorseggiando lentamente il contenuto del suo bicchiere “ma ha un gusto davvero eccezionale, non ha nulla da invidiare ai nostri migliori distillati. Adesso capisco la riconoscenza del buon Conte d’Ogny, caro Grammont… anche se trovo che privarsi di una cassa di questa delizia per partecipare a un concerto, sia stato quanto meno bizzarro da parte vostra…”
“E per quale motivo, di grazia?” obiettò Jean, aggrottando la fronte.
“Converrete con me che i vostri sottoposti non baratterebbero nemmeno una bottiglia di sidro per trovarsi qui stasera…”
“Perdonatemi, ma continuo a non capire…”
“Ecco, pensavo… sbagliando probabilmente… che da buon capitano nonché uomo di mare condivideste almeno in parte i gusti del vostro equipaggio e, di conseguenza, ben altri tipi d’intrattenimento” alluse caustico Victor.
“L'uomo di mare è sempre secondo al gentiluomo. Pensare l'inverso sarebbe come ammettere che voi, come ogni altro uomo d'armi in questa sala, siate più incline a grette voluttà da soldataglia che a nobili piaceri e che il ruolo faccia più dell'educazione,  il che forse sarà  vero per voi, Colonnello, ma non di certo per me” ribatté piccato Grammont.
“In effetti, ammetto di non trovare totalmente disdicevoli certe grette voluttà” osservò serafico il Colonnello “Sarà che sono stato educato a Parigi, e non su una piccola isola d'oltreoceano. O forse chissà... è tutta una questione d'animo e predisposizione...” insinuò  rivolgendo a Grammont una lunga occhiata.
“E i qui presenti sono tutti ottimamente predisposti...  Ed altrettanto ottimamente educati” s’interpose a quel punto il Generale, rivolgendo a Victor uno sguardo severo che voleva essere un monito a tacere.
“Oh sì, senza alcun dubbio!” esclamò questi con aria innocente “Perdonatemi Grammont, non avevo assolutamente intenzione di insinuare qualcosa di diverso… semplicemente, non vi credevo un appassionato di musica da camera. Dunque si ascolta Haydn a Port au Prince?”
“Non soltanto Haydn… ma anche Mozart, Cavalli, Gluck… e tanti altri che è superfluo citare! Di certo Saint Domingue non è la Francia e Port au Prince non può competere con Parigi, ma non mancano concerti né rappresentazioni teatrali” rispose con asprezza Jean, a cui non era sfuggito il velato sarcasmo del suo interlocutore “Ho intenzione di aderire alla Loge proprio per riprendere con mia moglie la piacevole consuetudine di partecipare a questi eventi”.
“Madame Aurore ne sarà di certo felice… a proposito, è presente anche lei stasera?” chiese Victor con apparente noncuranza. Era riuscito a vederla solo una volta, dopo il loro ultimo, drammatico incontro sul Pont Neuf e ormai erano trascorsi più dieci giorni. Si augurò che la fanciulla fosse ancora serena e sorridente come quel mattino, in cui lui si era fatto trovare casualmente nei giardini di Parc Monceau, dopo aver saputo da Alphonse che quella era il luogo prediletto dalla Contessa per le sue sporadiche passeggiate… un piccolo espediente di cui non andava fiero ma che gli aveva permesso di sincerarsi delle sue condizioni.
Per un istante Jean lo fissò senza rispondere, mentre il pensiero andava al viso di Aurore, ai suoi occhi pieni di lacrime, alle labbra tremanti che gli giuravano il suo amore e la sua devozione. Non un'emozione trapelò sul suo volto quando il morso della gelosia tornò a rodergli il cervello, alimentato da quella domanda in apparenza tanto banale .
“No, purtroppo. All’ultimo momento, un’improvvisa indisposizione l’ha costretta a casa” replicò infine brevemente, continuando a studiare l’espressione del Visconte alla ricerca di un segno – uno sguardo, una smorfia, qualsiasi cosa – che confermasse i suoi sospetti.
Un’improvvisa indisposizione… Al pensiero che Aurore potesse aver subito per l’ennesima volta gli abusi di quell’uomo, Victor serrò la mascella, frenando l’impulso di afferrare Grammont per il bavero della giacca.
“Nulla di grave, spero”.  
“Una semplice emicrania, credo”.
 “Vivete sotto lo stesso tetto e non siete nemmeno certo di che cosa affligga vostra moglie, conte de Grammont?” ironizzò l’ufficiale, ma a dispetto del tono leggero con cui aveva pronunciato quelle parole, nei suoi occhi non c’era alcuna traccia d’ilarità.
“Le donne, come noto, sono creature instabili e comunque non sono certo un medico!” sbottò a quel punto Jean “Ad ogni modo, vedo che la salute di mia moglie vi sta particolarmente a cuore, Colonnello Girodelle… non so se essere lusingato o preoccupato del vostro interessamento”.
“Vi assicuro che la lusinga è l'ultima delle azioni che mi interessa attuare nei vostri riguardi, quanto al preoccuparvi di me… ebbene posso capirlo, ma non è certo nell’onestà di vostra moglie che dovreste cercarne il motivo” ribatté con durezza Victor.
“Che cosa vorreste dire…” proruppe il Conte alzando la voce e attirando l’attenzione di alcuni gentiluomini che stavano conversando a pochi passi da loro.
“Adesso basta!” si spazientì il Generale, interrompendoli prima che l’alterco degenerasse “E comunque non qui…” aggiunse a bassa voce, indicando con un cenno del capo la porta finestra alle sue spalle.
Il tempo di uscire e si ritrovarono sul balcone, l’aria fresca della sera a sferzare i volti tesi, mentre sotto di loro la penombra incombeva ormai sulle rigide geometrie del parco, dissolvendone lentamente linee e colori in una coltre scura e silenziosa.
Fu il Generale a prendere parola per primo, visibilmente contrariato.
 “Credo che un alterco pubblico tra voi e una persona che mi è notoriamente amica, sia l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento, Colonnello… non pensate che siamo già abbastanza al centro dell'attenzione?"
“Il problema dei vanagloriosi è che credono che l'attenzione loro riservata non sia mai troppa, oltre a non riuscire a vedere le cose nella giusta prospettiva, altrimenti il Colonnello Girodelle si sarebbe reso conto che chi ha da temere non sono certo io...”sibilò Jean.
“Non so che cosa abbiate entrambi questa sera, vi comportate come due ragazzini!” replicò il Generale “Jean, non fatevi istigare, e voi Girodelle fatela finita con queste vostre inutili provocazioni! Non so cosa vi sia preso, ma rendetevi conto che state andando pericolosamente vicino al limite che un gentiluomo possa tollerare! Tenete a freno la lingua, Visconte!”
Un sorriso beffardo increspò le labbra di Victor.
 “Un gentiluomo, Generale? Oh, perdonatemi, ma non avete idea di cosa stiate parlando!” ribatté con veemenza “Quest'individuo non è un gentiluomo e di certo non sono io ad aver passato il limite. Forse dovreste chiedere al vostro adorato figlio quale invalicabile limite dell'onore abbia oltrepassato… ”
A quell’inaspettato affondo, un lieve sussulto tradì il turbamento di Grammont, mentre Augustin, pur realizzando solo in quel momento che Girodelle ne conosceva la reale identità, non batté ciglio: in fondo, negli ultimi tempi Oscar aveva trovato in quell’uomo un amico e un confidente, sospettava da tempo che entrambi avessero scoperto la verità.
“Bene, dal momento che siete al corrente del nostro rapporto di parentela, converrete che le vostre provocazioni sono ancor più fuori luogo, Girodelle” pronunciò pertanto con freddezza “Esigo le vostre scuse nei confronti del Conte de Grammont, oltre che del sottoscritto!”
“Non mi scuserò mai per aver detto ciò che penso…”
“E allora pagherete per le vostre parole!” esclamò Jean portando una mano all'elsa della spada.
“Jean! State calmo e riponete la spada!” disse il Generale bloccandogli la mano "Come ho già detto non è prudente, sebbene, per quanto mi riguarda, il Visconte avrebbe ben più delle parole per cui rendere conto”.
“Se alludete alla fuga di vostra figlia con André, dal momento che è finalmente lontana dalle vostre macchinazioni, non ho più motivo di negare: sì, li ho aiutati a lasciare Parigi” replicò con fierezza Victor “Tuttavia, il mio è stato un ruolo del tutto marginale rispetto al vero eroe di questa storia… non è vero Grammont?”
Questa volta il colpo andò a segno: con gli occhi sgranati il Generale si girò verso il figlio, che colto alla sprovvista guardava ora Victor col volto livido di rabbia.
“A che cosa diamine si sta riferendo, Jean?”
“Suvvia, Grammont… non siate modesto, raccontate al vostro caro padre l’ennesima impresa che avete compiuto! E con l’aiuto di quali raccomandabili soggetti…” lo esortò Victor con un ghigno “Vi assicuro che erano dei veri pendagli da forca, Generale, sospetto che il vostro caro figlio li conoscesse piuttosto bene, un paio di loro avevano anche uno squalo tatuato su una mano, come fosse il segno distintivo di una qualche ciurma…”
 “Jean?” mormorò Augustin, sempre più interdetto.
Ormai era impossibile negare l’evidenza. In cuor suo Jean maledisse Victor de Girodelle, che dopo aver giurato di tacere aveva deciso senza alcun valido motivo di vuotare il sacco, ma soprattutto maledisse se stesso: era stato uno sciocco, avrebbe dovuto farlo infilzare con la spada quella sera stessa, sulla via del ritorno per Versailles, e ricordare che c’era un motivo se le Requin non lasciava mai testimoni dietro di sé… ma in quel periodo, a quanto pareva, era stato veramente fuori di senno.
“Sì, è vero, sono stato io a organizzare tutto” ammise alfine, con una calma che era ben lungi dal provare.
“Non riesco a crederci… come hai potuto... tu che ancora poche ore fa mi dichiaravi la tua devozione dicendo di essere l'unico di cui potevo veramente fidarmi, che mai e poi mai avresti tradito tuo padre… e poi… e poi questo?” proruppe sconvolto suo padre, alzando la voce.
“Giulio Cesare deve aver pensato lo stesso quando Bruto lo ha accoltellato…” osservò beffardo Victor.
“Tacete, Girodelle” lo zittì Jean con uno sguardo di fuoco. Subito dopo si voltò verso il Generale. “Padre” pronunciò con tono accorato, portandosi la mano al cuore “Se davvero avete imparato a conoscermi, dovreste sapere che non vi ho mentito. Io non avrei mai tradito la vostra fiducia senza un valido motivo”.
“Un valido motivo?” domandò scettico il Generale.
 “Sì, è così, giuro che vi spiegherò ogni cosa, ma non è questo il momento… Vi chiedo solo di pazientare e di non credere a una verità opportunamente alterata da un manipolatore, un bugiardo che ha dato abbondantemente prova delle sue capacità”.
Io?!” esclamò Victor esterrefatto “Io sarei un bugiardo e un manipolatore?! Proprio voi osate parlare?!” domandò fissandolo negli occhi “Generale, vi assicuro che non avete la minima idea di chi sia davvero costui! Aprite gli occhi! Mettete da parte le vostre illusioni, i vostri desideri, guardatelo bene e rendetevi finalmente conto di chi sia veramente l'uomo che avete davanti! Quest'uomo, se anche fosse davvero vostro figlio, è un farabutto, un lestofante, un assassino, uno che l'onore non sa neanche cosa sia!
“Vi invito a rimangiarvi le parole che avete detto o dimenticherò gli inviti alla calma di mio padre e ve le farò ringoiare con il sangue!” ruggì furibondo Grammont.
 “Come del resto è abituato a fare uno squalo” rimarcò Victor con un’occhiata sprezzante  “Peccato per voi che io non sia uomo che si lascia spaventare dalle minacce di un filibustiere senza onore!”
 A quelle parole, Jean impallidì.  Benché gli sembrasse impossibile, si domandò se Girodelle avesse scoperto qualcosa sulla sua identità, del resto aveva notato il tatuaggio dei suoi uomini… e se una parola sola poteva essere un caso, due sapevano di indizio… Ad ogni modo, doveva tappargli la bocca prima che parlasse troppo. Con un gesto rapido si sfilò via il guanto e lo gettò sdegnato contro il gentiluomo, colpendolo sotto lo zigomo.
“Ora basta” sibilò “Esigo soddisfazione!”
“Con vero piacere” rispose freddamente Victor, chinandosi a raccogliere il guanto della sfida “Lascio a voi la scelta dell’arma e del luogo[9]”.
“Da qui a un giorno, al sorgere del sole, al Bois de Bolougne. Il mio padrino vi fornirà i dettagli sul luogo esatto ” comunicò seccamente Grammont “Con la spada e all’ultimo sangue, ovviamente…”
“Non chiedo di meglio” replicò Victor e dopo un breve inchino, girando sui tacchi, rientrò nella sala.
 
 “Tutto questo è una follia, Jean, avresti dovuto controllarti...  Sai che sua maestà ha vietato i duelli vero?”  
Riscuotendosi di colpo, Jean si voltò verso il padre, che lo guardava con amarezza.
“Come lo sa il Colonnello Girodelle… e comunque non potevo fare diversamente, non potevo lasciare impunite le sue calunnie e voi lo sapete bene” replicò con durezza.
“Potresti morire…” mormorò cupamente il Generale.
“Non accadrà, non temete...” dichiarò il giovane senza esitazioni “Tanto più se sarete al mio fianco” aggiunse alzando lo sguardo verso di lui.
“Mi stai per caso chiedendo…”
“Sì, padre, vorrei che siate voi il mio padrino”.
Per un istante Augustin tacque. Le  accuse che Victor aveva mosso a Jean erano state forti e nonostante fosse evidente da tempo che tra i due non scorresse buon sangue, non riusciva a credere che il Colonnello lo avesse calunniato in quel modo senza un minimo di fondamento, lo conosceva abbastanza da sapere che non rientrava nelle sue caratteristiche. E suo figlio? Quanto poteva dire di conoscerlo davvero? Cosa veramente sapeva di lui se non quello che gli aveva raccontato? Le informazioni che era riuscito a raccogliere per proprio conto gli avevano confermato che a Saint Domingue fosse un uomo stimato e perbene, un gentiluomo a tutti gli effetti, ma cosa sapeva della sua parte più profonda? E se gli aveva mentito così facilmente e bene sul suo coinvolgimento nella fuga di Oscar, su cos'altro avrebbe potuto farlo? A volte gli era capitato di osservarlo senza che se ne accorgesse quando era distratto o pensieroso e in quei momenti gli era parso di notare  un cambiamento quasi impercettibile nel suo sguardo, qualcosa di sotterraneo che si rivelava per un attimo mostrando come una sorta di aggressività trattenuta che lo lasciava perplesso. Poi però, quando si voltava a guardarlo, quello che incontrava era uno sguardo aperto e sincero, lo sguardo di suo figlio, un giovane uomo che aveva superato con coraggio e determinazione avversità che avrebbero perso la maggior parte delle persone, ma che per lui erano state solo fonte di crescita. Era lo stesso sguardo screziato di azzurro, trasparente e fiducioso che  lo fissava ora nel volto pallido e tirato. Uno sguardo muto e dolente che attendeva una risposta.
“Sì figliolo. Domattina sarò con te” fu la sua. L’unica che un padre poteva dare al proprio figlio.
 
 
 
 
 
 
 
 
[1] https://www.baroque.it/abbigliamento-e-moda-nel-barocco/leonard.amp.html
[2] Bastoncino con la parte piatta e leggermente ricurva che usavano le dame per grattarsi con grazia  la testa. Questi strumenti erano generalmente usati per alleviare il fastidio che davano le pettinature elaborate, così come le parrucche e potevano essere di avorio, argento, oro e perfino diamanti
[3] Aurore come tutte le dame francesi dell'epoca, e diversamente da quelle  italiane,  non indossava mutande, ritenute un  indumento da donna di facili costumi,  e il cui uso venne introdotto  dalla seconda moglie di Napoleone, nonché pronipote di Maria Antonietta https://lehameaudemarieantoinette.blogspot.com/2016/02/biancheria-intima.html?m=1
[4] Claude-François-Marie Rigoley, conte d'Ogny (1756 – 1790): nobile francese, massone e ufficiale militare, nonché ultimo intendente delle Poste sotto l’Ancient Regime, fondò insieme all’amico Étienne-Marie de La Haye, la Loge Olimpique, una compagnia musicale in cui lui stesso suonava come violoncellista; la sua caratterizzazione è ovviamente frutto di fantasia, anche se era considerato da Maria Antonietta “uomo sicuro e fedele” e alla sua morte il barone d’Aigaliers scrisse di lui definendolo  uno dei “giovani più cortesi e affabili che conosca (fonte wikipedia inglese e francese)
[5] Tra il 1784 e il 1785, il grande compositore austriaco Franz Joseph Haydn (1732-1809), per l’astronomica cifra di venticinque luigi d’oro a sinfonia più altri cinque per i diritti d’autore, ricevette l’incarico dal conte  d’Ogny di comporre sei sinfonie (le cosiddette Parigine, dalla 82 all’87) per la Loge Olmpique, all’epoca impegnata in una serrata rivalità con l’orchestra del Concert Spiritual. Delle sei, la n.85, pubblicata a Parigi nel 1788 , fu chiamata appunto  “La reine” per la predilezione che avrebbe dimostrato Maria Antonietta nei suoi confronti. Ogny ne commissionò poi altre tre, che il compositore dedicò a lui e scrisse tra il 1788 e il 1789… ovviamente qui abbiamo anticipato la loro prima esecuzione di qualche mese(fonte gbopera.it, wikipedia e flaminioonline)
[6] Riabilitato da Luig XVI nel 1774 dopo la soppressione nel 1771, il Parlamento di Parigi era un tribunale sovrano che tra i vari compiti aveva anche quello di giudicare casi che coinvolgevano nobili e pari di Francia. Piccola curiosità: fu proprio questo tribunale a giudicare gli imputati al celebre Affare della collana
[7] Poco avevamo reperito in rete su questa bellissima sala e in generale sugli interni del Palazzo delle Tuileries, distrutto da un terribile incendio nel 1871 e demolito definitivamente nel 1883: le descrizioni e le illustrazioni successive, infatti, erano per lo più relative all’Ottocento, finché non ci siamo imbattute nell’opera di Warwick “Amico: The life of  Giovanni Battista Viotti”, in cui si parla di un concerto del violinista  torinese proprio nella Salle des Cents Suisse”. Le descrizioni sono dunque fedeli a quella dell’autore, che riporta addirittura una piantina e dei disegni raffiguranti la struttura lignea che corredava la stanza.
[8] Joseph Boulogne Chevalier de Saint-George (1745-1799) è stato un importante compositore e violinista. Soprannominato il "Mozart nero" (era di carnagione mulatta), fu il primo compositore di origine africana a operare nell'ambito della musica classica europea (da Wikipedia)
[9] All’epoca, le regole del duello davano all’offeso il diritto di scegliere l’arma.
   
 
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